Basta bonus 4.0 Grandi progetti “verticali” con i campioni nazionali

I trionfalistici annunci sulla crescita del Pil nel 2021 e sul recupero dei livelli pre-Covid entro la fine dell’anno avvengono “nel silenzio della crisi generale”, per dirla con il verso di un’apocalittica canzone in gara a Sanremo. Una lunga crisi che vede il reddito pro capite dell’Italia ristagnare sui livelli del 1999, quando ancora ci si poteva considerare una paese industriale di rango mondiale. Nonostante il tramonto di Montedison e Olivetti, operatori globali nei settori chimico-farmaceutico e dell’elettronica, a fine secolo l’Italia rimaneva il nono produttore mondiale d’acciaio, dalle fabbriche italiane uscivano 1,4 milioni di autovetture, nelle telecomunicazioni Telecom era ottava al mondo per dimensioni, la fusione tra Alitalia e KLM stava per creare un gigante del trasporto aereo e la principale società italo-francese di semiconduttori si sarebbe presto collocata fra i primi cinque produttori mondiali.

Su tutti questi fronti, l’arretramento è stato evidente. Nei settori automobilistico, Tlc e trasporto aereo quasi drammatico. Non siamo poi riusciti a inserirci con autonoma capacità ingegneristica nelle tecnologie digitali e verdi.

La situazione oggi è talmente preoccupante che, eccetto pochi liberisti oltranzisti, tutti concordano sulla necessità di un politica industriale. Il problema è come congegnarla. Insistere su interventi “orizzontali” come i bonus del programma Transizione 4.0 (rifinanziati per 18 miliardi dal Pnrr), non servirà né a favorire investimenti tecnologici addizionali, né a modificare la struttura produttiva per rilanciare settori chiave o sviluppare nuove iniziative. La storia dei Paesi che si sono industrializzati (Giappone, Corea del Sud, Cina) o che hanno rinnovato la loro competitività industriale (Germania, Francia) è tempestata di interventi “verticali” di tipo discrezionale direttamente coordinati con le principali imprese nazionali.

Nell’attuale situazione, una politica industriale italiana potrebbe mirare a un triplice obiettivo: difendere e rafforzare la competitività delle imprese nell’oligopolio internazionale, entrare nei nuovi paradigmi tecnologici in posizione di rilievo, favorire una crescita dimensionale e tecnologica delle Pmi.

Si dovrebbe partire da una mappatura dei punti di forza e di debolezza del sistema produttivo, meglio se realizzata da una struttura pubblica (Invitalia o CDP) che fosse poi incaricata di delineare le strategie di investimento con le principali imprese. A questa si dovrebbe affiancare una struttura di intelligence economica (come indicato dall’ultima relazione del Copasir), per presidiare gli interessi nazionali nei settori e nelle tecnologie su cui si fonda la competitività sistemica dell’economia italiana.

Le migliori competenze tecnologiche si troveranno concentrate nelle imprese più grandi, di cui 6 fra le prime 10 sono a controllo pubblico. Una piattaforma istituzionale per lo scambio di conoscenze e la creazione di sinergie industriali fra le grandi imprese (pubbliche) favorirebbe nuove iniziative industriali, fra tutte quelle legate ai paradigmi delle transizioni ecologiche e digitali.

Infine, il sistema produttivo italiano necessita di un ecosistema per il trasferimento tecnologico, sul modello tedesco dei Fraunhofer: centri di ricerca applicata su specifiche tecnologie, diffusi a livello territoriale e finanziati dal pubblico e dalle imprese consorziate. La possibilità di accedere a un comune patrimonio di conoscenze tecnico-scientifiche faciliterebbe la crescita tecnologica e dimensionale delle Pmi, con ricadute positive sul sistema produttivo.

Primo: aumentare i fondi. Poi rendere più equa la loro distribuzione

L’azione dei governi negli ultimi vent’anni sulla scuola, l’università e la ricerca è stata in continuità. L’idea sottostante è che l’indirizzo del sistema della formazione e della ricerca è inadeguato rispetto alle necessità del sistema economico e che solo con una riforma del primo sarebbe stato possibile un rilancio del secondo. Gli interventi sono stati mirati a colmare il “gap formativo”, cioè la differenza tra la formazione e le esigenze del mercato del lavoro e a vincolare la ricerca di base dirottando i finanziamenti in maniera controllata dall’alto. L’esito è stato catastrofico perché erano sbagliate le premesse.

Il problema del mercato del lavoro per il personale con alta formazione sta dalla parte delle imprese: il paradosso italiano è quello di essere al penultimo posto dei Paesi Ocse per quota di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, il 29% contro il 45% della media Ocse, e al contempo di esportare i pochi “cervelli” che vengono formati (dal 2007 i posti di dottorato banditi sono calati del 43,4%). Questo poiché pochi trovano una occupazione adeguata al livello d’istruzione acquisito. L’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello nascono da qui.

La narrativa dominante ha però raccontato tutt’altro: sorvolando sulla mancanza di una richiesta reale di personale ad alta formazione da parte delle imprese e del cronico sotto-finanziamento del sistema universitario e della ricerca, si è identificato il capro espiatorio del problema negli insegnanti e nei professori. Si è attuata, in maniera bipartisan, la riforma Gelmini che avrebbe dovuto salvare l’Università dai “baroni” e invece l’ha consegnata ad una élite di professori spesso contigui alla politica. Il racconto è stato incentrato sulla favola del secchio bucato: prima di riempirlo (dare risorse al sistema), bisogna tapparne i buchi (riformarlo). E così nel 2010 si decise un taglio delle risorse di circa il 20%.

Questa situazione ha però prodotto una forte gerarchizzazione dei ruoli, anche per effetto dell’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituita da un esercito di precari la cui carriera è incerta per le scarse risorse disponibili e che sono incentivati al conformismo, cioè a lavorare su progetti di ricerca che puntano a ottenere, innanzitutto, il consenso della comunità di riferimento piuttosto che a proporre l’esplorazione di nuove idee. Se questo è un fenomeno internazionale, in Italia è incentivato dalla particolare combinazione di fondi limitati e valutazione pervasiva.

La vera esplorazione, oltre a essere difficile, può condurre a risultati incerti e non è una scelta popolare nel campo in cui si lavora. Tuttavia, favorire l’innovazione, che nasce proprio dall’esplorazione di nuove strade, dovrebbe essere un obiettivo prioritario delle politiche della ricerca: strategie per premiare la creatività.

Se dobbiamo pensare a delle linee di intervento, è necessario innanzitutto aumentare le risorse e distribuirle in maniera diffusa sia per le linee di ricerca che per la collocazione geografica, invertendo così la tendenza a premiare solo chi già ha, per merito o per storia, risorse e cercando di invertire il deperimento di intere regioni e settori scientifici. La dinamica della distribuzione delle risorse in base a un merito più o meno reale ha il rischio di accentrare sempre di più le risorse su pochi poli, soffocando la ricerca diffusa e generando un circolo vizioso che inibisce a sua volta la possibilità di sviluppare ricerche innovative. È necessario non solo liberare i precari della ricerca dal ricatto, ma anche contrastare la concentrazione del potere accademico in poche mani, ripristinando forme di governo democratico degli atenei.

Anche i ricchi (e le rendite) paghino: più progressività

Quasi sei milioni di persone in povertà assoluta. Quasi 11 milioni gli italiani a rischio povertà. Un occupato su 10 è povero e 1 su 4 ha un basso salario. Di contro la ricchezza delle famiglie italiane durante la pandemia è aumentata, più 100 miliardi nel solo 2020, ricchezza netta pari a 8,7 volte il reddito disponibile, più di paesi come Canada, Germania, Regno Unito e Usa,

Un paese ricco, ma con povertà diffusa dove lavorare non basta più per uscire dalla povertà. Al monito del presidente Mattarella in Parlamento (“è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche”) ha fatto seguito quello di Papa Francesco: “Il fisco deve favorire la redistribuzione delle ricchezze, tutelando la dignità dei poveri”. Applausi e parole di elogio dalla politica ma la recente riforma dell’Irpef racconta un’altra storia.

Al 10% delle famiglie più ricche vanno più del 20% delle risorse distribuite (1,6 miliardi), nulla invece per gli ultimi tra gli ultimi, i più fragili, quelli con reddito inferiore alla no-tax area (8.150 euro), tra questi lavoratori che hanno pagato in modo feroce la crisi: donne, giovani, part-time involontari, intermittenti. Per loro la nuova Irpef mantiene il sistema perverso per cui redditi superiori alla no tax area beneficiano interamente del trattamento integrativo (bonus 80 euro e seguenti, 1.200 euro all’anno) pagando cosi meno imposte rispetto a chi ha un reddito vicino ma inferiore alla no tax area. Nulla si è fatto per modificare la disparità di trattamento, a parità di reddito, delle diverse categorie di percettori: progressività sui redditi da lavoro, ma flat tax sui quelli da capitale. Disuguglianze nella tassazione di redditi da capitale e da lavoro che a loro volta contribuiscono ad aumentare la forbice tra i ricchi e i poveri. Se la volontà è quella di ridistribuire le ricchezze, serve invertire la rotta verso un fisco più progressivo redistribuendo il carico fiscale dal lavoro al capitale.

Si può fare allineando la tassazione di redditi da capitale con quella da lavoro, rendendola progressiva, rivedendo le imposte su successioni (meno di 1 miliardo di euro di gettito in Italia, 14 miliardi in Francia), aggiornando il catasto dove i valori reali sono fino a 4/5 volte superiori a quelli catastali nei centri storici. Osteggiate da parte della maggioranza, queste riforme non sono nelle corde del governo. Draghi spinge per approvare la riforma del catasto, sarebbe un primo passo. “Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita”. La letteratura economica recente dà ragione al capo dello Stato. Ora meno applausi e più riforme.

Salario minimo, Ccln più forti, sicurezza: l’esempio spagnolo

La crescita del Pil italiano ha fatto rumore nelle scorse settimane. Finalmente siamo tornati a crescere, o almeno così dicono. Nelle parole di Robert Kennedy, il Pil misura tutto, tranne ciò per cui vale la pena di vivere. In Italia potremmo dire che la crescita del Pil misura tutto tranne come stanno i lavoratori. E aggiungere che più che crescita si tratta di un rimbalzo e nemmeno il migliore dell’Eurozona – l’Italia è passata da un crollo del PIL dell’8,9% del 2020 al +6,4% del 2021. Un rimbalzo accompagnato da lavoro povero, precario e insicuro.

In un recente rapporto commissionato dal ministero del Lavoro si denuncia che il 32,4% dei lavoratori ha stipendi al di sotto della soglia di povertà, individuata nel 60% della retribuzione mediana nazionale, che equivale a 12mila euro l’anno. I dati Ocse di qualche mese fa ci dicono che l’Italia dal 1990 è l’unico paese in Europa a veder scendere (- 2,9%) i salari a parità di potere d’acquisto. Passando dalla dimensione qualitativa a quella quantitativa, dei nuovi posti di lavoro creati nel 2021 oltre l’80% è a termine. A completare il quadro, in Italia il lavoro uccide: nel 2021 ci sono state 1.404 morti sul lavoro, nel 2022 sono già a decine, compresa quella dello studente Lorenzo Parelli. Macchinari non a norma, infrastrutture non adeguate, mancata formazione e naturalmente mancati controlli: su quelli fatti nel 2021, invece, l’86% delle aziende era irregolare.

Una nuova politica per il lavoro deve intrecciare tre aspetti: lavoro pagato dignitosamente, duraturo e sicuro. Sono molte le proposte di salario minimo legale di cui si discute, dal ddl Catalfo in Parlamento a quelle di altre realtà che stanno aprendo un ulteriore spazio di confronto (Possibile, Potere al Popolo, le associazioni Paese Reale e UP). Un salario minimo accompagnato da una legge sulla rappresentanza e dall’efficacia erga omnes dei contratti collettivi per rafforzare la contrattazione collettiva. È stata questa la linea della Spagna che ha portato il salario minimo a 1.000 euro. Ha detto la ministra Yolanda Diaz: “Il salario minimo è il migliore strumento per superare le difficoltà e per uscire da questa crisi con la minor diseguaglianza possibile”. Si tratta di una misura necessaria anche da un punto di vista economico: la ripresa dei consumi interni come motore principale della domanda aggregata è il miglior strumento per una crescita condivisa e duratura.

Un altro tema che deve tornare centrale è la sicurezza: è indispensabile aumentare gli ispettori, almeno dimezzando il numero di aziende per ispettore, che oggi è a ben 456. Questa misura avrebbe anche l’effetto positivo di creare lavoro e aumentare l’occupazione nel settore pubblico, in cui l’Italia è al di sotto di tutte le medie europee. Infine, una crescita non è tale, se non ha un ampio orizzonte. È necessario mettere un limite alla precarietà facendo leva sull’aspetto normativo – ad esempio inserendo un limite ai contratti a tempo determinato – e sulla politica industriale: investire su settori ad alto valore aggiunto significa creare buoni posti di lavoro, aumentare salari, consumi e domanda interna.

Contratti a lungo termine, royalties alte e imprese pubbliche

Iprezzi del gas sono aumentati di circa 5 volte rispetto alla media, spingendo un rincaro delle bollette che potrebbe superare i 90 miliardi di euro per il 2022. Il prezzo del petrolio sfiora i 100 dollari al barile, dopo i prezzi negativi nel 2020. Alcuni rievocano lo scenario dello shock degli anni 70: la crisi energetica si sta mangiando lo stimolo del Next Generation EU, peserà su salari e investimenti, alimenterà pressioni inflazionistiche.

Le soluzioni devono passare per un’analisi razionale delle cause. Quella principale è l’instabilità del prezzo del gas naturale sul mercato spot, date le tensioni sul fronte geopolitico e gli stoccaggi ridotti. Il problema non è la disponibilità di idrocarburi, come paventato negli anni 70, e non è nemmeno la domanda, visto che quella europea di gas è in calo da un decennio e la domanda di fossili dovrà calare ancora per rispettare gli obiettivi Ue di decarbonizzazione. Le azioni che il governo Draghi sta mettendo in campo – modeste tassazioni dei sovraprofitti da produzione di rinnovabili e sostegno alle bollette dai ricavi delle aste di emissioni – sono deboli rattoppi che non risolvono il problema. Quali sarebbero le soluzioni adeguate a risolvere il problema in modo strutturale, tenendo conto che i prezzi degli idrocarburi torneranno a calare, mentre la transizione energetica ha costi alti?

Anzitutto, resistere alle tentazioni di incrementare l’estrazione di idrocarburi in Italia e aumentare invece le royalties che sono fra le più basse al mondo, utilizzando i ricavati anche per contenere i prezzi delle importazioni. Alle aziende energetiche partecipate bisognerebbe imporre di utilizzare gli enormi profitti non già in riacquisti delle proprie azioni, come fanno Eni e le altre sorelle del petrolio, ma in investimenti sulle rinnovabili che riducano la dipendenza dalle importazioni. Bisognerebbe considerare, come nel dettato costituzionale, l’energia come servizio “di preminente interesse generale”. I prezzi dell’energia non devono essere soggetti al libero mercato che produce instabilità (in Gran Bretagna 4 milioni di cittadini sono rimasti senza fornitori per i fallimenti) e tragedie (in Texas sono morte assiderate lo scorso anno più di 246 persone per gli scarsi investimenti nella rete). Nei rapporti coi grandi produttori di idrocarburi bisogna tornare ai contratti a lungo termine take or pay che diano sicurezza e stabilità. Si dovrebbe proseguire nello sforzo di diminuire i consumi, il vero cuore della “transizione ecologica” senza spendere enormi risorse per tecnologie come lo “stoccaggio del carbonio”. In Gran Bretagna un fornitore sta studiando di offrire minimi di elettricità gratuitamente in modo da ridurre drasticamente i consumi durante i picchi di domanda.

Occorre stimolare la produzione pubblica di energia per sopperire ai fallimenti del mercato nel “low carbon”, sia tramite “comunità energetiche” sia rilanciando imprese al 100% pubbliche che offrano energia rinnovabile senza dover remunerare azionisti. Le misure descritte incarnerebbero un vero “riformismo”, alternativo ai pannicelli neoliberisti che ci propinano i governi susseguitisi in Italia dall’inizio degli anni ’90.

Idee per l’Italia

I quotidiani, per la loro stessa natura, tendono a concentrarsi sul racconto di quel che accade e su quello che non va (male o bene che lo facciano): propongono certo, spesso inconsapevolmente, visioni del mondo, ma raramente “proposte”. Non c’è nulla di male in questo, perché il loro lavoro è un altro. Semel in anno, però, licet insanire e in questo febbraio 2022 – che coincide con l’inizio del secondo anno di Mario Draghi a Palazzo Chigi – è forse persino necessario. Per questo abbiamo deciso di dedicare Il Fatto economico di questa settimana a proporre idee di governo per l’Italia, idee che siano estranee alla marmellata neoliberale che ha guidato il Paese al declino pressoché ininterrottamente dagli anni 90 a oggi: uscire dalla pandemia per ritrovarsi nel mondo di prima aggiungerebbe il danno alla beffa.

Certo, l’esecutivo Draghi è un’ammucchiata di difficile conduzione, a non dire che il curriculum e il profilo culturale del premier non consentono di credere che sarà questo governo a invertire la rotta: qualcosa potrà fare, forse, il resto lo affidiamo al vento del dibattito pubblico perché possa magari tornare utile in futuro. In queste pagine non troverete idee rivoluzionarie, se non nella misura in cui lo sono diventati il buon senso, la solidarietà, il bene comune: dall’energia al lavoro, dal fisco al ruolo dello Stato nell’industria e nella ricerca fino alla grande questione delle regole macroeconomiche europee si tratta di proposte realizzabili, appena se ne abbia la forza e la volontà politica.

Ciò che le unisce è quel che ha unito la comunità del Fatto fin dal suo primo numero: un rinnovato ruolo dello Stato nell’ambito della Costituzione vista come programma degli italiani, come protesta contro lo stato di cose presenti, ci insegnò decenni fa Pietro Calamandrei. Proviamo a rovesciare il mondo alla rovescia in cui viviamo, quello descritto da Gustavo Zagrebelsky nel suo Fondata sul lavoro: “La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro”.

La sai l’ultima?

 

Capitol Hill La deputata trumpiana Marjorie Taylor Green confonde la Gestapo col gazpacho

La prossima volta che vi lamentate di un Ciampolillo qualsiasi, ricordate che nel Parlamento degli Stati Uniti c’è una deputata che fraintende il nazismo con una zuppa al pomodoro e confonde la “Gestapo” con il “gazpacho”. Si tratta – chi l’avrebbe mai detto? – di una repubblicana di fede trumpiana, imbevuta di teorie qanoniste, che risponde al nome di Marjorie Taylor Green. “Nel video, in cui la repubblicana appare con le bandiere americane come sfondo, Greene, protestando per dei controlli di sicurezza nell’ufficio di un collega repubblicano, accusa la leader democratica (Nancy Pelosi) di usare la Capitol Police come la sua ‘polizia gazpacho per spiare i membri del Congresso’”, scrive Adnkronos. La boiata atomica dell’onorevole è diventata virale, ovviamente, ma lei il giorno dopo ha provato a sdrammatizzare, scherzandoci su: “Niente zuppa per chi spia illegalmente i membri del Congresso, ma verranno gettati nel goulash”. Grasse risate.

Florida Un gatto che si era perso viene restituito alla sua famiglia dopo sei anni. È stato trovato a 2mila km da casa

Certi gatti fanno giri immensi e poi ritornano. Ashes, il felino di una famiglia del Maine (Usa) è tornato a casa dopo sei anni e un peregrinare di oltre 2mila chilometri, secondo il Guardian. “Denise Cilley, di Chesterville, ha detto di essere rimasta scioccata nel ricevere un messaggio vocale la scorsa settimana in cui le veniva annunciato che il suo gatto, Ashes, era stato localizzato in Florida. Ashes era scomparso nel 2015 durante una festa per il decimo compleanno di sua figlia”. La famiglia di Ashes, nel frattempo, si era comprensibilmente rifatta una vita: “L’hanno cercato per un po’ e hanno purtroppo concluso che probabilmente era stato vittima di un predatore”, ha detto Janet Williams, l’amica di famiglia che aveva preso la custodia temporanea del gatto in Florida. Lo studio di un veterinario ha confermato l’identità del felino, grazie al microchip impiantato quando era cucciolo. Come sia arrivato in Florida rimane un mistero.

 

Inghilterra Un turista perde la dentiera in Spagna durante una sbronza, 11 anni dopo gliela restituiscono a Manchester

Non solo i gatti possono tornare a casa dopo tanto tempo. Un inglese si è ricongiunto con la dentiera che aveva smarrito addirittura 11 anni prima. Una storia struggente che ha conquistato il sito della Bbc: “Un turista che aveva perso la dentiera mentre vomitava in un cestino durante una serata alcolica a Benidorm è rimasto sbalordito quando i suoi denti finti gli si sono ripresentati davanti dopo 11 anni”. Carramba che sorpresa. “Paul Bishop, 63 anni, ha raccontato di essersi sentito male dopo aver bevuto sidro durante una serata fuori nel resort spagnolo nel 2011. Dopo che la dentiera di Paul è stata trovata in una discarica, le autorità spagnole hanno utilizzato i dati del dna e l’hanno rintracciato nella sua casa di Stalybridge, Greater Manchester”. Commovente l’impegno della burocrazia iberica per restituire denti ormai marci, immaginiamo, a un ubriacone britannico. Che si è detto “meravigliato” dall’intera vicenda. Non è noto se abbia deciso di riusarli, vivremo col dubbio.

 

Crotone È un (falso) cieco ma fa a botte benissimo: partecipa ad una rissa e si fa sequestrare i beni frodati

Spopolano come un genere letterario i racconti di falsi ciechi che si fanno beccare, dopo anni di pensioni d’invalidità incassate, per imperdonabili leggerezze. Il protagonista di questa notizia forse voleva concludere la sua truffa in maniera epica: si è fatto scoprire facendo a botte vicino a un ospedale. Lo scrive l’Ansa: “Partecipa ad una rissa avvenuta nei pressi del Pronto soccorso di Crotone benché percettore di pensione di invalidità per cecità totale e per questo è stato denunciato per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e gli sono stati sequestrati beni per circa 60 mila euro, l’ammontare delle somme illecitamente percepite”. Per quella zuffa, a metà 2020, il prode si era beccato una denuncia. La guardia di finanza, incuriosita dalla circostanza di un cieco che mena benissimo, ha richiesto approfondimenti investigativi. Intanto dopo la rissa il nostro eroe aveva comunicato all’Inps di avere (miracolosamente?) riacquisito la vista. Non gli hanno creduto.

 

Roma Un uomo tiene il cadavere della compagna 90enne sul divano di casa per tre mesi, avvolto come una mummia

Storie dell’orrore a metà strada tra Roma e l’antico Egitto. Un pensionato 64enne ha tenuto la salma della compagna defunta per tre mesi dopo il decesso. Per conservare il corpo in decomposizione l’ha avvolto in bende di cotone come se fosse una mummia. “Non volevo separarmi da lei, è qui da ottobre. L’amavo troppo e non sapevo dove metterla” ha detto l’uomo ai carabinieri – riporta Repubblica – “sbalorditi davanti al cadavere della sua compagna disteso su un divano della camera da letto: una novantenne francese, Denise Lussagnet”. A quanto pare non c’era alcun movente economico dietro questa bizzarra imbalsamazione domestica: l’uomo non aveva continuato a riscuotere la pensione dell’anziana compagna. Imbalsamazione, peraltro, tecnicamente ineccepibile: il corpo dopo mesi non dava cattivi odori, così nel palazzo nessuno si era accorto di nulla. E nessuno se ne sarebbe accorto chissà ancora per quanto, se i carabinieri non fossero entrati in casa per notificare un atto all’anziana signora.

 

Russia La guardia giurata del museo, al primo giorno di lavoro, disegna gli occhi su un dipinto che non li aveva

Capita di scarabocchiare qualcosa sovrappensiero, in ufficio, ma questo inserviente russo non vincerà il premio di impiegato dell’anno. Anche perché l’ha fatto in un museo e sopra una delle tele esposte. “Al primo giorno di lavoro, annoiato, ha pensato bene di disegnare gli occhi a un dipinto che non li aveva, facendo qualche migliaio di euro di danni e soprattutto rischiando ora una multa se non il carcere”, racconta Repubblica. Il quadro in questione è “Le tre figure” di Anna Leporskaya, in mostra al Boris Eltsin Presidential Center di Ekaterinburg. La mitica guardia ha disegnato gli occhi” a due su tre delle fanciulle ritratte nel quadro usando una penna a sfera”. L’uomo era stato assunto da una società di sicurezza privata ed è stato inopinatamente licenziato. “Ora il quadro è stato mandato agli esperti per il restauro, che hanno stimato il costo del lavoro in 250mila rubli (4.600 sterline). Il sospettato rischia una multa e fino a tre mesi di carcere”.

 

Francia Yannick Noah ha venduto una racchetta patacca spacciandola per quella con cui vinse il Rolland Garros nell’83

Anche i grandi campioni possono essere veri pataccari. Yannick Noah, leggenda francese del tennis degli anni 80, andrà a processo per truffa: è accusato di aver venduto all’asta una racchetta qualsiasi, spacciandola per quella con cui vinse il Rolland Garros nel 1983. “Il caso – scrive Calcio e Finanza – è stato sollevato da un suo fan, che la acquistò nel lontano 1986 in un’asta di beneficienza al prezzo di 12 mila franchi, oggi circa 3.277 euro. Nel 2017, desideroso di rivenderla all’asta per coprire le spese mediche di sua moglie, si è visto rispondere da un esperto della Maison Drouot che ‘non vale niente o davvero poco’ in quanto non è stata quella utilizzata da Noah durante la finale né durante tutta la durata dell’edizione 1983 di Roland Garros”. Gli avvocati dell’ex campione non negano, ma si appellano alla prescrizione. Intanto Noah è andato a vivere in Camerun, a Etoudi, dov’era nato suo padre. È diventato capo villaggio e della racchetta pare interessargli davvero poco.

Mafia cinese, il “capo” a cena a Roma col factotum del governo di Pechino

L’11 dicembre del 2017 la polizia sta intercettando il telefono di Zhang Naizhong. L’uomo è accusato dalla Procura di Firenze di essere il boss della mafia sinica in Italia, un gruppo capace di controllare con violenze e minacce buona parte del mercato europeo dei trasporti su gomma di merce made in China. Zhang riceve una chiamata da Lin Guochun: per l’antimafia è il numero due dell’organizzazione. Lo chiama dalla Cina. Gli dice che “il segretario di un grande leader di Pechino è in visita a Roma”: gira “scortato dalla macchina della polizia”, aggiunge, deve partecipare a “un incontro con dei leader italiani”. Lin chiede a Zhang di portare questa persona a visitare la Capitale e poi a cena, cosa che succederà. La conversazione è agli atti del processo che inizia mercoledì 16 febbraio a Prato contro 79 persone accusate di varie reati tra cui quello di associazione mafiosa. Un gruppo con grande potere economico, sostiene l’accusa, che attraverso il marchio Anda – una serie di società con nomi diversi sparse in mezza Europa – è riuscito a colpi di sparatorie a farsi largo nelle comunità cinesi di Italia, Francia, Spagna e Germania.

Violenza, ma anche ottime conoscenze in Cina. Lo racconta l’informativa della Squadra Mobile di Prato e dello Sco, e la richiesta di rinvio a giudizio firmata dal pm Eligio Paolini. “Appena finisco di ricevere queste persone (funzionari del governo cinese) qui (in Italia) andrò di là (in Francia) nuovamente”, si legge nella trascrizione di un’intercettazione. Questa volta è il 23 aprile 2013. Zhang sta parlando con Xu Bingxin, detto Aliu. Per gli investigatori Aliu è un “esponente di primissimo piano del sodalizio…al centro di un vorticosa attività di prestito di denaro ad usura condotta principalmente in Cina”. Per la Procura di Firenze è il numero 3 dell’organizzazione. Aliu non si è mai spostato dalla Cina, ma Zhang lo tiene al corrente di tutti gli affari del gruppo in Europa. Mentre sta raccontando di come ha sistemato una questione d’affari in Francia, gli comunica che sta per offrire una cena a 20 funzionari del governo cinese. Il materiale depositato per il processo non permette di capire nulla di più sulla loro identità.

Più chiara è invece la storia della visita del “leader di Pechino”. Quel giorno, l’11 dicembre del 2017, a Roma era presente una delegazione di Stato cinese. C’era il vice premier, Ma Kai; l’ambasciatore, Li Ruiyu; il vice ministro per lo Sviluppo e le Riforme, Xiaotao Wang; quello per Industria e Informatica, Guobin Xin; il vice ministro al Commercio, Bingnan Wand; il sottosegretario agli Affari Esteri, Huilai Li. Una visita di Stato per incontrare l’allora premier Paolo Gentiloni. Un mese dopo l’intercettazione sono scattati gli arresti per Zhang e gli altri imputati. La Procura non ha fatto accertamenti sull’identità del dirigente di Stato cinese portato in visita a Roma da Zhang Naizhong. Contattato tramite il suo avvocato, l’uomo che il 16 febbraio dovrà rispondere dell’accusa di essere il capo della più grande organizzazione mafiosa cinese presente in Italia ha detto di non voler rilasciare dichiarazioni fino al termine del processo.

*Questa inchiesta è stata realizzata insieme al quotidiano spagnolo InfoLibre e finanziata da IJ4EU fund

Moda e food: così i clan si sono presi la Toscana

Da “isola felice” a terra avvelenata dai capitali della ’ndrangheta e della camorra. Dal negazionismo diffuso di prefetti e autorità cittadine, alla scossa del procuratore generale di Firenze Marcello Viola, che lo scorso gennaio ha lanciato l’allarme durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Ha ancora senso parlare di infiltrazioni mafiose o siamo di fronte a una presenza strutturata, stabile e consolidata?”. Negli ultimi tre anni, infatti, la Dda di Firenze, coordinata dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, ha quasi triplicato le misure patrimoniali preventive (+271%), passate da 32 (fra il 2016-2018) a 87 (fra il 2019 e il 2021). Nell’ultimo triennio fra sequestri e confische lo Stato ha congelato oltre 44 milioni di euro, beni controllati dai clan nella regione. Una cifra che raddoppia se si considerano anche i provvedimenti partiti da altre Procure (Napoli e Santa Maria Capua Vetere), che hanno scovato nella Toscana una delle terre preferite dai clan per riciclare capitali sporchi.

Ma a colpire, più di tutto, è l’ intreccio tra mafia e colletti bianchi. Per dirla con parole di Viola, “le cointeressenze tra criminalità organizzata e alcuni settori del mondo dell’economia, imprenditori e professionisti”. Il velo squarciato dalle operazioni antimafia, ragiona un investigatore, fa assomigliare da vicino la Toscana di oggi alla Lombardia di una decina di anni fa. Un territorio che allora si scopriva, come in seguito tante altre regioni del Nord, improvvisamente vulnerabile. Eppure, fino a non troppo tempo fa c’erano importanti pezzi delle istituzioni che sembrano vedere un’altra realtà e nei loro interventi pubblici tenevano ad allontanare a sud la linea della palma. Prima dell’Allarme di Viola, il prefetto di Firenze (e prima ancora di Lucca) Alessio Giuffrida, aveva detto: “La Toscana non può definirsi ‘terra di mafia’, anche se vi sono evidenze di tentativi di infiltrazioni da parte di organizzazioni criminali”, diceva nel 2016, rimarcando però “l’assenza di conclamate ‘reti mafiose’”.

Nel frattempo, Salvatore Sberna, ricercatore della Normale di Pisa e autore di cinque rapporti su criminalità e corruzione nella regione, è arrivato a teorizzare un modello autoctono mafioso, caratterizzato da “presenza pulviscolare” e “una strategia esternalizzata a criminali locali e professionisti”. Tra i due modelli di infiltrazione, lombardo e toscano, ci sono tuttavia importanti differenze. Mentre nel primo caso i clan hanno puntato su aziende e il tessuto industriale, in Toscana investono soprattutto nella ristorazione, nella moda e nel settore agroalimentare.

Questa filosofia è ben riassunta da un emissario dei Grande Aracri di Cutro, i veri finanziatori dell’acquisto di una tenuta nelle campagne senesi da 5 milioni di euro, sequestrata un paio di settimane fa dalla Dia di Firenze, diretta da Alessandro Nannucci: “Tu piglia tutto, noi veniamo, abbiamo tutto… architetti, ingegneri, commercialisti… Non guardare il prezzo…”. Uno dei due imprenditori indagati, Francesco Saporito, 79 anni, era stato in affari con Pierluigi Boschi, padre dell’ex ministro Maria Elena, in un’altra compravendita finita sotto la lente della magistratura e poi archiviata.

Il 18 gennaio un altro sequestro da 5 milioni di euro ha colpito i clan calabresi, stavolta sull’asse Arezzo-Pisa. Si tratta di beni riconducibili a Francesco Lerose, 52 anni, vicino alla cosca Gallace di Guardavalle, che in Toscana conduceva una vita dorata. Era l’uomo di riferimento di un gruppo di conciatori di Santa Croce sull’Arno, fiore all’occhiello dell’industria dell’abbigliamento Made in Italy. Lerose è accusato di aver sotterrato illegalmente tonnellate di keu, fanghi tossici prodotti dagli scarti della concia delle pelli. L’inchiesta ha coinvolto nomi importanti del Pd toscano: tra gli indagati ci sono Ledo Gori, ex capo di gabinetto del presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, Andrea Pieroni, consigliere regionale Dem, Giulia Deidda, sindaco di Santa Croce. Le mani della ’ndrangheta sul ricchissimo indotto della concia erano già emersi nell’inchiesta nel caso che ha coinvolto Cosma Damiano Stellitano, 55 anni, referente delle famiglie Barbaro di Platì e Nirta di San Luca.

Nel maggio del 2021 gli sono stati confiscati beni per 2,2 milioni. Mentre altre due confische hanno colpito nel 2019 Ignazio Ferrante, 56 anni, commercialista che per gli investigatori è legato ai Morabito di Africo (1,9 milioni), e Francesco Cardone, 49 anni, calabrese, imprenditore della ristorazione (2,5 milioni).

Un’altra importante fetta di economia legale è finita nelle mani della camorra napoletana e del clan dei Casalesi. Le operazioni antimafia dell’ultimo triennio hanno indagato emissari del clan Zagaria, Bove-Di Paola, Formicola di San Giovanni a Teduccio (periferia orientale di Napoli). Nella primavera del 2020 la Dda di Napoli ha scoperto che il clan Mallardo di Giugliano aveva costruito una vera e propria holding criminale che riciclava i proventi dei capitali sporchi in immobili, alberghi e scuderie ippiche toscane, un impero criminale che ha portato a sequestri per 50 milioni di euro. I tempi sono cambiati, insomma. E anche la musica. Come si capisce dalle dichiarazioni del Prefetto di Pistoia Francesco Iorio, a fine gennaio: “Chi sottovaluta il fenomeno è incosciente oppure complice”.

Il boss: “Rompiamo le corna a Baccini”

“U dutturi” esercitava ancora. Gestiva con il figlio le dinamiche del mandamento, progettava di aprire nuovi canali per la droga, acquistare ristoranti nella capitale e recuperare crediti per la borghesia romana. Si era ambientato bene a Roma, Giuseppe Guttadauro, dove si era trasferito dopo la scarcerazione del 2012 e tre condanne per mafia. L’ex primario dell’ospedale Civico di Palermo, e per anni reggente del mandamento di Brancaccio, è finito ai domiciliari insieme al figlio Mario Carlo, nell’inchiesta dei carabinieri del Ros, con l’accusa di associazione mafiosa in qualità di referente della famiglia di Roccella. Già coinvolto nell’inchiesta sulle talpe alla Dda di Palermo, che ha portato alla condanna a sette anni per favoreggiamento alla mafia l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, il dottore-mafioso è fratello di Filippo, marito di Rosalia Messina Denaro e cognato del superlatitante Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino della cupola di Cosa nostra. La parentela acquisita con ‘U Siccu’, spinge Guttadauro a muoversi nell’ombra nella capitale. “Io ho il parente (Matteo Messina Denaro, ndr) del mio parente (Filippo Guttadauro, ndr), il più importante latitante che c’è, il secondo nel mondo, il più importante che c’è in Italia ma tu perché pensi che mi stanno appresso? per me?”, spiega Guattadauro al suo sodale, in merito all’acquisto di un ristorante dove lui non vuole figurare per evitare di sovraesporsi.

Dalla capitale, tramite il figlio Mario Carlo, definito “portavoce ed alter-ego” del padre nel “territorio palermitano”, Guttadauro gestisce un’attività di commercio ittico in Marocco, interviene per risolvere le controversie tra i clan per l’esecuzione di lavori edili commissionarti dall’Eni a Brancaccio, e progetta nuovi canali per importare cocaina dal Sudamerica e dell’hashish dall’Albania.

Ma al medico-boss non si rivolgono solo i mafiosi, era “divenuto il referente di certi ambienti della ‘Roma bene’”, come si legge negli atti, di figure insospettabili che lo contattavano “per la risoluzione delle loro controversie private”. Come Beatrice Sciarra, moglie di Giuseppe Mennini Giuseppe, medico chirurgo e docente presso l’Università La Sapienza di Roma. Entrambi non sono indagati. La coppia si rivolge a Guttadauro per risolvere un “contenzioso” con Unicredit per “un credito di 16 milioni di euro”. Per scomodarsi ‘u dutturi’ avrebbe preso il “5%” della mediazione. “Vediamo come si risolvono le cose – dice Guttadauro –, può essere che ci mandiamo qualcuno a dargli due colpi di legno e basta”. La spedizione punitiva era per Mario Baccini (estraneo all’inchiesta), ex ministro della Funzione pubblica del governo Berlusconi tra il 2004 e il 2006, che avrebbe interferito nella mediazione finendo tra le mire del boss. “Perché alla signora gli sembrava che veniva dal capomafia, e io mi mettevo e andavo a rompere le corna a Baccini?”, dice Guttadauro spiegando che avrebbe ingaggiato uomini “saliti da Palermo” e che bisognava pagare. Alla fine però non si farà nulla.