La satira di Charlie Hebdo non è fondamentalista: è un diritto, una libertà

Lo Stato laico deve difendersi dall’Islam fondamentalista, come dalla satira fondamentalista. Posizioni queste entrambe estreme perché pongono i propri valori come assoluti e non limitabili, neanche di fronte alla sofferenza altrui. Porsi limiti reciproci di rispetto è l’unica strada per instaurare una convivenza costruttiva tra diverse culture. (Massimo Marnetto, lettera al FQ, 3 novembre 2020)

La satira di Charlie Hebdo non è “fondamentalista”: è satira. In Occidente, la satira ha una tradizione pluri-millenaria, va dall’ironia alla dissacrazione, ed è un diritto: il diritto alla libertà di espressione, che non a caso viene conculcato da totalitarismi, teocrazie e integralismi religiosi. Il limite della satira lo dà la legge: non può diffamare, né essere razzista, né fare apologia di reato. Si può dissentire da un’espressione satirica che ci offende, ma non censurarla, né pretendere che il nostro parametro valga come criterio generale per giudicarla. Sicché bollare la satira di fondamentalismo per paragonarla a quello islamista è un sofisma: la satira non ha valori assoluti, né vuole imporli, essendo anzi una pratica del relativo. Instilla dubbi, ridicolizza pregiudizi, non fa proselitismo, non considera infedele nessuno, non lapida le adultere, non uccide. Il paragone infame serve però ai parrucconi per censurare la satira anti-religiosa in nome del “rispetto dei sentimenti altrui” (l’hanno sostenuto pure Carlo Rovelli e Barbara Spinelli: Paolo Flores d’Arcais, su Micromega, gli ha smontato facilmente il giocattolino). In questo modo, finiscono per fare il gioco dei terroristi islamisti, che se ne fregano della “convivenza costruttiva” e arrivano a uccidere chi non la pensa come loro.

Ci sarà sempre qualcuno disposto a offendersi, pur di censurarti. Proibire la satira sulla religione perché i sentimenti religiosi vanno rispettati? Ma che la fede religiosa sia qualcosa da rispettare lo sostengono i credenti: finché non dimostrano che esiste l’essere invisibile in cui credono, non hanno alcun diritto di fare gli offesi se qualcun altro li percula. Non c’è nulla di “sacro”, di intoccabile nella religione: Aristofane prendeva in giro gli dei della sua epoca, noi quelli della nostra. Altri si appellano al buon gusto, ma la satira non ha niente a che fare col buon gusto. Come ricorda Mel Brooks, la comicità se non è eccessiva non fa ridere. Molti, infine, eviterebbero la satira anti-religiosa per non fomentare l’odio. Ma la satira anti-religiosa non è odio: è solo irriverenza. Se non lo si capisce, non se ne esce.

Ogni religione pensa che le altre siano una superstizione: la satira pensa che siano TUTTE una superstizione. Criticare la fede non è né provocare, né insultare: è fare appello alla razionalità, così necessaria in questi tempi di irrazionalismo integralista. La sensibilità dei credenti è sopravvalutata come lo sarebbe quella dei fan di Star Trek, se pretendessero che il culto di Star Trek fosse qualcosa di sacro. Il credente è colui che ha più bisogno della satira: da solo, fatica a rendersi conto di avere un problema di contatto con il reale, e la sua pretesa di essere rispettato perché crede in un essere invisibile e nei suoi profeti è anacronistica e ridicola. Le religioni non hanno più senso, nel 21° secolo. Vanno accolte nel discorso per ciò che sono: una stramberia rassicurante, retaggio di epoche in cui la religione suppliva la scienza nell’interpretazione dei fenomeni naturali.

(1. Continua)

 

Il Supercasino del tutti contro tutti

Quando il 9 marzo Giuseppe Conte decise il lockdown nazionale, gli italiani si chiusero disciplinatamente in casa e il tricolore esposto sui balconi simboleggiava lo spirito patriottico dell’unità nazionale. Se, come leggiamo, prima o dopo Natale il governo dovesse essere costretto a una misura analoga per frenare la curva impazzita dei contagi, dei decessi, degli ospedali presi d’assalto, teniamoci pronti a celebrare lo spirito fazioso della disunità nazionale. Il tutti contro tutti delle ultime settimane non lascia del resto molto spazio all’ottimismo.

All’interno del governo, dove l’allarme ripetutamente lanciato contro gli assembramenti nelle piazze e sulle spiagge, complice lo sfavillante novembre è già un modo per mettere le mani avanti. Del tipo: cari italiani ci eravamo raccomandati al vostro senso di responsabilità ma visto che continuate a fregarvene vi spediamo di nuovo tutti a casa. Quanto all’opposizione essa si opporrà in qualunque caso. Se ci sarà il lockdown strillerà contro la dittatura sanitaria, la catastrofe economica e il governo brutto e cattivo che ruba il Natale ai bambini. Se il lockdown non ci sarà strillerà contro la dittatura del contagio, opera del governo degli incapaci e degli assassini (sentiremo anche questa). Sui presidenti delle regioni, che ve lo dico a fare, c’è più armonia, compattezza e unità d’intenti nella Casa del Grande Fratello. Virologi e immunologi? Una credibilità messa a dura prova dai continui litigi televisivi, tanto che perfino il presidente della Lazio, Claudio Lotito può serenamente discettare su Covid e batteri nella vagina delle donne. E la babele dell’informazione? E gli opinionisti tre palle un soldo? E le associazioni dei medici e del personale sanitario che allo stremo delle forze gridano lockdown subito? E le categorie del commercio, del turismo e della ristorazione che tra le macerie delle loro attività implorano lockdown mai? E i cosiddetti ristori, giudicati elemosine nel migliore di casi (e nel peggiore non pervenuti)? E la demenziale guerra dei Toti contro gli anziani non più utili al processo produttivo? Inutile andare avanti perché il supercasino è sotto gli occhi di tutti. Non resterebbe che tornare al punto di partenza, a quel 9 marzo quando un uomo solo al comando decise per tutti. Ma oggi signor presidente del Consiglio siamo troppo confusi e non sappiamo più cosa sperare.

Antitrust Ue: “Amazon abusa della sua posizione dominante”. Come negli Usa

L’Antitrust europeo ha avviato un’indagine contro Amazon per abuso di posizione dominante per il suo doppio ruolo di gestore del marketplace e di venditore di prodotti. In altre parole, da una parte vende direttamente sulla piattaforma, dall’altra è diretto concorrente di terze parti a cui è concesso uno spazio commerciale sulla stessa piattaforma che gli consente di utilizzare l’immensa mole di dati sugli utenti di cui dispone per avvantaggiarsi sui rivenditori più piccoli, magari proponendo uno stesso prodotto ma a prezzi inferiori. Un’indagine simile a questa è stata avviata nel 2018 dall’antitrust tedesco e la stessa offensiva contro il colosso di Jeff Bezos sta avvenendo negli Stati Uniti. L’accusa ad Amazon, così come agli altri giganti del web, è di sfruttare il proprio potere di mercato, basato su 2,3 milioni di venditori globali di terze parti, per ostacolare i concorrenti, ma anche di mantenere in ostaggio i venditori. In particolare, la prima accusa formalizzata dall’Europa dopo più di un anno e mezzo di indagini durante le quali sono stati messi sotto la lente i mercati di Francia e Germania, è quella di trarre vantaggio dall’analisi dei dati dei venditori terzi che vendono su Amazon per spingere i prodotti della stessa Amazon. Una seconda indagine è stata avviata per il presunto trattamento preferenziale concesso a chi utilizza i servizi di logistica e consegna della stessa multinazionale. “Dobbiamo garantire che le piattaforme a doppio ruolo con potere di mercato, come Amazon, non distorcano la concorrenza. I dati sull’attività di venditori di terze parti non devono essere utilizzati a vantaggio di Amazon quando questi agisce come concorrente degli stessi venditori. Anche le condizioni di concorrenza sulla piattaforma Amazon devono essere eque”, ha spiegato il commissario europeo alla Concorrenza, Margrethe Vestager. La reazione del colosso di Jeff Bezos non si è fatta attendere: “Non siamo d’accordo con le affermazioni preliminari della Commissione europea e continueremo a impegnarci per assicurare un’accurata comprensione dei fatti. Amazon rappresenta meno dell’1% del mercato al dettaglio globale e ci sono rivenditori più grandi in tutti i Paesi in cui operiamo. Nessuna azienda più di Amazon si occupa delle piccole imprese o ha fatto di più per supportarle negli ultimi due decenni”.

“Senza protettori non entri”: odissee da ricercatori precari

“In uno dei colloqui che ho provato a fare per vincere un dottorato, il presidente della commissione mi ha detto che, se non c’è un professore che mi vuole, non ha senso nemmeno presentarmi”. Chi parla è un ricercatore dell’Università di Padova, uno tra i tanti studiosi che alcune settimane fa hanno risposto all’indagine sul baronato del mondo accademico italiano promossa dal Comitato precari ricercatori universitari (Cpru). La sua è solo una delle centinaia di storie.

Quello venuto fuori è un mondo caratterizzato spesso da ricatti, discriminazioni, promesse non mantenute e professionalità non valorizzate. Più della metà degli intervistati lavora in università, gli altri in enti pubblici (epr), aziende e istituti di cura. Mentre tutti aspettano che la ricerca compia l’ultimo passo alla conquista del vaccino contro il Covid, nel nostro Paese il settore resta castrato dalle scarse risorse che ha a disposizione e finisce per demotivare chi ne fa parte. Tanto che l’83,3% degli intervistati ha detto di guardare con preoccupazione al futuro e il 49,5% si sente semplicemente sfruttato.

L’impressione che emerge dal report è che molti docenti tendano a premiare obbedienza e fedeltà piuttosto che la bravura. “Ho lavorato nella ricerca per dieci anni dopo il dottorato – racconta una ricercatrice – mi è sempre stato detto che in futuro si sarebbero aperte opportunità in Università, ma non si è mai presentata la possibilità di partecipare a concorsi”. Quasi il 36% ha detto di essere stato ingannato da false promesse che riguardano presunti avanzamenti di carriera. C’è poi la quotidianità. Il 38% dichiara di aver subito minacce, di essere stato demansionato, denigrato o isolato da parte dei superiori (quindi dal docente o da un dirigente nel caso degli enti di ricerca). Quasi il 15% delle donne, inoltre, sostiene di aver subito discriminazioni di genere. “In Università venivo chiamata con appellativi come cucciola, piccola, occhi belli, a fronte di colleghi uomini chiamati per cognome”, ricorda una ricercatrice. È andata peggio a chi ha affrontato una gravidanza: “Quando ho comunicato al mio capo che aspettavo un bambino – si legge su uno dei questionari – mi ha creato problemi e ha minacciato di sostituirmi se le cose non fossero tornate come prima. E ora, infatti, faccio i salti mortali per garantire più di otto ore al giorno, lavorando anche da casa”.

Praticamente tutti sostengono di essere in servizio per un tempo superiore a quello previsto dai contratti, e il 44,4% lo fa perché si sente obbligato e teme ripercussioni.

Le carriere sono frammentate, in genere si parte con un dottorato dopo la laurea, poi si passa a un assegno di ricerca e si spera di accedere in un nuovo concorso. Tra un passaggio e l’altro, tanti buchi che spesso si traducono in lavoro gratuito per non perdersi per strada. “Dopo il dottorato – racconta una ricercatrice – non ho percepito la retribuzione per dieci mesi in attesa di un assegno all’Istituto nazionale di Fisica nucleare (Infn)”. “Il problema – fa notare un collega dell’Università di Bologna – sono quelli che definisco i ‘progetti trappola’. Enormi, complessi, affidati da istituzioni prestigiose a una sola persona abbandonata a se stessa. Mi è successo la prima volta dieci anni fa, quando, terminata la borsa di studio annuale, non c’è stato il rinnovo. Pertanto nel secondo anno non sono stato pagato”. Secondo il rapporto a demotivare i ricercatori precari si sono soprattutto i mancati riconoscimenti, a partire dalle citazioni scomparse dalle pubblicazioni a cui però contribuiscono per la gran parte. “Non ho potuto nemmeno inserire il mio nome su un progetto di ricerca basato su una mia idea”, ha risposto una studiosa della Sapienza. Il 61,5% degli assegnisti dice che ha lavorato durante il lockdown senza che questo sia stato riconosciuto.

Il precariato, dunque, resta una condizione non solo contrattuale. Del resto il proliferare di contratti a termine non è stato sconfitto nemmeno dalla legge Madia, che a partire dal 2017 ha avviato le stabilizzazioni negli enti pubblici di ricerca. A oltre tre anni, oggi solo nel Cnr, il più grosso, sono ancora circa 400 i precari storici che aspettano l’assunzione. “Servono nuovi fondi per completare le stabilizzazioni – spiegano dalla UilRua – e bisogna anche creare un nuovo piano di reclutamento che non ripeta il circolo vizioso”. Infatti, nel frattempo si sono già create nuove sacche di precari storici che rivendicheranno un posto fisso.

Arriva in Senato la norma pro-B. Poteri ad Agcom

Se c’è una cosa che non è mai mancata nella politica italiana degli ultimi decenni è la presenza degli affari di Silvio Berlusconi nelle svolte di politica industriale. Date per scontate le varie leggi ad aziendam, lo stesso governo gialloverde, pochi lo ricordano, nacque anche perché M5S e Lega diedero via libera – regnante ancora Gentiloni – all’ingresso di Cdp in Tim per bloccare gli aggressivi francesi di Vivendi tanto nell’ex monopolista telefonico che nella loro scalata a Mediaset. Ora, ancorché in forma edulcorata, un emendamento che la relatrice Valeria Valente del Pd ha presentato ieri sera al decreto Covid in Senato – testo, però, elaborato al Mise da Stefano Patuanelli e benedetto dal collega Roberto Gualtieri e dal premier Giuseppe Conte – serve di nuovo a bloccare per qualche tempo l’assalto dei francesi alla società di famiglia di Berlusconi: a spingere per questa soluzione è anche l’Autorità per le comunicazioni (Agcom), rinnovata in estate all’insegna dell’ennesimo Patto del Nazareno, per così dire.

Per capire serve un breve riassunto. A fine 2016 la media company di Vincent Bolloré era arrivata quasi al 30% di Mediaset con la quale aveva in corso un contenzioso legale sul rifiuto francese di comprare la decotta pay tv del Biscione nonostante un accordo firmato anni prima. I legali di Berlusconi obiettarono che la quota rilevante che Vivendi deteneva in Tim (primo socio col 23,9%) rendeva illegittima la sua presenza in Mediaset per i divieti della legge Gasparri (no a commistioni tra tlc, tv ed editoria): nel 2017 l’Agcom diede ragione a Berlusconi e il 19,19% delle azioni Mediaset francesi finì congelato nel trust Simon Fiduciaria. In sostanza, Vivendi non conta nulla in una società di cui possiede quasi un terzo, società con cui ha in corso una battaglia legale nei tribunali di mezza Europa. A inizio settembre, però, una sentenza della Corte di Giustizia Ue – innescata da una richiesta del Tar – ha stabilito che quel vincolo antitrust è irragionevole e contrario al diritto comunitario: il 16 dicembre il Tar si appresta dunque a restituire le sue azioni a Vivendi, fatto che potrebbe scardinare la gestione di Mediaset.

Lo stallo a cui si è giunti impone ora un accordo tra le parti: tutti lo sanno, ma le condizioni a cui ci si arriverà dipendono da quanto potere contrattuale hanno i due contendenti. E qui arriva l’emendamento presentato ieri sera in Senato dopo lunga contrattazione all’interno della maggioranza (non tutti sono d’accordo). In sostanza, nelle more della riforma della Gasparri bocciata dalla Corte Ue, si concede all’Agcom il potere di avviare un’istruttoria della durata massima di sei mesi tutte le volte che un soggetto che operi sia nelle tlc che in un mercato compreso proprio nella Gasparri (tipo la tv…) sia in grado di “determinare un’influenza notevole” su un’altra impresa del settore anche via mere partecipazioni. La ratio è evitare effetti distorsivi del mercato e del pluralismo. Nel testo viene citato l’articolo 2359 del codice civile, che si riferisce al controllo sulla base di “un’influenza dominante” in assemblea, ma la formula è abbastanza vaga da permettere all’Agcom di bloccare tutto per sei mesi, rinviando a giugno il redde rationem e dando una boccata d’ossigeno a Berlusconi. I conti di Mediaset e lo sviluppo del mercato (presente Netflix?) dicono che l’ex Caimano dovrà scendere a patti, ma il prezzo vuole deciderlo lui o almeno non farlo decidere a Bolloré. Cosa ci guadagna il governo? Forse un occhio di riguardo da parte di Forza Italia, specie in Senato. Cosa rischia? Che Vivendi non la prenda bene ed esprima la sua rabbia in Tim. Non si sa se il gioco vale la candela.

Carrai e quei soldi dal Togo. Open, i donatori nel mirino

Non ci sono solo nomi importanti della politica, come quello di Matteo Renzi o degli ex ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’indagine della procura di Firenze sulla Fondazione Open potrebbe allargarsi ai finanziatori, a coloro che negli anni scorsi hanno elargito donazioni a quella che è stata la cassaforte del renzismo. I magistrati fiorentini ritengono che la Open sia stata “un’articolazione politico-organizzativa del Pd (corrente renziana)” e vogliono andare avanti su questa strada. Tanto che nel mirino della Procura ora potrebbero finire alcuni finanziatori. Non tutti ovviamente. Finanziare una fondazione non è un reato, il problema sorge quando le donazioni non vengono iscritte a bilancio. Quindi la lista di chi finisce sotto accusa potrebbe allungarsi.

Nel frattempo sono già stati iscritti nel registro degli indagati Renzi, Lotti e Boschi: sono tutti accusati di finanziamento illecito. Secondo i pm, dal 2012 al 2018 hanno ricevuto 7,2 milioni di euro, in violazione della norma sul finanziamento illecito ai partiti. “Somme – riporta il capo di imputazione – dirette a sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana”. “E comunque – è scritto nell’invito a comparire – perché Renzi, Lotti e Boschi ricevevano dalla Fondazione contributi in forma diretta e indiretta, in violazione della normativa”. In quanto membri del consiglio direttivo della Open in questa indagine sono accusati di finanziamento illecito anche l’avvocato Alberto Bianchi e Marco Carrai, l’imprenditore ritenuto molto vicino a Renzi.

Per Carrai non è l’unica indagine in cui è coinvolto. Lo ha anticipato ieri Il Corriere Fiorentino: è accusato di concorso in riciclaggio con la moglie Francesca Campana Comparini. Secondo il quotidiano, le indagini sarebbero partite dopo che nel corso di un controllo all’aeroporto di Firenze furono trovati 160mila euro in contanti a una passeggera originaria del Togo in arrivo nel capoluogo toscano. Dalle stesse indagini sarebbe emerso che il denaro sarebbe stato destinato alla moglie di Carrai, per il pagamento dell’affitto di un appartamento di sua proprietà nel centro di Firenze. Secondo l’accusa, riporta sempre Il Corriere Fiorentino, il contratto di locazione dell’abitazione sarebbe stato fittizio, e sarebbe servito per far arrivare il denaro dal Togo in Italia. La Procura sta cercando di ricostruire il movimento di quel denaro. La difesa di Carrai, riferisce il quotidiano, sostiene che sia tutto lecito, dal momento che sarebbe stato lo stesso Carrai a chiedere informazioni su come fare arrivare quel denaro dal Togo senza incorrere in sanzioni.

Francesca Campana Comparini, classe ’88, è nota a Firenze anche per essere l’organizzatrice del Festival delle religioni, un appuntamento annuale dagli importanti ospiti. Nel 2019 c’era per esempio il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin e ovviamente il sindaco Dario Nardella. Il festival è “copromosso dal comune di Firenze” con il contributo della Fondazione Cr Firenze, un ente senza scopo di lucro che tra i consiglieri del cda annovera proprio il marito Marco. Sono storie fiorentine queste. Quelle della procura invece sono invece indagini penali. Che Renzi sembra star mal digerendo. Dopo le affermazioni del leader di Italia Viva dei giorni scorsi, una quindicina di consiglieri del Csm hanno chiesto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati di Firenze. L’ex premier, insorgono i togati del Csm, “ha definito i magistrati della Procura di Firenze come ‘ossessionati’, mossi da ‘ansia di visibilità’, e ai quali ‘la ribalta mediatica piace più del giudizio di merito’. Si tratta di dichiarazioni che destano preoccupazione in quanto con esse vengono attribuiti ai magistrati intenti e finalità diverse e distorte rispetto all’accertamento della verità”.

Quelli di Renzi, continuano i magistrati, sono comportamenti che appaiono “lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. Renzi, però, respinge le accuse. “Nessuna guerra di religione” di berlusconiana memoria assicura, anche perché, è il ragionamento, fare di tutta l’erba un fascio impedisce un’analisi seria, serena e serrata dei singoli procedimenti.

Fa attaccare Sars-Cov2 dal sistema immunitario

Nella corsa al vaccino contro il virus SarsCov2, il primo a suonare la campanella è il colosso farmaceutico Pfizer, insieme all’azienda tedesca Biontech: il loro vaccino, annunciano, è efficace contro il Covid nel 90% dei casi. Una percentuale che va oltre le aspettative degli stessi oncologi che lo hanno messo a punto, i coniugi Ugur Sahin e Özlem Türeci, fondatori di Biontech. Sebbene i risultati non siano ancora stati sottoposti al vaglio delle agenzie che approvano i farmaci per il commercio, “questi numeri lasciano pochi dubbi sull’efficacia di questo vaccino”. ha spiegato al Fatto Giuseppe Pontrelli, epidemiologo clinico.

È il primo vaccino basato sulla tecnologia cosiddetta dell’mRna, la molecola che serve alla produzione della proteina spike di SarsCov2 che permette al virus di infettare le cellule umane. La tecnologia permette la produzione della proteina virale senza il virus e renderla riconoscibile al sistema immunitario, così da poterla attacare. Gli oncologi di Biontech lo avevano originariamente messo a punto contro il cancro, dopo che negli ultimi anni è emerso il ruolo che il sistema immunitario gioca anche nel riconoscere e combattere le cellule tumorali. A condurre la cosiddetta analisi preliminare dei risultati ottenuti nella fase3 di sperimentazione sull’uomo del vaccino, è stata un’azienda esterna allo studio, incaricata dalle stesse Pfizer e Biontech di analizzare i dati su oltre 40mila volontari.

L’efficacia del 90% è emersa dall’analisi dei primi 94 casi di volontari che hanno contratto il Covid sia appartenenti al gruppo che ha ricevuto il vaccino sia a quello che ha ricevuto solo il placebo. A distanza di 28 giorni dalla prima dose e di 7 dalla seconda circa 85 volontari che hanno ricevuto il placebo hanno sviluppato il Covid. Mentre solo 9 dei vaccinati hanno contratto la mattia. Da questa ampia forchetta si arriva al 90% di efficacia. “Il dubbio più grande, adesso, è quanto la protezione del vaccino possa durare effettivamente nel tempo”, ha dichiarato al Fatto Maurizio Bonati, farmacologo dell’Istituto di ricerche Ircss Mario Negri di Milano.

In arrivo 3,4 mln di dosi: logistica affidata ai soldati

L’incarico formale da parte del ministero della Salute al commissario all’emergenza coronavirus dovrebbe arrivare a breve, a quel punto partirà davvero la complessa macchina organizzativa che dovrà distribuire nella penisola le dosi del vaccino per il Covid-19: probabilmente la logistica, come in Germania, sarà curata dall’esercito. Ad oggi, il gruppo di lavoro insediato una settimana fa da Roberto Speranza – presieduto dal professor Giovanni Rezza, responsabile Prevenzione del ministero – si sta occupando soprattutto di definire i criteri di priorità con cui mettere a disposizione il farmaco ai cittadini e del coordinamento con le Regioni: si dovrebbe partire – probabilmente all’inizio del 2021 – da personale sanitario (medici, infermieri, Oss) e ospiti delle “case di riposo” (le Residenze sanitarie assistenziali, Rsa), a seguire toccherà agli altri. Ecco un breve quadro di come dovrebbe funzionare.

Quali vaccini. Il contratto tra Pfizer, che ha annunciato che il suo farmaco è efficace al 90% e pronto a essere distribuito quando avrà le necessarie autorizzazioni, e la Commissione europea dovrebbe essere ufficializzato oggi: Bruxelles comprerà, man mano che saranno prodotte, 300 milioni di dosi, la quota italiana di questa fornitura si aggira sui 40 milioni di dosi, circa il 13,5% del totale. La prima tranche che Pfizer dovrebbe consegnare entro poche settimane ai Paesi Ue dovrebbe superare i 25 milioni di dosi, all’ingrosso 3,4 milioni per l’Italia. Va tenuto a mente che questo vaccino consiste in due dosi per persona: dunque la prima fornitura dovrebbe coprire 1,7 milioni di persone, 20 milioni quella completa. Per capirci sui numeri: i dipendenti del Ssn sono circa 600mila, altri 260mila sono i medici di base, pediatri e specialisti vari, a cui vanno aggiunti gli infermieri non del Ssn e circa 300mila anziani nelle Rsa. Anche la multinazionale inglese AstraZeneca – che collabora con la Irbm di Pomezia e ha un pre-accordo con la Ue per 400 milioni di dosi – sostiene di essere vicina alla consegna dei vaccini (entro l’anno), ma per ora non ha comunicato tempi e quantità della fornitura.

Logistica. Come detto, secondo plurime fonti del ministero della Salute, l’incarico per questo pezzo dell’operazione sarà affidato al commissario Domenico Arcuri: l’idea – come accadrà in Germania – è che il trasporto del vaccino nei singoli luoghi da cui verrà poi distribuito ai cittadini debba essere appannaggio dell’esercito, peraltro già impiegato nella fornitura alle Regioni dei dispositivi medici durante le fasi più difficili dell’emergenza. Al di là di ogni altra considerazione, c’è un aspetto tecnico che spinge in questa direzione: il vaccino Pfizer va conservato a -70 gradi in sostanza fino alla somministrazione e le normali catene logistiche non hanno frigoriferi che garantiscano queste temperature. Dovrà pensarci l’esercito centralizzando le consegne.

La distribuzione. Come il vaccino arriverà ai destinatari finali è ancora da definire. Probabilmente la prima fase – le prime 3,4 milioni di dosi – sarà gestita a livello centrale, poi bisognerà capire come vorranno organizzarsi le Regioni. L’assessore del Lazio Alessio D’Amato ieri ha sostenuto che la sua Regione potrebbe usare i famigerati drive-in. Nessuna ipotesi può essere esclusa quando la macchina sarà a regime, neanche che, una volta esaurita la platea delle categorie prioritarie, i vaccini siano disponibili in farmacia a pagamento.

La platea. Detto del personale sanitario, la parte di popolazione da tutelare con più attenzione sono sicuramente gli anziani. Molto dipenderà da quanti vaccini arriveranno e quando: basti dire che gli over 65 anni in Italia sono poco meno di 14 milioni di persone (il 23% della popolazione), gli over 70 dieci milioni e mezzo (17,4%). A questi vanno aggiunti i pazienti “fragili” più giovani: in sostanza chi ha altre patologie. Se, infine, nell’elenco dei prioritari finisse anche il personale scolastico, si dovrebbe aggiungere circa un altro milione di persone.

Il vaccino e Big Pharma: ora chi ci guadagna

I risultati positivi del vaccino contro il Covid sviluppato dall’americana Pfizer insieme alla tedesca Biontech hanno scatenato l’euforia sulle Borse mondiali. Secondo i produttori, nella fase 3 della sperimentazione tuttora in corso si è ottenuta una copertura vaccinale del 90%, con i livelli di anticorpi contro il virus che potrebbero durare almeno un anno dalla seconda dose del richiamo. Al momento è invece difficile stabilire la capacità del vaccino di prevenire l’infezione, che sarà un fattore importante a lungo termine, mentre nel breve termine farà premio la protezione dei soggetti fragili dagli effetti più gravi della malattia. Gli investitori brindano alla possibile approvazione rapida della cura innovativa basata sull’Rna messaggero, che potrebbe traghettare l’economia fuori dalle secche della recessione globale innescata dalla pandemia. Ma questo successo segna però anche un ulteriore passo verso la finanziarizzazione della salute.

L’annuncio ha messo le ali alle azioni Pfizer, che nella prima seduta hanno avuto un rialzo del 10% a 40 dollari, e di Biontech, scattate del 15% a 106 dollari. Poiché la tecnologia dell’Rna messaggero è la base di otto di 12 dei suoi progetti vaccinali, ora in Borsa la startup tedesca vale 25 miliardi di dollari, cifra sproporzionata al bilancio 2019 – chiuso con perdite per 180 milioni di euro su un fatturato di 110 milioni – ma non rispetto al suo potenziale. Il balzo ha trainato anche le azioni di altri produttori di vaccini a Rna messaggero, come l’americana Moderna e la tedesca CureVac. Rialzi minori hanno beneficiato altri produttori come Johnson & Johnson, Novavax, Gsk e Sanofi. Ma a volare sono stati anche i titoli dei settori più colpiti dalla pandemia, come trasporto aereo turismo ed energia, che sperano in un rapido ritorno alla normalità.

Pfizer e Biontech, che stanno discutendo con le autorità di controllo, prevedono di presentare entro fine mese la richiesta all’uso di emergenza del vaccino negli Stati Uniti. Le due società prevedono di fornire 50 milioni di dosi entro quest’anno, delle quali dai 30 ai 40 milioni negli Stati Uniti, e fino a 1,3 miliardi nel 2021. Le due imprese hanno già stipulato accordi con i governi di 13 Paesi: tra questi l’Unione Europea (che – come ha ribadito ieri Ursula von der Leyen – ha prenotato 300 milioni di dosi delle quali all’Italia andrà il 13%), Canada, Hong Kong, Macao, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Agli Usa è prevista una fornitura di 100 milioni di dosi con un’opzione per altri 500 milioni. La commessa dei primi 100 milioni di dosi vale 1,95 miliardi di dollari: il vaccino costa dunque quasi 20 dollari a dose.

Le gigantesche prospettive di business hanno risollevato Pfizer che non esce da un 2019 positivo. Goldman Sachs rileva che la società di New York nel 2019 ha realizzato ricavi per 51,8 miliardi di dollari, in calo dell’1% su base annua, con un margine operativo di 23 miliardi e un utile di 16,2, calato del 4% rispetto al 2018. A fronte di debiti per 41 miliardi, Pfizer in Borsa ora ne vale 220,4. Negli ultimi due anni la multinazionale americana ha proseguito la sua strategia di uscita da alcuni segmenti del mercato “verso il ruolo di leader globale concentrato nei farmaci innovativi”, secondo il suo amministratore delegato Albert Bourla. Pfizer si sta liberando della sua controllata Upjohn (attiva nel settore dei farmaci generici, che sarà fusa con Mylan per creare Viatris), mentre nel 2019 ha deconsolidato la sua divisione dei farmaci da banco fondendola con Gsk. Queste operazioni servono ad alzare il rendimento del capitale, investendo solo sui settori più promettenti, e a rimborsare gli azionisti. Così nel 2019 Pfizer ha pagato ai suoi azionisti quasi 17 miliardi di dollari attraverso dividendi e riacquisto di azioni proprie. Ma tutta questa abbondanza non sempre arriva da fonti limpide. Come ricorda il Financial Times, nel 2016 l’Antitrust britannico ha comminato a Pfizer una sanzione da 90 milioni di sterline, 101 milioni di euro, per il rialzo del 2.285% deciso in una sola notte del prezzo di un farmaco antiepilettico usato da 48mila pazienti. Il trucco fu la cessione del brevetto a una società di farmaci generici, Flynn Pharma, che consentì di dribblare le norme sui listini al pubblico. Grazie allo stuolo di legali messi in campo dalla multinazionale, a marzo scorso la multa risultava ancora sub judice.

Ma gli scossoni sui mercati finanziari erano ampiamente previsti. La corsa al vaccino è stata un forte catalizzatore di interesse sulle azioni delle società farmaceutiche coinvolte sino ad agosto, quando però la bolla delle azioni farmaceutiche si è sgonfiata per l’eccesso di annunci da parte dei politici che ha generato sfiducia sui mercati. Già il 6 ottobre Goldman Sachs scriveva che, passate le forche caudine delle elezioni presidenziali Usa, da un’approvazione precoce del vaccino anti-Covid sarebbero arrivati significativi rialzi per le azioni e le valute “cicliche”, quelle che salgono quando l’economia si riprende.

Sullo sfondo resta la questione della finanziarizzazione della salute mondiale voluta e gestita da Big Pharma. Uno studio realizzato dal Centro di ricerca olandese sulle multinazionali Somo sugli ultimi 20 anni del settore segnala che le prime 27 aziende farmaceutiche quotate nel 2018 avevano cassa per 135 miliardi di dollari, ma anche oltre 500 miliardi di dollari di debiti che non erano stati contratti per sviluppare gli investimenti quanto per remunerare gli azionisti. Tra il 2000 e il 2018, tra dividendi e riacquisti di azioni, i possessori di azioni farmaceutiche hanno ricevuto un ritorno complessivo di 1.540 miliardi. Il sistema si regge sui brevetti, la cui gestione ha trasformato le imprese farmaceutiche da aziende industriali a monopolisti della proprietà intellettuale. Il controllo del mercato della salute, grazie alla pandemia, ora diventerà ancora più stretto.

Salvini ha arruolato pure Meluzzi

L’ultimo alleato di Matteo Salvini è un signore con i capelli lunghi e la barba bianca, al quale – tra innumerevoli perle – si può attribuire anche questa ragionevole osservazione sulla pandemia in corso: “I monopattini hanno ucciso più persone del Covid”. Si chiama Alessandro Meluzzi, si presenta come “primate della Chiesa ortodossa italiana autocefala”, è l’ennesima bestia stramba nel gregge dei teorici del complotto globale, un volto tra i più conosciuti nella galassia dei negazionisti del Coronavirus.

Salvini non poteva lasciarselo sfuggire: la scorsa settimana “il capitano” ha annunciato raggiante la collaborazione tra la lega e il Partito Anti Islamizzazione, di cui Meluzzi è ispiratore e presidente onorario. Chissà cosa ne pensano Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti, che lavorano per far sembrare la Lega un partito normale, mentre il segretario continua a fare l’occhiolino alle frange più eccentriche dell’elettorato (eufemismo). Quelle che si identificano con le idee stramboidi di QAnon, la teoria dei trumpisti più fanatici, secondo cui esiste un deep state progressista fondato sulla pedofilia e sull’estrazione e il consumo di sostanze stupefacenti dal sangue dei bambini. A questa e altre amenità dedica il suo tempo Meluzzi. Uno che ha twittato l’immagine del cancello di Auschwitz con la scritta “Andrà tutto bene” al posto di “Arbeit macht frei”. Uno che sostiene che ci sia “una congiura contro l’idrossiclorochina, il farmaco che salva la vita dal Covid ma non viene utilizzato perché costa troppo poco”. Uno che pensa che il Coronavirus sia “un colossale imbroglio, una falsa pandemia”, che le vittime siano state “pompate con terapie sbagliate e con l’ossigeno”.

Alessandro Meluzzi è uomo dal multiforme talento, ospite facondo di mille salotti tv (è quasi sempre da Nicola Porro) e idolo radiofonico degli stercorari della Zanzara. Tra le altre cose si presenta come “medico psichiatra, psicologo e psicoterapeuta, criminologo, docente di psichiatria forense”.

Ha conosciuto ogni sfumatura dell’arcobaleno politico: comunista extraparlamentare, poi Pci, poi craxiano, poi in Forza Italia (con Berlusconi va due volte in Parlamento, dal 2004 al 2011), poi cossighiano, poi con Dini, infine con Mastella nell’Udeur. È stato massone del Grande Oriente Italia, diacono cattolico e ora si accredita come primate ortodosso (autocefalo). Ha cambiato mille parrocchie con la sola religione di sé medesimo. Fratelli d’Italia nel 2019 stava per candidarlo in Emilia-Romagna, poi forse – forse – Giorgia Meloni si è resa conto del personaggio. Salvini invece è di bocca buona: “La collaborazione tra la Lega e il Pai porterà grandi risultati a tutto il Paese”.