Conte chiama Gino Strada per “guarire” la Calabria

La chiamata è arrivata, direttamente da Giuseppe Conte. E Gino Strada non ha detto no. Ma ha chiesto garanzie, precise, senza le quali non accetterà. Però qualcosa si è davvero mosso. Dopo giorni di figuracce tra interviste surreali e bizzarri video che riaffiorano, il governo sta veramente provando a convincere il fondatore di Emergency a diventare il terzo commissario alla Sanità calabrese in pochi giorni. L’ex commissario ad acta Saverio Cotticelli, il generale dei carabinieri in pensione che non sapeva di dover varare un piano Covid, è ormai il passato. Ma il presente, rappresentato dal nuovo commissario Giuseppe Zuccatelli, vacilla parecchio, dopo la diffusione di un video di qualche mese fa in cui il manager cesenate teorizzava che “le mascherine non servono a un c…”, e via peggiorando. Così ecco l’idea Strada: lanciata dalle Sardine e portata avanti concretamente dal presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, calabrese d’adozione.

È il veterano dei 5Stelle ad aver gettato le basi per una trattativa con il fondatore di Emergency. Entrata nel vivo ieri, quando Conte ha chiamato Strada. Un colloquio in cui il premier gli ha chiesto aiuto per una regione che è già zona rossa, con gravi carenze strutturali sul piano della sanità. “Serve un uomo specializzato in emergenze” riassumono fonti di governo. L’identikit del 72enne medico lombardo, che accettando consentirebbe all’esecutivo di sanare la grave ferita anche sul piano dell’immagine. Non a caso ieri Strada avrebbe ricevuto una telefonata anche dal ministro della Salute Roberto Speranza, che pure aveva indicato Zuccatelli, provando a difenderlo dopo il video delle mascherine (“Un curriculum di 30 anni non si cancella con un filmato” aveva teorizzato a Mezz’ora in più). Ieri lo staff del ministro, cercato dal Fatto, non ha dato risposte su un eventuale colloquio. Di certo per avere Strada in Calabria servono altri passi. Perché nei colloqui di ieri il medico ha posto delle condizioni. Chiedendo innanzitutto mano libera, ossia di poter lavorare senza essere gravato dal peso di logiche politiche o da troppi intoppi burocratici. Lui, abituato ai fronti di guerra, non vuole perdere tempo. E per gestire la Calabria morsa dal Covid pretende di poter adoperare la sua equipe di Emergency, con i suoi metodi, inclusi gli ospedali da campo fatti di tendoni. Una fonte qualificata osserva: “Le condizioni di base ci sarebbero, perché il decreto Calabria dà al commissario ampi poteri e risorse importanti”.

Ma rimangono ostacoli, di varia natura. Dai dubbi dello stesso Strada su un compito che sarebbe comunque nuovo per lui, alle resistenze trasversali, dentro e fuori il governo. Non a caso ieri sera fonti di governo riferivano di un piano B, con Strada che andrebbe ad affiancare Zuccatelli, organizzando i reparti Covid e gli ospedali da campo. “Ma è improbabile che lui possa accettare un ruolo subalterno” spiegavano ieri sera persone che lo hanno sentito in queste ore. La situazione, insomma, è in divenire.

E così rimane in sospeso anche il destino di Zuccatelli, che ieri pomeriggio è arrivato in treno a Lamezia Terme, rimanendo in silenzio davanti a telecamere e cronisti. Dai 5Stelle locali gli sono arrivate altre bordate, per bocca del parlamentare Francesco Sapia: “Se ne deve andare, le sue teorie stile negazionista sono vergognose per un manager”. Ma nel M5S non tutti tifano per Strada: un commissario per ora solo possibile.

Monza e Varese in agonia: ma oltre 40 camici sono dirottati in Fiera

Gli ospedali lombardi, come da giorni denunciano i medici, sono al collasso: “Il triangolo Como-Monza-Varese – dichiara Claudio Zanon, direttore sanitario dell’Ospedale Valduce di Como – sta subendo quello che è successo a Bergamo nella prima ondata La situazione è al limite delle possibilità e del collasso”. “La capacità di mantenere attivo un ospedale dipende dall’equilibrio tra entrate e uscite, un equilibrio compromesso – spiega Mario Alparone, dg del San Gerardo di Monza –. I trasferimenti di pazienti negli altri ospedali della Brianza è venuto meno. In più abbiamo 340 operatori positivi”.

A peggiorare la situazione il fatto che proprio il San Gerardo abbia dovuto rinunciare ad almeno 40 tra rianimatori e infermieri per rifornire l’Ospedale in Fiera a Milano. Lunedì sera il Professor Nino Stocchetti, primario dell’Ospedale in Fiera, spiegava a Quarta Repubblica di Nicola Porro che l’Astronave “funziona” come un estintore mentre divampa l’incendio. Peccato che dei 670 malati in terapia intensiva della Lombardia, la Fiera ne ospiti solo 44. Le équipe che li stanno curando sono state dirottate dal Policlinico di Milano, da Niguarda, e dal San Gerardo di Monza e dall’ospedale di Varese, proprio le strutture più in crisi. Gli ospedali di Como hanno risposto picche a ogni richiesta e molte strutture private interpellate dall’assessore Gallera, non hanno neanche dato un “gentile riscontro”.

580 morti in un giorno, mai così tanti da aprile

La curva dell’incremento dei casi si è stabilizzata, così come l’indice Rt di trasmissibilità ora 1,7 a livello nazionale. Ma l’elemento di preoccupazione sta nel numero dei decessi giornalieri: ieri 580 contro i 356 del giorno precedente. Non si registrava un dato così alto di vittime dal 14 aprile, quando furono 602. Il balzo del numero dei morti è talmente alto da far pensare a un ritardo nella comunicazione da parte delle Regioni, ieri nel bollettino soltanto l’Abruzzo ha segnalato ufficialmente che 21 decessi erano dei giorni precedenti, ma ciò non esclude che altri non lo abbiano fatto: ad ogni modo non è possibile saperlo fino a comunicazione ufficiale e così la media a 7 giorni dei morti è tornata esattamente sulla curva esponenziale con raddoppio a nove giorni, indicatore che non confermerebbe un reale rallentamento dei nuovi casi. Altro elemento di allarme è il tracciamento che sembrerebbe ormai saltato in diverse regioni: in alcune si trovano addirittura due positivi ogni cinque nuove persone testate e in altre una ogni due. Decisamente troppo per pensare a un tracciamento ancora in grado di “controllare” l’epidemia. Il rapporto tra nuovi positivi e persone per la prima volta sottoposte a tampone è superiore al 25% in tredici regioni: Abruzzo, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Bolzano, Trentino, Piemonte, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta e Veneto; la Campania e la Sicilia ci sono molto vicine. Il consigliere regionale del Lazio Alessandro Capriccioli per questo motivo da qualche giorno ha rinunciato alla pubblicazione dei grafici: “In molte regioni non esiste più il tracciamento, l’analisi delle curve, della loro salita o della loro discesa, ha ben poco senso ormai”.

Ieri i nuovi positivi registrati sul bollettino della Protezione civile erano 35.098 (+9.827 rispetto al giorno precedente) a fronte di 217.758 tamponi (+70.033). Le persone in terapia intensiva sono 2.971 (+122 la variazione) e 28.633 in reparto ordinario (+997), a un passo dal tetto massimo dei 29 mila raggiunto ad aprile.

Se è saltato davvero il tracciamento per saturazione dei tamponi da qualche parte di sicuro lo è in Lombardia: ieri 10.955 nuovi casi certificati, Piemonte 3.659, Veneto 2.763, Campania 2.716, Lazio 2.608, Emilia Romagna 2.430.

Un nuovo studio della Rete trapianti del Servizio sanitario nazionale, pubblicata dalla rivista Transplantation, potrebbe dare una spiegazione sul drammatico record lombardo e del Nord: “La ricerca suggerisce – spiegano gli autori – come la variante genetica Hla-Drb1*08, presente nel 6% della popolazione italiana e maggiormente frequente nelle regioni del Nord (9%) rispetto a quelle del Sud (3%), svolgerebbe meno bene di altre varianti Hla il ruolo di attivazione del sistema immunitario nel riconoscimento del coronavirus”.

Campania, il braccio di ferro con De Luca: “Ci chiuda il governo”

La Campania non si colora, resta momentaneamente gialla – a minore rischio di diffusione del virus – perché sospesa nel braccio di ferro tra il ministero della Salute di Roberto Speranza e il governatore Pd Vincenzo De Luca, che per opposte ragioni vorrebbero che sia l’altro a fare il primo passo verso l’imposizione di misure più restrittive sul territorio, ormai chieste a gran voce dall’unanimità dei soggetti in campo: amministratori locali (tra cui il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che ieri ha detto “che aspettiamo per misure più severe?”), le associazioni dei medici e degli infermieri, e persino 6.200 imprese del commercio che hanno chiesto un lockdown subito “per salvare il Natale”. E questo accade nel giorno in cui il virus qui pare avere leggermente rallentato la corsa, ieri 2716 positivi su 14.290 tamponi e 18 decessi, martedì scorso furono 2971 con 13.801 tamponi e 24 decessi, i posti occupati di terapia intensiva saliti di appena due unità a 173 (sui 590 complessivi) e 2061 degenze Covid (più 112 rispetto al giorno prima).

La curva pare stabilizzarsi, forse merito delle prime misure di chiusura delle scuole e coprifuoco imposte da De Luca in anticipo sui dpcm di Conte, anche se peggiorano i dati dei guariti (790 rispetto ai 998 di martedì 3 novembre) e dei sintomatici, ieri 412, sette giorni prima solo 101. Proprio sui dati dei sintomatici, o meglio, degli asintomatici, si concentrano alcuni dei dubbi sulla qualità dei dati trasmessi dalla Campania al governo: nei 7 giorni dal 25 al 31 ottobre la Campania ha registrato 19.717 contagi, di cui ben 18.676 asintomatici, nei 7 giorni dal 1 novembre al 7 novembre i positivi sono stati 26.578 di cui 24.889 asintomatici. Percentuali del 93 e 94%, molto più alte della media nazionale. Come si spiegano? “Riteniamo validi i dati della Campania, ma sono in atto approfondimenti per cogliere aspetti che potrebbero completare una analisi che è in corso” ha detto ieri Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Frase a doppia lettura, se unita alla notizia che ieri i tecnici di Speranza si sono fiondati a Napoli per trovare una risposta alle evidenti contraddizioni tra i bollettini che segnalano disponibilità sufficienti di posti letto e di terapia intensiva – aumentati considerevolmente nella notte tra il 4 e il 5 novembre, alla vigilia delle decisioni di Speranza sull’attribuzione dei colori alle Regioni – e le file lunghissime di auto e ambulanze davanti ai pronto soccorso del Cardarelli, dell’ospedale del Mare, del Cotugno, piene di malati che non riescono ad accedere in tempi ragionevoli alle cure. Sono gli ospedali in cui ieri sono arrivati gli ispettori del ministero della Salute, guidati dalla dottoressa Maria Grazia Laganà, accompagnati dai carabinieri del Nas . Ispettori e carabinieri hanno visitato i reparti ospedalieri, parlato coi medici, raccolto documentazione. Tutto finirà in una relazione all’attenzione del dipartimento Programmazione.

Ma la questione è soprattutto politica. Speranza auspicava che De Luca gli togliesse le castagne dal fuoco, autoadottando lockdown mirati tra Napoli e Caserta, senza aggravare la situazione di una intera regione per la quale è complicato, per usare un eufemismo, gestire l’ordine pubblico. Ma De Luca non ci pensa proprio: sta rivendendo la ‘zona gialla’ come un successo personale, la dimostrazione che la sanità campana tiene, non è il disastro di cui tutti parlano. In serata ha diramato una nota per ribadire il concetto: “La collocazione di fascia della Campania è già stata decisa ieri (l’altro ieri per chi legge, ndr), a fronte della piena rispondenza dei nostri dati a quanto previsto dai criteri oggettivi fissati dal ministero della Salute. Ho sollecitato io un’operazione trasparenza, pubblica e in tutte le direzioni, per eliminare ogni zona d’ombra, anche fittizia. Dunque non c’è più nulla da decidere e da attendere”. Il cerino acceso torna al governo.

Quattro Regioni quasi in “rosso”. Report locali: i conti non tornano

Quattro Regioni sono già nello scenario 4, che secondo il documento dell’Istituto superiore di sanità si apre quando Rt, il tasso di riproduzione del virus, supera “sistematicamente” 1,5, cioè una persona infetta ne contagia in media una e mezza. Però sono “gialle”. Campania, Emilia-Romagna, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Erano “rosse” in una mappa presentata lunedì sera al Comitato tecnico scientifico. E Trento arancione. Però restano “gialle”, perché la valutazione di rischio complessiva della “Cabina di regia” è “moderata con probabilità alta di rischio alto”. Non ancora “alta”.

Ci sono virtù incredibili delle Regioni italiane nel report settimanale fino al 1°novembre che ha portato Bolzano in “zona rossa” e Liguria, Toscana, Abruzzo e Basilicata in “arancione”. Per esempio non è vero che il tracciamento dei contatti è saltato: al parametro 2.6 (“numero di casi confermati per cui sia stata effettuata una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale dei nuovi casi”) otto Regioni hanno risposto: 100%. Sono Basilicata, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Molise, Bolzano, Trento. Altre poco sotto: Campania 96,6 per cento, Sardegna 98,5, Lazio 97,6, Umbria 95, Puglia 92. Naturalmente il tracciamento in molti casi è un elenco frettoloso di contatti e qualche telefonata, ma anche questo è difficile visti i numeri. Il Veneto dichiara aver fatto un’indagine epidemiologica per 29.671 positivi, appena il 90%, “in crescita” rispetto a settimana prima. Capirai era il bollettino su cui si sarebbero decise le chiusure. Tracciare i contatti vuol dire cercare dieci persone per ciascuno. Foss’anche in un mese, sarebbero 290 mila telefonate con 1.390 addetti che ovviamente non fanno solo quello. La Campania 50.261, cioè mezzo milione di telefonate non si sa con quanti addetti . Il Lazio 18.993, quasi 200 mila telefonate con mille addetti La Lombardia ne dichiara 59 mila che è solo il 60 per cento. Onesta, dicono al ministero della Salute, la Liguria: contatti tracciati solo per il 44,5% dei positivi, cioè 4.510: 45 mila telefonate con con 276 addetti. La Toscana si ferma al 39,9%, comunque sotto soglia (60%).

Altri dubbi sorgono leggendo che le Regioni hanno indicato la data di inizio sintomi, necessaria al calcolo di Rt, per un numero di casi (ovviamente sintomatici) che arriva al 100 per cento in Emilia-Romagna, a Trento e in Toscana e lo sfiora nelle Marche (99,9 contro il 67,2 della settimana precedente), ancora in Campania (97,7 contro 63,9), Abruzzo (91,9 contro 32,2), Umbria (87,8 contro 62,4). Il Lazio è a 92,2 ma era già a 91,9, la Lombardia a 70 contro 64,7, Liguria a 65,5 contro 49,4. Solo la Sardegna scende, da 73,1 a 62,67. La Basilicata ha fatto un balzo poderoso dal 7 al 56,3%, pur sempre sotto la soglia. Con gli stessi 314 addetti. Non è bastato a evitare l’“arancione”.

Altri numeri, nel report, giustificano le scelte della Cabina di regia e del ministro Roberto Speranza. L’aumento esponenziale dei contagi in Abruzzo e Basilicata con Rt che salta rispettivamente da 1,13 a 1,51 e da 0,83 a 1,73, forse proprio perché si sono ricordati di indicare la data di inizio sintomi. La Toscana ha visto i casi aumentare dell’80%, i tamponi positivi passare dal 12,9 al 22,3%, Rt è a 1,41 (da 1,19) e “dichiara alta trasmissione diffusa non gestibile in modo efficace con misure locali”. Come la Liguria, per la quale si segnala il “sovraccarico in aree mediche ed evidenza di nuovi focolai in Rsa/case di riposo/ospedali”, Rt a 1,37 come la settimana precedente (1,35), il continuo aumento del rapporto positivi/tamponi (dal 16,6 al 18 per cento). Del resto gli ospedali scoppiano in quasi tutto il Paese, dove non scoppiano si prevede che scoppieranno. Col prossimo monitoraggio, venerdì, si rischiano nuove zone “rosse” se non il lockdown. Emilia-Romagna, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, che erano a un passo dal diventare “rosse”, annunciano misure locali. La Campania si vedrà. Il monitoraggio sarebbe meglio affidarlo a un minor numero di criteri, sperando che le Regioni ce la facciano.

Il Cazzaro Bianco

Tutto è relativo. Infatti è bastata la sola esistenza in vita di Donald Trump per trasformare Joe Biden nel nuovo Abramo Lincoln e la vice Kamala Harris (vedi pagina 14) nella versione femminile di Martin Luther King. Ma, per evitare sorprese in futuro, è bene conservare un pizzico di memoria sul passato. Tre anni fa La Stampa ancora diretta dallo yankee Molinari era impegnatissima a dimostrare che Putin truccava le elezioni in tutto il mondo, convincendo a colpi di hacker, troll e fake news centinaia di milioni di abitanti del pianeta a votare i cattivi sovranisti al posto dei soliti buoni. E titolò tutta giuliva: “Biden: ‘Così il Cremlino interferì nel referendum italiano. Mosca sostiene Lega e M5S’”. Ecco perchè l’Innominabile aveva perso il referendum e Palazzo Chigi: non perché la sua riforma e il suo governo facessero pena ai più, ma perchè l’aveva deciso Vladimir. Che aveva già telecomandato l’elezione di Trump, il voto sulla Brexit e non solo. L’articolo di Biden sulla rivista Foreign Affairs, anticipato da La Stampa, svelava il fallito tentativo di pilotare le elezioni francesi del 2017 e “passi simili per influenzare le campagne politiche in vari Paesi Ue: i referendum in Olanda (integrazione dell’Ucraina in Europa), in Italia e in Spagna (secessione catalana)”.

Il fatto che Referenzum si fosse tenuto sei mesi prima delle Presidenziali francesi, era solo un dettaglio. Del resto all’epoca il vecchio Joe era considerato in patria un buontempone specializzato in gaffe: appena apriva bocca perdeva una preziosa occasione per tacere. Tipo quando aveva definito Obama “un nero pulito in grado di parlare in modo articolato” e sostenuto che in America “il 47% dei poveri sono scansafatiche”. Infatti lo presero sul serio giusto l’Innominabile e La Stampa, nella speranza che gli italiani abboccassero al suo allarme sullo “sforzo russo per sostenere il movimento nazionalista della Lega Nord e quello populista dei 5 Stelle alle prossime elezioni”. A colpi di fake news e persino di “corruzione” (il cazzaro non specificava di chi). Nessuno spiegò perché mai lo zio Vlady avrebbe dovuto scaricare i suoi amici italiani, cioè B. (che gli aveva appena regalato un copripiumone per il compleanno) e l’Innominabile (che si era opposto alle nuove sanzioni anti-Russia chieste da mezza Ue). Poi si sa come andò: Putin convinse 10,7 milioni di italiani che era ora di rottamare il renzismo votando 5Stelle e altri 5,7 a pensionare B. votando Salvini, come se non ci fossero già arrivati da soli. Ora si attendono lumi da Biden e dalle sue cheerleader italiote sulle ultime presidenziali: com’è che ha vinto lui ed è il presidente più votato di sempre? S’è alleato coi russi o, niente niente, Putin s’è distratto un attimo?

“Las Meninas”: Madrid si divide tra puristi e non di Velázquez

Oltre alla pandemia, gli zombie. Come se non bastassero le crisi sanitaria, quella di cinema e teatri, le tante gallerie di Madrid che chiudono i battenti, o il silenzio che si è impossessato della Capitale più insonne d’Europa. Nell’atmosfera da giudizio finale, sole si moltiplicano per la città le statue giganti de las meninas, idealmente resuscitate dall’opera di Diego Velázquez e rivisitate da artisti contemporanei nonché emergenti. A guardia degli “zombie”, così soprannominati dallo scrittore ed editorialista del Pais, Antonio Muñoz Molina, ne sorge una, nella piazza della destra per antonomasia, plaza Colon, alta 10 metri per 1.300 chili di alluminio, tutta tempestata di paillettes e una enorme palla d’argento corredata di diamanti di plastica disegnata dal designer di moda Andrés Sardá, “principale addobbo natalizio” della città, a detta del sindaco di Madrid, José Luis Martínez-Almeida. “Orrore”, “altro che arte, sono pagliacci”, scrive Antonio Muñoz Molina. Ma lo scrittore non è l’unico a giudicare la trovata della Madrid Meninas Gallery che va avanti ormai da tre anni, un affronto all’arte, specie quest’autunno con zero turisti per strada, le luci dei locali spente dalla mezzanotte e pochissimi madrileni in giro. Chi dovrebbe godere di queste installazioni? Si chiede l’account Instagram che porta avanti la campagna #stopmeninas . “Portano allegria per strada e hanno fatto il giro del mondo”, risponde Antonio Azzato, l’ingegnere venezuelano che ha inventato questa iniziativa e che ha firmato sei delle 40 meninas sparse per la città e disegnate da altrettanti designer come Ágatha Ruiz de la Prada e artisti come Guillermo J. Bueno, Tatinio, Ana Jarén o Laura Torrico.

Per i detrattori dell’iniziativa, questi nomi sottolineerebbero soltanto la “banalità” del progetto e soprattutto il suo aspetto commerciale. Già l’ex sindaca Manuela Carmena, infatti, aveva appoggiato Azzato concedendogli il suolo pubblico gratis perché “entusiasta dalla possibilità che las meninas giganti potessero diventare le nuove icone di Madrid”, ha raccontato l’ingegnere venezuelano. Resta il fatto che il maggiore sponsor è Acotex, associazione delle aziende tessili spagnole – motivo per cui non manca mai la Menina Acotex – ma tra i finanziatori ci sono anche Volvo o Xiaomi, solo per fare dei nomi. Certo, il fine è benefico: il 70% del ricavato delle statue che si battono all’asta quest’anno andrà al Banco alimentare. Ma non mancano le provocazioni pur di non vedere più le gigantografie rivisitate del quadro più riprodotto al mondo. “E se doniamo noi il corrispettivo dell’asta e togliete las meninas dalle strade?” propone un importante gallerista.

Addii, acciacchi ed età adulta. Ma lo stile AC/DC resta intatto

Aveva 32 anni, due figli, un matrimonio naufragato e un mutuo. Gli restavano solo poche migliaia di sterline per aprire un’autofficina. Ma Brian, tosto come gli uomini delle Midlands, figlio di un inglese e di Ester De Luca, italiana di Rocca di Papa (che durante la guerra nascondeva i soldati alleati per salvarli dai nazisti) confidava che la sua buona stella non si fosse già spenta nel momento in cui aveva sciolto i Geordie. Aveva ragione. Un giorno la chiamò l’assistente di una band australiana, convocandolo per un provino a Londra. Brian strappò il nome alla reticente interlocutrice: “Ok, le iniziali sono A C D e C”. Lui si attaccò alla bottiglia di whisky comprata per il compleanno del padre. A segnalarlo era stato, tempo addietro, Bon Scott, che lo aveva visto in un pub scozzese alle prese con una formidabile imitazione di Little Richard. “Bon non sapeva”, raccontò Brian Johnson, “che quella sera avevo urlato come un’aquila per un attacco di appendicite”. Uno struggente passaggio di consegne, quello tra i due vocalist della storia degli AC/DC, per giunta postumo. Johnson era stato infatti ingaggiato, nella primavera del 1980, perché il 19 febbraio di quell’anno Scott era stato trovato morto dentro una Renault 5 in una strada buia di East Dulwich, periferia londinese. Overdose. I soccorsi erano arrivati troppo tardi. Lo avevano abbandonato agonizzante in macchina: “Pensavamo dormisse”, si giustificò chi era stato con lui quella notte. Così toccò a Brian, il meccanico con la coppola, faccia da proletario e non da tossico emaciato, prenderne il posto. Due settimane dopo il provino era alle Bahamas a registrare Back in black, uno dei dischi decisivi della mitologia rock. Decenni dopo, il ritorno degli AC/DC con il nuovo Power up (il diciassettesimo album di una band che dagli esordi ha venduto più di 70 milioni di copie) racconta una storia di sopravvivenza, con il cuore da buttare a ogni costo oltre l’ostacolo, confidando nella formula da comfort zone di un hard rock semplice e potentissimo, esaltante e tosto, agli antipodi da ogni possibile malinconia per la vecchiaia che martella gli eroi, con i loro sodali lasciati per strada dalla sorte. Perché anche in questi ultimi anni gli AC/DC ne hanno vissute di ogni sorta, ma sono ancora lì.

Prendete Brian: quattro anni fa, nel bel mezzo di un tour di portata galattica, i medici lo costringono a rientrare ai box per una perdita d’udito ormai incontrollabile. Il volume assordante degli amplificatori? “Macché”, rifletteva Johnson, “è stato il rombo dei bolidi attorno a me durante le gare automobilistiche a cui partecipo”. Come fosse, occorreva un sostituto all’altezza. Dopo una serie di audizioni vip (fu testato anche Nic Cester, allora frontman dei Jet) la scelta ricadde su Axl Rose, che degli AC/DC era stato fan della prima ora. Un ingaggio pro-tempore, tra i mugugni dei fans e la certezza, certificata dal leader Angus Young, che “grazie Axl, ma l’esperimento non si ripeterà più”. Meglio aspettare il ritorno di Johnson, e ributtare dentro Phil Rudd, il batterista che aveva passato la sua dose di guai per un’accusa di tentato omicidio. E poi nel 2017 la scomparsa del chitarrista Malcom Young, che con il fratello Angus aveva riempito i cassetti di centinaia di riff al vetriolo, “e con alcuni di questi abbiamo confezionato Power up”, ha spiegato il sopravvissuto. “Potremmo realizzare altri dieci album con i lasciti di Malcolm”. Che se ne era andato all’altro mondo dopo un’infruttuosa battaglia contro la demenza e un cancro ai polmoni. Al suo posto, nella gestione familistica degli AC/DC, era subentrato il nipote Stevie Young. Ed eccoli qui adesso, Angus e i suoi, alle prese con un tempo bastardo da attraversare senza mai rallentare né voltarsi indietro, con il suono a manetta: questo è il senso del dinamitardo Power up, dodici brani che ti rapiscono al primo accordo proprio perché li riconosci come se fossero parte del tuo intimo sentire. L’hard rock meno sperimentale e più sincero in circolazione. Proposto da giganti acciaccati, ma tonici e cazzuti come troppi pseudo-artisti imberbi non sapranno mai diventare.

Il malato immaginario di genio. “Vite di ipocondriaci illustri”

Charles gira per casa su una rudimentale carrozzella per non affaticarsi, Marcel pretende in bagno non meno di 25 asciugamani puliti al giorno, mentre Glenn, “scocciato dalla necessità di mangiare”, si nutre solo di biscotti. Darwin, Proust e Gould sono solo un terzo degli svalvolati protagonisti del saggio di Brian Dillon, in uscita giovedì con il Saggiatore: Vite di nove ipocondriaci eccellenti, più uno in appendice (Michael Jackson).

“Essere innamorati della propria malattia”; così Freud definisce il temperamento ipocondriaco, un’inclinazione, appunto, più che una patologia, individuata sin dall’antichità: per Ippocrate l’ipocondrio è situato appena sotto la gabbia toracica. Alla sensibilità ipocondriaca si associa, comunque, una lunga serie di disturbi, psichiatrici e non, dall’alito cattivo alla melancolia, dall’ansia alla depressione, dalla stipsi all’esaurimento nervoso… una congerie di mali difficilmente classificabili. Qui Dillon si ferma a una cernita di nove malati immaginari di genio, tralasciandone altri (come Dostoevskij e la Dickinson), ma citando alcuni personaggi di finzione, quali l’Usher di Poe e il Des Esseintes di Huysmans…

Marcel Proust si sveglia alle 16, o alle 18, e fa una colazione meticolosa: “Un caffè a infusione lenta, molto forte, in un doppio bollitore e due tazze” e un croissant, più uno sempre disponibile in cucina. La sua è una “personalità sensibile, nevrastenica”, peggiorata dall’asma che, all’epoca, “è considerata una forma di nevrosi ereditaria tipica della classe agiata”. Come bizzarro rimedio, vive recluso in stanza, tra la polvere e i fumi dell’oppio, ma è ossessionato dagli odori (nessun ospite può portare fiori o usare il profumo). È altrettanto puntiglioso con gli asciugamani, 20-25 al giorno: “Mia cara”, spiega alla cameriera, “un asciugamano usato due volte si inumidisce troppo e mi screpola la pelle”. In compenso, butta via le medicine prescrittegli e, verso la fine della vita, è in grado di nutrirsi solo di birra gelata. Schizzinoso è pure Glenn Gould, che odia essere toccato (nemmeno con una stretta di mano) per paura dei germi e dei traumi, tanto da denunciare un tecnico, che gli ha poggiato una mano sulla spalla, chiedendo 300 mila dollari di danni per “infortunio alla radice nervosa del collo”. Preoccupato di prendere freddo persino in estate, odia l’aria condizionata, gli aerei e i luoghi affollati. Si nutre di biscotti e sogna di pasteggiare a pillole, “scocciato com’è dalla necessità di mangiare”. Al contrario, ha una conoscenza enciclopedica dei farmaci e si cura da sé: barbiturici, tranquillanti, pillole per l’ipertensione, il mal di testa, la gotta e la costipazione, antibiotici à gogo, vitamina C, caffeina e codeina. Solo suonare lo cheta perché è una “esperienza uterina”.

Andy Warhol si ritrova in un “corpo cattivo” e malato sin da bambino (ballo di San Vito, febbre reumatica, itterizia…): gira con trucco e parrucco e un corsetto per sembrare più bello; è ossessionato dall’aspetto fisico, lui così macilento, senza capelli e brufoloso. La pelle “a macchie” – dice – l’ha presa come un virus per strada, incrociando una “donna bicolore”. Terrorizzato da medici e ospedali – che paragona a lager –, si affida a strani guru e cure, come quella dei cristalli intorno al collo. Alla modica cifra di 75 dollari a visita. “In un certo senso, per Warhol, tutte le malattie sono magiche”. Pur essendo uomo di scienza, anche Charles Darwin ha qualche problema psico-magico: si fabbrica una rudimentale sedia a rotelle con cui gira per casa; è sempre stanco e malaticcio, “apatico e inquieto”; soffre di una “sensibilità penosa” e gli costa fatica apparire in pubblico, persino al matrimonio della figlia. Conduce una dieta a base di vino e spezie, biscotti e uvetta, menta piperita e laudano (oppio). Difficile immaginarsi che non abbia almeno la gastrite. La sua fortuna, però, è sposare una crocerossina, la cugina Emma Wedgwood, altrettanto fusa: “Se sapeste come desidero stare con voi quando siete malato!”.

Sfilano, poi, ipocondriaci meno noti, come lo scrittore scozzese James Boswell (1740-1795), “un insetto” che per tutta la vita “ha tormentato se stesso”, pigro, dissoluto e spaventato dal biliardo (!), o l’infermiera di guerra Florence Nightingale (1820-1910), passata da eroina da campo a “Madonna di gesso”, lo spettro di se stessa, passivo-aggressiva e nevrastenica. Se l’uomo è etichettato come ipocondriaco, la donna è semplicemente isterica, anche se entrambi sono prede degli stessi demoni, sofferenze e spleen. È il caso di Charlotte Brontë: “Temperamento in prevalenza nervoso. Cervello grosso… tende ad avere una visione delle cose più pessimista rispetto a quanto giustificato dai fatti”. Morbosa, vive una vita parallela e fittizia, ha visioni, irrequietezza, fragilità, sensibilità, “incapacità di dispensare quanto ricevere piacere”. La malattia è però il sale della sua opera, il motore della creatività, tanto che la stessa Jane (Eyre), “sovreccitata o sovraffaticata”, le fa da specchio. Altra “sorella di” sofferente è Alice James, parente di Henry e William: le viene diagnosticata una buffa “gotta allo stomaco”, quando lei dice di “esplodere” e “fare la pazza”. Pazzo vero è Daniel Paul Schreber, autore nel 1903 di Memorie di un malato di nervi, poi ripreso da Freud in Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia: il giurista soffre di allucinazioni, tic e tremori. Crede che il suo corpo si stia trasformando in femmina e vagheggia su “come è bello essere una donna che soggiace alla copula”. Si sente sempre fuori posto, non solo nella sua pelle: la sua “anima è racchiusa nei nervi” e lui, per tutta la vita, in un manicomio.

Dé il Vernacoliere! La voce irriverente rischia il silenzio

Le locandine sulla mafia che “si dissocia dallo Stato”, le vignette con Matteo Salvini che dialoga con il coronavirus al grido di “prima gli italiani!” (“mo’ me lo segno” la risposta) fino alle intemerate politicamente scorrette contro i preti, i soldi e il potere. E ovviamente contro i pisani, i principali obiettivi di ogni livornese che si rispetti (“Primi effetti delle radiazioni: è nato un pisano furbo”). Il Vernacoliere, storico mensile di satira labronica conosciuto in tutta Italia, ha raccontato dal suo piccolo angolo di mondo 60 anni di storia italiana. Ma tra poche settimane rischia di non arrivare più nelle edicole: nei giorni scorsi il direttore “libertario e anarchico” Mario Cardinali ha lanciato un accorato appello ai propri lettori perché “si frughino” (in livornese, spendano) per abbonarsi “perché oggi vendiamo 10/15 mila copie ma per reggere abbiamo bisogno di 5 mila abbonamenti”. Altrimenti? Il direttore del mensile non usa mai la parola “chiusura” ma non ci gira troppo intorno: “Dé – esordisce in pieno dialetto labronico – rischiamo di non farcela, la crisi del Coronavirus ha dato il colpo di grazia alle edicole. Ovunque, sui social, in rete e per la strada, ci dicono che siamo ganzi (forti, ndr) ma poi si devono frugare perché se no non reggiamo”. Quindi si sono mobilitati in tanti dal sindaco di Livorno Luca Salvetti al calciatore Alessandro Diamanti dall’Australia fino a Vauro.

D’altronde Cardinali, quando parla della sua creatura, non sembra certo uno che vuole mollare: “Oggi si pensa che per fare satira bastino due battute sui social ma non è così – spiega il direttore – dietro alle nostre locandine c’è sempre un contenuto e un pensiero critico”. E allora, sì che c’è ancora bisogno del Vernacoliere: “Un tempo la satira aiutava la coscienza di classe, le rivendicazioni popolari contro il potere. Ma oggi non è finita: c’è sempre più bisogno di mettere il re in mutande”. E da qui nascono le locandine contro Salvini “abbandonato da Dio” dopo la sconfitta delle elezioni regionali, contro Silvio Berlusconi che da premier si sentiva “eletto da Dio” (e allora “Dio è comunista?” si chiedeva Cardinali dopo le sue dimissioni) o sul Renzi padrone dell’Italia dopo il 41% alle elezioni europee del 2014 (“Renzi, Renzi alalà!”): “Se nella Prima Repubblica i politici erano culturalmente preparati, oggi non è più così quindi è molto più facile fare satira: quando Salvini passa un’estate da ministro in spiaggia a bere mojito la presa per il culo viene da sola”, continua Cardinali.

Ma il Vernacoliere, considerato ormai un Charlie Hebdo italiano, non si risparmia sui temi più politicamente scorretti come la Chiesa (“Anche se io non sbeffeggio Dio o Gesù ma i preti”) ma anche il coronavirus a cui è dedicata l’ultima locandina: “Conte, lasciaci trombà! E’ rimasta l’urtima libertà!” si legge con riferimento al lockdown imminente. “Noi facciamo satira anche sul Coronavirus e sui suoi fenomeni indotti – continua il direttore del Vernacoliere – perché ci serve anche a smitizzare la paura. E questo perché siamo livornesi e nel nostro dna c’è la voglia di non prendersi mai troppo sul serio e di ‘perculare’ sempre tutto e tutti”, dice tra il serio e il faceto. L’importante per Cardinali però è mantenere sempre “la schiena dritta”: “Un giorno venne un pezzo grosso della Mondadori per chiedermi i diritti per stampare 300.000 agende del Vernacoliere – racconta il direttore – tirò fuori la Montblanc e il libretto degli assegni in bianco, ma io rifiutai anche se quei soldi ci avrebbero fatto comodo. La nostra libertà non è in vendita, né allora né oggi”.