Joe, McCain e i valori che uniscono

In questi giorni sono stati molti i tentativi di descrivere il “presidente eletto” Joe Biden, i suoi valori. Se è vero che nei momenti di sofferenza si vede il vero carattere di una persona, allora il discorso che Biden tenne il 30 agosto 2018 alla veglia funebre del senatore repubblicano John McCain, vale più di mille ritratti. Ecco alcuni passaggi.

“ll mio nome è Joe Biden. Sono un democratico. E ho voluto bene a John McCain. Ero un giovane senatore degli Stati Uniti. Sono stato eletto quando avevo 29 anni. È arrivato un ragazzo un paio d’anni dopo, un ragazzo che conoscevo, che ammiravo da lontano, che era stato prigioniero di guerra, che aveva sopportato un dolore e una sofferenza enormi. E ha dimostrato di avere un codice morale, il codice McCain. John divenne l’ufficiale di collegamento della Marina nel Senato degli Stati Uniti. Per qualche motivo sin dall’inizio ci siamo trovati d’accordo. Eravamo entrambi pieni di sogni e ambizioni e un desiderio travolgente di rendere prezioso il tempo da impiegare nel nostro ruolo. Per pensare a come potevamo migliorare le cose per il Paese che amavamo tanto. Ho portato John con me o John mi ha portato con lui. Siamo stati in Cina, Giappone, Russia, Germania, Francia, Inghilterra, Turchia, in tutto il mondo. E ci sedevamo su quell’aereo fino a tarda notte, quando tutti gli altri dormivano, e parlavamo. Parlavamo di famiglia, di politica, di relazioni internazionali, di futuro, il futuro dell’America. Veniva a casa mia e da qui è nata una grande amicizia che trascendeva le differenze politiche che avevamo o quelle sviluppate in seguito perché, soprattutto, avevamo capito la stessa cosa. Tutta la politica è personale. È tutta una questione di fiducia. La verità è che il codice di John era senza età, è senza età. Non si trattava di politica con John. Potevi essere in disaccordo sulla sostanza, ma i valori di fondo animavano tutto ciò che John faceva. La storia di John è una storia americana. Non è un’iperbole. Non sopportava l’abuso di potere, ovunque lo vedesse, in qualunque forma, in qualunque modo. Amava i valori fondamentali, l’equità, l’onestà, la dignità, il rispetto, il non dare all’odio un porto sicuro, non lasciare nessuno indietro e capire che gli americani facevano parte di qualcosa di molto più grande di noi. Entrambi amavamo il Senato. Ci siamo lamentati entrambi, vedendolo cambiare. Durante i lunghi dibattiti degli anni 80 e ‘90, mi sedevo accanto a John, accanto al suo posto, o veniva lui dalla parte democratica. Non sto scherzando. Ci sedevamo lì e parlavamo. Tutto ciò che facciamo oggi invece è attaccare le opposizioni, le loro motivazioni, non la sostanza delle loro argomentazioni. Una volta abbiamo ricevuto due prestigiosi premi per la nostra dignità e rispetto che ci siamo dimostrati l’un l’altro. Ha parlato per primo e, mentre scendeva dal palco e io salivo, ha detto, ‘Joe, non prenderla sul personale, ma non voglio sentire cosa diavolo hai da dire’, e se n’è andato. Credo che John credesse in noi. Penso che credesse nel popolo americano”.

Virus, 13 esperti per Biden Trump fa fuori i “traditori”

Nel giorno in cui la Pfizer annuncia progressi verso un vaccino anti-coronavirus, Joe Biden riunisce la sua squadra di esperti e scienziati e delinea la sua strategia contro la pandemia che ha già fatto, nell’Unione, oltre 10 milioni di contagi e quasi 238 mila vittime. Di contro, Trump resta asserragliato nella Casa Bianca e licenzia il capo del Pentagono, Mark Esper, a suo parere fra quei funzionari “traditori” che non lo hanno aiutato a vincere la sfida elettorale.

Diversi su tutto. Biden non nega il Covid, anzi dice: “Non dobbiamo abbassare la guardia”: quindi, mascherina, distanziamento, tracciamento. “Portare o meno la mascherina non è una scelta politica, è una misura preventiva”. C’è anche la talpa dei vaccini ‘licenziata’ da Trump nella squadra che Biden insedia: Rick Bright denunciò le pressioni del presidente per il ricorso all’idrossiclorochina nella terapia anti-coronavirus.

La task force anti-Covid è composta da 13 membri, fra cui tre co-presidenti: l’ex capo della Fda David Kessler, l’ex ‘chirurgo in capo’ Vivek Murty e la docente di Yale Marcella Nunez-Smith. Della squadra fa parte pure l’italo-americana Luciana Borio, una esperta in bio-difesa. Il team di Biden dovrà dialogare con la task force di Trump, che fa capo al suo vice Mike Pence e di cui fa parte il ‘virologo in capo’ Anthony Fauci. Anche Trump ‘festeggia’ l’annuncio sul vaccino con un tweet: “La Borsa va su, il vaccino arriverà presto, report sull’efficacia al 90%. Grande notizia!”. Ma il figlio Donald jr suggerisce un complotto di Big Pharma dietro i progressi del vaccino una settimana dopo le elezioni (e non prima). Il presidente resta focalizzato sull’obiettivo di rovesciare l’esito del voto per vie giudiziarie, anche se i legali lo avvertono che non hanno in mano briscole, ma scartine. Uno dei testi da loro citato è Daryl Brook, condannato nel 1990 per molestie su due bambine di 7 e 11 anni, più volte candidato alle elezioni nel New Jersey e mai eletto. I riti della democrazia americana prevedono che i due presidenti convivano – uno tuttora in carica, l’altro non ancora – per circa 75 giorni: è il tempo della transizione, che di solito è ‘smooth’, liscia, ma che stavolta s’annuncia ‘bumpy’, turbolenta. Una conferma: Emily Murphy, l’amministratore del General Services Administration, che gestisce gli edifici federali, non intende lasciare accedere negli uffici gli emissari di Biden, che dovrebbero iniziare a lavorare questa settimana.

Murphy, nominata da Trump nel 2017 deve firmare i documenti che permettono al ‘transition team’ l’accesso ai funzionari, ai locali e a milioni di dollari. Un intoppo senza precedenti, eccezion fatta per il 2000, quando ci vollero settimane per sapere chi aveva vinto le elezioni tra Al Gore e George W. Bush. Trump per ora non contempla di ammettere la sconfitta e prepara i comizi.

Il presidente è poco visibile in questi giorni, ma è pronto ad andare ai comizi per mobilitare la sua base: sarebbero già pronte le tappe in quegli Stati contesi – Georgia, Arizona, Pennsylvania – per evidenziare che le elezioni sono state truccate. Tra le prove che il suo staff asserisce di avere, anche i necrologi di americani che, morti da tempo, risulterebbero tra gli elettori che hanno votato. Nessuna prova concreta è stata portata finora alle Corti dei vari Stati, ma per Trump, in attesa di decidere cosa sia meglio per lui, l’importante è non abbassare i toni. In attesa, magari, dell’annuncio di una sua candidatura nel 2024.

Tesoro di Franco: gli eredi e il furto di quadri e statue alla “soliti ignoti”

Cinquanta camion colmi di opere d’arte e oggetti preziosi tra cui le statue di Abramo e Isacco che facevano parte del Portico della Gloria della Cattedrale di Santiago di Compostela. Sono stati beccati in flagrante gli eredi del dittatore spagnolo Francisco Franco mentre cercavano così di trafugare il tesoro di cui l’avo si era appropriato durante la dittatura, accumulandolo in parte nel Pazo de Meiras, la proprietà confiscata dallo Stato alla famiglia del caudillo dopo una lunga causa e che dovrà essere restituita agli spagnoli entro il 10 dicembre. A bloccare l’ennesima beffa allo Stato è stata ieri la giudice di La Coruna (Galizia), imponendo un inventario dei beni della tenuta e stabilendo così che potranno lasciare la casa solo previa autorizzazione del Tribunale. A modo esemplificativo la giudice ne ha elencati alcuni: “cristalleria, arazzi, mobili, quadri di Álvarez de Sotomayor y Zuloaga”, tanto perché sia chiara l’inestimabile fortuna presente nel Pazo, esso stesso di un valore fuori mercato, per quanto gli eredi avessero provato a venderlo per far cassa in una faida familiare per la spartizione dei beni del dittatore. L’esproprio per ora, è stato fermato, ma fuori dalla proprietà il governo Sanchez ha schierato la guardia civile. I nipoti del generalissimo che hanno fatto ricorso contro la sentenza di esproprio dell’immobile, infatti, sono convinti che questa non contempli la restituzione agli spagnoli del contenuto della tenuta, cosa che autorizzerebbe la famiglia a organizzare un trasloco di tutto ciò che si trova nel Pazo de Meiras. Il complesso monumentale costruito a fine Ottocento come rifugio letterario della scrittrice Emilia Pardo Bazán, di cui Franco si appropriò facendone il luogo di villeggiatura per 40 anni di dittatura, è il primo di una lunga lista di beni tornati allo Stato grazie alla causa intentata dal governo Sanchez.

Alle Finanze via il genero – Erdogan ora “suona” la lira

Anche in Turchia sembra, per ora, finita la stagione dei “generi” e non solo. Beyrat Albayrak, ministro delle Finanze, già titolare del dicastero dell’Energia, nonché genero del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, ha dovuto rassegnare le dimissioni. Il 42enne marito della primogenita di Erdogan come Jared Kushner, il genero-consigliere dell’ex presidente americano Trump, con il quale aveva stabilito un solido rapporto di collaborazione, è uscito dunque di scena.

Secondo gli analisti statunitensi la fuoriuscita dall’esecutivo di Albayrak potrebbe anche segnalare un riequilibrio da parte di Erdogan del governo in seguito all’elezione di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. I compiti di Albayrak comprendevano infatti i rapporti con la Casa Bianca grazie alla sua amicizia con Ivanka Trump e il marito Jared Kushner.

Albayrak e Kushner hanno mantenuto i contatti tramite WhatsApp dopo aver gestito negli anni una comunicazione informale tra Trump ed Erdogan che ha aggirato il protocollo ufficiale e ha contribuito a far ottenere ad Albayrak un incontro con Trump nello studio ovale avvenuto l’anno scorso. Il motivo reale delle dimissioni di Albayrak non è costituito da problemi di salute – come da lui annunciato via Instagram – bensì dal tentativo del Sultano di salvare la moneta e l’economia turca in contrazione sempre più severa da un paio di anni. Basti constatare che l’inflazione ha raggiunto le due cifre (quasi il 12%) e il tasso di disoccupazione è in ascesa anche a causa della seconda ondata di Covid che ha travolto anche la Turchia.

Sabato scorso, l’ennesimo scivolone della lira e il caos finanziario in cui è sprofondato il Paese ha dato la scusa al presidente di far rotolare anche un’altra testa: quella del governatore della Banca Centrale Turca, Murat Uysal. Una mossa che per ora sembra aver ridato fiato alla valuta, quest’anno scesa a -30% sul dollaro. Uysal è stato sostituito con un fedelissimo di Erdogan, Naci Agbal, già ministro delle Finanze dal 2015 al 2018, quando Albayrak era ministro dell’Energia (accusato dal presidente russo Putin di acquistare petrolio dall’Isis). L’ex governatore è rimasto in carica solo 16 mesi dopo aver sostituito il governatore Murat Centinkaya, anch’esso licenziato dal capo dello Stato per avere osato alzare i tassi d’interesse, misura invisa a Erdogan. I mercati tuttavia non hanno letto queste continue sostituzioni in modo positivo e il fatto che dopo l’annuncio della nomina di Agbal la lira turca si sia ripresa del 5,3% non significa che il peggio sia passato. Gli investitori stranieri pur sapendo che il nuovo governatore è competente, ritengono l’ingerenza di Erdogan nelle dinamiche della Banca centrale turca, un’istituzione teoricamente indipendente dall’esecutivo, troppo rischiose. Con il terremoto della scorsa settimana che ha colpito Smirne è inoltre riemerso il deficit strutturale di molte aree cruciali del Paese. Il nuovo governatore ha esordito dichiarando che il suo principale obiettivo sarà la lotta all’inflazione e ha promesso maggiore “trasparenza, responsabilità e prevedibilità”. Chiunque conosca il modo di governare di Erdogan sa che quella del governatore però è un’illusione. Il Sultano ha definito “triangolo del diavolo” la congiuntura in cui si trova la Turchia riferendosi ai tassi d’interesse, tassi di cambio e inflazione.

Intanto non è stato ancora annunciato il sostituto di Albayrak, licenziato molto probabilmente per dare un segnale ai mercati dato che è stato anch’egli un forte oppositore della stretta monetaria. Contro le aspettative dei mercati il mese scorso aveva lasciati invariati i tassi di interesse alimentando la speculazione contro la lira e danneggiando, di conseguenza, il rendimento delle obbligazioni di stato turche. Oggi il rendimento a 10 anni si attesta al 14,22%, quello a 2 anni al 15,37%. Senza un recupero di credibilità dell’istituto, il cambio continuerà a deprezzarsi e finché ciò accadrà, la domanda di bond resterà inferiore all’offerta. Un fatto è certo: Erdogan continuerà a dare la colpa al “diavolo” e a spendere i soldi pubblici per finanziare la sua agenda estera aggressiva nel tentativo di ricattare l’Europa per ottenere investimenti e aumentare l’esportazione. Ma non è detto che questa volta i Paesi vicini e i turchi sempre più impoveriti lo seguiranno. I mercati non hanno più fiducia in lui da ormai due anni, cioè dalla svolta autoritaria.

Camminare sull’acqua con il coprifuoco

Parecchi anni fa, o forse farei meglio a scrivere troppi anni fa, ricevetti un’indimenticabile, contemporanea lezione di vita e poesia che ha segnato il mio modo di mettermi in relazione con gli altri. Fu lo stesso soggetto a impartirmi entrambe le cose. Di professione spazzino (gli operatori ecologici non erano ancora stati partoriti), di minimale scolarità e suppongo di ben poche letture: limiti, se mai lo sono, che non gli impedivano di tenere rapporti di amicizia tra i quali anche quella col sottoscritto. Mi piaceva, quando lo incontravo, intrattenermi con lui per chiacchierare, un po’ anche perché disponeva di un immaginifico vocabolario in cui il vernacolo e l’italiano si coniugavano, matrimonialmente parlando, dando poi alla luce dei veri e propri pezzi unici. Aveva casa in una delle tante frazioni del paese e come d’abitudine per molti che ne condividevano gli anni in cui era nato, benché spazzino non aveva tralasciato il lavoro dei campi, la vigna, l’orto. Ebbene, il giorno in cui mi folgorò con le due, al prezzo di una, citate lezioni fu quando mi espose la nostalgia per i tempi che stavano cambiando, allontanando molti da quella terra che per secoli era stata lavorata e che ora invece sarebbe stata abbandonata a se stessa. L’afflato con cui mi descrisse la gioia che lo pervadeva quando si svegliava all’alba per scendere in paese a ripulire strade e contrade, incontrando via via, lungo la mulattiera, presso questa o quella stalla qualcuno già al lavoro con cui fermarsi a cacciare quattro balle sul tempo, la stagione, si scontrava adesso col disincanto di dover percorrere quella stessa strada senza più alcuna sosta, visto che le stalle della sua gioventù non avevano trovato eredi in grado di mantenerle vive. Al punto che se, prima, l’idea di quella passeggiata antelucana lo spingeva a scendere cantando, ora aveva smesso visto che il suo canterino buongiorno non aveva più orecchie in cui riversarsi. Fu uno sfogo se si vuole, in cui però intravidi chiaramente una sensibilità d’animo capace di tradurre in poesia dei sentimenti, pur se vocabolari e libri di testo non erano certo stati il pane quotidiano del mio interlocutore.

Così, a volte, nascosto sta il sentire l’essenza della vita, protetto dalle rughe e dalle mani callose di un essere umano che si vorrebbe far passare per semplice. Lezione magistrale, che mi rese ancora più caro quell’amico. Ora, se mi è presa la voglia di riassumere il fatto (il senso lo tengo sempre ben presente), è perché qualche sera fa mi sono trovato a discorrere con un pescatore. Non uno qualunque. Un “pescatore in deroga” piuttosto, come lui stesso ha specificato, chiarendo che, stante il professionismo, è tra i pochi che possono permettersi di muoversi liberamente dopo le ore ventidue. Una libertà che gli permette di portare a casa la pagnotta quotidiana ma che anche l’ha messo in contatto con un altro mondo. Quello buio del silenzio della notte, un fenomeno quasi fisico visto che ben pochi sono i rumori che possono permettersi di disobbedire al coprifuoco. Non scevro, ha aggiunto, da una certa inquietudine stante l’assenza di luci dei nottambuli automuniti che, nonostante sia in mezzo al lago, l’aiutano a confermarsi di essere pur sempre uomo di terra.

Certo ci sono di tanto in tanto quelle blu dei lampeggianti che svolgono controlli e che gli sembrano inviate apposta per lui, a indicargli che quella riva da cui è partito è sempre lì, lo aspetta, non deve aver timore. Visto che lo conosco da tempo e che da tempo so che va per lago a calare e ritirare reti, mi sono permesso di fargli notare che lo ritenevo tetragono a certe suggestioni. Anche lui lo credeva, mi risponde il “pescatore in deroga”. Pensava che quel mondo che è il suo terreno di lavoro non avesse ormai più alcun segreto per lui, che fosse in grado di dominarlo anche nelle condizioni più difficili. Ma ciò che sta capitando da qualche mese a questa parte ha tranciato le sue convinzioni agendo come un bisturi, restituendo al lago il primato di essere padrone di se stesso. Ragione per la quale ogni volta che esce “in deroga” sente il bisogno di chiedere permesso, come se entrasse in una casa d’altri.

Poi si fa serio, è sera, si avvicina l’ora di andare a preparare tutto ciò che occorre per l’uscita. Ma non si decide a partire perché ha ancora una cosuccia da dire. Cosa incredibile, da confessare solo a qualcuno di fidato. O meglio ancora sarebbe fargliela vivere in modo che un’esperienza simile non passi quale frutto di una mente disturbata. Siamo un po’ tutti disturbati in questi giorni, faccio notare. Se ti dicessi, confessa allora il “pescatore in deroga”, che l’altra notte ho avuto la certezza che, se solo avessi voluto, sarei riuscito a camminare sull’acqua? Poi, più che ridere, sorride, e guarda il lago.

Ci si vede domani, mi dice infine a mo’ di saluto. Vuol dire, concludo tra me e me, che almeno per quella notte non ha intenzione di tentare ciò che, a quanto si narra, solo a uno è riuscito fare. Però prima di prendere la via di casa mi fermo a guardare un po’ la superficie piatta, scura e invitante del lago. Potrebbe capitare anche a me di avere simili tentazioni se fossi nelle sue stesse condizioni? E no, mi rispondo. Non sono pescatore e men che meno “in deroga”. Ma permeabile ai segnali di un mondo che sembra destinato a cambiare, sì. E allora, forse, chissà…

 

The Donald non è matto, ma un uomo pericoloso

L’esercizio di diagnosi psichiatriche a distanza è ripreso a pieno ritmo dacché Donald Trump, a urne ancora aperte, si è messo a twittare: “Ho vinto queste elezioni, e di molto”. Dichiarandosi vittima di una macchinazione pianificata addirittura con milioni di schede false, senza riscontro alcuno.

Anche in Italia non sono mancate interpretazioni di autorevoli esperti sul delirio di onnipotenza da cui sarebbe afflitto l’inquilino che si rifiuta di sloggiare dalla Casa Bianca. Lo scrittore Gianrico Carofiglio, sul Domani, chiama in causa gli specialisti di salute mentale per sostenere che Trump crederebbe sul serio di avere vinto, in quanto affetto da una sindrome che lo induce a adattare la realtà a una visione grandiosa di sé. Lo psicanalista Massimo Recalcati, su La Stampa, ricorre alla categoria classica della ferita narcisistica: Trump rincorrerebbe affannosamente l’immagine ideale di se stesso nello specchio del suo narcisismo. Ammetto di non avere competenze in merito, ma ci andrei piano. La campagna di delegittimazione del voto americano è scattata con perfetto tempismo in base a un calcolo assolutamente razionale. Trump si accinge a fronteggiare una mole tale di indagini giudiziarie e fiscali che gravano su di lui, una volta spossessato dell’immunità che la carica istituzionale gli ha garantito, da obbligarlo a predisporre una forza d’urto sufficiente a proteggerlo in futuro. La sopravvivenza del trumpismo come movimento antipolitico organizzato è l’unico salvacondotto su cui potrà contare, per non uscire stritolato dall’avventura presidenziale.

Ricordate quando Berlusconi impose ai suoi centurioni di coprirsi di ridicolo votando che la minorenne Ruby fosse nipote di Mubarak? Se avesse ammesso la propria sconfitta, Trump sarebbe politicamente già morto. Sbaglierò, ma a me pare tutt’altro che scemo. Ciò lo rende ancor più pericoloso.

“È falso”: ora cominciamo a dirlo forte

“Non esiste nessuna contea degli Stati Uniti nelle quali ci siano stati più voti che votanti. L’informazione fornita da Matteo Salvini venerdì scorso, in chiusura di questa trasmissione, era una notizia falsa. Punto e basta”. Questa puntuale rettifica di Simone Spetia, conduttore di 24 Mattino su Radio 24, rappresenta una difesa efficace del diritto vitale dei cittadini alla corretta informazione, ora più che mai minacciata dalla bomba atomica delle fake news. Non è difficile immaginare, infatti, cosa potrebbe diventare avanti di questo passo la sala ovale della Casa Bianca nei settanta giorni che separano l’America e il mondo dall’ingresso di Joe Biden: una centrale di contaminazione permanente e ossessiva della realtà dei fatti. A meno che, come molti si augurano (ma pochi ci sperano) Donald Trump non ascolti chi, nel Partito Repubblicano e perfino nelle stanze accanto, starebbe cercando di convincerlo ad accettare il verdetto delle urne e a ritirarsi in buon ordine senza gettare altra benzina sul fuoco. Perché la strategia presidenziale della menzogna, oltre a fomentare le milizie dei pazzoidi che si aggirano per l’America muniti di armi automatiche, può motivare i numerosi avvelenatori di pozzi che prosperano dappertutto sul negazionismo complottista. Non desta infatti grande sorpresa che il cosiddetto leader italiano impegnato a spargere disinformazione sulla legittimità del voto negli Stati Uniti, sia il medesimo che sulla pericolosità del Covid ha detto tutto e il contrario di tutto, togliendosi e mettendosi la mascherina. Giorgia Meloni ha ragione quando sostiene che il populismo non è affatto finito, come dimostra l’accresciuto consenso ottenuto da Trump. E che la sinistra, oltre a esultare per la vittoria di Biden farebbe bene a non descrivere l’avversario come “un mostro pericoloso”, accettando invece di “confrontarsi sulle proposte” con partiti e movimenti che al di qua e al di là dell’oceano continuano a raccogliere un vasto consenso popolare. Altro discorso però è l’intossicazione delle false notizie di cui gli stregoni del populismo sovranista (e certi apprendisti nostrani) si servono per i loro scopi, e i loro spot. Si può fare un tifo sfegatato per Trump senza per questo negare la realtà, come Edward Luttwak che su La Verità dice: “Veri e propri brogli non ne vedo, al massimo qualche irregolarità qua e là”. Anche per i dottor Stranamore c’è un limite all’indecenza.

L’interpretazione sbagliata dei numeri

In questo gravoso periodo, tutto è diventato difficile, anche programmare la visita ai propri cari che vivono in un altro Comune. È difficile programmare la cura della persona, perché improvvisamente potresti trovare chiusi parrucchieri ed estetiste. È difficile persino sognare il Natale con i bambini, che già di questi tempi cominciano a pensare ai regali. Forse non arriveranno, perché non sappiamo chi potrà venire a trovarci. Stiamo pensando alla favola di Babbo Natale al tempo del Covid? Di che colore sarà la mascherina che troveranno sotto l’albero? A parte queste divagazioni semiserie, resta il fatto che anche i numeri che, solitamente, dovrebbero essere simbolo di chiarezza, durante questa pandemia sono davvero difficili da interpretare. Peggio ancora: anziché essere la premessa necessaria per spiegare il fenomeno, sono stati spesso utilizzati per giustificarne l’interpretazione del tutto soggettiva e precostituita. In un momento in cui la popolazione vorrebbe capire se siamo in condizioni peggiori o migliori della prima ondata, ancora i numeri che girano non ci aiutano. Abbiamo più volte sottolineato quanto i dati dei casi (che sono solo contagi) non siano affatto attendibili. Giornalmente ci vengono comunicati sul sito della Protezione civile “arricchiti” dal numero di tamponi eseguiti. Dato ugualmente “sporco”, come più volte spiegato. Non guardiamolo. Ci chiediamo qual è allora il dato che possa darci una visione più realistica possibile? “Sarebbero” il numero di posti occupati nei reparti di terapia intensiva e il numero di morti “per” Covid. Potrebbero darci la chiave di lettura nel modo più “pulito” possibile. Eppure, anche questi sono dati “sporchi”. Affinché possano costituire un indicatore credibile della situazione corrente, non dovrebbe essere comunicato solamente il numero assoluto dei posti occupati in terapia intensiva, ma la percentuale di questi dedicati a Covid-19. Peraltro, bisognerebbe spiegare (innanzitutto a chi li comunica) che il numero di posti occupati non corrisponde al numero dei nuovi ricoverati. Il “saldo” riferito come variazione rispetto al giorno precedente non tiene conto di quelli che sono stati trasferiti ad altro reparto né di quelli deceduti o dimessi. Quindi il dato è “sporco” per eccesso o per difetto. La conseguenza è che chi ascolta i famosi numeri giornalieri con apprensione, non avrà mai un dato reale. L’altra conseguenza, forse anche più grave, è che possano condizionare le decisioni sulle misure di contenimento da intraprendere, attraverso i poco famosi 21 parametri definiti dal Cts.

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

In 71 milioni hanno scelto l’ignoranza egoistica del tycoon

Nel suo tentativo misero e meschino di portare via il pallone dopo aver perso, quella caricatura umana e moralmente irricevibile chiamata Donald Trump ne ha detta se non altro una giusta: “Ho avuto 71 milioni di voti legali, mai così tanti per un presidente in carica”. Quella cifra è enorme. Spaventosa. E dimostra che l’animale uomo ha fallito.

Una smisurata moltitudine di americani ha avuto il coraggio, l’egoismo e l’ignoranza di rivotare Trump. Uno che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti da Covid. Un razzista. Un illiberale. L’idolo di Socci (chi?) e della Maglie (eh?). Un uomo che ha seguito i dettami politologici di Steve Bannon, idolo di Giorgia Meloni, che di fronte alla sconfitta (nel corso di una puntata del suo podcast The War) ha detto: “Trump deve decapitare Fauci e Wray e impalare le teste ai cancelli della Casa Bianca”. Eccetera.

Eppure, dopo quattro anni drammatici, uno così è stato rivotato da 71 milioni di persone. Alla fine ha vinto “Sleepy” Biden, con tutto quel suo esplodere di carisma ipotetico, ma il sollievo provocato dal suo successo nasce in partenza smorzato dal consenso di cui ancora gode questo clown terrificante.

Breve carrellata machista delle frasi “migliori” di Trump. “Quando torno a casa e la cena non è pronta vado su tutte le furie”. “Guardate queste mani, vi sembrano piccole? Se fossero piccole lo sarebbe anche qualcos’altro…”. “L’aspetto è importante, per esempio tu – alla giornalista – non avresti il tuo lavoro se non fossi bella”. “Far lavorare una moglie è una cosa molto rischiosa”. “Concedere a vostra moglie beni materiali ed eccessiva sicurezza economica è un terribile errore”. “Una gravidanza è una cosa meravigliosa per una donna e il marito, ma è sicuramente una seccatura per un’azienda”. “Se Hillary non riesce a soddisfare il marito, come può soddisfare l’America?”. Eccetera.

Negli anni, Trump ha anche detto di non essere favorevole ai matrimoni gay. Ha fatto “il verso” a una persona con disabilità. Ha sostenuto che tutti i messicani siano dei criminali, drogati e stupratori. Eccetera.

Ciò nonostante, o forse proprio per questo, Trump ha preso tutti i voti che ha preso. Rendendo incerto per giorni, complice un sistema elettorale contorto e quasi da galera, un esito che in un Paese minimamente normale sarebbe dovuto essere oltremodo scontato. Allucinante.

Va però detto che, a volte, il destino si diverte a provocare cortocircuiti assai emblematici. Ed eccoci: la campagna elettorale di Trump è finita nel parcheggio di un’azienda di giardinaggio accanto a un sexy shop chiamato Fantasy Island.

È tutto vero. A un’ora dall’annuncio di fine corsa, con la vittoria di Joe Biden in Pennsylvania che gli ha di fatto consegnato le chiavi della Casa Bianca, Trump fa un annuncio su Twitter. Dice che ci sarà una “grande conferenza stampa” al Four Seasons Total Landscaping di Philadelphia. Macché: quei geni del suo staff presidenziale affittano per sbaglio, invece del salone dell’Hotel Four Season, il negozio di giardinaggio di periferia Four Season Landscaping. E così la conferenza di Rudolph Giuliani, con tutta la stampa nazionale presente, si svolge fra la vetrina di una ditta di cremazione di cadaveri e quella di un negozio di pornografia.

Rendetevi conto che gente così, capeggiata da un figuro di fronte al quale Freud e Jung avrebbero alzato bandiera bianca, è stata per quattro anni la mandria più potente del mondo. E per poco non rivinceva. Auguri.

 

Charlie Hebdo, d’accordo o no, il diritto di blasfemia va difeso

In merito al dibattito sulla “libertà di blasfemia” apertosi in Europa in seguito alla decapitazione da parte di un terrorista franco-ceceno del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine e all’uccisione di tre persone a Nizza, sembra prevalere una posizione di buon senso. Barbara Spinelli sul Fatto cita il fisico Carlo Rovelli: “Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto”, e conclude che l’eccesso di laicità sfocia nell’islamofobia e alimenta la violenza, da cui segue che sarebbe meglio non venissero mostrate a scuola le vignette di Charlie Hebdo. Si dà per scontato che un’opera dell’ingegno possa essere oggettivamente definita offensiva, e che quella presunta oggettività debba essere interiorizzata e costituire un auto-limite. Ma chi stabilisce cos’è un’offesa? Chi decide quando qualcosa è oltraggioso, cioè a cominciare da quale tratto, stilema, allusione? Questo non possono deciderlo quelli col kalashnikov; non possono stabilirlo nemmeno governi e parlamenti, che in contesti culturali diversi darebbero di “offensivo” una definizione diversa, aprendo a una discrezionalità senza limiti.

Se deroghiamo a questo principio, cioè all’impossibilità di stabilire cosa costituisce un’onta passibile di essere lavata col sangue, entriamo in un territorio pericoloso. Lupi solitari vitaminizzati con video cruenti di YouTube e del tutto ignari dell’insegnamento del Corano possono decretare offensivo che un vignettista o un insegnante nomini Maometto invano, e vendicarsi uccidendolo. Autoregolarsi sulla base del terrore vuol dire che ciò che si può scrivere e disegnare lo stanno decidendo i fondamentalisti islamici. Desacralizzare ciò che è considerato sacro è uno dei compiti della satira: una società che lo consente non è una società sacrilega, bensì una società democratica. Dire che l’insegnante non avrebbe dovuto mostrare le vignette presuppone che non solo l’autore, non solo il direttore e l’editore del giornale che pubblica le vignette, ma anche chi ne spiega i codici, che ne condivida o meno l’atmosfera morale, deve censurarsi. Questo, ha detto bene Macron, è incompatibile con la democrazia. Un insegnante che volesse mostrare oggi quelle vignette per spiegare ai suoi alunni il delitto di Samuel Paty lo farebbe a rischio di finire decapitato. Deve forse operare una censura alla memoria collettiva? Come ha detto il filosofo Alain Finkielkraut a Repubblica: “Il libretto (con le caricature di Charlie Hebdo, ndr) è l’iscrizione nel marmo di questo fatto inaudito: delle persone sono state assassinate per aver pubblicato o commentato in classe dei disegni”. Il mondo occidentale progressista e blandamente laico ha ormai operato l’equivalenza tra islamofobia e delitto. Possiamo dire che essere islamofobi (o cristianofobi, etc.) non è una bella cosa, che non è civile, non è evoluto provare repulsione per i fedeli di una religione; ma non è un delitto. Parimenti non lo è non avere una sensibilità religiosa. Se approviamo come limite la suscettibilità di svitati armati, accettiamo la logica tribale, introiettiamo la legge del taglione. “Non ci costa niente non offendere” è un’asserzione di buon senso, ma fuori fuoco. Ci costa tutto. L’argomentazione su cui si basa è solo una: che essere rispettosi è meglio che non essere rispettosi. Ma questa legge di civiltà non può essere stabilita dai carnefici. A essa sono superiori il pensiero critico, la libertà creativa, la contemplazione di livelli del discorso più profondi di quelli immediati. Le vendette dei jihadisti vanno condannate senza alcuna riserva (“Eh, ma Charlie Hebdo ha esagerato”), altrimenti si rovescia la colpa del carnefice sulla vittima, quando semmai la colpa di Charlie Hebdo è quella di aver spesso nascosto sotto la libertà di blasfemia la conformità all’ideologia dominante e l’adozione dei suoi codici di insensibilità e cinismo.