Leopolda chi?

Cinque domandine facili facili. 1) Chi ha accusato i pm che indagano su di lui di “cercare la battaglia, la ribalta e la visibilità mediatica”, di “seguire la viralità sui social più che le sentenze della Cassazione”, di essere “ossessionati” da lui e famiglia come “affetti stabili”, di avergli inviato “un avviso di garanzia” anziché “una lettera di scuse” e di “passare le informazioni” a giornalisti? Ve lo dico io: l’Innominabile, indagato da mercoledì con Boschi&Lotti per 7,2 milioni di finanziamenti illeciti tramite la fondazione Open.

2) Secondo voi, cos’hanno fatto o detto il Quirinale, il Csm e l’Anm, giustamente prodighi di “pratiche a tutela” e note di solidarietà ai pm insultati e calunniati da B. e Salvini? Ve lo dico io: nulla. L’Anm non s’è mai riavuta dal marasma post-Palamara. E il Csm è vicepresieduto da David Ermini, amicone dei tre indagati, ai quali (oltreché a Palamara) deve la poltrona. L’unico consigliere che avrebbe l’autorevolezza per chiedere una pratica a tutela dei pm aggrediti è Davigo, infatti l’han cacciato.

3) Avete mai visto la faccia o sentito la voce dei pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi, accusati dall’Innominabile di indagare lui e i suoi cari per “visibilità mediatica” e “viralità sui social”? Ve lo dico io: mai.

4) È vero che fior di “sentenze della Cassazione” hanno già assolto gli indagati, “smentito” il reato e trasformato gli inviti a comparire in “assurdo giuridico”? Ve lo dico io: la Cassazione non ha mai smentito i finanziamenti illeciti contestati dai pm sul caso Open. Ha accolto i ricorsi di tre renziani perquisiti (gli indagati Carrai e Donnini e il non indagato Serra) contro i decreti di sequestro firmati dal gip e confermati dal Riesame, ritenuti troppo vaghi. E ha invitato i giudici a motivarli meglio, perché il finanziamento illecito richiede la prova che la fondazione Open – usata per incassare da gruppi privati 7,2 milioni in 6 anni senza dichiararli nei registri parlamentari – agisse in “concreta simbiosi operativa” con la corrente renziana in “assenza di diversa concreta operatività”.

5) Secondo voi, che ci fece Open con quei 7,2 milioni mai dichiarati dai renziani grazie alla privacy che copre i foraggiatori delle fondazioni? Ve lo dico io: finanziava i raduni annuali alla Leopolda e il comitato del Sì al referendum 2016, oltre a distribuire carte di credito a parlamentari renziani per le loro spese. Cioè pareva proprio agire in simbiosi operativa con la corrente renziana in assenza di diversa operatività.

Ci sarebbe pure una sesta domanda: chi ha detto che “la Leopolda non era un’iniziativa di partito né di una corrente Pd, ma di una fondazione dove c’era gente del Pd e di altri partiti?”. Ma a questa non riesco proprio a rispondere, perché mi scappa da ridere.

Una donna di nome Nilde Iotti. Passioni, parole e battaglie

Quegli zoccoli con cui le più giovani elette si presentavano alla Camera non li poteva sopportare, no. Non tanto perché fosse conservatrice, lungi da lei, ma perché dopo la guerra aveva dovuto duramente combattere contro l’immagine stereotipata delle donne comuniste, arrabbiate, brutte e malvestite, e abbigliarsi con accuratezza significava, per lei, affermare che il Partito comunista era un fenomeno ordinario, non violento, della società italiana. D’altronde, presentarsi come una donna normale, per poi fare riforme audaci e radicali per le tutte, è stata la strada scelta ogni giorno da Nilde Iotti. La racconta, a cento anni dalla sua nascita, il libro di Peter Marcias La Reggitora (edito da Solferino, in libreria dal 12 novembre), in cui il regista, autore di un film sulla prima donna italiana presidente della Camera, ha inserito interviste e testimonianze rimaste fuori dallo schermo. “Amabile, forte, serena, energica, sensibilissima e generosissima nei rapporti interpersonali, intransigente sul piano delle regole e con una concezione sacrale delle istituzioni, una donna non femminista che pure condusse battaglie fondamentali”: così la descrive Marcias, che fa emergere con forza come per Iotti, nel paese in cui ancora dopo la guerra una parte del Pci era ostile a dare il voto alle donne per paura del loro cattolicesimo e dove solo negli anni Sessanta queste furono ammesse in magistratura, l’unica strada fosse la difesa di tutte le donne a oltranza. Per questo – ricorda tra le pagine Livia Turco – costrinse tutte le deputate del centrosinistra ad alzarsi e applaudire la neopresidente della Camera Irene Pivetti, malgrado fosse di un partito avverso.

Il volume ripercorre anche le tappe della sua “progressione”, perché Nilde di carriera non voleva sentire parlare. La formazione in un’università cattolica – “meglio i cattolici che i fascisti”, come le aveva sempre detto suo padre Egidio –, poi la guerra, durante la quale svolge la pericolosa attività di “portaordini” ai partigiani, infine la fondazione dell’Unione Donne italiane nel 1945. Fu eletta nel 1946 all’Assemblea Costituente, fu membro dal 1963 della commissione Affari costituzionali, poi eletta nel 1969 al Parlamento europeo, ancora presidente della Camera dal 1979 fino al 1992, infine presidente della commissione parlamentare per le Riforme istituzionali nel 1993: in tutti questi anni lavora incessantemente per la riforma del diritto di famiglia – l’abolizione della patria potestà, il riconoscimento dei figli illegittimi, l’abolizione della dote –, l’introduzione del divorzio, il referendum sull’aborto, la possibilità per le donne di conciliare vita e famiglia, convinta com’era che “l’organizzazione sociale del tempo non è un dato immutabile o asettico, ma è il frutto di rapporti sociali e di classe e di sesso che possono essere cambiati”. Ovviamente, centrale è la relazione con Togliatti, relazione che, come sottolinea l’amica Loretta Giaroni, “le impedì a lungo di emergere, e non il contrario”. D’altronde, il Pci non voleva dare l’impressione di sostenere la rottura dei legami tradizionali, mentre la moglie di Togliatti, Rita Montagnana, era stata partigiana e nata a Torino, dove Nilde non poté più mettere piede. Di fatto, ricorda con una nota di tristezza Luciana Castellina, la normalizzazione di un rapporto d’amore intenso, come testimoniano le lettere “sorprendenti e appassionate” scritte dal segretario del Pci, avvenne solo con la morte di lui, “quando Nilde fu in qualche modo riconosciuta come la sua compagna”.

Anche il suo portavoce, Giorgio Frasca Polara, racconta la Nilde Iotti privata: quella che, costretta a dormire a Montecitorio, utilizzava solo una stanza da letto e un piccolo soggiorno, che si informava sulle famiglie degli “assistenti” della Camera (che non chiamava commessi), che si mischiava tra la folla per andare a vedere magari un piccolo un museo – successe una volta a Venezia dove fu abbracciata da un gruppo di suore. Ricorda anche quel giorno in cui, chiamata a partecipare a una cerimonia sulla Resistenza, buttò giù su un foglietto, per il discorso, una serie di riforme istituzionali, dal federalismo alla riduzione del numero dei parlamentari; e ancora quando, ormai anziana, rifiutò l’elezione a senatore a vita da parte di Cossiga, un modo per metterla da parte. Ciò che più colpisce, alla fine, è la caratteristica, perduta, di una generazione ma ancor più della donna Nilde Iotti: per la quale stare su uno scranno non era una conquista personale, ma anzi qualcosa che, come disse nel suo noto discorso di insediamento alla Camera, “supera la mia persona e investe milioni di donne (…). Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita”.

Autostrade. Lo strapotere dei signori del casello non ha limiti: cosa insegna il caso Sat ad Aspi

Lo strapotere dei concessionari autostradali non conosce limiti. Quando non bastano le norme ad hoc che si sono fatti scrivere da concedenti/vigilanti catturati ci pensano i tribunali amministrativi a difenderli. Da oggi la Società autostrada tirrenica (Sat), che gestisce quel che esiste della mitologica incompiuta Livorno-Civitavecchia aumenterà i pedaggi del 2,54% tra le proteste delle comunità locali. A deciderlo è stato il Tar del Lazio. Il caso la dice lunga sul possibile epilogo dello scontro in atto su Autostrade per l’Italia, che – manco a dirlo – controlla Sat.

In questi giorni tiene infatti banco la trattativa tra il ministero delle Infrastrutture (Mit) e Autostrade sul nuovo Piano economico finanziario (Pef) che deciderà pedaggi, investimenti e manutenzioni nei prossimi 5 anni. Il Pef è fondamentale per dare il prezzo alla società su cui si stanno scannando la Cassa depositi e prestiti e Atlantia (la holding controllata dai Benetton che ha l’88% di Aspi), che in base agli accordi col governo per chiudere la ferita del Morandi deve cedere il controllo a Cdp. Il Pef consegnato da Autostrade e avallato dal Mit è stato però stroncato dall’Autorità dei Trasporti perché prevede aumenti tariffari così elevati da garantire utili stellari ad Autostrade. Va cambiato, ma il timore è che tutto si risolva in una cosmesi che non cambi il regalo.

Guardiamo il caso Sat. Nei giorni scorsi il Tar del Lazio ha imposto a Palazzo Chigi la nomina di un commissario per dare al concessionario gli aumenti tariffari chiesti per gli anni 2014-2018 e autorizzati solo in parte. Appena nominato, il commissario ha subito ordinato di eseguire la sentenza. Nel 2014 Sat aveva chiesto un aumento dei pedaggi del 7,8%, il Mit aveva, al solito, accettato il 7,5% mentre il ministero dell’Economia l’aveva ridotto al 5% per evitare aumenti troppo alti in un anno e, soprattutto, perché il suo Pef era scaduto e andava aggiornato. Ora Sat ha quindi ottenuto il 2,5% di aumento mancante nel 2014 e lo scarica sul 2020. La stessa cosa accadrà per gli anni successivi. La direzione del Mit che vigila sulle concessionarie, guidata da Felice Morisco, ha stabilito che per il 2015 Sat deve avere un aumento aggiuntivo a ritroso del 5,68%; del 9% nel 2016; dell’1,95% nel 2017 e dello 0,29% nel 2018. Il Tesoro li aveva ridotti di molto e nei giorni scorsi ha risposto al commissario e al Mit che non ha cambiato idea: Sat non deve avere più di quel che ha avuto perché il Pef non l’ha mai aggiornato dal 2013 e solo quando lo farà potrà recuperare il dovuto, se verrà confermato: “È un principio a tutela del concessionario ma anche degli utenti che non possono, anche in base alla normativa Ue, essere chiamati a sopportare componenti tariffarie non accertate a titolo definitivo”, si legge nella risposta. È buon senso, ma il Tar (e il Mit) la pensano diversamente.

Il Pef presentato a suo tempo da Sat si basava sull’ipotesi che dovesse costruire l’intera Livorno-Civitavecchia, con un investimento notevole in forza del quale la concessione fu prorogata al 2046. Il progetto è naufragato e il Pef dovrà tenerne conto, ma poco importa: l’aumento è arrivato lo stesso. “Una vergogna”, l’ha definito il sindaco di Cecina (Livorno) Samuele Lippi. A pagare saranno, come sempre, gli utenti. Ora tocca alla controllante Autostrade?

 

Salario minimo, l’Ue apre la via che l’Italia deve ora imboccare

Il 28 ottobre la Commissione Europea ha presentato una proposta di direttiva sul salario minimo, subito apprezzata dalle ministre italiana, Nunzia Catalfo, e spagnola, Yolanda Diaz. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea esclude però dalle competenze dell’Unione le retribuzioni, impedendo la fissazione di un salario minimo unico per tutta l’Ue. Quindi, la Commissione ha ritenuto di impostare la direttiva come intervento sulle condizioni di lavoro (art. 153, par. 1). Perciò la proposta non pretende che i Paesi senza salario minimo legale lo adottino, impone invece un’armonizzazione ai Paesi che già lo hanno. Le previsioni più rilevanti sono quelle relative al campo di applicazione (i lavoratori subordinati, ma tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che sul tema è molto larga nella definizione di chi siano), e ai criteri di fissazione del livello dei salari minimi. In Italia esistono vari disegni di legge, il ddl S658 presentato da Catalfo, due molto diversi tra loro presentati dal Pd e uno da LeU; e si parla di un prossimo progetto del Governo. I nodi da sciogliere, alla luce della proposta di direttiva, sono diversi.

Il primo è il rapporto con i contratti collettivi. È diffusa nelle organizzazioni sindacali, ma insensata, l’idea che i datori di lavoro potrebbero sottrarsi all’applicazione dei contratti collettivi, sostituendo ai salari contrattuali quello legale. Se infatti il salario minimo legale fosse fissato – come previsto dal ddl Catalfo – in un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi applicabili (nazionali, e anche territoriali per i settori dove sono i contratti provinciali a fissare il salario) per la qualifica del lavoratore, il datore di lavoro non avrebbe vantaggi a passare dal salario contrattuale a quello legale: sarebbero identici. Andrebbe regolata l’ipotesi in cui il contratto collettivo sia scaduto, come previsto dal ddl Catalfo. Ci sono però casi in cui due contratti collettivi potrebbero regolare lo stesso rapporto di lavoro. Quale usare come parametro? Qui occorre che il criterio selettivo sia quello della rappresentatività comparata dei firmatari, misurata secondo i criteri stabiliti dagli accordi raggiunti dalle parti sociali. Si darebbe così un duro colpo ai contratti collettivi “pirata” stipulati da organizzazioni sindacali di scarsa rappresentatività per far pagare meno il lavoro, generalizzando una previsione già esistente per le cooperative, e dichiarata legittima dalla Corte costituzionale con la sentenza 51/2015.

C’è poi il tema del campo di applicazione: se la legge fosse applicabile solo ai lavoratori subordinati, assisteremmo all’ulteriore proliferazione di contratti diversi, per proseguire lo sfruttamento. Dunque va applicata anche alle collaborazioni etero-organizzate e bisognerebbe estenderla ai co.co.co., come era per i contratti a progetto. Infine, il salario minimo orario fissato direttamente dal legislatore: talvolta anche i contratti collettivi “veri” prevedono livelli così bassi da non consentire al lavoratore di avere una “esistenza libera e dignitosa”, come dice l’articolo 36 della Costituzione. La legge attuerebbe questo principio, completando e correggendo quello che prevedono i contratti collettivi e che la giurisprudenza, imponendo l’osservanza delle tariffe dei contratti collettivi, ha fatto dagli anni 50, sia pure con oscillazioni e limitazioni che la legge potrebbe superare. Il livello è molto discusso: per restare ai Paesi comparabili, in Francia è 10,15 euro, in Germania 9,35, in Spagna 6,71. Per l’Italia, la fissazione in 9 euro lordi – che è la proposta del ddl Catalfo e di quello Laus (Pd) – appare molto moderata, tanto che si è stimato che riguarderebbe soltanto 2,6 milioni di persone, soprattutto donne, dipendenti di piccole imprese, meridionali, lavoratori con contratti a termine: comunque, un buon inizio.

Occorre pure fissare il meccanismo di aggiornamento della cifra, per evitare che l’inflazione ne diminuisca negli anni il valore. La soluzione più semplice sarebbe l’indicizzazione agli aumenti dei prezzi, che la sottrarrebbe ad ogni mercanteggiamento: è la proposta del ddl Catalfo per i contratti collettivi scaduti, che utilmente potrebbe applicarsi anche ai 9 euro. Altri auspicano una Commissione con le parti sociali, che rappresenterebbe un appesantimento inutile, a meno che non si voglia affidare (ddl Nannicini, sempre Pd) a questa Commissione la fissazione periodica della cifra. Sciogliendo questi nodi, una buona legge sul salario minimo sarebbe un contributo indispensabile alla lotta contro le diseguaglianze e il lavoro povero, a vantaggio delle imprese corrette, delle relazioni industriali ma soprattutto delle persone che lavorano.

Maastricht ne fa 27: come l’Italia disse sì (parlandone male)

Il 1° novembre è una data importante nel nostro calendario religioso, ma non abbastanza considerata in quello civile: eppure il 1° novembre del 1993, ventisette anni fa, entrò in vigore il Trattato di Maastricht, che segna la nascita dell’Unione europea come più o meno la conosciamo oggi (all’ingrosso: mercato comune, euro e Bce, deficit al 3% e debito al 60, divieto di aiuti di Stato). Quel testo era stato ratificato dal Parlamento italiano un anno prima, esattamente il 29 ottobre 1992 col sì della Camera dopo quello – “frettoloso e clandestino” (Marco Pannella) – del Senato a metà settembre.

Quei dibattiti parlamentari, riletti oggi, sono uno dei momenti più disperanti della storia italiana: poco partecipati, poco informati, politicamente dilettanteschi. Quasi chiunque abbia votato a favore (Dc, Psi, Pds, Lega, etc, cioè quasi tutti) lo ha fatto nella consapevolezza che quel Trattato era pieno di problemi, eppure andava approvato… per essere poi migliorato. Non andrà così.

L’Italia dell’autunno 1992 era un paese malmesso: una crisi monetaria l’aveva portata fuori dallo Sme (il sistema dei cambi semi-fissi europeo) e il governo Amato aveva varato una mega-manovra di tasse e tagli; Tangentopoli era ormai avviata a pieno regime dopo le elezioni di aprile; Falcone e Borsellino erano appena stati uccisi dalla mafia.

È in questo contesto che viene approvato Maastricht. Lasceremo descrivere quel che era in ballo a Guido Carli, già governatore di Bankitalia, poi presidente di Confindustria (sic), senatore Dc e ministro del Tesoro nel governo Andreotti che il 7 febbraio 1992 aveva firmato quel testo sussurrando, dice la leggenda, “nessuno è consapevole di cosa significherà per l’Italia”. Nelle sue memorie lo spiegò così: “L’Ue implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista e della programmazione economica, una redistribuzione della responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non solo da parte dei lavoratori (aumenti salariali, ndr), ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi e tariffe”.

Era, insomma, un passaggio epocale. Eppure nei giorni della discussione generale si contavano forse una ventina di presenti per Camera. Il giorno della votazione a Montecitorio, raccontò La Stampa, “i parlamentari erano distratti. E il brusio era a tratti così forte che il ministro degli Esteri si è lamentato. Il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, è intervenuto più volte per richiamare i deputati. Si è continuato così finché Pannella ha chiesto la parola per annunciare il tentativo di perquisizione dell’ufficio del ministro De Lorenzo”. Poco dopo si scoprirà che una perquisizione è in corso anche ai danni del socialista Susi: apriti cielo, altro che Maastricht. “Siamo in legittima agitazione”, replica Gerardo Bianco (Dc) ai richiami della presidenza.

Venendo al dibattito, è curioso come molti dei problemi attuali dell’Ue fossero già noti a tutti già 28 anni fa: una breve rassegna a titolo di esempio.

Salvatore Abruzzese (Psi): “La pur significativa creazione della Bce non è circondata dalle necessarie garanzie di controllo democratico. Nessuno vuole sottrarle gli indispensabili poteri di decisione (…) ma autonomia non può significare attribuzione di competenze che finiscono con l’uscire dallo stesso quadro istituzionale del trattato”, né “affidare alla politica monetaria la responsabilità della politica economica”.

Carlo Fracanzani (Dc): “Porre al centro della strategia l’obiettivo della stabilità dei prezzi e conseguentemente assumere la politica monetaria non come uno degli strumenti, bensì come lo strumento, se non il fine ultimo della politica economica, ha generato un’asimmetria di potere all’interno della Comunità, poiché ha riconosciuto un ruolo dominante alla moneta più forte. E tale asimmetria è accentuata dal fatto che rimane virtualmente affidata ai singoli Stati la gestione della politica tributaria. Si tratta peraltro di un potere solo apparente, visto che la forte mobilità delle basi imponibili e dei capitali introduce meccanismi perversi di concorrenzialità fiscale fra gli Stati…”.

Bruno Visentini (Pri): “Il Trattato ha una ferma volontà di difesa antinflazionistica e di bilanci in pareggio. Se questo può andar bene, o è andato bene in passato, per alcuni paesi – ad esempio la Germania – per altri può rappresentare in avvenire una preclusione della possibilità di una politica non dico inflazionistica, ma di sviluppo di bilanci in disavanzo, cioè di dare a un certo momento la preminenza allo sviluppo sulla stabilità monetaria”.

Massimo D’Alema (Pds): “Misuriamo in modo drammatico l’inadeguatezza di un’idea di Europa fondata sulla preminenza delle istituzioni monetarie e sull’illusione che l’integrazione possa affidarsi a puri e semplici meccanismi di mercato (…) l’inadeguatezza di un processo fortemente condizionato dal prevalere di posizioni neoliberiste e monetariste”.

Francesco Rutelli (Verdi): “I firmatari di Maastricht presentano il volto di un’Europa che non ha certo lo smalto dei fondatori (…), ma offre solo il ripiegamento di burocrazie e nomenklature statali che si trovano in difficoltà interna sul piano politico e economico”.

Claudio Fava (La Rete): “Siamo di fronte a un’Europa la cui costruzione non è delegata alla volontà e alla fantasia dei popoli, ma alle monete, alle banche, alle cancellerie, ai ministri (…) un’Europa che affida il potere legislativo a un organo formato da esecutivi, il Consiglio”, mentre “l’Europarlamento ha poteri nulli (…) Oggi Yalta non c’è più e io temo che Maastricht sia destinato a diventare una nuova, più soffice, ma altrettanto rigida prigione”.

Il tono del dibattito era talmente dimesso che un federalista europeo come Francesco Giullari (Verdi) iniziò il suo intervento così: “Constato che su Maastricht nessuno, tantomeno il governo e la maggioranza, ha espresso giudizi entusiastici”, dunque “mi pare che l’imbarazzo non sia soltanto mio…”. Va ricordato, se non altro, il bellissimo intervento con cui Lucio Magri annunciò il no di Rifondazione comunista: al di là degli aspetti tecnici, “il nostro no – disse – è il rifiuto di un’Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione coi primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino”.

Finì con 403 sì, 46 no e 18 astenuti in un paio d’ore: poi finalmente si tornò a parlare delle angherie dei magistrati…

Multate per la gara “falsata” ma la Pa non può cacciarle

Non basta dominare il mercato. Le “Big Four” della consulenza hanno creato un cartello in Italia per spartirsi una gara pubblica da 66,5 milioni di euro e mettere fuori gioco gli altri concorrenti. Un sistema fatto di offerte concordate e spartizione dei lotti, che ha permesso alle quattro più grandi società al mondo della revisione contabile – Ernst & Young, Deloitte, Kpmg e Pwc – di conquistare la torta messa sul piatto nel 2015 dalla Consip, la centrale acquisti pubblica, per conto del ministero dell’Economia. Lo raccontano nei dettagli alcune recenti sentenze del Consiglio di Stato, che a inizio ottobre ha respinto i ricorsi al Tar delle società dando definitivamente ragione all’Antitrust italiano.

Era stata infatti l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nell’autunno del 2017, a stabilire che i quattro colossi multinazionali avevano creato un cartello per spartirsi quella gara. Un procedimento amministrativo da cui è nata anche un’inchiesta penale, condotta dalla procura di Roma e chiusa a gennaio di quest’anno, contro 14 persone tra legali rappresentanti, dirigenti e procuratori delle filiali italiani di Ernst & Young, Deloitte, Kpmg e Pwc. Tutti accusati dai pm di turbata libertà degli incanti, cioè di aver condizionato l’appalto da 66 milioni. In attesa di capire se gli indagati verranno o meno rinviati a giudizio, ci sono le sentenze del Consiglio di Stato che condannano definitivamente le Big Four.

I giudici amministrativi spiegano che la gara indetta da Consip era suddivisa in 9 lotti. Oggetto: “L’affidamento dei servizi di supporto e assistenza tecnica per l’esercizio e lo sviluppo della funzione di sorveglianza e audit dei programmi cofinanziati dall’Unione europea”. In sostanza, assistere enti pubblici italiani, come i ministeri e le Regioni, nel controllo dei fondi comunitari destinati all’Italia. Secondo l’Antitrust, il problema è che le società si sono accordate per spartirsi i vari lotti, facendo offerte economiche con sconti tali da permettere a ognuna di loro di aggiudicarsi un pezzo del maxi appalto. “Il coordinamento contestato è stato provato dai diversi documenti agli atti dai quali emerge che i quattro network, in vista dello svolgimento della procedura, hanno deciso di incontrarsi tra di loro per ‘aprire un tavolo’ e ‘condividere un’azione’”, si legge nelle varie sentenze scritte dal consigliere di Stato Giordano Lamberti.

I giudici amministrativi citano, fra le tante, una corrispondenza interna a Pwc del 29 ottobre 2014, in cui i soci della multinazionale scrivono: “Con Deloitte, EY e Kpmg abbiamo concordato un incontro per parlare della prossima gara Consip”. Non solo. Le sentenze parlano di altri documenti sequestrati nelle sedi delle Big Four in cui, prima della presentazione delle offerte, “emerge una chiara ripartizione dei lotti nella gara Consip”. Scrivono i giudici: “Le offerte delle parti, pur avendo ciascuna partecipato a diversi lotti, sono state concertate in modo tale che gli sconti più consistenti presentati da ciascuna di esse, compresi per tutte tra il 30% e il 32,3%, non si sovrapponessero mai, e questo in relazione a ben nove lotti. Non appare infatti plausibile che le 4 principali imprese del settore – potenzialmente in concorrenza tra loro – offrano esattamente lo stesso livello di sconto sia nei lotti in cui hanno interesse (30-32%) sia nei lotti in cui affermano di non averne (10- 15%)”.

Le sentenze del Consiglio di Stato confermano dunque la sanzione dell’Antitrust: 23,5 milioni. Non molto, visto che i quattro gruppi fatturano ogni anno circa 300 milioni di euro con la sola Pubblica Amministrazione italiana. Nel suo procedimento l’Antitrust non ha previsto per le Big Four il divieto temporale di partecipare a nuove gare con la Pa. E così, visto che l’appalto affidato nel 2015 da Consip scade proprio quest’anno, le società appena condannate avranno tutto il diritto di partecipare alla nuova gara in cantiere: altri cinque anni di consulenza per assistere gli enti pubblici italiani nella gestione dei fondi Ue.

Più sbagliano più incassano. Lo strapotere delle “big four”. I signori dei conti

Il finanziere Jim Chanos, che per le sue speculazioni al ribasso si è guadagnato il soprannome di “Darth Vader di Wall Street”, la chiama “la regola del tre”: “Se leggi tre volte il bilancio di una società e non riesci ancora a capire come fanno i loro soldi, di solito c’è un motivo”. Eppure anche chi per lavoro legge i bilanci centinaia di volte l’anno talvolta non vede da dove arrivano o dove finiscono i soldi. Negli scandali finanziari, come l’ultimo della tedesca Wirecard, sul banco degli imputati finiscono anche le società di revisione, chiamate per legge a controllare i conti. Nel mondo a fare da padrone in questo settore sono quattro “grandi sorelle”: Deloitte, PriceWaterhouseCoopers (PwC), Ey e Kpmg. Questi network mondiali controllano la stragrande parte del business e nell’ultimo esercizio, tra revisione e consulenza, hanno fatturato 157,58 miliardi di dollari, in crescita del 2,35% su base annua, dando lavoro a oltre un milione e 130mila dipendenti. Anche in Italia nell’ultimo esercizio la sola revisione ha fruttato alle “big four”, che controllano l’88% del mercato, ricavi per un miliardo. A questa attività si affianca – seppure formalmente distinta – la consulenza, con alti rischi di potenziali conflitti di interesse. Che spesso, per assurdo ma non troppo, finiscono per premiare proprio chi sbaglia di più.

Chanos vent’anni fa fu tra i pochi a scommettere sul crollo della Enron, all’epoca un gigante Usa del trading di energia apparentemente solidissimo, e guadagnò una fortuna quando questa il 2 dicembre 2001 implose in un gigantesco scandalo contabile. La Arthur Andersen, una delle “big five” della revisione dell’epoca, era il controllore di Enron e chiuse i battenti. “La Enron ha derubato la banca”, disse il deputato James Greenwood, ma “la Andersen le ha fornito l’auto per scappare e si è messa al volante”. Anche in Italia le società di revisione spesso “non hanno visto” i buchi delle società dalle quali sono pagate per asseverare i rendiconti. L’elenco degli scandali dell’ultimo ventennio è lunghissimo: solo per restare ai principali si comincia con Parmalat e si prosegue con Cirio, Giacomelli, FinPart, Italease, Finmatica, Finmek, Cerruti Finance, Olcese, La Veggia Finance, Mariella Burani Fashion Group, UniLand, Carige, Banca Etruria, Banca Marche, Carife, CariChieti, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Mps e Bio-On, per finire con la Popolare di Bari. Erano tutte dotate di revisori eppure sono finite in crac. Secondo Federconsumatori il conto dei collassi è costato un centinaio di miliardi a due milioni di risparmiatori.

Ma com’è possibile che così spesso i revisori non vedano le frodi e non avvisino per tempo le autorità? Un indizio arriva dai dati della Consob, che insieme al ministero dell’Economia è il controllore nazionale delle società di revisione. Secondo la Commissione, nel 2019 le società di revisione “hanno dichiarato l’impossibilità a esprimere un giudizio sui bilanci per otto emittenti quotati”: nel 2018 erano stati 7 ma nel 2013 ben 13. Sempre l’anno scorso “non hanno espresso giudizi negativi né con rilievi”, mentre era avvenuto in tre casi nel 2018 e in otto nel 2013. Infine, “i giudizi con richiami di informativa” espressi sui bilanci quando servono spiegazioni più dettagliate nel 2019 sono stati appena sei, ma erano 20 l’anno prima, 52 nel 2013 e addirittura 330 nel 1996. O le società quotate ormai scrivono bilanci perfetti oppure i revisori sono diventati miopi.

La risposta esatta pare la seconda. Tra il settembre 2014 e il febbraio scorso la Consob ha erogato sanzioni alle società di revisione in 9 dei maggiori scandali finanziari recenti per un totale di 2,64 milioni. Deloitte è stata multata per 280mila euro per non aver notate le falle nei bilanci di Carige e Carife. Kpmg ha dovuto sborsare un milione per non aver visto i derivati Santorini e Alexandria di Mps, i buchi dei conti della Popolare di Vicenza e le copie fantasma del Sole 24 Ore. PwC ha pagato 1,36 milioni per non aver intercettato i disastri di Banca Etruria, Banca Marche, Veneto Banca e Microspore. Le società di revisione hanno perso tutti i ricorsi in appello contro le multe, tranne Deloitte che ha ottenuto uno sconto da 300 a 200mila euro per la vicenda Carige. A fronte di danni rilevanti, però, quelli della Consob sono buffetti. Che diventano irrilevanti se si pensa che EY nell’ultimo esercizio noto ha incassato 314,8 milioni per la revisione che sono saliti a 650 con l’attività di consulenza, mentre per la sola revisione Kpmg ha incassato 242,8 milioni, PwC 224 e Deloitte 167,8.

Tra le autorità non si muove solo la Consob. A novembre 2017 l’Antitrust sanzionò per 23 milioni le “big four” svelando che avevano fatto cartello per spartirsi la gara bandita dalla Consip per il supporto alla pubblica amministrazione nelle gestione dei programmi cofinanziati dall’Unione Europea. Il 17 settembre il Consiglio di Stato ha definitivamente confermato le sanzioni (lo leggete a destra). Poi fioccano le cause per danni. L’avvocato Giuseppe Santoni che cura il fallimento di Banca Etruria ha portato in causa a Roma PwC chiedendo danni per 112 milioni. A Montebelluna 149 risparmiatori coinvolti nel crac di Veneto Banca hanno citato i revisori della PwC. Altri 121 ex azionisti della Popolare di Vicenza chiedono il conto a Kpmg.

Situazioni che non avvengono solo in Italia. Negli Stati Uniti, dopo Enron, ci son stati i casi WorldCom, Adelphia e Tyco. In Germania a giugno è esploso lo scandalo Wirecard, il gigante dei pagamenti digitali tedesco finito in bancarotta dopo la scoperta dell’ammanco di 1,9 miliardi di liquidità dai suoi conti bancari. Per anni analisti e stampa avevano segnalato incongruenze, ma non sono stati creduti. La società di revisione EY ha fatto spallucce, nonostante già nel 2016 un whistleblower avesse avvertito i vertici del network di controllo di trucchi contabili e tentativi di truffa. D’altronde per tre anni EY non aveva controllato i depositi bancari di Wirecard. Ma tanta miopia pare un ottimo biglietto da visita: nonostante lo scandalo nel 2021 per la prima volta EY avrà la revisione di 7 delle 30 principali società quotate tedesche.

Serve una riforma. Uno studio sulle ricadute di vigilanza dello scandalo Wirecard, richiesto dalla Commissione economia del Parlamento Europeo e realizzato a ottobre dall’ufficio studi dell’Europarlamento per mano di Beatriz Garcia Osma, Ana Gisbert e Begoña Navallas delle Università Carlo III e autonoma di Madrid, ha messo a nudo i problemi dei sistemi di controllo pubblico della Ue sui revisori basati sul Comitato degli organismi europei di controllo della revisione contabile (Ceaob) e sulla rete delle autorità nazionali. La ricerca scrive che il caso Wirecard suggerisce che il sistema di supervisione europeo delle società di revisione è “frammentato e complesso, ostacolato da un processo decisionale lento e da vincoli di risorse. Le competenze appaiono duplicate o delimitate in modo poco chiaro tra diversi organismi, creando lacune in cui le violazioni dei comportamenti o le frodi possono passare inosservate”. Secondo l’indagine, “c’è poca chiarezza su chi dovrebbe guidare i controlli, sulla condivisione delle informazioni e sul coordinamento della vigilanza tra gli organi competenti”. Pare di leggere Barbaglio d’Argento, il giallo scritto nel 1892 da Arthur Conan Doyle: Sherlock Holmes risolve un caso a partire dallo “strano incidente del cane” che, pur essendo di guardia, non ha abbaiato. Perché conosceva sin troppo bene il colpevole.

Un giorno di settembre. Con Gigi Proietti ad ascoltare le sue “piccole” storie buffe

“Tu non sai quanto è bello la mattina bersi un ovetto fresco appena deposto”, mi dice Gigi un pomeriggio di settembre nel suo giardino: “Io da un po’ di tempo ho adottato quattro galline, ma l’unica che mi fa l’uovo è quella nera e io ho per lei una grande simpatia e riconoscenza. Ecco, vedi è quella là…”.

In quel preciso momento, mentre pronunciava queste parole, la mia cagnetta liberandosi, non si sa come, dal guinzaglio, ha assalito la gallina tentando di trasformarla nel suo pasto quotidiano. Una nuvola di piume ha invaso il giardino, tra le urla degli astanti e l’abbaiare isterico della cagnetta affamata.

A quel punto il miracolo, la gallina si è nascosta in un cespuglio, mimetizzata tra le piante come E.T. travestito da giocattolo nell’armadio della camera dei bambini. Anche se un po’ spelacchiata, era salva. “Mo ti racconto la storia del piccione Toto, anzi der ‘poro Toto’. L’avevamo adottato e salvato da sicuro fornello. Il volatile però aveva una particolarità, era un piccione camminante e non volante, insomma non ne voleva proprio sapere di staccarsi da terra. Se ne andava in giro così, con la medaglietta che gli avevamo attaccato a una zampa, col suo nome e il numero di telefono. Non il suo, il nostro. Un giorno il poro Toto non si trovava, noi preoccupati lo chiamavamo ‘Totoo, Totoo’ nessuna risposta, speravamo fosse uscito per la solita passeggiata, invece niente, Toto non tornava. All’imbrunire, quando le speranze erano perse, riceviamo una telefonata . ‘È vostro un piccione che non vola di nome Toto?’ – ‘Sì dov’è?’ – ‘È qui da noi a Velletri, se volete ve lo portiamo’, e così il poro Toto è tornato a casa per la gioia di tutta la famiglia, dopo 35 chilometri di strada a piedi. Più che un piccione un podista. La gallina nera e il poro Toto, due animali fortunati”.

 

Cari compagni. Lettera di Livia Turco ai comunisti orgogliosi: il Pci, più che un partito fu una nazione

Livia Turco, che ha passato la vita nel Partito comunista da Togliatti a Berlinguer, ed è rimasta una “dirigente comunista” anche quando ha militato, e fatto il ministro, sotto insegne sempre più diversi (del Pds, Ds e poi del Partito democratico) ha scritto la prefazione a un libretto che ha voluto ricordare il lavoro e la vita di alcuni compagni nel passaggio fra l’uno e gli altri partiti, “Care compagne, cari compagni”.

L’editore è “Striscia Rossa”, territorio libero di ex-militanti che però non sono affatto ex, perché il loro mondo, benché non sia un sogno o un’allucinazione e benché non sia più parte dello spettacolo politico italiano, non è affatto finito. Non stanno lanciandosi parole anche nobili ma fuori uso, da reduci di una guerra finita. Ma due cose non hanno perduto: l’orgoglio di quel che sono stati e il pensiero in cui hanno creduto; non tanto una forma di fede quanto una comune, e tenace, interpretazione dei fatti che hanno segnato la loro vita.

Una descrizione così semplice è però la formula originale (forse cercata, forse trovata per caso, come molte invenzioni) di un mondo e di un modo di stare insieme che introduce qualche idea nuova nella antropologia (vedi la teoria delle tribù di Margaret Mead) e nella sociologia (che cosa sono i partiti? E hanno una scadenza, a differenza della fratellanza?). Il senso che gli editori riescono a dare al suo lavoro è all’altezza delle vite dei compagni che danno un valore al libro. E qui si vede chiaro il senso della pubblicazione, un senso profondo: quasi una rivelazione che ha dato per decenni della vita europea un livello così caldo e intenso e definitivo alla parola “compagno”.

Leggete in questo libro che “i compagni” di un partito come fu il Pc, dalla guerra segreta dell’antifascismo alla vittoria della Resistenza, questi “compagni” non si sono mai sentiti “in prova” e non si sono lasciati mettere alla prova neppure dalle cadute della loro patria di riferimento, il partito.

Ben pochi erano sicuri dell’invasione Sovietica in Ungheria e, più tardi, dell’occupazione della Repubblica cecoslovacca. Ma il partito era un territorio più grande che conteneva anche l’errore, perché conteneva le loro vite. Queste pagine sono una prova del tipo di legame, umano, affettivo, morale e solo in un ultimo senso ideologico che ha fatto diventare e restare comunisti così tanti giovani (poi invecchiati col partito) e così tanti “anziani” tra i sopravvissuti della lotta al fascismo.

Persino la cautela con cui il Pc ha trattato lo Stato borghese con vecchi legami fascisti, per non spaccare l’Italia liberata, spiega molti episodi e circostanze che in certi momenti apparivano errori (come il processo al fascismo che non è mai avvenuto).

 

Care compagne e cari compagni – Autori vari, prefazione di Livia Turco, Pagine: 293, Prezzo: 16, Editore: Strisciarossa

Elogio di Haaland. Il giovane predestinato che scalzerà dal trono del gol CR7 e Messi

Si chiama Erling Braut Haaland, ha 20 anni, è norvegese e di professione fa il centravanti. Gioca nel Borussia Dortmund, il club tedesco dov’è approdato il 29 dicembre di un anno fa dopo aver giocato prima nel Bryne e nel Molde in Norvegia, poi nel Salisburgo in Austria. Biondo, faccia sempre sorridente da ragazzino quale in effetti è, fisico imponente (1 metro e 94 per 87 kg), Haaland non è l’attaccante che a prima vista ruba l’occhio: non ha le movenze raffinate di Van Basten, non ha la classe pura di Messi, non ha il dribbling e le serpentine in corsa di Ronaldo il Fenomeno, non ha lo stacco aereo e la bravura nei calci di punizione che a lungo hanno contraddistinto le gesta del Ronaldo juventino.

Non è bello a vedersi, Erling Haaland, ma su una cosa non ci piove: è già oggi il più forte cannoniere in circolazione e ha tutto per diventare il più grande goleador della storia della Champions demolendo i record degli invincibili, prima del suo avvento, CR7 e Messi. Non ci credete? Nella classifica dei bomber di tutti i tempi in Champions League CR7 è davanti a tutti con 130 gol; alle sue spalle troviamo Messi, due anni più giovane, con 117 e poi Raul con 71, Lewandowski con 70, Benzema con 67, van Nistelrooij con 56, Henry con 50 (il primo italiano: Pippo Inzaghi con 46). CR7 e Messi erano ritenuti irraggiungibili e inavvicinabili: ma oggi non più dopo l’avvento di Haaland che a ben vedere già li sopravanza. Nell’ultimo turno di Champions, mercoledì scorso, all’età di 20 anni, 3 mesi e 14 giorni Haaland ha segnato (al Bruges) il 13° e il 14° gol nella competizione. Ne ha realizzati 8 nelle 6 partite giocate col Salisburgo e 6 nelle 5 partite giocate col Dortmund: in totale 14 gol in 11 partite, che già di per sè è un dato strabiliante.

Domanda: quanti gol avevano segnato in Champions, a 20 anni, 3 mesi e 14 giorni d’età, CR7 e Messi? La risposta è a dir poco sorprendente. CR7 a quell’età aveva giocato 20 partite in Champions senza mai segnare un gol (il primo lo firmerà a 21 anni, 8 mesi e 5 giorni in Manchester–Roma 7-1, il 10 aprile 2007), mentre un po’ meglio aveva fatto Messi che in 14 partite giocate col Barça aveva segnato 4 gol, il primo nel 5-0 al Panathinaikos a 18 anni, 4 mesi e 9 giorni. Ricapitolando: CR7, 20 partite e 0 gol; Messi, 14 partite e 4 gol; Haaland, 11 partite e 14 gol. Particolare che rende la performance di Haaland ancor più ragguardevole: mentre CR7 e Messi giocavano (e hanno continuato a giocare) in club come Manchester United e Barcellona che erano fra i primi al mondo, sfidando quindi avversari quasi sempre inferiori, Haaland ha segnato i suoi 14 gol prima nel Salisburgo (8) e poi nel Dortmund (6), club che potremmo definire di terza e seconda fascia. Nel Salisburgo Haaland ha fatto gol, nel girone di qualificazione, al Liverpool campione d’Europa e poi al Napoli sia all’andata che al ritorno, nel Borussia ha segnato al Paris SG in entrambi i match degli ottavi di finale e venti giorni fa alla Lazio a Roma.

E insomma: se è vero, come pare, che a fine stagione Haaland passerà in forza al Liverpool di Klopp, la sua scalata al record di gol di CR7 in Europa, primato che sembrava inavvicinabile, si farà ancor più veloce e impetuosa. Se il ragazzo non patirà infortuni gravi, numeri alla mano è destinato a diventare il più grande bomber della storia del calcio. Lui sì un vero Predestinato.