Il 1° novembre è una data importante nel nostro calendario religioso, ma non abbastanza considerata in quello civile: eppure il 1° novembre del 1993, ventisette anni fa, entrò in vigore il Trattato di Maastricht, che segna la nascita dell’Unione europea come più o meno la conosciamo oggi (all’ingrosso: mercato comune, euro e Bce, deficit al 3% e debito al 60, divieto di aiuti di Stato). Quel testo era stato ratificato dal Parlamento italiano un anno prima, esattamente il 29 ottobre 1992 col sì della Camera dopo quello – “frettoloso e clandestino” (Marco Pannella) – del Senato a metà settembre.
Quei dibattiti parlamentari, riletti oggi, sono uno dei momenti più disperanti della storia italiana: poco partecipati, poco informati, politicamente dilettanteschi. Quasi chiunque abbia votato a favore (Dc, Psi, Pds, Lega, etc, cioè quasi tutti) lo ha fatto nella consapevolezza che quel Trattato era pieno di problemi, eppure andava approvato… per essere poi migliorato. Non andrà così.
L’Italia dell’autunno 1992 era un paese malmesso: una crisi monetaria l’aveva portata fuori dallo Sme (il sistema dei cambi semi-fissi europeo) e il governo Amato aveva varato una mega-manovra di tasse e tagli; Tangentopoli era ormai avviata a pieno regime dopo le elezioni di aprile; Falcone e Borsellino erano appena stati uccisi dalla mafia.
È in questo contesto che viene approvato Maastricht. Lasceremo descrivere quel che era in ballo a Guido Carli, già governatore di Bankitalia, poi presidente di Confindustria (sic), senatore Dc e ministro del Tesoro nel governo Andreotti che il 7 febbraio 1992 aveva firmato quel testo sussurrando, dice la leggenda, “nessuno è consapevole di cosa significherà per l’Italia”. Nelle sue memorie lo spiegò così: “L’Ue implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista e della programmazione economica, una redistribuzione della responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la riduzione della presenza dello Stato nel credito e nell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non solo da parte dei lavoratori (aumenti salariali, ndr), ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi e tariffe”.
Era, insomma, un passaggio epocale. Eppure nei giorni della discussione generale si contavano forse una ventina di presenti per Camera. Il giorno della votazione a Montecitorio, raccontò La Stampa, “i parlamentari erano distratti. E il brusio era a tratti così forte che il ministro degli Esteri si è lamentato. Il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, è intervenuto più volte per richiamare i deputati. Si è continuato così finché Pannella ha chiesto la parola per annunciare il tentativo di perquisizione dell’ufficio del ministro De Lorenzo”. Poco dopo si scoprirà che una perquisizione è in corso anche ai danni del socialista Susi: apriti cielo, altro che Maastricht. “Siamo in legittima agitazione”, replica Gerardo Bianco (Dc) ai richiami della presidenza.
Venendo al dibattito, è curioso come molti dei problemi attuali dell’Ue fossero già noti a tutti già 28 anni fa: una breve rassegna a titolo di esempio.
Salvatore Abruzzese (Psi): “La pur significativa creazione della Bce non è circondata dalle necessarie garanzie di controllo democratico. Nessuno vuole sottrarle gli indispensabili poteri di decisione (…) ma autonomia non può significare attribuzione di competenze che finiscono con l’uscire dallo stesso quadro istituzionale del trattato”, né “affidare alla politica monetaria la responsabilità della politica economica”.
Carlo Fracanzani (Dc): “Porre al centro della strategia l’obiettivo della stabilità dei prezzi e conseguentemente assumere la politica monetaria non come uno degli strumenti, bensì come lo strumento, se non il fine ultimo della politica economica, ha generato un’asimmetria di potere all’interno della Comunità, poiché ha riconosciuto un ruolo dominante alla moneta più forte. E tale asimmetria è accentuata dal fatto che rimane virtualmente affidata ai singoli Stati la gestione della politica tributaria. Si tratta peraltro di un potere solo apparente, visto che la forte mobilità delle basi imponibili e dei capitali introduce meccanismi perversi di concorrenzialità fiscale fra gli Stati…”.
Bruno Visentini (Pri): “Il Trattato ha una ferma volontà di difesa antinflazionistica e di bilanci in pareggio. Se questo può andar bene, o è andato bene in passato, per alcuni paesi – ad esempio la Germania – per altri può rappresentare in avvenire una preclusione della possibilità di una politica non dico inflazionistica, ma di sviluppo di bilanci in disavanzo, cioè di dare a un certo momento la preminenza allo sviluppo sulla stabilità monetaria”.
Massimo D’Alema (Pds): “Misuriamo in modo drammatico l’inadeguatezza di un’idea di Europa fondata sulla preminenza delle istituzioni monetarie e sull’illusione che l’integrazione possa affidarsi a puri e semplici meccanismi di mercato (…) l’inadeguatezza di un processo fortemente condizionato dal prevalere di posizioni neoliberiste e monetariste”.
Francesco Rutelli (Verdi): “I firmatari di Maastricht presentano il volto di un’Europa che non ha certo lo smalto dei fondatori (…), ma offre solo il ripiegamento di burocrazie e nomenklature statali che si trovano in difficoltà interna sul piano politico e economico”.
Claudio Fava (La Rete): “Siamo di fronte a un’Europa la cui costruzione non è delegata alla volontà e alla fantasia dei popoli, ma alle monete, alle banche, alle cancellerie, ai ministri (…) un’Europa che affida il potere legislativo a un organo formato da esecutivi, il Consiglio”, mentre “l’Europarlamento ha poteri nulli (…) Oggi Yalta non c’è più e io temo che Maastricht sia destinato a diventare una nuova, più soffice, ma altrettanto rigida prigione”.
Il tono del dibattito era talmente dimesso che un federalista europeo come Francesco Giullari (Verdi) iniziò il suo intervento così: “Constato che su Maastricht nessuno, tantomeno il governo e la maggioranza, ha espresso giudizi entusiastici”, dunque “mi pare che l’imbarazzo non sia soltanto mio…”. Va ricordato, se non altro, il bellissimo intervento con cui Lucio Magri annunciò il no di Rifondazione comunista: al di là degli aspetti tecnici, “il nostro no – disse – è il rifiuto di un’Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione coi primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino”.
Finì con 403 sì, 46 no e 18 astenuti in un paio d’ore: poi finalmente si tornò a parlare delle angherie dei magistrati…