Scuola e dedizione. Le maestre in malattia con l’aria di lockdown, e quei genitori in crisi

Come ho scritto l’altra volta? Le storie italiane ti arrivano da sole. Ti raggiungono anche in treno. Sono seduto su un lato del corridoio di un regionale veloce prima che scatti il lockdown. Sull’altro lato discute una giovane coppia, marito e moglie. Nel silenzio quasi spettrale senti tutto. Parlano di un figlio dal nome esotico che ha fatto il suo ingresso nel mondo della scuola. Sei anni, prima elementare. Commentano con delusione l’inizio della loro esperienza di genitori alle prese con la democrazia scolastica. Lui è più drastico: devi scrivere alla preside; prima a lei, e se non risponde alla preside. Ma deve rimanere tutto scritto, non limitarti a chiedere o recriminare a voce. A qualcuno più in alto dovranno pur rispondere.

Ce l’hanno con una maestra, mi sembra. Poi nella discussione che arriva dai fatidici metri di distanza capisci che le maestre sono due. Stessa classe, due gruppi di materie diverse. I due genitori si ricordano l’un l’altra la fiacchezza con cui sono state formate le classi il primo giorno di scuola, in teoria quello dell’entusiasmo, dell’incontro con il magico mondo dei banchi. Che colpa ne hanno i bimbi del Covid, si chiedono, vuoi fargli capire che sono desiderati, che entrano in un luogo di studio ma anche di gioia? E invece, lamentano, la maestra li accoglie senza nessuna solennità, nessuno slancio. Parla a voce bassa, facendosi capire a intervalli, come a interpretare una mediocrità quotidiana. È stata la prima delusione. Perché i tempi tetri andrebbero rischiarati con voci argentine. E anche con senso di dedizione. Ma poi è successo altro, che capisco dividere marito e moglie fin lì totalmente d’accordo. È successo infatti che è stata convocata la prima riunione dei genitori. E loro pensavano che qualcuno, le maestre ad esempio, avrebbe spiegato i programmi, i metodi di lavoro. Mica perché ci volessero metter becco, ma giusto per saperli, per guidare meglio i figli in un inizio d’anno così tempestoso. E invece con loro sorpresa una maestra non si è presentata, l’altra è rimasta i primi cinque minuti, poi se ne è andata. Cinque minuti in due. Per la prima assemblea di classe con i genitori. Causa impegni. E papà e mamme a dirsi “ma mica l’abbiamo fissata noi la data”.

Così ecco ora insorgere la causa del litigio tra quella coppia tutta amore ed armonia. L’assemblea va rifatta, dice lei. Ma prima bisogna protestare con la preside, replica lui, facendo prove di irritazione. Non ho voglia di iniziare a fare quella che protesta da sola, a mettermi in fila per parlare con l’autorità, fa lei. Piuttosto, se questa è l’attenzione che avranno per Gelindo (nome di fantasia), me lo porto in una scuola privata.

È esattamente a questo punto che potrei sentire tutto anche se fossi in fondo al vagone. Mio figlio in una scuola privata non ci va, scandisce il padre. Ho sempre fatto le scuole pubbliche e le farà anche lui. Non voglio nemmeno sentir parlare di private. Piuttosto protestiamo, arriviamo più in alto che si può, dovranno pur rendere conto. Tanto i sindacati le difenderanno, chiosa lei. Lui sembra andare sul velluto: certo, sono stati loro a uccidere il merito nella scuola. E il risultato è che costringono una persona a pensare alla scuola privata. Sarò sincero. Vengo letteralmente folgorato da questa osservazione. Tutto davanti a me è fluito naturalmente, nessuno ha fatto politica. Dialogo tra genitori. Dunque può succedere che si invochi il pubblico e si lavori per il privato?

Domanda inquieta in arrivo da questa scuola milanese che, come verifico dopo, sta nei pressi di porta Romana. Torno a casa e sul cellulare mi giunge la notizia. Dato il grande lockdown in arrivo un po’ di maestre della scuola elementare di…, si sono messe in malattia e se ne sono tornate al sud. Tanto con questa buriana chi le fa le visite fiscali? Quando si dice mettercela tutta…

Le vie del lockdown. Anziani da “rinchiudere” e Milano zona rossa (qualcuno se n’è accorto?)

 

“Io, ottantenne entusiasta, ‘produco’ amore per la vita”

Cara Selvaggia, ora ci chiamano vecchi, ma non sanno neppure cosa vuol dire vecchio! Osservando quanto chiasso ha procurato l’inopportuno tweet del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, mi rendo sempre più conto di essere un miracolato. Ho ottant’anni, non sono “governatore” di nulla ma riesco – grazie al buon Dio – a governare al meglio tutti gli acciacchi che quotidianamente devo tenere a bada. Ci sarebbero i motivi per farmi cadere nel tranello della decrepita vecchiaia: dalla magra pensioncina ai tanti problemi quotidiani, dalle ingiustizie (piccole e grandi perpetrate proprio nei confronti degli anziani) fino ai pregiudizi e al sentire comune, che guarda ai vecchi come a persone senza più passione. Io amo la vita e alla vita ho dato il mio lavoro e le mie energie. Amo guardare la gente che mi circonda cercando di cogliere nei gesti più comuni una scintilla di vita, di gioia interiore però… mi capita spesso di vedere visi corrucciati, atteggiamenti annoiati e soffro nel notare spenta quella luce che prima illuminava le loro vite! Questo sicuramente ti fa sentire vecchio, ma non è cosa che mi appartiene, tutt’altro. Da quarant’anni amo – riamato – Francesca (che ha tre anni meno di me) e con gli slanci di due studentelli innamorati sorridiamo grati alla vita. Abbiamo affrontato e superato tante difficoltà senza mai permettere che avessero la meglio sui sentimenti e gli affetti. Abbiamo evitato che atteggiamenti egoistici depositassero veli di noia e spegnessero il nostro rapporto che invece impreziosiamo con il magico nettare della reciproca comprensione, col rispetto e la solidarietà. Ecco perché nonostante i miei ottant’anni non mi considero “vecchio” né tantomeno “improduttivo”, se si tiene conto di quanto amore continuo a produrre e con quale entusiasmo! Al governatore Toti consiglio di riflettere bene su ciò che ha scritto e di non dimenticare mai che proprio quei vecchi del ’30 e del ’40 a cui fa cenno, nonostante la guerra, la fame e la miseria più nera, con sacrifici immani hanno ricostruito una nazione completamente “sgarrupata” e hanno fatto grande l’Italia permettendo alla sua generazione di godere frutti di cui noi non sentivamo neppure l’odore.

Raffaele Pisani

Solo per la tua padronanza dell’italiano, caro Raffaele, vedo in te un lume di produttività difficile da trovare in molti rappresentanti delle generazioni successive. La produzione di un pensiero bello e ordinato ormai è merce rara.

 

“Tutto chiuso? No, è la solita routine”

Cara Selvaggia, ho letto un tuo post dove evidenziavi la struttura ‘a groviera’ delle nuove zone rosse e allora ho pensato di raccontarti un piccolo esperimento che ho condotto venerdì, il primo giorno di lockdown a Milano, senza violare leggi e adottando tutte le precauzioni.

Sveglia alle sette di mattina per accompagnare la piccolina alle elementari ed il mezzano alle medie, visto che fa la prima e può ancora andare a scuola. A quel punto ho parcheggiato e sono andata a prendere un caffè e un cornetto da asporto al mio bar preferito (e c’era una discreta fila!), bevendo e mangiando in macchina per non restare nemmeno un secondo all’aperto senza mascherina. Poi sono andata al lavoro e, in pausa pranzo, sono andata a ritirare una “schiscetta” nel ristorante sotto l’ufficio che ora fa “take away”. Al pomeriggio, mentre mio marito stava a casa coi bambini, sono andata a fare la spesa: un salto al supermercato, un po’ di pane in panetteria, un giro dall’ortolano. Poi al negozio d’elettronica, anche se non ho trovato quello che cercavo e non ho comprato nulla. A quel punto ho preferito concedermi un buon libro, vestiti per i bambini e, perché no, un bel paio di occhiali da sole nuovi. Sono tornata a casa verso le otto e non avevo molta voglia di mettermi a cucinare, anche perché tutti in casa desideravano una pizza fumante e allora sono risalita in macchina e sono andata a prenderne qualcuna da asporto in pizzeria, tornando finalmente a casa alle nove. Che giornata! Non sembrava nemmeno di essere in zona rossa. Domani penso che andrà al mercato, ce n’è uno molto famoso vicino a dove vivo, per prendere il pesce fresco per il pranzo e qualche fiore per la tavola. Prima però, una bella corsetta al parco e un giro con il cane.

In realtà, Selvaggia, non ho fatto nulla di tutto questo. In casa nostra vive mia madre che ha più di settant’anni e io ho una paura maledetta per lei, ma anche per me, per i bambini, per mio marito. Non posso far finta che a Milano tutti i giorni non si trovino migliaia di nuovi positivi e che muoiano centinaia di persone che, senza Covid, probabilmente sarebbero ancora vive. Perciò queste misure all’acqua di rose mi provocano solo tanta rabbia. Rabbia per chi, di giornate come la mia mai trascorsa, ne passeranno invece tante; rabbia per tutti quelli che il lavoro lo perderanno, perché quanti occhiali da sole vuoi vendere in un novembre pandemico? Però ufficialmente loro sono aperti e probabilmente non vedranno un centesimo di aiuti. Rabbia, soprattutto, perché tutto ciò accade un po’ per far finta di niente, un po’ per non sganciare soldi che non ci sono. Rabbia e paura. Che mondo terribile.

Silvana

 

Rabbia e paura anche per me, Silvana. E poi tanta, tanta sfiducia. Nella politica, nel futuro, un po’ in tutto.

Anti-bergoglianiSleepy Joe è Satana, Francesco è Lucifero: sul mondo le tenebre dell’inferno

La lunga battaglia per la Casa Bianca è terminata e Joe Biden ha vinto. Anzi Satana. Un diavolo coi capelli bianchi, che compirà 78 anni il prossimo 20 novembre. Siti e quotidiani dei clericali di destra sono listati a lutto con nastri neri per la sconfitta del loro amato Donald Trump, innalzato ad araldo della vita contro il Nuovo Ordine Mondiale voluto da deep state e massonerie varie, comprese quelle che si battono per “i diritti dei sodomiti”.

E così il paragone tra la vittoria di Biden e l’ora delle tenebre infernali scatta come un riflesso automatico. Ecco dunque il solito monsignor-macchietta Carlo Maria Viganò, interlocutore prediletto dello stesso Trump in queste settimane. Per Viganò i brogli che hanno impedito il bis del presidente uscente sono naturalmente opera di Satana: “Non pensate che i figli delle tenebre agiscano con onestà, e non scandalizzatevi se operano con l’inganno. Credete forse che i seguaci di Satana siano onesti, sinceri e leali? Il Signore ci ha messi in guardia contro il diavolo”.

Sempre Viganò – tra le gole profonde di Vatileaks 1 nonché accusatore di Bergoglio con dossier a scoppio ritardato sulla pedofilia nella Chiesa – nel settembre scorso aveva denunciato i punti di contatto tra Francesco e il candidato democratico (cattolico): “Non stupisce quindi se le priorità del programma politico di Bergoglio coincidano con le priorità di Joe Biden. Il migrazionismo, l’ambientalismo, l’ecologismo malthusiano, l’ideologia gender, la dissoluzione della famiglia, il globalismo sono comuni all’agenda del deep state e della deep church”. Sintesi finale: Bergoglio ha “un’avversione teologica a Cristo, propria di Lucifero”. Parole pronunciate in un’intervista a Stilum Curiae di Marco Tosatti.

Il sito italiano di Ifn, International family news, ha messo il nastro nero del lutto. Spiega Marco Respinti: “Negli Stati Uniti d’America hanno vinto i cattivi. (…). L’euforia di Biden e della Harris, dei loro elettori e dei loro sostenitori, è la danza di morte di un mondo che s’ingrassa con la soppressione di vite umane innocenti, con la distruzione della famiglia naturale, con l’ideologizzazione della violazione di ogni intimità della natura umana, con lo stupro di ogni libertà vera”. La profezia di imminenti tenebre è evocata pure da Corrispondenza Roma dello storico Roberto de Mattei, già consulente di Gianfranco Fini. I mali provocati dalla vittoria di Biden-Satana includono il Black Lives Matter e il dialogo con la Cina comunista: “Promozione del crimine di aborto ed altri mali morali intrinseci, persecuzione della libertà di religione, violenza e teppismo nelle strade con il pretesto dell’anti-razzismo, soppressione della libertà di parola e del diritto di autodifesa, statalizzazione/burocratizzazione di sanità ed educazione, proliferazione di tasse e regolamenti, depressione economica e crescente indebitamento, politica internazionale servile nei confronti della Cina comunista e di altri centri di potere”.

Insomma, la sconfitta di Trump ha rotto definitivamente gli argini dell’anti-bergoglismo. Per i clericali di destra, sul mondo sono calate le tenebre dell’inferno.

 

Il caso Bontempelli, quando i “forchettoni” bandirono lo scrittore

L’assemblea di Palazzo Madama, il 2 febbraio del 1950, decretò con una maggioranza di undici voti la decadenza da senatore di Massimo Bontempelli (Como, 1878 – Roma, 1960), uno dei letterati più originali e rilevanti del nostro Novecento.

Era stato eletto al Senato per il Fronte democratico popolare, costituito da comunisti e socialisti (il Pci e il Psi), nelle elezioni dell’aprile 1948. La sua nomina, scriverà lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa, venne invalidata “con un rigore che non fu usato nel confronto di altri”. L’avere curato un’antologia scolastica “di propaganda fascista”, nel 1935, fu all’origine del provvedimento contro un intellettuale che certamente era stato fascista, ma che poi si era messo contro il partito, da cui venne allontanato, e che, ricorda lo storico Renzo De Felice, “osò rinfacciare” a un gerarca quale Giuseppe Bottai “la sua adesione all’antisemitismo”.

Durante il dibattito in aula, in quel 2 di febbraio, a difendere Bontempelli si alzò la voce del comunista non ortodosso Umberto Terracini, già presidente dell’Assemblea Costituente e tra i firmatari del testo della Costituzione. Disse intanto che la discussione appariva “molto strana”, perché ciascuno “si guarderà intorno e vedrà quanto, nella nuova Italia, è rimasto del passato fascista; e identificherà in ogni ganglio, in ogni ente, in ogni istituzione, nei posti più delicati della struttura politica, sociale ed economica persone che hanno servito il fascismo e lo hanno osannato”. E aggiunse: “Quando l’Assemblea Costituente ha votato la formula ‘libri scolastici di propaganda fascista’ , ha voluto dire, per l’appunto, ‘libri di propaganda’ e non testi di letteratura, o di storia nazionale, o di economia politica”, tra cui rientrava il vecchio testo dello scrittore che Jorge Luis Borges amava per il suo realismo magico.

Tutto inutile. Bontempelli fu cacciato da Palazzo Madama, il seggio venne occupato dal comunista Felice Platone. In un Paese che non avrebbe mai fatto davvero i conti con il suo passato fascista, quel giorno si mise in scena però la parodia dell’epurazione per dimenticare il resto del fascismo sopravvissuto, che contava davvero ed era ben vivo nel cuore dello Stato. Avrebbe scritto Bontempelli in uno dei racconti di L’amante fedele, premio Strega 1953: “Forse il mondo non ha più bisogno di fare storia. Ma allora che ci stanno a fare gli uomini?”.

Paolo Aquilanti ricostruisce, con efficacia narrativa e passione etica, la lunga giornata romana di Bontempelli del 2 febbraio 1950: attraverso i suoi pensieri, i ricordi, l’attesa, lo sconforto, le conversazioni con gli amici e con l’amatissima scrittrice Paola Masino, la sua compagna di una vita. Ne è nato Il caso Bontempelli. Una storia italiana (Sellerio, pagine 185, euro 12): una “storia italiana”, esemplare nel segno degli amari apologhi storico-civili di Leonardo Sciascia, che si dipana, rammenta l’autore, “in aderenza ai fatti e con licenze d’immaginazione”. Con una morale implicita nelle pagine della narrazione: già in quel 1950, a cinque anni appena dalla Liberazione, a prevalere sulle speranze di un rinnovamento era l’Italia di sempre.

L’Italia insomma degli azzeccagarbugli travestiti da moralizzatori, dei furbi e degli ottusi, dei veri fascisti ripuliti per la bisogna, della ricerca dei capri espiatori per salvare i colpevoli reali: un’Italia fatta già dai tanti Corrado Carnevale che sarebbero venuti poi nella cultura, nella magistratura e nella politica, ligi alla forma per cancellare la sostanza delle cose.

Come bene narra Aquilanti, oltre all’evidente connotazione politica, l’attacco a Bontempelli, mosso da esponenti della Democrazia cristiana (a cominciare da Alberto Canaletti Gaudenti) e da repubblicani, liberali e socialdemocratici, svelò la sua parodia di antifascismo nell’arroccarsi attorno alla norma di legge che prevedeva il decadimento dall’incarico parlamentare, per cinque anni, anche di chi fosse stato autore di libri e testi di scuola di propaganda fascista.

E su quel codicillo si esaurì, dimenticando la personalità dello scrittore e ciò che aveva fatto, il suo dissidio con il regime mussolianiano alla fine degli anni Trenta e il rifiuto di prendere il posto all’Università di un docente ebreo “fatto fuori” dalle leggi razziali. Quella stessa norma tuttavia, affermò Terracini, assolveva il senatore sotto inchiesta pur con quelle pagine incriminate inneggianti ovviamente al Duce, e presenti come in tutti gli altri libri di testo, quello di Bontempelli era “un libro per l’insegnamento dell’italiano”, non un “testo scolastico di propaganda fascista”. Ma il Senato la pensò diversamente da lui.

L’autore di L’amante fedele, di La vita operosa, di Minnie la candida, che un critico come Luigi Baldacci avrebbe accostato a Italo Calvino, quel giorno, in aula, non intervenne.

Più tardi, a casa, racconta Aquilanti fra fatti reali e immaginazione, confessò a Paola Masino di non potere nascondere che si era trattato “di una prova assai dura, non siamo dentro di noi altro che quello che siamo anche in pubblico. È l’espressione pubblica della mia vita che si è ammalata”.

Il giorno dopo, sulle colonne de L’Unità, il quotidiano comunista, il senatore Emilio Sereni annotò che Canaletti Gaudenti “è dei non molti senatori democristiani con i quali scambio sovente qualche parola. (…) Non credo che – a differenza di molti altri dirigenti politici democristiani, come Pella e altri – sia stato nemmeno mai fascista. Eppure guarda un po’: mentre ascoltavo la sua filippica contro Bontempelli, avevo sotto gli occhi un suo volume di economia generale e corporativa, pubblicato sotto il fascismo, brani interi della Carta del Lavoro fascista, da lui illustrata come il non plus ultra, come l’ultima parola della scienza e dell’arte economica. Né più né meno, nel suo campo, di ciò che egli incriminava a Bontempelli”.

Federico Fellini nella Rocca di Rimini: ne sarebbe lieto?

“Ecco come sono fatti gli italiani; e quando i pochi che non sono fatti così avranno consumata la loro vita a insegnare con l’esempio e con la parola un po’ di serietà, le cose saranno su per giù al punto di prima. E non ostante, il dovere di noi pochi resta quello”. Così annotava, l’8 giugno 1944, nel suo diario (pubblicato, col titolo Le pietre di Rimini, dalle Edizioni di Storia e Letteratura) il grande filologo e paleografo Augusto Campana dedito in quei mesi a coraggiosissime piccole e grandi imprese volte a salvare lo straordinario patrimonio storico e artistico di Rimini, selvaggiamente colpito dai bombardamenti. Parole profetiche: perché gli italiani anche oggi sono “fatti così”: sordi e ciechi di fronte a questo loro patrimonio, capaci solo di manometterlo, pur di metterlo, bene o male, a reddito. E i riminesi non fanno eccezione.

È clamoroso il caso della Rocca della città: l’enorme castello e palazzo costruito nel Quattrocento dal signore di Rimini, e grande committente di artisti, Sigismondo Pandolfo Malatesta. Un monumento di straordinaria importanza, alla cui progettazione collaborò perfino Filippo Brunelleschi (il Giornale del Provveditore dell’Opera del Duomo di Firenze registra che “Filippo di ser Brunellesco va al Signore di Rimini, parte di Firenze 28 agosto e torna 22 ottobre 1438”). Un monumento che esattamente un anno fa è stato ufficialmente destinato dall’amministrazione comunale ad ospitare una delle tre sedi del museo dedicato a Federico Fellini. Una scelta discutibile: perché rischia di risolversi non in una somma, ma in una sottrazione: visto che Castel Sismondo è un monumento in sé, e non un contenitore da riempire. Il non vedere quest’ultima realtà, cioè la mancata consapevolezza del valore intrinseco e autonomo di questa straordinaria architettura, ha portato a una vera e propria mostruosità: il progetto di costruire, sulla piazza Malatesta che si apre davanti al Castello, e dunque in parte sul fossato che fu colmato nell’Ottocento, una gigantesca fontana, sulla cui tenda d’acqua si dovrebbero proiettare, in loop, le sequenze più famose dei film del genio riminese.Ora, il problema non è tanto il terribile cattivo gusto di questa trovata super kitsch, quanto l’evidente sfregio al monumento e alle leggi che dovrebbero tutelarne la visibilità.

Tra le tante lettere che ho ricevuto, mi ha colpito quella del professor Giovanni Remondini, che nonostante sia stato l’insegnante di storia del sindaco, a scuola, ha provato inutilmente “a fargli capire che quel luogo non è un ‘contenitore’, ma un palinsesto di costruzioni che vanno dal palatium magnum di Malatesta da Verucchio fondatore della dinastia che ha governato Rimini per due secoli, all’intervento – forse con difese anamorfiche – di Filippo Brunelleschi”. E poi quella di un giovane studioso, Mathis Cesari, che si batte perché “la piazza Malatesta non diventi questa specie di circo all’aperto”. Remondini ha quasi ottant’anni, Cesari non arriva ai trenta: Campana sarebbe felice di sapere che riminesi di tutte le età oggi insorgono contro il progetto. Italia Nostra e l’Associazione Rimini città d’arte Renata Tibaldi hanno scritto al ministro Dario Franceschini per ricordargli che dalla parte di chi dissente milita anche la legalità: “Con il decreto 4 marzo 1915, si dispone che ‘è proibito fare qualsiasi costruzione’ negli inedificati spazi circostanti e dunque innanzitutto in quello che si apre sul fronte del Castello verso il retro del teatro ottocentesco, l’attuale piazza Malatesta. E proprio in questo spazio un più recente decreto ministeriale (29 ottobre 1991) estende la tutela al sottosuolo che ha interesse archeologico particolarmente importante perché conserva il tracciato delle mura tardoimperiali della città romana, altri resti insediativi antichi e le strutture del fossato difensivo della Rocca”.

La risposta del ministro è stata affidata al Direttore delle Belle Arti, l’architetto Federica Galloni, che ha comunicato di aver assunto informazioni formali su quello che definisce “recupero identitario del centro storico di Rimini, con particolare attenzione alla Rocca Malatestiana”, e di poter garantire che “tutte le operazioni saranno svolte nel pieno rispetto (…) dei valori culturali dell’intero complesso architettonico”. E, in risposta a Italia Nostra che aveva ipotizzato che Franceschini non fosse a conoscenza dell’entità dello sproposito, ha voluto precisare che no, “l’onorevole ministro è costantemente informato dell’azione di tutela posta in essere dagli Uffici competenti sull’intero territorio nazionale”. Insomma, l’onorevole ministro veglia: e dunque tutto va bene, madama la marchesa.

Da parte mia, no, non credo che vada tutto bene. E son così sovversivo da pensare che Federico Fellini – che amava le sue pietre e ne sapeva leggere davvero i “valori culturali”, cioè lo spazio e la storia – sarebbe il primo a voler lasciare in pace la Rocca.

La sai l’ultima?

Bologna Prostituta senza mascherina multata, 
il cliente la indossa e non viene sanzionato

I sostenitori del complotto e delle teorie distopiche sul Covid, leggendo questa notizia, grideranno una volta di più alla dittatura sanitaria. A Bologna, precisamente a Borgo Panigale, una prostituta e il suo cliente sono stati sorpresi dai carabinieri mentre stavano per consumare l’atto. La donna è stata multata perché non portava la mascherina, il cliente invece è stato solamente identificato perché – scrive Il Resto del Carlino – “indossava correttamente il dispositivo di protezione”. Lasciamo volentieri ai lettori, e al redattore dell’articolo, la sottilissima ironia su quale fosse “il dispositivo di protezione” indossato “correttamente” dallo zelante utilizzatore finale di sesso mercenario. Fatto sta che con l’obbligo di indossare la mascherina, al chiuso e pure all’aperto, c’è poco da scherzare. Sempre a Bologna infatti, la polizia ha multato per violazione delle normative sanitarie un uomo palesemente ubriaco, che minacciava i passanti in via Matteotti: lo faceva senza mascherina.

 

Fermo Rubano un motorino, restano a secco di benzina
e vanno a chiedere i soldi a un poliziotto. Scatta la denuncia
Spesso in questa rubrica ci imbattiamo nel genio. E cosa c’è di più geniale della fantasia e del pensiero divergente di questi due ragazzi di Civitanova Marche? Rubano uno scooter, restano senza benzina, non hanno un euro in tasca e vanno a chiedere i soldi a un agente di polizia in borghese. Genio e sfortuna. Un destino inevitabile: i due avevano l’aria talmente losca che sono riusciti a farsi beccare subito e a far scattare la denuncia. Questo episodio meraviglioso è successo a Porto Sant’Elpidio, in provincia di Fermo. Con il motorino rubato a secco e con la massima disinvoltura, i ladri si sono avvicinati alla prima persona che hanno trovato, gli hanno chiesto 5 euro e una sigaretta per stemperare il nervosismo. Il poliziotto ha voluto sapere a cosa servissero i soldi, loro gli hanno indicato lo scooter. L’agente si è insospettito, ha fatto un rapido controllo e ha scoperto che il motorino era stato rubato pochi giorni prima. Il ragazzo che era alla guida è stato denunciato per ricettazione.

 

Il Tempo Bechis pubblica la pubblicità del simpatico
cagnolino… con una bestemmia a caratteri cubitali
Delicati giochi di parole e giornalisti distratti. Sul Tempo martedì scorso ha trovato spazio una pubblicità che non poteva lasciare indifferenti. Un simpatico cagnolino con gli occhiali abbraccia una pila di volumi colorati. A caratteri cubitali, in testa e in fondo alla paginata, c’è lo slogan col suo elegante calembour: “Okane ha un libro. Di chi è il libro? Di… Okane! E non si dica che neanche un cane legge i libri di XXX EDITORE!”. Ebbene sì: esiste al mondo una casa editrice che pur di far parlare di sé si presenta con una bestemmia (pubblica anche apologie del fascismo e non merita altre attenzioni). Ma nessuno può essere tanto stupido da mandare in stampa una pubblicità del genere, vero? Falso. La réclame del cagnolino Okane è finita sul bigottissimo Tempo, l’ultimo posto dove ci si aspetterebbe di trovarla. Il giorno dopo il direttore Franco Bechis si è scusato con i lettori: “Ci era sfuggito – volponi! –. Il file è stato distrutto, le stampe addirittura bruciate”. Bastava meno.

 

Amanda Knox Il tweet spiritosissimo: “Pure dovesse
vincere Trump, non sarà peggio dei miei 4 anni in Italia”
Nel delirio delle interminabili elezioni americane non poteva mancare il prezioso contributo di Amanda Knox, la protagonista di uno dei più celebri casi di cronaca nera della storia recente: l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia nel 2007. La Knox – ricorderete – è stata assolta in Cassazione dopo un lunghissimo e controverso iter giudiziario. Ha passato comunque 4 anni in carcere ed è stata condannata per calunnia per aver accusato una persona completamente estranea ai fatti. Seppure giudicata innocente, non dovrebbe avere tanta voglia di scherzarci sopra, visto che una ragazza ha perso la vita. Amanda invece ci scherza eccome, ha costante bisogno di attenzione. L’ha fatto pure, su Twitter, durante la prima delle numerosi nottate elettorali americane, quando sembrava potesse rivincere Trump: “Qualunque cosa accada, i prossimi quattro anni non possono essere tanto brutti come quei quattro anni di studio all’estero che ho fatto in Italia, giusto?”. Le risate…

 

Sulcis Gli ritirano la patente, lui prende la ruspa,
ribalta l’auto dei carabinieri e poi prova a investirli
Ruspa! Il vecchio slogan di Salvini è tornato in auge a Teulada, nel Sulcis, dove un ristoratore si è avvalso dei suoi potenti mezzi per combattere le angherie dello Stato. Come racconta l’Unione Sarda, il 51enne Alessio Madeddu – che in passato ha partecipato alla trasmissione Quattro Ristoranti di Alessandro Borghese – è stato fermato mentre era alla guida in stato di ebbrezza e ha passato una notte in carcere. Ma andiamo con ordine, perché il fuoriclasse non ha alzato solo il gomito. Succede tutto lunedì scorso. Alle 22 di ieri i carabinieri notano l’auto di Madeddu fuori strada. Il ristoratore è palesemente ubriaco e si rifiuta di fare l’alcoltest, i militari lo denunciano e gli ritirano la patente. Madeddu non si dà pace: rientra in casa, prende le chiavi della ruspa e torna sul luogo dell’incidente. Ci trova ancora l’auto dei carabinieri, la carica e la ribalta con l’escavatrice, poi tenta di inseguire e investire i due agenti. All’arrivo dei rinforzi, Madeddu si dà alla macchia. Dopo qualche ora, svanito il delirio alcolico, torna in caserma a costituirsi.

 

Rotterdam Il treno della metro deraglia ma evita
lo schianto grazie a una gigantesca “coda di balena”
L’immagine è incredibile: il vagone di un treno deragliato, sospeso nel vuoto oltre il guard rail, tenuto in orizzontale solo dalla strana scultura sopra cui è appoggiato: una gigantesca coda di balena. Sembra una strana opera d’arte, ma è successo davvero a Rotterdam, in Olanda. Lo racconta l’Agi: “Tragedia evitata grazie a una mega scultura di plastica: un treno della metro, uscito dai binari poco dopo mezzanotte, è stato salvato da una ‘coda di balena’ finta. L’installazione, che si innalza dal mare al termine di un tratto sopraelevato della ferrovia, ha impedito ai vagoni di finire in mare. La carrozza di testa, bloccata dalla scultura, è rimasta a penzolare a 10 metri dal mare, permettendo al macchinista di liberarsi e mettersi in salvo”. L’artista che ha realizzato l’installazione è stato intervistato dai media locali e si è detto comprensibilmente sorpreso: “Sono stupefatto che sia così forte, dopo 20 anni non mi sarei aspettato che la plastica reggesse un treno della metro”.

 

Trump L’ultima conferenza stampa in un parcheggio
deserto, accato al sexy shop e al forno crematorio
L’addio di Trump alla Casa Bianca si consuma con uno degli episodi più comici e straordinari della storia degli Stati Uniti. Donald, come noto, non riconosce la vittoria di Biden. Sabato lancia una “grande conferenza stampa al Four Seasons di Philadelphia”, uno degli hotel più lussuosi del paese: ci sarà Rudolph Giuliani per annunciare al mondo la battaglia legale contro i brogli dei democratici. Ma c’è un inconveniente: l’albergo si rifiuta di ospitarli. Un bel danno, perché Trump ha già scritto in mondovisione che l’evento è al Four Seasons. Lo staff dell’ex presidente cerca una soluzione per salvare la faccia: trovano uno spazio che si chiama “Four Seasons Total Landscaping”. È un po’ in periferia ma il nome in fondo è simile. Il proprietario è ben felice di ospitare la conferenza stampa. E fu così che Giuliani, ex sindaco di New York, finì per annunciare la guerra di Trump alla democrazia in un parcheggio squallido, fatiscente, deserto, accanto all’insegna del sexy shop “Fantasy Island” e a un forno crematorio. Sipario. Capolavoro.

“Scaricabarile, teoria e prassi Gli italiani, perfetti misirizzi”

T eoria e pratica dello scaricabarile. “È una forma profonda del nostro carattere. Noi siamo un popolo di misirizzi, il balocco che bascula, oscilla ma non cade perché ci troviamo sempre dall’altra parte della colpa. Lo scaricabarile è la nostra quintessenza, la radice, il genoma”.

Lei, professor Niola, ha scritto che l’italiano è il popolo della terza persona.

È sempre l’altro a dover fare, spiegare, e la responsabilità è sempre del precedente governo, e poi ancora di quello prima, e poi prima e prima ancora. Un modo perfetto per disconoscere, dimenticare, nascondersi, basculare dentro la nuvola dell’indeterminatezza. Il misirizzi perfetto.

Esiste una secrezione naturale delle responsabilità. La nostra società e la nostra burocrazia è costruita in modo che a nessuno venga mai in mente di associare il volto a un impegno, men che mai a una disfatta.

Esistono collettori prodigiosi di responsabilità. Se qualcosa va storto c’è sempre un presidio, naturalmente impersonale, che ha ostruito la nostra volontà. Una soprintendenza, o il sindacato, o i vigili urbani. Qualcuno – se non al di sopra – sicuramente al di fuori di noi. Lo scaricabarile diviene il passaggio essenziale per sopravvivere e continuare a patteggiare con la realtà.

Siamo come quegli studenti che si presentano impreparati all’interrogazione e poi si dolgono del quattro.

Esattissimo. L’insegnante, al pari dell’arbitro di calcio, è il perfetto parafulmine. Con questa aggravante: se negli anni passati i figli – nel ruolo di studenti caproni – non riuscivano a trovare sponda in famiglia, perché i genitori per principio assolvevano il maestro, oggi invece non c’è più barriera. Spesso la famiglia si coalizza e il colpevole è colui che dà i voti cattivi non il figlio impreparato.

Ci sono esempi limpidi di scaricabarile. Il presidente della Lombardia Fontana che con diecimila infettati al giorno accusa il governo di aver schiaffeggiato l’onore lombardo.

Poi le dirò sull’uomo d’onore. È il presidente Fontana ad aver assestato uno schiaffo alla sua Lombardia per non aver saputo gestire al meglio una crisi comunque difficile. Però è certo che la Lombardia l’ha eletto con convinzione ed egli la rappresenta molto fedelmente. Oggi più che mai la classe politica è lo specchio integro della sequela di vizi della società civile (che infatti oggi non chiamiamo più così).

I napoletani ce l’hanno col governo per l’esatto opposto: avrebbero preferito la zona rossa.

Potevano bussare alla regione Campania, no? Oppure potevano comportarsi con più rigore per evitare questa disfatta. Sa che i quartieri a più alta incidenza di positivi sono quelli dove vive la borghesia napoletana? Chiaia e Posillipo. Una borghesia che non sa essere classe dirigente, che fa strame di regole e invoca l’altro. Lo invoca mostrandosi sorda a ogni responsabilità. Costoro compongono il più fenomenale quadro del tipico uomo d’onore.

Ah, l’onore italiano.

L’onore è tenuto alto solo in famiglia. Appena fuori l’uscio di casa esso assume i caratteri della devianza. Siamo il popolo dell’onore familistico, e siamo il popolo dell’indulgenza. Nessuna colpa è assunta, nessuna responsabilità pagata. Tutto patteggiato, perdonato, condonato. I protestanti sono nati come reazione alla società dell’indulgenza: l’individuo risponde in solitudine e pienamente dei propri atti.

Nonostante i nostri vizi e le collusioni, spesso ci indigniamo.

L’indignazione dura il tempo della fiammella di un cerino. La smemoratezza è un effetto collaterale del nostro essere misirizzi.

Non ci salveremo.

Ci salveremo, ma pagando un pegno più alto del necessario. Facciamo spesso il paragone con i tedeschi: con la loro efficienza e organizzazione. Se ci pensa la nostra considerazione non muove dalla volontà di emularli ma solo dalla scelta di autodenigrarci pur di assolverci. Non saremo mai come loro, non lo possiamo essere. E qui torniamo al punto di partenza.

Moriremo misirizzi.

Basculando di qua e di là.

Coronavirus. La tecnologia “Made in Gaza” contro il Covid

È “Made in Gaza”, ma non è un missile di Hamas come siamo abitati a pensare. L’enclave palestinese sul Mediterraneo compressa fra Israele ed Egitto, isolata dal resto del mondo, laboratorio per testare le sofferenze umane, il peggior posto sulla Terra per un bambino dove venire al mondo secondo l’Onu, non è stata risparmiata dal Covid 19. Costretti a vivere in condizioni sub-umane gli abitanti della Striscia hanno cercato una loro risposta alla pandemia, viste anche le enormi difficoltà di far entrare a Gaza anche materiale umanitario e medico. Da qualche settimana entrando in un ristorante di Gaza City, i clienti vengono accolti da una macchina di disinfezione progettata da una giovane donna. Mentre dal dispenser esce del disinfettante il dispositivo – che è alto due metri – prende anche la temperatura corporea. Se è troppo alta, si accende un segnale rosso. In caso contrario, la porta del ristorante si apre automaticamente. “A Gaza c’è qualche dispositivo importato dall’estero per misurare le temperature e altri per disinfettare, ma i nostri uniscono più tecnologie in una”, ha raccontato alla tv della Striscia Heba al-Hindi, la sua ideatrice.

L’enclave densamente popolata, sotto il blocco israelo-egiziano da quando Hamas prese il potere nel 2007, è stata inizialmente risparmiata dal Covid. Ma le terribili condizioni economiche, un sistema sanitario inadeguato e una carenza cronica di elettricità, in parte causata dal blocco, hanno reso Gaza molto vulnerabile al virus. Le infezioni hanno superato quota 6.000 con 31 morti. “Quando il Covid ha raggiunto Gaza, mi sono detta che dovevo trovare un modo per combattere la sua diffusione”, ha raccontato Hindi, che è laureata in matematica, “Poi è nata l’idea di creare un disinfettante e ho progettato queste macchine intelligenti”. La sua società – Innovation Makers – ha venduto a supermercati, panifici e ristoranti, per un prezzo compreso tra 550 e 1.500 dollari. L’azienda per fortuna trova pezzi di ricambio per i dispositivi sul mercato locale, ma non può esportare le creazioni “Made in Gaza”. Per via del blocco se entra qualcosa – certamente – niente esce dalla Striscia.

 

La comunità cattolica prova a ritrovarsi dopo il terrore

Una dozzina di veicoli della polizia occupano il sagrato della basilica di Saint-Denis. Ai piedi della chiesa gotica, necropoli dei re di Francia e monumento storico, che si trova in Seine-Saint-Denis, uno dei dipartimenti più popolari alle porte di Parigi, alcuni passanti attraversano la piazza tenendosi alla larga dalle due file di furgoncini. Sono rari quelli che entrano nella cattedrale cattolica. È il venerdì 30 ottobre. Appena poco più di una cinquantina le persone sono venute a raccogliersi nella chiesa, molte meno delle diverse centinaia di persone dei giorni di grande affluenza.

Se sono così poche si deve di certo al nuovo “confinamento”, appena entrato in vigore, ma non è il solo motivo. Il giorno prima, giovedì 29, tre persone sono state assassinate nella basilica Notre-Dame di Nizza. E quel tragico attentato ha scosso l’intera comunità cattolica. “È molto triste, ma quando sono entrata in chiesa, non mi sentivo al sicuro e mi guardavo continuamente alle spalle – ammette Sophie, 67 anni –. È assurdo venire a pregare dovendomi dire che un pazzo potrebbe entrare da un momento all’altro. È orribile”. Padre Elorian Atsima è uno dei tre sacerdoti della parrocchia locale. È al telefono che ha appreso dell’attentato. Quel giovedì, aveva appena finito di celebrare la messa delle nove del mattino davanti a una cinquantina di fedeli. “Bisogna riconoscere che ciò che è successo a Nizza ha toccato la nostra fede in profondità – dice il prete –. In quel momento ho pensato: ora basta, questo è troppo… ma quando finirà questo orrore? Ho avuto come la sensazione che sarebbe potuto succedere anche nella mia chiesa”. Anche i fedeli si interrogano. “Sul gruppo Whatsapp della parrocchia sono nati subito diversi dibattiti – racconta padre Elorian Atsima –. Quello che è successo è inconcepibile. Molti cristiani hanno preso questo attentato come un attacco alla loro religione. Molti hanno paura”. La mattina dopo un fedele ha chiamato il sacerdote e gli ha chiesto: “Padre, non possiamo vietare ai non cristiani di entrare nella chiesa?”. Un altro, sempre al telefono, gli ha chiesto: “Per quanto tempo dovremmo subire questi attacchi?”.

La presenza delle pattuglie della polizia, ben visibili ai piedi della cattedrale, a Saint-Denis, rassicura i fedeli che hanno paura. Eric (è un nome di fantasia), sulla quarantina, ne è consapevole, ma non può fare a meno di pensare che questa presenza rivela una realtà molto preoccupante: “Non è normale – dice –. Non ci dovrebbe essere bisogno di venire in chiesa protetti da poliziotti e militari”. Padre Elorian ce lo dice apertamente: “Non ci sentiamo affatto a nostro agio in questa situazione, ma capiamo che è necessario”. Il sacerdote ha deciso di comportarsi normalmente, come se niente fosse. Il venerdì ha ricevuto diversi fedeli per la confessione. La domenica, primo novembre, ha celebrato la messa di Ognissanti. Il lunedì 2 ha onorato i morti. Quindi ha continuato ad accogliere la comunità cattolica di Saint-Denis. Se non può celebrare la messa, a causa della crisi sanitaria, la sua intenzione è di mantenere il legame sociale tra la parrocchia e i suoi fedeli, circa un “migliaio”. Le persone che entrano e escono dalla cattedrale di Saint-Denis in questo pomeriggio d’autunno sono all’immagine di questa città della periferia parigina di 110 mila abitanti: una città cosmopolita. “Nella nostra parrocchia c’è un po’ di tutto – spiega ancora padre Elorian, lui stesso arrivato dal Congo tre anni fa –. Ci sono bianchi, neri, persone di origine caraibica, africana, portoghese, uomini, donne, famiglie…”. Qui la sfida del vivere insieme è più grande che altrove. “Il rischio è di reagire puntandosi il dito l’uno contro l’altro, stigmatizzando l’altro – sottolinea Eric, che parla posando una mano sul cuore –. Ma è esattamente il contrario di quello che si deve fare. Dopo ciò che è successo a Nizza, bisogna invece aprirsi ancora di più al dialogo, cercare di comprendersi a vicenda. Credo davvero che sia l’unica soluzione”. Sophie vive a Saint-Denis da “quasi mezzo secolo”, ci dice. “Certe volte mio marito cerca di convincermi di tornare a vivere in Martinica – racconta –. Ma non ho nessuna intenzione di lasciare Saint-Denis. Prima di andare in pensione, ho lavorato per diversi anni in una banca, a Parigi. I miei colleghi mi guardavano in modo strano quando dicevo loro dove abitavo. Eppure, io sono felice qui, non ho mai avuto problemi. E soprattutto mai a causa della mia religione”. La mattina del sabato dopo l’attentato, una dozzina di persone è entrata nella chiesa di Saint-Denys-de-l’Estrée, che si trova a non più di settecento metri di distanza dalla cattedrale. Erano soprattutto famiglie, tanti giovani, genitori con i figli, qualche anziano. Helena, 75 anni, comincia a parlare scusandosi per il suo accento. Arrivata dalla Polonia nel 1970, anche Helena vive a Saint-Denis da una cinquantina di anni. “Quello che è successo a Nizza mi ha toccato molto”, ha detto. Poi ci comincia a parlare di sé, di Saint-Denis, delle sue “amiche musulmane” e dell’importanza di essere “ancora più uniti, ancora più vicini di prima”: “Anche i musulmani stanno soffrendo per quello che è successo. Non ne sono responsabili. Quelli che commettono attentati in nome della religione sono malati. Per quanto mi riguarda, non è cambiato niente, con i miei vicini, i miei amici. I fatti di Nizza non devono dividerci”.

Helena si muove con una certa difficoltà a causa di alcune protesi molto dolorose. Ma i suoi occhi azzurri sono molto vivaci. Continua a raccontarci aneddoti: “Le mie amiche sono come me. Alcune portano il velo, ma tra me e loro non ci sono differenze. Mangio a casa loro e loro mangiano a casa mia. E poi, anche in Polonia le donne indossano il foulard durante l’inverno! Ognuna di noi ha la sua religione e ognuna rispetta la fede delle altre. Questa è la laicità. E va bene così. Se non fossi stata bene in Francia, me ne sarei tornata in Polonia, non sarei qui da cinquant’anni!”. Ma il terrorismo esiste e le “fa paura”. Helena dice di voler “separare la religione e la politica”, ma ritiene che Emmanuel Macron “non stia affrontando la questione nel modo corretto”. Quindi ci parla delle proteste sorte nel mondo arabo-musulmano in queste ultime settimane: “Il governo deve riflettere – dice –. La libertà è importante, ma si devono rispettare le regole e non bisogna ferire le persone. Per quanto mi riguarda, per esempio, a me non piace quando viene caricaturato il papa. Non abbiamo bisogno di queste caricature, e soprattutto non abbiamo bisogno di mostrarle ai nostri figli. Trovo che il rischio è solo di creare divisioni”. Éric, che avevamo già incontrato nella basilica, condivide l’analisi di Helena: “Ci sono cose che riguardano la fede di ciascuno, qualcosa di molto intimo, che non dovrebbe essere toccato. Ovviamente niente giustifica che delle persone vengano uccise. Ma penso che sia tempo di placare le tensioni, di dimostrare che la libertà di espressione può esistere senza ferire gli altri in ciò che hanno di più profondo”. Tutti i fedeli che abbiamo incontrato a Saint-Denys-de-l’Estrée, così come nella vicina cattedrale, ci dicono di avere oggi una sola aspirazione: poter vivere la loro religione in pace e in sicurezza. A causa della crisi sanitaria e al “confinamento” della scorsa primavera la frequentazione della chiesa era calata. Ma da qualche tempo padre Elorian aveva notato che i banchi erano tornarti a riempiersi, soprattutto da settembre, con l’inizio dell’’anno scolastico. La domenica prima dell’attentato di Nizza, dice il prete, c’erano circa 400 persone ad assistere alla sua messa. “Come sacerdote, è normale temere che alcuni fedeli possano scoraggiarsi – osserva, sospirando –. Ma quello che dico sempre loro è di non lasciarsi trascinare dalla paura. Cerchiamo di essere al tempo stesso prudenti e coraggiosi”. Sophie sembra aver fatto propri i precetti del sacerdote: “L’attentato non mi fermerà. Continuerò a venire in chiesa”.

 

I fan delle larghe intese e la fiaba del partigiano che ha “vinto al centro”

La svastica sul Sole di Philip k. Dick, da cui è tratta la serie tv “L’uomo nell’alto castello”, è un romanzo ucronico che immagina l’America occupata dai nazisti dopo la Seconda guerra mondiale. A leggere La Stampa, però, sembra che quella fantasia letteraria sia vera: l’America è stata occupata da un regime fascista e nazista e quindi da ieri si festeggia “il 25 aprile degli Usa e del mondo intero”, come scrive nel suo editoriale Massimo Giannini.

In tempi contorti e faticosi come i nostri l’etichetta di fascista si da via come l’acqua, figuriamoci a Trump. “Per quanto sofferta e contrastata, la vittoria di Biden cambia il corso della Storia. Segna una svolta per tutte le democrazie occidentali. Queste elezioni presidenziali erano davvero le più importanti del dopoguerra, non solo per il futuro degli Stati Uniti ma per i destini del pianeta”. E così l’elezione di Barack Obama, il primo presidente nero della storia, diventa una quisquilia, la guerra permanente di George W. Bush una bazzecola perché “stavolta la posta in palio non era solo la Casa Bianca, ma c’erano in gioco il senso ultimo di cosa sia l’America, il concetto di libertà, l’idea stessa di democrazia”. Che nell’editoriale dell’autorevole collega ci sia un’enfasi eccessiva sembra quasi ammetterlo lui stesso: “Anche a costo di apparire un nostalgico delle ideologie del Novecento: questo 3 novembre è il 25 aprile d’America. È una festa di Liberazione per chiunque ancora creda nel liberalismo e nel costituzionalismo”. Biden, a capo del Cln internazionale, dirige la lotta partigiana.

Non è solo enfasi, ma una narrazione montata come la panna per portare la discussione su altri lidi e non guardare ai fatti. Il sistema politico-istituzionale americano ha retto a Trump, la sua politica è stata deleteria soprattutto per i messaggi reazionari razzisti e misogeni, ma sull’economia ha parlato anche ai ceti più deboli, Biden è un centrista che però ha vinto grazie alla radicalizzazione del voto. Negarlo significa voler supportare alchimie politiche buone a uso interno e creare un diversivo.

Eppure su questa linea si dispone anche Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera che rispolvera un vecchio adagio: si vince al centro. “La campagna presidenziale di Biden è stata giocata tutta al centro” anche se Biden “ha avuto e avrà bisogno anche dell’ala sinistra del suo partito”.

Difficile pensare che Biden abbia vinto al centro nelle elezioni più polarizzate che si ricordino: ha semplicemente una coalizione di forze molto diverse che si è compattata per cacciare Trump. Nessun centro è stato conteso in questa elezione. Non è un caso che i neri di Black lives matter festeggino più dei circoli moderati e liberali che potranno tirare profitto da questa presidenza. Tutti i sondaggi, il voto sul filo del rasoio, stati come la Georgia passati ai Democratici dicono altro, ma la mistica del “centro”, come Bruce Willis, è dura a morire.

E così il trittico si completa Maurizio Molinari che in questi giorni ha forse tradito un debole per Trump, ma che approfitta della vittoria di Biden per presentare la scoperta del secolo: “L’antidoto al populismo”. Molinari ha un approccio più curativo di Matteo Renzi che lparla di Italia Viva com “vaccino del populismo”, ma lì siamo. “Il populismo non è un destino inesorabile, può essere sconfitto nelle urne e l’antidoto più efficace viene dalla coesione attorno ai principi identitari che distinguono ogni nazione. E che Biden ha trovato nell’eredità del repubblicano Abramo Lincoln sul valore di ‘riunificare la casa divisa’”. L’idea di fondo, in un classico storicismo, è che ci sia un corso inesorabile per cui dopo il tempo del populismo ora venga stabilmente un’altra fase. Ma, soprattutto, dietro il Biden-partigiano si nasconde l’idea delle larghe intese, i moderati liberali tutta serietà e mercato al posto degli estremisti. E invece la crisi globale densa di conflitto e contrapposizioni aspre, chiede scelte nette: lo stesso leader dei Dem al Senato ieri parlava di “maggior coraggio” da parte nostra o fra quattro anni sarà peggio di Trump . Con la propensione al centro, cullandosi nel Cln, Biden, o chi per lui, si preparerebbe a incubare qualcosa di peggio dello stesso Trump. Ne sappiamo qualcosa in Italia: dopo Berlusconi è venuto Salvini.