Come ho scritto l’altra volta? Le storie italiane ti arrivano da sole. Ti raggiungono anche in treno. Sono seduto su un lato del corridoio di un regionale veloce prima che scatti il lockdown. Sull’altro lato discute una giovane coppia, marito e moglie. Nel silenzio quasi spettrale senti tutto. Parlano di un figlio dal nome esotico che ha fatto il suo ingresso nel mondo della scuola. Sei anni, prima elementare. Commentano con delusione l’inizio della loro esperienza di genitori alle prese con la democrazia scolastica. Lui è più drastico: devi scrivere alla preside; prima a lei, e se non risponde alla preside. Ma deve rimanere tutto scritto, non limitarti a chiedere o recriminare a voce. A qualcuno più in alto dovranno pur rispondere.
Ce l’hanno con una maestra, mi sembra. Poi nella discussione che arriva dai fatidici metri di distanza capisci che le maestre sono due. Stessa classe, due gruppi di materie diverse. I due genitori si ricordano l’un l’altra la fiacchezza con cui sono state formate le classi il primo giorno di scuola, in teoria quello dell’entusiasmo, dell’incontro con il magico mondo dei banchi. Che colpa ne hanno i bimbi del Covid, si chiedono, vuoi fargli capire che sono desiderati, che entrano in un luogo di studio ma anche di gioia? E invece, lamentano, la maestra li accoglie senza nessuna solennità, nessuno slancio. Parla a voce bassa, facendosi capire a intervalli, come a interpretare una mediocrità quotidiana. È stata la prima delusione. Perché i tempi tetri andrebbero rischiarati con voci argentine. E anche con senso di dedizione. Ma poi è successo altro, che capisco dividere marito e moglie fin lì totalmente d’accordo. È successo infatti che è stata convocata la prima riunione dei genitori. E loro pensavano che qualcuno, le maestre ad esempio, avrebbe spiegato i programmi, i metodi di lavoro. Mica perché ci volessero metter becco, ma giusto per saperli, per guidare meglio i figli in un inizio d’anno così tempestoso. E invece con loro sorpresa una maestra non si è presentata, l’altra è rimasta i primi cinque minuti, poi se ne è andata. Cinque minuti in due. Per la prima assemblea di classe con i genitori. Causa impegni. E papà e mamme a dirsi “ma mica l’abbiamo fissata noi la data”.
Così ecco ora insorgere la causa del litigio tra quella coppia tutta amore ed armonia. L’assemblea va rifatta, dice lei. Ma prima bisogna protestare con la preside, replica lui, facendo prove di irritazione. Non ho voglia di iniziare a fare quella che protesta da sola, a mettermi in fila per parlare con l’autorità, fa lei. Piuttosto, se questa è l’attenzione che avranno per Gelindo (nome di fantasia), me lo porto in una scuola privata.
È esattamente a questo punto che potrei sentire tutto anche se fossi in fondo al vagone. Mio figlio in una scuola privata non ci va, scandisce il padre. Ho sempre fatto le scuole pubbliche e le farà anche lui. Non voglio nemmeno sentir parlare di private. Piuttosto protestiamo, arriviamo più in alto che si può, dovranno pur rendere conto. Tanto i sindacati le difenderanno, chiosa lei. Lui sembra andare sul velluto: certo, sono stati loro a uccidere il merito nella scuola. E il risultato è che costringono una persona a pensare alla scuola privata. Sarò sincero. Vengo letteralmente folgorato da questa osservazione. Tutto davanti a me è fluito naturalmente, nessuno ha fatto politica. Dialogo tra genitori. Dunque può succedere che si invochi il pubblico e si lavori per il privato?
Domanda inquieta in arrivo da questa scuola milanese che, come verifico dopo, sta nei pressi di porta Romana. Torno a casa e sul cellulare mi giunge la notizia. Dato il grande lockdown in arrivo un po’ di maestre della scuola elementare di…, si sono messe in malattia e se ne sono tornate al sud. Tanto con questa buriana chi le fa le visite fiscali? Quando si dice mettercela tutta…