Per Biden siluri da sinistra. Oggi la task force anti-virus

La domenica andando alla messa, com’è sua consuetudine, Joe Biden ha già avuto modo di riflettere sui primi siluri alla sua presidenza, che arrivano dalla sinistra del suo partito e non dai repubblicani, paralizzati dall’ostinazione di Donald Trump a misconoscere la sconfitta. Prima che il presidente eletto raggiunga la chiesa di St., Joseph on the Brandywine, a Wilmington, insieme alla figlia Ashley e al nipote Hunter, Alexandria Ocasio-Cortes, deputata di New York, figura di punta del sanderismo, gli lancia un monito: se non metterà progressisti in posizione di rilievo nella sua amministrazione, il partito democratico rischia di perdere le elezioni di midterm del 2022.

È probabile che Biden abbia già concordato il coinvolgimento di esponenti della sinistra, specie i senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, quando ne ottenne l’endorsement. Ma le pressioni dell’aggressiva Alexandria possono creargli imbarazzi. Biden inizierà oggi l’azione di governo insediando un team di scienziati ed esperti anti-Covid.

Mentre Biden andava a messa, Trump andava a giocare a golf, a Sterling, in Virginia. Il magnate torna a twittare, dopo una pausa per lui insolita di dieci ore: “Sono dei ladri … È stata un’elezione rubata … C’è una tradizione di problemi elettorali in questo Paese…”. Ma pochi danno credito all’effetto delle azioni legali che saranno oggi rilanciate. A chiedergli di lasciare “con dignità” c’è la Corporate America, che teme i contraccolpi dell’incertezza, l’impero mediatico di Rupert Murdoch e i repubblicani da sempre a lui ostili. “Non ci sono prove” di vaste frodi, afferma il senatore Mitt Romney, ed è “distruttivo per la democrazia” cavalcare l’ipotesi di brogli. Ma lasciare con dignità “non è nella la natura” di Trump. Anche uomini del presidente lavorano per convincerlo ad accettare la sconfitta: in primo luogo, Jared Kushner, genero e consigliere. E se finora non vi sono stati contatti fra Trump e Biden, il presidente può parlare con i senatori più influenti: il capo della maggioranza Mitch McConnell o l’amico di Trump Lindsay Graham.

Ieri, Biden ha diffuso un video-tweet di ringraziamento, mentre era ancora viva l’eco dei discorsi della vittoria suo e della sua vice Kamala Harris. Biden ha lanciato un messaggio di unità e di cambiamento, prospettando all’America “un tempo per lenire” le ferite e le divisioni, ritrovare la concordia e rilanciare l’economia. Ha chiuso con una citazione biblica, promettendo di sollevare l’America “sulle ali dell’aquila”.

Calabria, ora pure Zuccatelli crea imbarazzi a Speranza

“La mascherina non serve a un cazzo. Per beccarti il virus devi baciarmi per 15 minuti con la lingua”. Un Cotticelli che va e uno Zuccatelli che viene. La Calabria non ha pace: da un commissario imbarazzante alla Sanità che non sa di dover redigere il “piano Covid”, a un quasi-negazionista pentito. Giuseppe Zuccatelli è il nuovo commissario delle aziende ospedaliere di Catanzaro, ex consigliere comunale di Cesena (con il Pd e con Art.1) e candidato, nel 2018, con Leu alla Camera in Emilia Romagna ma non è stato eletto. Una nomina politica di un medico sensibile all’area bersaniana. In merito alle frasi su come ci si contagia, Zuccatelli parla di “affermazioni errate estrapolate da una conversazione privata” e che “risalgono al primo periodo della diffusione del contagio”. Gli ha fatto da scudo pure il ministro Speranza: “Trenta anni di curriculum non si possono cancellare”. Ma la pezza è peggio del buco: il video, girato dal collettivo femminista cosentino, risale al 27 maggio e non alla prima fase della pandemia. Zuccatelli è finito sotto il fuoco incrociato. Per Nicola Fratoianni (Leu) “così non si può fare”. Da Salvini alla Meloni le reazioni sono durissime. Gasparri invoca l’intervento di Mattarella. Il tiro al bersaglio è partito e c’è chi più che ai disastri della sanità calabrese, vuole rimetterci le mani sopra e pensa già alle regionali.

“Molti territori sono gialli grazie ai dati incompleti”

Dopo l’accelerazione delle curve di crescita dei contagi nelle ultime settimane, si registra da qualche giorno un rallentamento. Cioè il tempo di raddoppio del numero di infetti è passato da una settimana a dieci giorni, come evidenziato da fisici e statistici. Ma possiamo concluderne che la situazione sta certamente migliorando? “Non ancora – spiega al Fatto Stefania Salmaso, ex direttore del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità (Iss) – Negli ultimi giorni il rallentamento c’è, lo vediamo, ma potrebbe anche voler dire che non è il ritmo di contagio a rallentare, ma il sistema diagnostico a entrare in affanno”.

Perché?

Nell’ultima settimana, la curva dei casi ha subìto una diminuzione dell’accelerazione. Può significare che il virus circola meno, ma anche che non si riesce più a fare un tracciamento dei contagi efficiente.

Fisici e statistici segnalano anche che mentre la velocità di trasmissione del contagio sembra rallentare, il tempo di raddoppio dei morti non rallenta come ci si aspetterebbe e come avveniva a marzo. Perché?

La velocità di raddoppio del numero di infetti non sempre va di pari passi con quella dei decessi. Ma c’è una ragione. A marzo cercavamo solo i sintomatici. Non avevamo idea di quanto realmente il virus stesse circolando, non facevamo test agli asintomatici. Lo abbiamo saputo solo grazie all’indagine sierologica dell’Istat, che ha mostrato una sottostima di 6 volte del numero di infetti. Oggi abbiamo un quadro più realistico. A fine ottobre, dei nuovi positivi solo il 32% era sintomatico, mentre il resto (68%) era asintomatico. Significa che oggi, per poter confrontare il ritmo con cui cresce o decresce il numero di infetti con quello dei decessi, dovremmo limitarci a confrontare quest’ultimo dato solo con quello dei nuovi sintomatici, e non con l’intero numero dei nuovi infetti. Poi ci sono altri fattori.

Quali?

Adesso la mediana dell’età dei nuovi infetti è di 42 anni. A marzo era più alta. Al contrario, l’età mediana dei deceduti è 80 anni. Quindi non c’è una proporzionalità diretta tra tutti i casi e i deceduti, che rappresentano la parte più fragile degli infetti. L’intervallo tra inizio sintomi ed eventuale esito fatale è di circa 12 giorni. Quindi se il numero di casi severi si dovesse abbassare, dovremmo attendere altrettanti giorni per vedere lo stesso effetto tra i decessi . Anche se per avere un quadro più realistico bisogna guardare i dati Regione per Regione.

I dati inviati dalle Regioni sono tutti solidi e confrontabili?

A partire da aprile, le Regioni hanno adottato un algoritmo basato su 21 indicatori (come frequenza dei contagi, numero di focolai, capacità assistenziale, etc…) per stabilire chi doveva uscire dal lockdown. Per 24 settimane hanno inviato questi dati. Ma una Regione non aveva accesso ai dati delle altre. Da un paio di settimane abbiamo visto che la situazione stava riprendendo a correre. Questi dati sono stati dunque resi pubblici sul sito del ministero della Salute e utilizzati per introdurre le nuove contromisure. Il punto è che in alcuni casi l’algoritmo è stato applicato su dati che non sembrano completi. Dal sito del ministero, per esempio, si vede la tabella dei 21 indicatori: alcune Regioni hanno registrato la data di inizio sintomi solo nel 40% dei casi dei nuovi sintomatici e sono risultate gialle, altre per il 90% e sono state messe in zona arancione. La registrazione di inizio sintomi serve a calcolare il famoso parametro Rt, il numero che ci dice quanti nuovi casi può generare un infetto. Può succedere che chi ha registrato bene i dati ha un Rt più alto e giustamente è in zona arancione e chi non lo ha fatto è in zona gialla, ma potrebbe in realtà dover essere in zona arancione.

Zaia&C. lasciano solo Salvini: basta guerra al governo

Il primo a commentare, a dpcm appena sfornato, è stato Luca Zaia secondo cui “quello delle aree non è un gioco a premi”. E ancora: “Legittimo protestare, ma l’obiettivo è uscire dalla crisi tutti insieme” ha detto il “Doge” che ieri al Corriere ha cercato di riportare il conflitto Stato-regioni verso un “percorso condiviso”. Giovedì mattina quando l’agenzia di Zaia è finita tra le mani di Matteo Salvini, che nel frattempo arringava i suoi governatori e i suoi follower al “riconteggio” dei dati contro le zone rosse e arancioni, il leader del Carroccio ha scrollato le spalle: “Luca dice così solo perché ha la zona gialla e poi ormai fa quello che vuole”. Insomma, certo, dal “Doge” che rivendica autonomia a ogni piè sospinto e si presenta come il volto moderato del Carroccio, nessuno nell’inner circle di Salvini si aspettava che facesse il barricadiero contro Roma quando da Roma, per una volta, avevano deciso di differenziare le restrizioni assecondando le richieste federaliste. Epperò, nessuno si aspettava le prese di posizione distensive di altri governatori leghisti con cui Salvini si confronta tutti i giorni come se fossero il suo braccio armato nei rapporti con il governo.

E quindi, come i governatori repubblicani degli Stati Uniti che hanno criticato Trump perché non stava accettando il voto popolare, l’umbra Donatella Tesei si affretta a condividere le misure del nuovo dpcm (“sono come le nostre in Umbria”) e invita a “trovare un’unità di intenti evitando polemiche sterili”. Lo stesso il ligure Giovanni Toti, che pur non essendo iscritto alla Lega è molto vicino a Salvini: “Questo non è il momento delle polemiche, non è una partita politica” va dicendo e ieri ha spiegato che l’idea di dividere l’Italia per fasce è “giusta” dicendosi anche disponibile ad accettare un passaggio della Liguria da gialla ad arancione (“Stiamo affrontando un momento difficile”). E così anche il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti che si è adeguato al “lockdown light” del governo senza dire una parola, Arno Kompatscher a Bolzano (della Svp ma sostenuto dalla Lega) che dichiara zona rossa in tutta la Provincia fino al friulano Massimiliano Fedriga secondo cui sì, Conte deve “coinvolgere di più le regioni”, ma “non vogliamo riversare le responsabilità su Roma, adesso serve equilibrio”. Non proprio toni in linea con quelli del segretario. “Sono tutte regioni gialle con esigenze diverse dalle rosse Lombardia, Piemonte e Calabria” si smorza dallo staff di Salvini. Ma in realtà alcune di queste – Liguria e Umbria in primis – da oggi potrebbero retrocedere ad arancione. E quindi i toni durissimi di Salvini, che hanno fatto sobbalzare molti nel Carroccio, si possono inquadrare con una strategia precisa: fare quadrato intorno al governatore lombardo Attilio Fontana e quindi a sé stesso.

Salvini in estate voleva il rimpasto di giunta e ora ha di fatto “commissariato” la coppia Fontana-Gallera che si interfaccia direttamente con lui o con il segretario regionale Paolo Grimoldi. E quale migliore occasione se non la “chiusura” della Lombardia per difendere il proprio governatore contro gli assalti interni ed esterni? Poi c’è il fronte che lo riguarda in prima persona: nella Lega raccontano che Salvini sia molto preoccupato dagli ultimi sondaggi. Venerdì secondo la supermedia Agi/Youtrend, la Lega ha perso un altro 0,6% in due settimane arrivando al 24%, il punto più basso del Carroccio dal 2018. Silenzio tombale anche sulla sconfitta di Trump. Da qui la strategia di alzare i toni. Anche a dispetto dei suoi governatori.

Quattro Regioni verso l’“arancione”. Misure per fare meno ricoveri

È arrivato ieri mattina a tutti i governatori. A ognuno il suo. Ma solo in forma di bozza. La versione definitiva del report 25, quello che contiene i dati del monitoraggio della settimana 25 ottobre-1° novembre di tutte le Regioni, non è ultimato. La Cabina di regia sta finendo di elaborarlo: oggi alle 15 a Roma si riunirà il Comitato-tecnico-scientifico per la discussione e la ratifica finale. A alcune decisioni, tuttavia, sono praticamente prese: a quanto risulta al Fatto Liguria, Toscana, Umbria e Campania passeranno da zona gialla ad arancione (semi-lockdown). Veneto e Lazio sono al limite, ma non dovrebbero subire l’upgrade.

Nel primo pomeriggio il governatore ligure Giovanni Toti aveva anticipato il contenuto del report, che “conferma in toto i dati del precedente: i due valori di Rt più importanti sono pari a 1,37 (sintomi) e 1,48 (Rt medio dei 14 giorni), sostanzialmente identici a quelli del report n.24”. Come a dire: non c’è ragione che la Liguria cambi colore. “È molto prematuro – spiega una fonte nel Cts -. Il Covid-19 in Liguria ha un notevole impatto sugli ospedali in termini di ricoveri e terapie intensive”. Secondo gli ultimi dati ministeriali, la Regione ha il 37% delle rianimazioni occupate (il livello di guardia è del 30%) e il 69% dei letti di area medica. Nel pomeriggio Toti si è mostrato più cauto: “Sono disponibile a discutere con il governo di cambiamenti di fascia”, ha detto a In mezz’ora in più, su Rai 3”, “le situazioni cambiano di minuto in minuto”. Verso il cambio di status anche la Toscana (le cui T.I. sono piene per il 42% e i letti ordinari al 35%), dove a preoccupare sono soprattutto le Rsa: su circa 12.500 pazienti delle oltre 300 strutture 1.103 sono positivi, quasi il 10%. L’Alto Adige, da parte sua, non ha atteso il giudizio di Roma, annunciando da subito la zona rossa: “Le cifre in crescita e il sempre maggior numero di comuni dichiarati zona rossa lo impongono. È inutile applicare due provvedimenti diversi”, ha detto il governatore Arno Kompatscher.

Ieri il ministero ha comunicato 32.616 i nuovi casi di contagio e 331 vittime in 24 ore (rispettivamente 7.195 e 94 in meno rispetto al bollettino precedente) ma anche meno tamponi (191mila, -40mila), con l’incidenza dei positivi sui test che resta del 17%. Governo, cabina di regia e Cts sono al lavoro sulle cifre e sui 21 parametri che stabiliscono le tre aree di rischio. I membri dell’organo consultivo del governo avrebbero dovuto finire di valutare il report definitivo già nella riunione di ieri, “ma l’elaborazione dei dati che arrivano dalle Regioni è complessa e richiede tempo”, spiega la fonte. Nella fase di validazione dei dati alcune hanno chiesto di sforare le 24 ore previste e l’incontro della Cabina di regia avverrà oggi. L’esecutivo sembra aver concesso la proroga per dare modo ai territori di far arrivare tutte le informazioni.

“Probabilmente chi ha dichiarato zona gialla ha sbagliato, forse anche perché tratto in errore da dati non attuali, precisi e corretti forniti dagli uffici regionali”, ha detto ieri il sindaco di Napoli Luigi de Magistris chiedendo la zona rossa per la Campania. La Regione ha 186 posti di T.I. occupati su 590 (31,5%),1.817 i posti letto di degenza occupati (+21 rispetto a sabato) su 3.160 disponibili. “Ci sono file di ambulanze e auto in tutti gli ospedali di Napoli – è l’allarme di Giuseppe Galano, responsabile del 118 cittadino -. Cotugno, Cardarelli, Ospedale del Mare sono in crisi nel ricevere i pazienti Covid”.

A preoccupare ministero e Cts, infatti, è il terremoto in corso negli ospedali. Molte Regioni, specie nei reparti ordinari, hanno ricoverato un numero di persone largamente superiore ai posti letto inizialmente dedicati al Covid: le Marche quasi 7 volte tanto, la Calabria quasi 4, la Lombardia quasi 3, il Piemonte 2 volte e mezzo, la Liguria il doppio e anche la Sardegna ci va vicina. La media è il 163%. Per questo la Federazione delle Associazioni Dirigenti Ospedalieri Internisti, sabato, ha parlato di posti letto in area medica occupati al 100%, quindi irraggiungibili per chi ha altre malattie. In alcuni casi c’è un eccesso di ricoveri, dovuto al crollo della sanità territoriale: Asl e medici di famiglia che non riescono a inseguire il virus con i tamponi e neppure a seguire a casa pazienti che hanno sintomi non sempre tali da giustificare il ricovero. Al punto che in queste ore allo studio del governo ci sono nuovi criteri in base ai quali le strutture dovranno procedere ai ricoveri. Ma se i reparti ordinari sono quelli più vicini al tracollo, anche per le T.I. i posti Covid sono già insufficienti in gran parte delle Regioni e si utilizzano gli altri che servirebbero per le chirurgie e la traumatologia. Una situazione che ha portato la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici a chiedere il “lockdown totale in tutto il Paese”.

Ma mi faccia il piacere

Poro Joe. “#JoeBiden 46° Presidente degli Stati Uniti! Si apre una nuova pagina per gli Stati Uniti e per il mondo. Coesione, non lacerazione. Integrazione, non razzismo. Solidarietà, non egoismo. Multilateralismo, non arrogante solitudine. Con lui i democratici di tutto il mondo” (Piero Fassino, deputato Pd, Twitter, 7.11). Mi sa che questo dura meno di papa Luciani.

Poveretto, come s’offre. “Fratello Bergoglio, camminiamo insieme” (Fausto Bertinotti, Riformista, 7.11). Pronta la replica del Santo Padre: ho già tanti cazzi, come se avessi accettato, magari un’altra volta.

Labirintite. “Prima di linciare il governo, guardiamoci intorno e osserviamo cosa succede in mezzo mondo… Tutto sommato siamo più efficienti…. Conte va ringraziato per aver adottato misure fastidiose, liberticide, che però hanno salvato la pelle a tanta gente” (Vittorio Feltri, Libero, 8.10). “Giuseppe Conte è peggiore di Mussolini” (Vittorio Feltri, Libero, 6.11). Lui è così, va a mesi alterni. A dicembre dirà che Conte è meglio di Dio.

Ora et labora. “Maria Elena è una persona molto dolce, e mi ha colpito tantissimo la sua umanità. La prima sera in cui si è fermata a dormire da me mi ha chiesto di fare una preghiera per tutte le persone che in quel momento stavano soffrendo: me lo ha chiesto col cuore” (Giulio Berruti, fidanzato della senatrice Boschi, intervista a Verissimo, 31.10). Lei pensa sempre ai risparmiatori di Etruria.

Il Cazzaro Giallo. “I laburisti sono incoerenti, vogliono danneggiare il Paese con un lockdown nazionale di settimane” (Boris Johnson, premier conservatore britannico, 22.10). “Lockdown nazionale per quattro settimane” (Boris Johnson, 31.10). Non so a voi, ma a me ricorda qualcuno.

Il giureconsulto. “Signor Presidente, lei ha detto che il diritto alla salute è preliminare su tutti gli altri diritti costituzionali. Ma come si permette? I diritti costituzionali sono tutti importanti alla stessa maniera e, se per caso i numeri qualcosa contano, il diritto alla salute è al numero 32, il diritto al lavoro invece è al numero 4” (Claudio Borghi, deputato Lega, nell’aula della Camera, 2.11). Confonde la Costituzione con la Hit Parade.

Chi va con lo zoppo. “Accusa choc per l’avvocato Longo: ‘Violenza su una minorenne’” (Corriere della sera, 5.11). Mancava giusto lui.

Orologeria senza orologio/1. “Senza l’indagine su Open avremmo avuto il 10%, siamo stati danneggiati” (Matteo Renzi, senatore e leader Iv, 7.11). A me m’ha bloccato ‘a malattia.

Orologeria senza orologio/2. “Il tempismo politico delle toghe. L’‘avviso’ a Renzi alla vigilia di un vertice di maggioranza importante. Gennaro Migliore: ‘C’è un tentativo di condizionarci. Colpisce la puntualità…’” (Augusto Minzolini, il Giornale, 8.11). Al vertice di maggioranza si stavano scordando di invitarli. Poi è arrivato l’avviso di garanzia e si sono ricordati di Italia Viva.

Peggiore. “Il Fatto, noto quotidiano di satira…” (Gennaro Migliore, deputato ex Sel, poi Pd, ora Iv, Facebook, 3.11). Infatti ogni giorno ci serve un capocomico. E lui, modestamente, lo nacque.

Punt e Mes. “Cara Italia, è tempo di Mes” (Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, Il Foglio, 5.11). Mo’ me lo segno.

Parole sante. “Mai un governo di unità nazionale” (Claudio Durigon, deputato Lega, la Verità, 2.11). Grazie di cuore. Bacioni.

Love love love. “Virus cinese e odio dei Dem hanno fatto perdere Trump” (Antonio Socci, Libero, 8.11). Lui, sempre così amorevole con tutti.

Bertolesso/1. “Che facciano una fiction: prendano una famiglia con il Covid e facciano ogni giorno una bella soap opera per far vedere come ci si comporta in quelle condizioni” (Guido Bertolaso, Omnibus, La7, 31.10). Un posto al Covid.

Bertolesso/2. “Arcuri vive in un altro fuso orario” (Bertolaso, la Verità, 2.11). Quello dell’Aquila, della Maddalena o del Salaria Sport Village?

La Palamarata. “Adesso studio in che modo riformare davvero la giustizia” (Luca Palamara, ex pm radiato dalla magistratura, Libero, 4.11). Ecco, bravo, poi facci sapere.

Il titolo della settimana/1. “Conte, c’è un indecisionista alla guida: fatelo scendere” (Maurizio Belpietro, la Verità, 3.11). Ma non era un dittatore?

Il titolo della settimana/2. “Il costituzionalista: ‘Meno reati o il processo muore’” (Il Dubbio, 7.11). Bisogna assolutamente parlarne con i delinquenti.

Il titolo della settimana/3. “Capodanno ai Fori. E Spelacchio cerca uno sponsor” (Repubblica, 5.11). Se ne sentiva giusto la mancanza.

Il titolo della settimana/4. “’Non ci riapriranno più’. Un capo di gabinetto rivela a Libero i piani del premier” (Libero, 8.11). Questo dev’essere rimasto chiuso nel cesso.

Pooh, addio a D’Orazio: “Alza la fiamma agli dei”

Con i motori non erano fortunati. “Sulla Milano-Torino eravamo tutti nella Mercedes, guidava Riccardo. Continuava a dirci: ‘Senti come sculetta’. A un tratto non la controllò più, finimmo dentro una stazione di servizio, illesi. Fogli tornò in autostrada a cercare una borchia. Poi sentenziò: ora siamo più uniti. E scrisse Amici per sempre”, mi raccontò un giorno Stefano D’Orazio. Le macchine a volte tradiscono: quante epiche narrazioni sulla Porsche stracarica che va in panne sulla Colombo e i Pooh costretti a fare l’autostop per onorare la serata, o le transumanze degli esordi, stipati nel furgone verso balere deserte. Calcolammo i chilometri: in 50 anni i ragazzi avranno fatto sei volte il giro della terra. Quasi sempre insieme, perché le auto ti piantano in asso, ma gli amici no.

Stefano era rimasto uno dei boys in the band anche dopo aver deciso di scendere dal carrozzone Pooh per concentrarsi sulla vocazione da compositore. Con l’ossessione per i musical: Pinocchio, Aladin, i testi per la versione italiana di Mamma mia approvati dagli Abba. Ora, da quattro anni, si stava dedicando con Roby Facchinetti a una rilettura operistica di Parsifal, il capolavoro progressive dei Pooh. Su quella rivisitazione Stefano operava con tenacia, nonostante la malattia autoimmune che lo insidiava: ci ha pensato il Covid, l’altra sera, a spingerlo nell’ombra. Lasciando gli amici schiantati dal dolore. Red, Dodi, Riccardo. E forse più di tutti Roby, con cui aveva scritto Rinascerò rinascerai, l’inno per Bergamo e le sue bare, i versi di Stefano addossati a quello di Dante, “‘A riveder le stelle’, perché ce la faremo tutti a uscire da questo inferno”, ci confidò. Lui che dei Pooh era stato il secondo motore, al posto di Valerio Negrini nello stesso ruolo di batterista, cantante, autore.

D’Orazio, romano con tempra nordica, un metronomo dietro i tamburi che rideva di sé ricordando di aver fatto, in un concerto, una figura da omino bianco: “Eravamo stati i primi a usare l’effetto fumo. All’inizio di Alza la fiamma agli Dei c’era uno dei nostri tecnici appollaiato sotto la batteria per accendere il fuoco. Accorse un pompierino alle prime armi che mi scaricò l’estintore addosso. Diventai tutto candido. L’effetto piacque, volevano lo ripetessi a ogni show. Ci sono teatri dove i nostri danni sono ancora visibili. A La Spezia, sul soffitto, puoi vedere tuttora le macchie nere dei nostri lanciafiamme”. Il segno del passaggio dei cinque amici per sempre.

Hotel-bordello: Dean entra dalla finestra e Jim vola giù

Spesso è sufficiente una frase a incoraggiare la lettura di un libro: “Si dice che Los Angeles non abbia molto a cuore il proprio passato”, così si apre Il castello di Sunset Boulevard. Storia, avventure e segreti dell’albergo più celebre di Hollywood di Shawn Levy. Per chi un po’ conosce la città degli angeli questa frase stordisce, suona bizzarra ai limiti dello scorretto. Se c’è infatti una metropoli che vive di fatiscenza più che di fantascienza è proprio L. A., inclusa la sua “cittadella del cinema”, monumento nazionale di un passato glorioso. E allora, è vero, Los Angeles non ha a cuore il proprio passato perché vi è immersa al punto da non percepirlo più: la città vive il passato come un hic et nunc perpetuo, mascherando i ricordi, mercificando la Storia. Con Hollywood a regnare sovrana su questa grandiosa e dolentissima farsa.

Con la necessità di far ordine tra le polveri di stelle, quelle che assumono le sembianze di Norma Desmond sulla scalinata di Viale del tramonto, nel medesimo Sunset Boulevard si erge un edificio sontuoso, e per questo denominato “Il castello”. Si tratta del celeberrimo hotel Chateau Marmont, immoto e immutante nel suo aspetto fiabesco: “Sempre aperto. Sempre pronto a offrire un porto sicuro dal 1929”. Levy, che è un critico e storico cinematografico newyorkese e dunque sospettoso nei riguardi della trivialità losangelina, ha deciso di pubblicare un libro su questo “monumento” del passato che alberga nel presente perché questa è la vera casa di Hollywood, la sua “home”. Nel suddetto hotel vagamente ispirato al castello di Amboise sulla Loira la cronaca mondana e la cronaca nera sono mutate in Storia, mescolando realtà, mito e leggenda: nel 1982 John Belushi fu trovato morto in una stanza, nel 1968 Jim Morrison cadde strafatto da un balcone (sopravvivendo), decenni addietro l’aviatore-produttore Howard Hughes affittò una suite da cui godeva osservando “giovani corpi che si aggiravano a bordo piscina”, mentre una devastata Vivien Leigh “si disperava per la fine del suo matrimonio con Laurence Olivier in una suite tappezzata di foto di lui”.

E ancora, al Chateau Marmont – che si pregia di rimanere ben al di sotto degli standard del lusso – “James Dean conobbe Nicholas Ray, il regista di Gioventù bruciata, introducendosi nel suo bungalow dalla finestra invece che dalla porta; Anthony Perkins utilizzava la cabina telefonica pubblica perché non voleva che la centralinista lo ascoltasse; i Led Zeppelin entrarono nella hall in sella alle loro motociclette; Scarlett Johansson e Benicio Del Toro fecero sesso in ascensore la notte degli Oscar; Lindsay Lohan fu sbattuta fuori dopo avere accumulato – e mai saldato – un conto di quasi 50 mila dollari in due mesi”.

L’edificio è stato anche set di opere famose, dall’episodio Attico – L’uomo di Hollywood di Quentin Tarantino del collettivo Four Rooms (1995) a Somewhere (2010) di Sofia Coppola, comparendo anche in La La Land (2016) di Damien Chazelle e A Star is Born (2018) di Bradley Cooper.

Il libro di Levy è godibile nella sua cronistoria organizzata in sei parti, a cominciare dall’anno di fondazione (1927) “Il Sogno” fino al ventennio 1990-2019 “Un’epoca d’oro”, con la punta di diamante nella esclusivissima festa nei garage organizzata nella Notte degli Oscar 2018 dalla coppia “black” più glamour del momento, Beyoncé e Jay-Z. Da Stevie Wonder a Whoopi Goldberg, da Jamie Foxx a Rihanna, da Angela Bassett a Dave Chappelle, fino ai due freschi vincitori di Oscar, lo sceneggiatore e regista Jordan Peele e il compianto Kobe Bryant in veste di produttore cinematografico: “C’era tutta la Hollywood nera” fu il commento. “Con l’aggiunta di Leonardo DiCaprio e Tobey Maguire, perché quei due sembravano obbligati per legge a partecipare a eventi di tal fatta”.

Amato e abitato dalla Hollywood di sempre (anche perché garante di privacy e discrezione), il Castello di Sunset Boulevard non tramonterà mai proprio come il fantasma di Norma Desmond: un luogo di ombre inciso nella memoria come una pellicola senza fine.

“La voce e i testi mi danno l’aria impegnata, ma viva ‘Jeeg Robot d’acciaio’”

Lei è così. È una donna che le sue notti bianche le passa a riflettere, non a piangere su se stessa; è una cittadina che non ha un orario per indignarsi, e magari appena sveglia apre il giornale, si avvelena, di nascosto si chiude in bagno e scatena l’inferno sui social (“con il mio compagno disperato”); è una romana dalla tipica timidezza sfrontata, di chi si butta, si prende in giro e magari per scherzo canta Viva la pappa col pomodoro ma “nel mio stile. Tanto da renderla un po’ pallosa”.

È un’artista che quando nomina un collega utilizza nome e cognome, senza vantare particolare familiarità (“La storia del ‘tutti amici’ non mi piace”).

È Fiorella Mannoia che esce con Padroni di niente, album bellissimo, vero, nel suo stile, pubblicato ora anche come forma di resistenza musicale.

Nel disco parla di un sogno che le si è rotto…

È una canzone adulta, per quelli della mia generazione, per chi negli anni Settanta ha creduto di poter cambiare il mondo; per chi magari si ritrovava nelle comuni, gli hippie, amiamoci tutti, e via ancora…

Però?

Continuo nel mio piccolo: se non cambio il mondo, almeno cerco di influenzare ciò che mi circonda; credo sia un nostro dovere, di ognuno, riflettere su come si educano i figli, le parole che si utilizzano, come si trattano i dipendenti…

Che capo è?

Non mi piace e non sono capace; (ci pensa) non so proprio comandare, posso solo infondere serenità e rispetto, e con gli anni ho capito che se punti su serenità e rispetto, quando poi chiedi qualcosa, si fanno in quattro per te.

Ha mai licenziato?

(Quasi stupita) Mai!

La donna di servizio?

(Ride) Me le so’ tenute anche se non pulivano.

Si sono approfittati di questa indole?

(Balbetta, non può neanche supporre una situazione del genere) Beh, come dire, in maniera disonesta no; magari ci marciano un po’, ma sotto questo lato sono una frana; però ho sempre lasciato un buon ricordo di me, c’è chi ha chiamato i figli con il mio nome.

Tra i suoi colleghi nessuno parla male di lei.

Davvero? È che non soffro di rivalità, se mi chiamano per un’iniziativa, vado; poi non cado in sciocchi capricci, come valutare la nostra importanza a seconda delle dimensioni del camerino, o tra chi ha l’autista e chi no, o chi ha la macchina più importante. Per me sono solo miserie umane.

Però capita.

A volte sì, per entrambi i sessi: sfatiamo il mito della competitività legata solo al mondo femminile.

Competitiva, mai?

Ognuno nella vita ha il proprio posto, il proprio ruolo, e se te lo sei guadagnato, è tuo: su questo sono abbastanza centrata; poi è ovvio, se canto con un collega, ci tengo a fare bella figura, così come se ascolto un bel brano, che potrebbe rientrare nelle mie corde, un po’ di invidia bonaria mi avvolge.

Esempio.

Il mare d’inverno, però Loredana (Bertè, ndr) la interpreta in maniera magistrale.

Secondo Lavezzi si è lasciata sfuggire Vita.

In principio si chiamava Cara, e me l’aveva proposta Mogol all’interno di un pacchetto di canzoni: avevo scelto solo quella; forse si è risentito e non me l’ha più data.

I suoi anni Settanta.

Ci sono libri, film, dischi che hanno segnato in maniera indelebile la mia generazione: penso alle poesie di Ferlinghetti, On the road di Kerouac, Un uomo chiamato cavallo, Bob Dylan, i Led Zeppelin e Tutti morimmo a stento di De André (resta in silenzio). Tutti morimmo a stento l’ho vissuto come uno schiaffo in viso arrivato durante la mia “linea d’ombra”.

Tradotto.

L’età in cui sei a cavallo tra l’adolescenza e l’età adulta, ed è lì che ti formi, che vieni a contatto con la realtà; quando per la prima volta ho ascoltato l’album di De André, ricordo dove ero, le sensazioni, cosa ha scatenato.

Cosa?

È come se mi avessero obbligata a guardare da una finestra a me sconosciuta, una finestra fino a quel giorno celata dall’amore della famiglia: per la prima volta ho scoperto le prostitute, la guerra, i drogati, gli ultimi, gli emarginati. Un mondo ignoto e scioccante. Lo ascoltavo di continuo, chiusa nella mia stanza.

I suoi contenti…

Ricordo mio fratello, dieci anni più grande di me, che urlava: ‘Guarda ’sta deficiente che ce fa senti’!’. E io: ‘Vai via, non capisci niente. Lasciami sola’ (e inizia a cantare il ‘Cantico dei drogati’).

Quando ha conosciuto De André?

Mi vergognavo; (ci pensa) eravamo al concerto di Ivano Fossati: durante il bis andiamo dietro il palco, proprio al buio, io rossa in viso, anzi rossissima, mi sono avvicinata: ‘Chissà quante persone te lo avranno detto, ma hai segnato la mia vita come nessun altro’; lui mi ha abbracciata e messo la mano sulla testa. Io in lacrime.

Anni fa ha citato la Yourcenar: ‘A vent’anni ero pressappoco come ora, ma senza consistenza’.

Però come sostiene sempre lei ne Le memorie di Adriano, questa decantata gioventù, in fondo, non la rimpiango perché mi piaccio di più oggi, con il mio bagaglio di esperienze.

Da quando si piace?

Non ho mai avuto un rapporto conflittuale con me stessa, in fondo mi sono sempre ritenuta una brava persona, mentre fisicamente il discorso cambia: non mi apprezzo mai, non riguardo le fotografie né quando vado in televisione.

Neanche per le prime serate su Rai1 con Uno, due, tre… Fiorella?

Il direttore della fotografia è stato bravissimo, l’obiettivo stringeva e sembravo più magra; quando mi sono rivista ho pensato: ‘Non sono così cessa’; (ci pensa) dopo il debutto sono andata a letto inconsapevole del risultato ma soddisfatta; appena sveglia ha trovato un numero spropositato di messaggi, e ho capito che l’Auditel aveva offerto piacevoli risultati, perché quando va male non ti chiama nessuno.

C’era pure la Ferilli…

Per lei ho un affetto da sorella, e mi ritrovo nella sua umanità, ironia, attenzione su quello che ci circonda: non siamo passive; (ride) nei messaggi ci scriviamo solo in romanesco.

C’era pure Fossati…

Con lui sono stata categorica: ‘Non vuoi cantare? Va bene, ma devi comunque venire’.

Lo ha rimproverato del suo auto-pensionamento?

Mi è dispiaciuto, non mi aveva detto nulla, come gli altri l’ho scoperto dai giornali; l’ho chiamato immediatamente: ‘Ma sei sicuro?’. ‘Sapevo da anni che avrei smesso a 60’.

Lei si è data una data?

Manco pe’ gnente, non ci penso proprio: se c’è una cosa che amo è quella di salire su un palco e cantare; quando si apre il sipario ancora sento il battito del cuore, è bellissimo. (Sorride) Prima di uscire dal camerino mi spruzzo un po’ di profumo.

Il suo rito.

È una forma di rispetto, è come se quel tocco finale mi rendesse perfetta.

Durante il concerto guarda il pubblico?

All’inizio no, per i primi quattro o cinque brani resto concentrata, perché se parti male, poi va storto, e fai fatica a recuperare; (sorride) si chiama esperienza.

Ha iniziato giovanissima come stuntwoman.

Controfigura di Loretta Goggi ne La freccia nera.

Le piaceva?

Mi ha permesso di conoscere un mondo sconosciuto, e l’onore di lavorare con Monica Vitti, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Claudia Cardinale, Gene Hackman e Candice Bergen.

Controfigura della Vitti.

Per quattro o cinque film; purtroppo non c’erano i telefonini, quindi gli unici ricordi sono nella mia testa.

E cosa ricorda?

Soprattutto la Vitti, la guardavo con ammirazione: arrivava la mattina coperta da occhialoni neri, e tutto sommato sembrava una donna normale; quando usciva dal camerino, truccata, ed entrava in scena, allora avvertivi una presenza, un’identità differente, una bellezza che ti ammaliava. Una diva. (Ci pensa) Lei non poteva diventare altro che un’attrice.

Negli anni su cosa ha cambiato punto di vista?

Le idee, le persone, gli sbagli, i valori no: per me sono sempre gli stessi. Ben ancorati.

Che la portano a discussioni accese sui social.

Ogni volta prometto a me stessa e a Carlo (il suo compagno

, ndr) di smetterla.

Invece…

Non resisto: magari ci svegliamo, leggiamo le ultime notizie, mi incazzo per qualcosa, lui va in cucina a preparare il caffè, e io di nascosto, chiusa in bagno, scrivo il mio post. Poi Carlo e chi lavora con me si chiamano al grido: ‘Lo ha rifatto?’.

Viene considerata seria e seriosa.

Il programma tv ha un po’ sfatato quest’immagine, ma è anche vero che da anni vengo presentata come la musa dei grandi autori, una che canta canzoni impegnate, che appoggia le cause, si occupa di politica…

Insomma, inevitabile.

I miei brani sono lontani dal ‘tu mi hai lasciato, io ti ho lasciato, il cielo è sereno, andiamo al mare’, così il pubblico pensa che io non rida mai.

Barbarossa l’ha definita come una delle più simpatiche.

Lo devo ringraziare: ogni volta che vado nella sua trasmissione (Radio2 Social Club, ndr) mi chiede di intonare Jeeg robot, o la pappa con il pomodoro, o Let It Be che in italiano diventa Lassa sta’; (ride) con lui giochiamo su un punto: drammatizzo quello che canto, e la pappa al pomodoro si tramuta in una palla mortale (anche qui la intona ed è surreale).

Però a Sanremo, nel 1981, ha portato Caffè nero bollente, brano erotico.

Il problema non era il testo, ma la musica rock: strada che non ho più praticato; più o meno io e Gianna Nannini abbiamo iniziato nello stesso periodo, e per assurdo lei era stata inquadrata come melodica, io rockettara

Quel pezzo le piace?

Per un po’ di tempo l’ho messo da parte, poi è scattata la pace; un po’ come le vecchie fotografie: a volte, quando le riguardi, ti giudichi ridicola, fino a quando trovi la giusta distanza, la giusta tenerezza; mi ripenso a Sanremo con i pantaloni di pelle, i capelli con il ciuffo e la camicia dorata: non ero io.

Gianni Rodari ha scritto Il libro dei perché. Lei, ‘perché cantante’?

Mio padre era un musicista dilettante, amante della lirica: quando ci metteva a letto, invece delle favole, ci narrava le opere; già da piccola sapevo a memoria il Rigoletto, Radames, Tosca (cita a memoria), la Cavalleria rusticana…

E lei?

Piangevo tutte queste donne morte, fino a quando ho chiesto a papà: ‘Perché finiscono così male?’. La risposta non la ricordo, però iniziai a cantare le arie, in casa si accorsero che ero intonata e per un po’ di tempo sono stata una di quelle bambine prodigio che partecipavano a una serie di eventi.

Si è sentita come in Bellissima?

Mi divertivo. Il primo pezzo è stato Vecchio frack.

Allegro.

Il mio destino era quello di cantare i brani di uomini, anche perché non ho una grande estensione vocale, non arrivo a Mina, meglio con Battisti.

Lo ha conosciuto?

Una sola volta nella sua casa discografica, con il privilegio di ascoltare in anteprima il disco Il nostro caro angelo; alla fine Battisti ci chiese: ‘Quale brano vi è piaciuto di più?’.

Risposta?

Era difficile, ma azzardai Luci e soprattutto Petrolio, una delle poche politiche.

Un suo punto di svolta.

Credo Premiatissima su Canale5, uno dei primi programmi della rete: vinsi cantando solo brani di cantautori; (sorride) le riprese finivano alle tre o alle quattro del mattino, con il pubblico stremato che voleva fuggire e la produzione che chiudeva appositamente le porte.

A cena, con Salvini o Berlusconi?

Salvini proprio no; (pausa) meglio Berlusconi, almeno gli domando da dove arrivano i suoi primi soldi.

Cossiga o Andreotti?

Andreotti per parlare degli anni di piombo e di mafia.

Chi è lei?

Rubo la definizione al mio avvocato: sono una cazzona di talento.

(Canta Fiorella Mannoia in “Padroni di niente”: “La convinzione che non cambierà mai niente è solo un pensiero che inquina la mente”. E lei la mente la mantiene lucida).

 

Caratteri e umori: il sale della satira viene dal passato

Continuiamo la nostra passeggiata nell’antichità. Venite, andiamo a sederci in giardino, è un luogo ombreggiato e particolarmente fresco. Là c’è un posto adatto all’ozio, e a questo nostro discorso: la ricreazione, infatti, si adatta meglio alla comicità, che è un’arte provvisoria, sfuggente, mutevole, impegnativa; e all’esposizione sistematica preferisce la digressione, lo spostamento del punto di osservazione, la ripresa, il tentativo sommario. La coerenza stessa della materia permette questo metodo, come il lupanare, con la sua varietà, esaltava l’esplorazione dei piaceri, mentre li delimitava.

Il comico di carattere. Le battute che i Greci definivano hypò tò êthos, secondo il carattere, sono le più piacevoli, direi quasi le più preziose. I commediografi greci e latini ne erano maestri.

PIRGOPOLINICE: Che guaio essere troppo bello. (Mil., 68)

CUOCO: Quando io nella pentola ci infilo cocilendro o cepolendro, oppure macchide o saucaptide, la pentola si mette a bollire da sola, subito. (Pseu., 831-833)

SIMONE: Avevo un certo timore che tu mi preparassi qualche trappola. DAVO: Una trappola io? (Andr., 582-84)

SOSIA: Lì s’è combattuta la battaglia, dall’alba al tramonto: me lo ricordo benissimo perché quel giorno sono rimasto senza mangiare. (Amph., 253-254)

BLEPIRO: Perché, non si può scopare senza profumo? PRASSAGORA: Io no di certo, cafone. (Ekk., 525-26)

Ed ecco come due personaggi plautini descrivono l’avaro Euclione:

STROBILO: Quando va a dormire si mette in bocca un mantice. ANTRACE: Perché? STROBILO: Per non sprecare aria nel sonno. ANTRACE: Si tappa anche la bocca di sotto, per non sprecare aria nel sonno? STROBILO: Quando si lava, piange per l’acqua che va persa. Non ti darebbe nemmeno la fame se gliela chiedessi in prestito. Tempo fa, un barbiere gli ha tagliato le unghie. Lui le ha raccolte e se le è portate via tutte. (Aul., 302-313)

Menandro ottiene la risata col ritorno brusco e inaspettato di un personaggio al suo pessimo carattere, dopo una parentesi commovente in cui sembrava essersi addolcito:

CNEMONE: Accidenti! Ti ho detto come la penso. Non seccarmi più, per gli dei! (Dys., 750)

La presa in giro del taccagno protagonista del Dyskolos si fa irresistibile nel finale, quando Geta e Sicone tornano da Cnemone e lo tormentano, approfittando del fatto che lui stavolta non può trattarli male, perché immobilizzato a letto. Fingono di non riconoscerlo, lo trattano da servo, ne sfottono l’avarizia:

SICONE: Servi cari! Servo! Servetto! Servo! Servi! CNEMONE: Ahi, sono perduto! Chi mi aiuta ad alzarmi in piedi? SICONE: Vorrei in prestito da voi dei calderoni e una tinozza. E poi sette tripodi e una dozzina di tavoli. Su, servi, andate a dirlo a quelli di casa: ho fretta. CNEMONE: Non c’è niente. GETA: Dovete prestarci nove tappeti… CNEMONE: Dove li prendo? GETA: E una tenda ricamata di fattura orientale, lunga un centinaio di piedi. SICONE: Voglio un cratere di bronzo, bello grande. CNEMONE: Chi mi aiuta ad alzarmi in piedi? (Dys., 911-27).

Anche il finale degli Adelphoe di Terenzio, che ricalca la commedia omonima di Menandro, è un trionfo del comico di carattere. L’arcigno, dispotico Demea assume il carattere aperto e generoso del fratello Micione, fra lo stupore di tutti:

DEMEA: Fa buttare giù questo muretto in giardino, falla passare per di qua, forma una sola casa e porta qui da noi anche la madre e tutta la famiglia. ESCHINO: Niente di più opportuno, babbo caro. DEMEA: Io sono abituato così. (Adel., 906-10, 922-23)

Quindi, adottando i criteri pedagogici del fratello lassista, gli rovina a bella posta l’esistenza beata da scapolone egoista, in un crescendo farsesco e accelerato: lo fa sposare, gli fa alienare un campo in favore di un nuovo parente, gli fa liberare lo schiavo e la moglie di questi:

SIRO: Demea, carissimo, sei davvero un brav’uomo, accidenti! Io questi due ragazzi ve li ho cresciuti con cura fin da piccoli. Li ho istruiti, ammaestrati, educati meglio che ho potuto. DEMEA: Si vede. E gli hai insegnato anche a organizzare i pranzi con cura, a portarsi in casa le puttane e a banchettare in pieno giorno: non sono mansioni di un uomo mediocre. SIRO: Che burlone! (Adel., 961-66)

Infine gli fa sganciare una sommetta per le prime necessità del liberto, largheggiando:

MICIONE: Sì, però meno di così… Ci penserò più tardi. DEMEA (rassicurando il liberto): Lo farà. (Adel., 981-83)

Questa formula di Menandro era già nota ad Aristofane: nelle Vespe, il vecchio Filocleone diventa un ribelle, superando il figlio scapestrato in aggressività ed eccessi sessuali. La formula funziona ancora: in uno degli episodi più divertenti della sitcom “Seinfeld” (“The Opposite”, scritto da Larry David, Jerry Seinfeld & Andy Cowan), George Costanza, stanco dei suoi fallimenti, decide di fare l’opposto di quello che farebbe di solito: e trionfa, anche con una bellissima ragazza cui si presenta dicendo: “Mi chiamo George. Sono disoccupato e vivo con i miei genitori”. Elaine, invece, comincia ad avere una sfiga dietro l’altra, finché giunge a una conclusione terrificante: “Sono diventata George!”.

L’IPERBOLE

Certi caratteri devono quasi tutto all’iperbole. Qui il damerino Sostrato si accinge a lavorare la terra:

SOSTRATO: Questa zappa però pesa un quintale e mezzo! (Dys., 390)

CLITIFONE: Lo sai come sono fatte, le donne. Ora che si aggiustano e si truccano, è passato un anno. (Heaut., 239-40)

CILINDRO: In quanti sarete a tavola? EROZIA: Io, Menecmo e il suo parassita. CILINDRO: Allora siete in dieci. Il parassita da solo fa per otto. (Men., 221-3)

(29. Continua)