“Finanziamenti illeciti per 7 milioni”. Il Giglio è nei guai

Il capo di imputazione riportato sull’avviso di garanzia con invito a comparire è finanziamento illecito ai partiti. L’indagato Matteo Renzi è atteso dai pm di Firenze il 24 novembre. Il senatore di Scandicci dovrà presentarsi, sarà accompagnato dall’avvocato Giandomenico Caiazza, e potrà avvalersi della facoltà di non rispondere oppure parlare e dire la sua verità su modi, tempi e circostanze di come la fondazione Open, la cassaforte del renzismo, tra il 2012 e il 2018 raccolse finanziamenti per 7 milioni e 200mila euro complessivi. Raggranellati grazie alla generosità di più di una trentina di imprenditori sponsor dell’organizzazione della Leopolda, che ai tempi di Renzi premier e segretario del Pd era l’evento politico più atteso, il Sole intorno al quale tutto ruotava. Nel dettaglio: 671.961 euro nel 2012; 700.720 nel 2013; 1.096.283 per il 2014; 452.585 euro per il 2015; 2.105.899 euro nel 2016; 1.017.763 nel 2017 e 1.159.856 nel 2018. E si torna al punto di partenza di una ipotesi ritenuta infondata a settembre dalla Cassazione: quella di ‘Open’ articolazione finanziaria di un partito politico. Con in più il diretto coinvolgimento, stavolta, di colui che era leader della Fondazione e dei dem.

Renzi è uno dei cinque indagati per una accusa che la Procura fiorentina attribuisce anche al consiglio direttivo della Fondazione, tra cui Maria Elena Boschi, che con l’ex premier ha fondato Italia Viva dopo la nascita del governo Conte/2, e Luca Lotti, che invece è rimasto nel Pd. Gli altri due iscritti, peraltro sotto inchiesta fin dalle prime fasi delle indagini, sono l’ex presidente di Open Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai. Sono tutti attesi a Firenze il 24 novembre. Nell’invito a comparire firmato dai pm Luca Turco e Antonio Nastasi si legge che “Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, componenti del consiglio direttivo della fondazione Open, riferibile a Matteo Renzi (e da lui diretta), articolazione politico organizzativa del Partito Democratico (corrente renziana)”, avrebbero ricevuto contributi per 7,2 milioni di euro “in violazione della normativa” sul finanziamento ai partiti, “somme dirette a sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana”. Inoltre Renzi, Lotti e Boschi, si legge ancora nel documento, avrebbero ricevuto “dalla fondazione Open contributi in forma diretta e indiretta, in violazione della normativa” relativa al finanziamento ai partiti. La svolta, anticipata ieri sul quotidiano La Verità, arriva un anno dopo le perquisizioni della Guardia di Finanza agli imprenditori che hanno finanziato Open. Si ritiene che l’iscrizione di Renzi, Boschi e Lotti sia maturata all’esito dell’analisi della documentazione e delle indagini successive.

L’inchiesta è a uno snodo cruciale. La decisione di convocare Renzi arriva poche settimane dopo un provvedimento della Cassazione sbandierato dai renziani come la pietra tombale delle accuse contro il Giglio Magico. Si tratta dell’accoglimento di un ricorso degli avvocati di Marco Carrai contro i provvedimenti di perquisizione e sequestro dell’anno scorso. I giudici del Palazzaccio ne hanno dichiarato la illegittimità e hanno scritto a proposito di Open che “non è sufficiente una mera coincidenza di finalità politiche, ma occorre anche una concreta simbiosi operativa, tale per cui la struttura esterna (Open, ndr) possa dirsi sostanzialmente inserita nell’azione del partito o di suoi esponenti, in modo che finanziamenti ad essa destinati abbiano per ciò stesso un’univoca destinazione al servizio del partito”.

Renzi ha colto la palla al balzo per sottolineare che “in un mondo normale qualcuno dovrebbe scusarsi per le tonnellate di fango che ci hanno buttato addosso”, ripetendo una frase ‘mantra’ quando qualcuno dei suoi è nei guai: “Il tempo è galantuomo”. I renziani sono gli stessi che pochi giorni fa hanno festeggiato come un Carnevale il rinvio a giudizio del maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, accusato di aver taroccato una informativa dell’indagine Consip per aggravare la posizione di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Anche nel caso di Scafarto la Cassazione aveva demolito le accuse. Se il tempo è galantuomo, lo è per tutti, e sempre.

Volo di Stato sulla neve: “Macché dato segreto”

Si trattava di un’informazione “sensibile”, ma non era segreta né riservata. Rivelare che Matteo Renzi aveva usufruito di un volo di Stato per andare in vacanza con tutta la famiglia a Courmayeur non ha compromesso la sicurezza dell’allora presidente del Consiglio. Per questa ragione mercoledì 4 novembre il Tribunale di Milano ha archiviato la denuncia presentata dall’Ente nazionale di assistenza al volo (Enav) contro il deputato Paolo Nicolò Romano, espulso dal Movimento 5 Stelle il 16 ottobre scorso, e contro un controllore di volo dell’aeroporto di Linate (Milano) sospettato di aver rivelato l’informazione all’onorevole.

Il 30 dicembre 2014, alla vigilia del capodanno, Renzi parte dall’aeroporto di Ciampino a bordo di un Falcon 900 della flotta di Stato che fa scalo a Firenze, dove imbarca la famiglia, e poi atterra all’aerostazione di Aosta di sera. Destinazione finale, Courmayeur, ricca e rinomata località sciistica della Vallée. Le informazioni giungono al deputato di Asti, all’epoca ancora nelle fila del Movimento 5 Stelle, che il 3 gennaio 2015 denuncia tutto sul suo blog sottolineando anche gli aspetti economici della questione: il volo di un Falcon può costare fino a novemila euro per ogni ora di viaggio. Poche ore dopo, via Twitter

, Renzi risponde: “Gli spostamenti aerei, dormire in caserma, avere la scorta, abitare a Chigi non sono scelte ma frutto di protocolli di sicurezza”. Romano presenta un’interrogazione parlamentare e annuncia un esposto alla procura della Corte dei conti a Roma, ma, a sua volta, viene denunciato dall’Enav. Lo scopre nel febbraio 2019: “Pensavo di aver svolto bene il mio lavoro di deputato di opposizione, fino a pochi giorni fa, quando ho ricevuto un avviso di garanzia – aveva scritto in un post su Facebook

–. Sono stato accusato di aver diffuso materiale protetto da segreto d’ufficio”.

Il 2 ottobre 2019 il procuratore aggiunto di Milano Eugenio Fusco chiede l’archiviazione perché “la notizia divulgata, pur essendo ‘sensibile’, difetta del carattere di segretezza o riservatezza, dal momento che le informazioni sui tracciati dei voli (anche quelli di Stato) sono pubbliche e accessibili, facilmente reperibili su siti internet”. “Esistono persino applicazioni per telefoni per verificare ogni tipo di rotta, compresi i voli di Stato”, sottolinea l’avvocato Alberto Pasta, difensore del deputato. Mercoledì il giudice Guido Salvini ha disposto l’archiviazione. “Ha confermato la piena legittimità dei miei comportamenti – ha commentato ieri Romano –, che erano mirati a denunciare quello che personalmente continuo a ritenere un enorme spreco di soldi pubblici”.

Renzi ora accusa i pm “da ribalta” Poi ricatta Conte: “Senza noi è ko”

L’inchiesta Open è “un assurdo giuridico” , ha creato “un danno pazzesco” a Italia Viva. Che è “decisiva” per la durata del governo e della legislatura. Appare in diretta Facebook poco dopo le 15 Matteo Renzi, da una terrazza di Roma, per la terza assemblea del partito che ha fondato un anno fa, convocata via Zoom (in streaming va solo il suo intervento, il resto è chiuso al pubblico). Assemblea convocata da tempo e non rimandata dopo che l’ex premier ha saputo di essere indagato, insieme a Maria Elena Boschi e a Luca Lotti per finanziamento illecito ai partiti in relazione ai fondi gestiti appunto da Open, la fondazione che organizzava la Leopolda.

L’appuntamento di ieri diventa un “One man show”. Del fu Giglio Magico, Lotti è restato nel Pd, Boschi non interviene. Renzi parte dalle elezioni americane e dal vincitore, Joe Biden: “Ho avuto la fortuna e la possibilità di incontrarlo in più di un’occasione”, dice. Tanto da ricevere il racconto sul pizzaiolo del Delaware che lo accompagnava durante le sue prime campagne elettorali. Su Open sceglie la teoria del complotto. “Un anno fa stavamo puntando al 10% nei sondaggi e avevamo centinaia di migliaia di euro di finanziamento”. E poi? “Un pm di Firenze manda 300 finanzieri a casa di 50 persone per bene per chiedere se hanno contribuito alla Leopolda o alla fondazione Open: e certo che hanno contribuito, tutto alla luce del sole. Quella vicenda ci ha causato un danno pazzesco”. Il riferimento è alle perquisizioni della Guardia di Finanza del novembre 2019. Si tratta della stessa linea difensiva scelta in Senato, lo scorso dicembre, quando Renzi citò Aldo Moro e Bettino Craxi per sostenere che la magistratura aveva fatto un’invasione di campo, volendo decidere “cosa è un partito e cosa no”. Un anno dopo sembra passata un’era geologica e non solo per il Covid che ha cambiato il panorama mondiale. Iv si è dimostrata un’operazione fallimentare, il suo leader non può giocarsi molto altro che la carta del ricatto nei confronti del governo. Le parole sull’inchiesta sono meno fiammeggianti di allora. E peraltro si fanno forza con quanto stabilito dalla Cassazione, che a fine settembre aveva accolto il ricorso di Marco Carrai (già indagato) contro il sequestro di documenti e pc.

Dice Renzi: “Ci sono dei magistrati a cui la ribalta mediatica piace più che il giudizio di merito. La Corte di Cassazione, nel giudicare il sequestro preventivo fatto quella mattina di novembre, ha totalmente annullato il provvedimento, dando anche un chiaro segnale ai pm dell’accusa”. Insomma, “mi sarei aspettato una lettera di scuse e invece è arrivato un avviso di garanzia, che mi riguarda”. Poi annuncia una specie di dream team per la difesa di ciascun indagato: “La professoressa Severino per Maria Elena Boschi, il professor Coppi per Luca Lotti, il professor Di Noia per il dottor Carrai e il professor Caiazza per il sottoscritto”.

Ma è in realtà la parte politica del suo intervento quella a cui l’ex premier tiene di più. Con relativo avvertimento a Conte: “Iv c’è, decisiva in Parlamento, decisiva per la tenuta di questa legislatura, perché senza di noi non c’è maggioranza”.

E allora, “se sui temi c’è accordo la maggioranza va avanti fino al 2023, e potrà eleggere un presidente della Repubblica non sovranista”. Renzi si fa forte dei numeri in Senato e del tavolo politico che si è aperto giovedì, per il quale avverte che non c’è un tempo illimitato: fino a fine mese. Chiede un contratto di governo alla tedesca. Non a caso a puntellare le sue parole manda una scena di Gigi Proietti che scorre le pagine di un contratto, con il refrain “Qui te s’inculano. Qui ce l’inculamo”. Messaggi non esattamente sottili. Dopo di lui intervengono solo fedelissimi, che esprimono solidarietà a lui, alla Boschi e pure a Lotti. Ettore Rosato, i ministri Teresa Bellanova, Elena Bonetti. E i parlamentari Mattia Mor, Lisa Noja, Luciano Nobili. Tra deputati e senatori in molti aspettavano l’incontro di ieri per porre qualche problema politico. Ma la notizia dell’avviso di garanzia mette il silenziatore al dissenso. “Complotti” che funzionano al contrario.

Ikea & C. aperti nel weekend, De Caro (Anci): “Vanno chiusi”

Che differenza c’è tra l’assembramento che si potrebbe creare nella galleria di un centro commerciale con tanti negozi diversi e quello che si crea in un unico grande store come Ikea o Brico? Nessuna, si dirà. Eppure, in questo primo fine settimana di lockdown a varie tonalità, solo i primi sono rimasti chiusi. Le strutture monomarca che vendono mobili o attrezzi per la casa, per esempio, sono rimaste normalmente aperte anche se si tratta di grandi superfici che somigliano in tutto e per tutto agli ipermercati. E, probabilmente sapendo di avere meno concorrenza, lo hanno comunicato sulle pagine social invitando i clienti allo shopping. È l’effetto paradossale della pignola interpretazione del decreto firmato mercoledì dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale si limita a ordinare la serrata per gli “esercizi commerciali presenti nei centri”. Questa distorsione ha scatenato la protesta in varie Regioni, in Puglia come in Toscana. A Bari è intervenuto il sindaco e presidente dell’Anci Antonio Decaro: “Trovo ingiusto che mentre da una parte si richiedono sacrifici a tanti piccoli imprenditori, dall’altra si permetta a queste strutture di restare aperte, nonostante siano chiaramente luoghi nei quali le persone si concentrano e si affollano, soprattutto nei fine settimana”. “Noi sindaci – ha aggiunto – abbiamo inviato una richiesta al governo affinché disponga la chiusura”.

“Vero che gli ingressi sono limitati a un numero massimo di persone alla volta – ha detto la Filcams di Firenze – ma le ondate saranno tante e ripetute e lo stress e la paura di chi lavora in questi posti sale, paurosamente sale, come a marzo e forse di più”. Già una settimana fa, prima del decreto, proprio all’Ikea di Bari era partita la contestazione sempre della Filcams contro la decisione del marchio svedese di aumentare il numero massimo di persone ammesse nel negozio, da 1.200 a 1.700.

Il dietrofront di Just Eat: assumerà i suoi fattorini come dipendenti entro il 2021

Da un momento all’altro, arriva l’annuncio inaspettato che stravolge completamente gli equilibri sul contratto dei rider: Just Eat assumerà i suoi fattorini come dipendenti entro il 2021. Dopo anni passati a inquadrarli come autonomi, dopo aver sostenuto questa posizione in ogni sede e aver sottoscritto l’accordo con l’Ugl che scolpisce nella pietra il sistema del cottimo, la piattaforma nata in Danimarca compie ora una clamorosa marcia indietro. Non più le paghe a consegna, ma un salario orario. I dettagli saranno svelati domani. Per ora sappiamo che la proposta di assunzione arriverà dopo un periodo di formazione. Alla base di questa mossa c’è la fusione, completata durante la scorsa primavera, tra Just Eat e la concorrente olandese Takeaway.com. Un’app che finora ha arruolato i suoi rider con il meccanismo “Scoober”, un misto di flessibilità e tutele. Turni non imposti dall’azienda ma prenotabili tramite lo smartphone e assicurazione sul lavoro e retribuzioni orarie che tengono conto non solo del tempo effettivo dalla consegna ma anche dei minuti di attesa degli ordini. Un modello che, a prima vista, sembra voler garantire diritti senza snaturare le peculiarità del settore. Ma perché l’app danese lo ha adottato solo ora, dopo aver sostenuto la battaglia dell’AssoDelivery in favore di un contratto senza diritti? L’impressione è che stia percorrendo una strada di riserva. Il tentativo di aggirare il decreto Rider grazie a un accordo condiviso con l’accondiscendente Ugl si sta rivelando impervio. Meno di 24 ore dopo averlo condiviso con il sindacato di destra, infatti, è stato già bocciato dal ministero del Lavoro che ha inviato una lettera al veleno. Lo stesso dicastero, poi, ha convocato il tavolo per mercoledì 11 e ha già spiegato che l’applicazione di quel contratto, contrario alla legge, potrà essere contrastata dagli ispettori del lavoro (che nei giorni scorsi hanno ricevuto una circolare interpretativa). A questo va aggiunto che soprattutto la Cgil sta inondando di cause le corti d’Italia e a Palermo il Tribunale ha proposto a Glovo di assumere un rider come dipendente per chiudere una causa per discriminazione. Insomma, le multinazionali sono accerchiate, ecco perché Just Eat è già passata al piano B, sconfessando quello che lei stessa ha firmato. Lo ha fatto per prima perché, come detto, aveva l’alternativa “in casa”. Una scelta che è destinata a stravolgere i rapporti interni con le altre imprese dell’AssoDelivery, ossia Glovo, Deliveroo, Uber Eats e Socialfood.

Lazio: Immobile, Leiva e Strakosha in quarantena

Continua il caos tamponi per la Lazio e nell’occhio del ciclone ci finiscono, nuovamente, Thomas Strakosha, Lucas Leiva e Ciro Immobile. I tre calciatori sono risultati positivi all’accertamento (ovvero al tampone rapido) svolto presso il Campus Biomedico di Roma, dopo che erano stati dichiarati negativi negli esami di rito pre-partita effettuati con Futura Diagnostica di Avellino. Per questo motivo ieri hanno lasciato Formello, non allenandosi. E non sono stati convocati per la partita contro la Juventus. L’allenatore Simone Inzaghi e il direttore sanitario del club, Ivo Pulcini, in prima battuta avevano espresso la disponibilità di tutto l’organico. Poi, però, lo stesso medico si è allineato ai protocolli dell’Asl, la quale “è stata avvisata”, assieme alla Procura federale. Un clima turbolento, considerando anche le deliranti parole del presidente del club Claudio Lotito: “Positivo vuol dire contagioso, no? Anche nella vagina delle donne ci sono i batteri” rilasciate a la Repubblica.

Zaki, rinviata l’udienza al Cairo al 21 novembre

Patrick Zaki resta in carcere. L’udienza sul caso che vede coinvolto lo studente egiziano dell’Università di Bologna, prevista a Il Cairo, è stata rinviata al 21 novembre. La comunicazione arriva dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, ong egiziana che monitora passo passo il caso del ventottenne, che dà la notizia tramite un tweet. La sua legale, Hoda Nasrallah, ha precisato che non si tratta di un “prolungamento” della custodia e che il suo assistito non ha potuto partecipare alla stessa udienza “per motivi di sicurezza legati alle elezioni politiche”. Arrestato a febbraio al controllo doganale dell’aeroporto de Il Cairo, del tutto inconsapevole di essere oggetto di un mandato di cattura nel proprio Paese, il ventottenne rischia, secondo Amnesty International, fino a 25 anni di carcere e la stessa organizzazione rimarca come Zaki stia passando la pandemia da Coronavirus in carcere, inizialmente a Mansoura, città d’origine della sua famiglia, e dal 5 marzo nel complesso carcerario cairota di Tora.

Eni, sequestrato il cellulare di Armanna. Il n.2 Granata indagato per il depistaggio

La procura di Milano ha sequestrato il telefono di Vincenzo Armanna, ex funzionario Eni, dopo la pubblicazione di alcune chat telefoniche sul Fatto del 1° novembre. Secondo i messaggi che Armanna ha mostrato al Fatto, il numero 2 dell’Eni Claudio Granata, nel giugno 2013, dopo il suo licenziamento, lo avrebbe invitato a far contattare dal suo legale un avvocato che gli avrebbe precedentemente indicato. Il tema in questione, nelle conversazioni mostrate da Armanna, è quello del licenziamento e della futura possibilità di rientrare in Eni od ottenere incarichi presso altre società. Nel messaggio Granata invita Armanna a “non fare mosse avventate”, dice che “Eni può certamente distruggere chiunque in Italia” e aggiunge: “Sanno tutto di te, chi sono i tuoi amici, dove vivi, con chi parli, dove potresti cercare lavoro, chi potrebbe aiutarti, dove lavora tua moglie e dove vanno a scuola i tuoi figli”. Eni ha negato l’esistenza delle chat: “Descalzi e Granata smentiscono categoricamente di avere mai intrattenuto con Armanna le conversazioni riportate nello scambio”, era stata la replica, e hanno “già presentato querela per diffamazione a carico di Armanna”.

Il Fatto ha effettuato tutte le verifiche possibili circa il fatto che le chat provenivano dal telefono di Armanna ed erano collegate al numero di Granata ma, come ovvio, non ne ha potuto appurarne l’autenticità. Senza propendere per alcuna delle due versioni, sarebbe grave sia se le chat fossero autentiche, sia se non lo fossero. Armanna – imputato per corruzione internazionale, insieme all’ad Claudio Descalzi, nel processo per la presunta tangente da 1,9 miliardi versata per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl 245 – è stato tra i principali accusatori di Descalzi ed è anche indagato nel fascicolo su un depistaggio mirato a demolire l’inchiesta. Nel quale è indagato anche Granata per induzione a rendere falsa testimonianza in associazione con altri. “Granata – è la posizione dell’ente petrolifero -, così come gli altri attuali dirigenti di Eni coinvolti, ribadisce la propria totale estraneità alle accuse formulate”. Nell’indagine condotta dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal Pm Paolo Storari, la Procura di Milano prima ha chiesto al Fatto di depositare le chat pubblicate e poi ha sequestrato il telefono di Armanna. Ora sarà compito dei magistrati distinguere il vero dal falso ai fini dell’indagine.

41 bis, i sei errori di Woodcock

Pubblicando l’intervento di Henry J. Woodcock sul 41 bis, Marco Travaglio “immagina” che vi sarà un dibattito sul tema “fra gli addetti ai lavori”. In questi anni ho molto scritto dell’argomento e forse ciò mi legittima ad intervenire. Ma ero incerto se farlo e ho deciso di sì soltanto per dovere di coerenza.

Perché? Sento già rimbombare le grida scomposte dei “benpensanti” secondo cui chiunque la pensi diversamente da loro sul 41 bis è un boia, un forcaiolo, un manettaro, un incivile ammalato di cattivismo giustizialista, un primitivo assetato di vendetta… Sono stufo di essere oggetto da sempre – per altro in ottima compagnia – di queste infamanti accuse per il solo fatto di aver maturato sul campo (facendomi per anni – come usa dire – un “mazzo tanto”) un’esperienza concreta di contrasto alla mafia che comporta il dovere di pensarla in un certo modo nonostante le contumelie. Mentre sono certo che gli attacchi riprenderanno subito e con vigore, posto che le tesi che li sorreggono (?) ora trovano – di fatto – l’autorevole sponda di una degnissima figura com’è Woodcock.

E poi ecco in arrivo altre grida compiaciute: spaccato il fronte dei Pm! Tacciano per sempre i molesti magistrati “di guerra”! Chiedano scusa! Avevamo ragione noi (noi di “Nessuno tocchi Caino”, noi avvocati delle “Camere penali”, noi media schierati su questi fronti…) ! E francamente regalare a costoro – pur nel rispetto di ogni opinione – altre carte da giocare, mi sembra surreale.

Ma veniamo al dunque. Le critiche al 41 bis sono elencate da Woodcock in modo dettagliato e spietato, con autentiche bordate che sparano concetti come (dis)umanità, sadismo, tortura, annientamento del nemico, rendere la vita impossibile, incostituzionalità e via salmodiando. Poi, illustrando nel merito i “difetti” del 41 bis, con accenti a volte quasi consenzienti, Woodcock mescola verità a luoghi comuni che nascono ai tempi del terrorismo (quando il 41 bis si chiamava art. 90) ed esplodono con la mafia, ma che non diventano più veri per il solo fatto di essere stra-ripetuti.

Primo: il carcere “duro” serve per far confessare e difatti punisce chi non confessa; – il regime differenziato viene applicato a chi è accusato di delitti di mafia; pentendosi, si dimostra fattivamente di volerla smettere con questa “cultura” di violenza e di morte; altrimenti si manifesta in sostanza la scelta di fare ancora parte del sodalizio criminale; pertanto il 41 bis non è strutturato per punire chi non confessa, ma più semplicemente per modulare la detenzione nei confronti di chi è stato e intende rimanere mafioso. Ciò in base ad una realtà che può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte: la assoluta fedeltà del singolo al collettivo criminale, nel quale egli si immedesima interiorizzandolo come l’unico formato da individui degni di essere riconosciuti “uomini” (non a caso autodefinitisi “d’onore”), mentre tutti gli altri sono oggetti da assoggettare. In breve, il 41 bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili.

Secondo: pentimento non significa travaglio morale , significa solo confessione; – lasciamo stare il travaglio morale, che è un fatto interiore, del tutto estraneo alla sfera giudiziaria; osserviamo invece che per riconoscere una revisione critica del proprio passato e la decisione di cambiare vita, le regole del processo esigono segni concreti “esteriori”; la confessione, sia dei propri delitti sia di quanto si sa dell’organizzazione e delle sue coperture, è in pratica la principale modalità di tale riconoscimento; per contro – lo stabilisce la Consulta – “una semplice dichiarazione di dissociazione” non basta, in quanto atteggiamento ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan.

Terzo: confessione significa delazione; – quand’eravamo bambini ci insegnavano che “chi fa la spia non è figlio di Maria”; sia pure che pentendosi e rivelando segreti di mafia si fa la spia; ma contro chi? contro un sistema che “vive” di stragi e omicidi, avvelena economia e politica, corrompe e assoggetta pretendendo omertà; per cui non è escluso che Maria consideri questo comportamento proprio come…. un suo figlio (per lo meno dopo la scomunica inflitta ai mafiosi da papa Francesco).

Quarto: i detenuti al 41 bis sono un “battaglione”, oltre 600, e tale numero poco si adatta al carattere eccezionale dell’istituto;- ma questo numero è l’effetto inesorabile di una causa precisa, l’estensione in Italia (e ben oltre i nostri confini) delle varie mafie, che non sono un’emergenza ma un fatto strutturale, per cui il 41 bis di eccezionale ha purtroppo ben poco.

Quinto: i benefici legati alla collaborazione sono “sontuosi” e addirittura potrebbero avere un effetto “criminogeno”; – ora, a parte che i benefici sono quelli previsti dalla legge (semmai può esserci qualche giudice di manica più larga), ai tanti pentiti che ho conosciuto da vicino va riconosciuto di aver operato per impedire nuovi crimini, cercando di neutralizzare potenti organizzazioni criminali; a rischio di subire rappresaglie bestiali essi stessi ed i propri familiari: basta ricordare – per tutti gli altri, e sono un esercito – Patrizio Peci (Br) e il fratello Roberto, insieme a Santino Di Matteo (Cosa nostra) e al figlio tredicenne Giuseppe.

Sesto: ai detenuti del 41 bis è vietato vestirsi come vogliono o usare lenzuola meno grezze di quelle dell’amministrazione e questo non c’entra con la sicurezza; – poco “riguardoso”, ma l’alternativa è un progressivo ritorno al “Grand Hotel Ucciardone”, un’immagine che sembra iperbolica mentre fotografa la realtà di quando in carcere comandavano i mafiosi, per cui la supremazia dello Stato (anche nella struttura più “totalizzante”) era per loro mera parvenza. In sostanza, per i mafiosi il carcere era a tutti gli effetti la continuazione del dominio esterno, simboleggiata appunto dalla disponibilità di cose che i detenuti comuni si sognano. Con indirette ricadute sulla sicurezza che sconsigliano un ritorno al passato.

Per vero Woodcock (sia pure con una singolare forma parentetica) verso la conclusione del suo intervento afferma che il 41 bis “per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un Paese come il nostro”. Senonché la mafia , va ribadito, è tutt’ora un sistema consolidato di potere e non un’emergenza eccezionale. Men che mai lo era quando Giovanni Falcone ideò il 41 bis. Che pertanto è frutto della sua intelligenza e conoscenza senza uguali della mafia; ed è letteralmente intriso del suo sangue, in ragione del fatto che contribuì fortemente a decretarne la morte per strage.

 

Matteo e “l’amico Joe” trampolino per la Nato

“Joe è piùdi un amico, è un fratello maggiore”. Ogni tanto Matteo Renzi, nato e mai partito da Rignano sull’Arno, ci dà delle soddisfazioni, come ai vecchi tempi, quando voleva rottamare il mondo ingrato, mentre l’ingrato mondo rottamava lui. In una spassosa intervista a La Stampa, Matteo ci svela che il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America – al netto della pandemia giudiziaria promessa da Trump, ormai regredito a bimbo furente – è il suo migliore amico. “Ho sempre considerato Joe come la persona da chiamare quando c’era da chiedere un consiglio”. Anzi di più, era proprio Joe che chiamava Matteo “nei momenti di tensione”, quando “c’era da riprendere il filo del dialogo”. Lasciandoci intendere che ben oltre l’amicizia li lega una perfetta “harmony tune”, un’armonia mentale che, a dispetto della crudele lontananza, allertava Joe prima ancora che Matteo allertasse lui. Ore al telefono, immaginiamo. Altro che Lotti, Babbo Renzi, il generale Adinolfi, Boschi. Matteo si confidava con “il saggio Joe”. Grazie a lui “ora le sponde dell’Atlantico saranno più vicine”. E Matteo tornerà preziosissimo: magari segretario generale della Nato. Chiamiamo noi o chiama Joe?