Quei tepori anomali a novembre e il gas metano su in Siberia

In Italia – Pur in un contesto di alta pressione i cieli di inizio novembre sono stati solo in parte soleggiati, spesso con nebbie e nubi basse su pianure e coste, e a metà settimana una perturbazione da Ponente ha prodotto deboli piogge al Nord-Ovest (20-25 mm sull’Appennino ligure). Dopo un ottobre appena più fresco del solito sono tornati tepori anomali: tra domenica (Ognissanti) e lunedì, sopra i grigiori padani lo zero termico era a 4150 metri e c’erano 16 °C a Sestriere (2020 m) e 14 °C a Solda (1900 m, Bolzano). Si tratta di valori 10 °C sopra media che ormai fanno parte di un clima nuovo, vicini ai massimi storici del novembre 2015, quando a Sestriere si sfiorarono i 20 °C! Più primaverili che novembrini anche i 23 °C delle coste ioniche.

Nel mondo – L’ondata di caldo di una settimana fa è stata eccezionale dalla Francia alla Scandinavia: tra l’1 e il 2, record di temperatura massima per novembre di 29,4 °C a Bidache (Pirenei-Atlantici), 22,5 °C a Basilea, 17,2 °C a Copenaghen (nella serie dal 1768!), 15,9 °C a Oslo; inoltre primati nazionali in Lussemburgo (21,2 °C) e Finlandia (14,4 °C). Secondo il servizio Eu-Copernicus, in Europa ottobre 2020 è stato il più caldo di sempre (anomalia +1,6 °C) a causa di straordinari eccessi termici nell’Est del continente (oltre +4 °C) e nonostante il freddo dalle Alpi alla Spagna. Terzo ottobre più caldo nel mondo, con 0,6 °C di troppo, dopo quelli del 2015 e 2019. Inoltre la banchisa artica non era mai stata così ridotta in questo mese in 42 anni di misure (3,1 milioni di km quadrati sotto media, pari a dieci volte l’Italia, deficit più ampio mai osservato in qualunque mese). Intanto una spedizione russa ha individuato preoccupanti rilasci di metano – gas serra molto più potente della Co2 – dai sedimenti di fondali marini in riscaldamento di fronte alla Siberia, fenomeno in grado di alimentare a lungo termine l’effetto-serra in un deleterio meccanismo irreversibile (feedback positivo e tipping-point). Nei giorni intorno alle elezioni presidenziali gli Stati Uniti erano divisi tra freddo a Est (9 cm di neve sabato 31 a Boston, record per ottobre) e condizioni estive a Ovest (primato mensile di 37,2 °C a Phoenix il 5 novembre). Dopo un’intensificazione esplosiva fino alla categoria 4 in mare con venti a 240 km/h, l’uragano “Eta” si è indebolito a contatto con l’America centrale, ma ha prodotto ancora gravi alluvioni con almeno 200 morti, in gran parte in Guatemala; ora la tempesta riguadagna forza sopra le caldissime acque caraibiche (30 °C) minacciando Cuba e la Florida tra oggi e domani. Ma a subire il peggio sono state le Filippine con il super-tifone “Goni”, il più violento a toccar terra al mondo negli ultimi decenni di monitoraggio satellitare con raffiche di vento a 315 km/h, battendo i tifoni Haiyan (2013) e Meranti (2016), sempre in questo arcipelago: danni catastrofici e almeno 25 vittime. L’Africa è tra i continenti che più soffriranno le conseguenze dei cambiamenti climatici. Il report State of the Climate in Africa 2019 (Wmo) dice che le temperature sono cresciute di 1 °C nell’ultimo trentennio, a Est l’oceano sale di oltre 5 mm all’anno, il degrado delle coste galoppa e al 2050 i raccolti di riso e grano crolleranno anche di un quinto. Proprio mercoledì scorso, dopo l’iter di un anno previsto dalla normativa internazionale, è entrata in vigore l’uscita degli Usa dall’Accordo di Parigi voluta dal negazionista Trump. Ma ora Biden promette di riaderire subito, in linea con il suo Plan for Climate Change and Environmental Justice da 1.700 miliardi di dollari per giungere entro il 2050 a un’economia americana completamente a fonti rinnovabili e a emissioni nette zero. Intento lungimirante e ambizioso, vedremo.

 

Fede. Il cristianesimo non è figlio della paura, ma dell’amore di Dio

La religione è figlia della paura: lo diceva qualche filosofo latino, lo ripete qualche filosofo moderno. Togli la paura della morte, togli la paura delle catastrofi, e anche la religione scomparirà, dicono questi filosofi. Che la religione trovi terreno fertile in questo sentimento insito nell’essere umano lo ha creduto troppo spesso anche il cristianesimo, che ha predicato ampiamente il giudizio e l’eterno castigo divino. E anche oggi ci sono persone religiose che continuano a percorrere la stessa strada. Indubbiamente la paura è un elemento dell’espressione religiosa – lo dimostra l’esperienza storica – ma siamo sicuri che sia così anche per Gesù? E siamo sicuri che sia stata la paura a convertire, per esempio, Saulo che diventerà l’apostolo Paolo, il grande apostolo delle nazioni?

Nella prima lettera che Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica (in Grecia), che è anche il testo più antico del Nuovo Testamento, in effetti troviamo parole che un po’ ci inquietano riguardo “il giorno del Signore”, cioè il ritorno di Gesù Cristo, che i suoi fedeli attendono come il compimento definitivo del suo Regno (“Venga il tuo Regno” si prega nel Padre Nostro): “Voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte” (I Tessalonicesi). L’immagine del ladro che viene d’improvviso nella notte non è certo rassicurante. Ma se leggiamo bene le parole dell’apostolo Paolo vediamo che l’accento non è posto sulla paura ma sulla speranza. Sentiamo cioè l’eco dell’insegnamento di Gesù che paragona Dio a un genitore misericordioso e amorevole più che a un giudice, e comunque mai a un giudice spietato. Infatti, scrive Paolo: noi “non siamo destinati all’ira ma alla salvezza in Gesù Cristo”, in quel Gesù che “è morto per noi affinché, sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”.

Certo, la dimensione del giudizio non è esclusa; non è escluso, cioè, l’appello alla nostra responsabilità, al dover rendere conto delle proprie scelte, e quindi l’appello alla conversione. Gli antichi maestri ebrei insegnavano: “Convertiti un giorno prima della tua morte”. Già, ma chi conosce il giorno della propria morte? Dunque l’insegnamento è: convertiti oggi, domani potrebbe essere troppo tardi; convertiti ora, dopo potrebbe essere tardi. La dimensione della responsabilità personale – e quindi del giudizio – non è mai esclusa dall’annuncio della Scrittura perché la vita e la morte sono cose serie, perché la giustizia e la pace sono cose serie, perché la verità e l’amore sono cose serie, perché l’amicizia e il farsi carico gli uni degli altri sono cose serie, perché mantenere impegni e promesse è cosa seria. La vita non è un gioco, anche se ha i suoi momenti di gioco, che sono pure importanti.

L’insegnamento di Gesù e dell’intera Scrittura non dimenticano mai la dimensione della responsabilità personale, e quindi del giudizio. Ma questa dimensione è come racchiusa in quella più ampia e determinante del perdono, della grazia, dell’accoglienza: noi non siamo “destinati all’ira” ma “alla salvezza” in Gesù. Non è la dimensione della paura, dunque, che muove la fede, che la fa sbocciare, che converte dalle vie sbagliate, ma è la dimensione dell’amore di Dio in Gesù Cristo e nella forza dello Spirito santo. Come afferma in modo lapidario Giovanni: “Nell’amore non c’è paura”. Il cristianesimo, quindi, non è figlio della paura (come si può avere paura del Gesù che i vangeli ci hanno fatto conoscere?) ma dell’amore, di un amore incondizionato, e per questo attende dal futuro non ira ma salvezza.

 

 

Cosa resta dell’America dopo la caduta di Trump

Donald Trump, un uomo ricco e senza reputazione, nelle elezioni presidenziali del 2016 si è messo alla testa dei repubblicani, con un linguaggio folle e un comportamento talmente volgare da attrarre di colpo una forte attenzione. Da allora quei repubblicani si sono rapidamente trasformati, come in una strana fiaba, da conservatori rigorosi, preoccupati della protezione della ricchezza e dunque duri con i nemici ma aperti ai buoni accordi col mondo, in un vasto corteo di gente in cerca di decisioni assolute, qui, adesso, in America, senza perdere tempo a cercare amici, portando in dono ossessioni e false credenze.

Primi sono arrivati i portatori di ossessioni che sembrano religiose (aborto, gay, gender). Ma è gente che, se necessario, uccide. Molti medici sono stati uccisi perché ginecologi laici. Arrivano subito i fondamentalisti di diversi cristianesimi che vogliono scuole senza Storia e senza Scienza, fondate su una loro interpretazione della Bibbia. Si arruolano frammenti di un oscuro e sommerso pensiero americano, come i QAnon, dediti alla invenzione di complotti, i Wolverine Watchmen, che secondo l’Fbi stavano preparando il rapimento della governatrice del Michigan, i ProudBoys, che Trump stesso ha citato, raccomandando loro di “tenersi pronti e restare in attesa” durante il primo dibattito con Biden. Intanto erano già entrate nel corteo di Trump due grandi forze delle rivolte popolari apparentemente improvvisate: il negazionismo – che è un rigetto violento della cultura e dell’informazione e adesso ha come nemico la pandemia che “non esiste” – e il vasto schieramento del razzismo.

Il ginocchio del poliziotto sul collo del cittadino George Floyd, condannato a morte perché nero su un marciapiede di Minneapolis, resterà il simbolo delle elezioni americane del 2020. Mossa atroce e ben calcolata. I neri infatti si sono ribellati (Black Lives Matter) e la televisione poteva filmare afroamericani armati nelle strade d’America. Ci sono certo state persone prudenti che hanno deciso di non votare contro Trump, che, in circostanze difficili, è uno forte e sa intervenire. Nonostante ciò i democratici forse hanno vinto, contro la violenza aggressiva e la misteriosa malattia del presidente, curato solo da medici militari e salvato da una guarigione istantanea, come se il Walter Reed Hospital di Washington fosse Lourdes. Certo, nel progressivo affermarsi del partito democratico nel corso dello spoglio elettorale, la folla di Trump ha cominciato a sentire un odore per lei disgustoso di normalità: le frontiere con il Messico non erano più per gli Usa un pericolo così grave da rendere necessario l’invio di truppe e la crudeltà di strappare i bambini alle madri che tentavano di passare il confine. Certo, fuori della bottega di Trump piena di atomiche, c’era il resto del mondo, e la possibilità di tentare di ristabilire rispettosi legami.

Pensate come cambiano i rapporti se nel grande Paese che ha sconfitto il fascismo – il Paese di Roosevelt, di Kennedy, di Martin Luther King, di Barack Obama – viene rimossa la targa “Make America great again”, che identifica un Paese avaro, isolato, circondato di dazi, amico di Putin, con il debito nelle mani dei cinesi e neppure un sospetto che esistano l’Africa e l’America Latina. O anche solo l’Unione europea.

L’invenzione di Trump è stata quella di scatenare e tenere vivo un continuo scontro con il buon senso e la normalità psichica (“Ma lei non è lo zio matto, lei è il presidente degli Stati Uniti”, gli ha gridato una intervistatrice coraggiosa), mantenendo vivo il divertimento della sua folla. L’errore dei democratici è stato di comportarsi come se Trump fosse davvero il presidente degli Stati Uniti e non una persona fuori equilibrio, chiedendo troppo tardi una verifica dello stato mentale dell’uomo che stava recando danni irreversibili all’America. Nonostante la guarigione miracolosa, il Coronavirus è stato la buccia di banana su cui è scivolato il mago asserragliato nella Casa Bianca. Ha fallito nel negare l’epidemia, i suoi malati, le sue terapie intensive, i suoi morti. Ha fallito nel tentare di passare oltre. Lo ha scosso e spaventato la perdita del controllo divertito e assoluto di cui ha goduto. I democratici hanno vinto bene (senza perdere dignità) e hanno vinto male (non erano a fianco dei neri colpiti e non hanno fatto nulla per impedire le squadre armate e ricordare l’insegnamento di Luther King: “La nonviolenza è la strada”). E per questo ci saranno ben pochi neri proprio nel Parlamento per cui hanno rischiato. Biden, quando avrà vinto, governerà un Paese di macerie morali e istituzionali. Ma lascerà un segno per i futuri bambini delle scuole americane: da uomo inerme, con un partito malconcio, con le sue brevi corse al microfono dei “rallies” ha dato lo spintone a Trump.

 

Le stregonerie di Bao per tenersi una bella moglie tutta per sé

Dalle novelle apocrife di Feng Menglong. Bao, un contabile, aveva avuto la fortuna, o la sfortuna, di sposare Kumiko, la più bella ragazza del Regno di Mezzo. Come conseguenza, aveva smesso di recarsi in ufficio: passava il tempo a fare l’amore con lei. Dopo sei mesi, però, i risparmi erano finiti. “Non si vive di solo amore”, gli disse Kumiko. Così, pur temendo che qualcuno potesse insidiarla se lui si fosse assentato per lavoro, Bao si recò in città a cercare un nuovo impiego. Durante il cammino, incontrò un viandante. Gli domandò che lavoro facesse, e l’uomo, cordiale, rispose che era un mago. “Ah!” disse Bao. “Allora saprai risolvere questioni complicate. Per esempio: come si può conservare l’amore della donna più bella del mondo quando non ci si può dedicare a lei giorno e notte? La bellezza perfetta è così rara che tutti vogliono rubarla”. “Non ho tutte le risposte, ma conosco molti trucchi”, rispose l’uomo. “Per esempio questa piccola bottiglia verde”. La estrasse dalla bisaccia. “Tieni. Al mattino, quando esci per andare al lavoro, non devi fare altro che imbottigliare tua moglie. La guardi, soffi sul collo della bottiglia e op-là! lei ci finirà dentro. Ah, fai lo stesso anche con un cuscino, così starà più comoda. La sera, picchietta la bottiglia con un’unghia, e lei tornerà fuori”.

La mattina dopo, mentre si stava pettinando, Kumiko vide allo specchio Bao che soffiava dentro una bottiglietta. Di colpo, perse conoscenza, e quando si svegliò era sdraiata sopra un morbido cuscino in una piccola stanza verde dalle pareti lisce e curve. Bao s’infilò in tasca la bottiglietta e si recò al lavoro fischiettando. Lavorò tutto il giorno in perfetta beatitudine. Voi, che lasciate a casa le vostre belle mogli, potreste dire lo stesso? Tornato a casa, quella sera, gli bastò picchiettare la bottiglietta: Kumiko perse conoscenza, e quando rinvenne era a letto con Bao, che la guardava soddisfatto. La cosa proseguì in questo modo per qualche tempo, finché i panni sporchi, che si erano accumulati in un grosso mucchio, convinsero Bao a lasciare Kumiko a casa, se voleva abiti puliti. La pregò di tornare direttamente a casa, dopo essere stata al fiume; lei promise solennemente, e Bao si recò in città senza pensieri. Sulla riva, mentre lavava una delle casacche di Bao godendosi la magnifica giornata, Kumiko sentì qualcosa di duro in una tasca. Era la piccola bottiglietta verde. “Ogni mattina, Bao soffia dentro questa bottiglietta, e un attimo dopo mi ritrovo in una piccola stanza liscia con le pareti di questo stesso colore. Non sarà che…?”. Guardò dentro la bottiglia, vide sul fondo un piccolo cuscino, e capì. In quel mentre, sull’altra sponda del fiume, un ragazzo bello come il sole si stava spogliando per un tuffo. Quando le sorrise, lei ricambiò e, guardandolo, soffiò sul collo della bottiglietta: di colpo, quello scomparve dalla riva. La sera, Bao chiese a Kumiko se per caso avesse trovato una bottiglietta verde. “Sì, eccola”, gorgheggiò lei, con l’ilarità impudente delle donna infedeli. La mattina dopo, Bao compì di nuovo la magia che gli dava tranquillità, ma durante la giornata si accorse che, ogni tanto, la bottiglietta si faceva inspiegabilmente più calda, tanto che a un certo punto dovette riporla al fresco su una mensola in ombra. Forse Bao aveva sempre saputo che qualcosa del genere sarebbe successo: la sera, quando picchiettò la bottiglietta, a letto comparvero non solo sua moglie, ma anche il bel giovanotto. “Non importa quanto devoto, quanto considerato, quanto adorante sia un uomo”, pensò Bao, “gli sarà impossibile avere una bella moglie solo per sé”.

 

Mail box

 

 

I crimini della guerra tra armeni e azeri

Ci sono cose ben più inaccettabili delle parole, ma nessuno ne parla. Ovunque ho letto dell’attacco di Erdogan a Macron, molto meno delle migliaia di vittime che il delirio di onnipotenza del neosultano sta causando in Armenia e Artsakh. Qui, crimini contro l’umanità sono all’ordine del giorno, perpetrati nella totale indifferenza della comunità internazionale. Mentre il mondo civile si mobilita su scala internazionale scendendo in piazze, strade e autostrade a gridare la propria collera contro il generale appeasement nei confronti del duo Aliyev–Erdogan, quello politico sembra non considerare la “bomba a orologeria” caucasica, pur se già scoppiata. Mi sconcerta il silenzio mediatico su una vicenda che ci riguarda così da vicino, il fatto che l’opinione pubblica italiana non legata al mondo armeno né conosca i massacri che si stanno consumando, né abbia percezione del pericolo reale rappresentato da questa guerra. Il nostro paese vende armi ai terroristi e contribuisce all’annientamento di un popolo con cui ha condiviso un’importante fetta di storia – per lo più sfruttando, mai aiutando. Ci sono cose più inaccettabili delle parole e la gente ha il diritto di conoscerle.

Alessia Boschis

 

Serve più teatro in tv per sostenere i lavoratori

Il contagio non avviene nelle sale, ma a causa delle uscite di casa e degli incontri di un maggior numero di persone. Certamente non si può ovviare all’aspetto culturale negativo della chiusura di cinema e teatri, ma alleviare eventuali difficoltà di autori, registi ed attori forse sì. Le televisioni tutte potrebbero riprogrammare i loro palinsesti in funzione del fatto che ancora per molti mesi, purtroppo, il pubblico televisivo sarà forzatamente di gran lunga più elevato del solito e fatto di pensionati in massima parte. Perché non investire subito in nuovi contratti per trasmettere recenti spettacoli teatrali e cinematografici italiani adattabili al piccolo schermo e promuoverne di nuovi coinvolgendo eventualmente le società e le compagnie? Può produrre benefici per il pubblico e qualche “ristoro” per i lavoratori dello spettacolo. Naturalmente non è la stessa cosa, specie per il teatro, ma di questi tempi è forse meglio che niente.

Carlo de Lisio

 

Don Zerai, un teologo in difesa degli ultimi

Don Mosè Zerai, difensore degli ultimi, cappellano delle comunità cattoliche eritree in Europa, conosciuto come il sacerdote dei migranti, è un uomo di valore e di bellezza umana. Presidente dell’agenzia per lo sviluppo Habeshia, si batte per i disperati delle acque e delle terre, per i profughi, per i rifugiati. Candidato al Nobel per la pace nel 2016, in questi giorni ha ottenuto a Lucerna, in Svizzera, il dottorato honoris causa in teologia. Nel 2018, scrisse una lettera aperta a Matteo Salvini, allora vicepremier e ministro dell’Interno, intento a chiudere i porti italiani all’arrivo dei migranti. “Faccio appello alla sua coscienza di uomo e di padre: sia più umano perché ogni sua decisione incide sulla carne viva di questi esseri umani”. Il leader della Lega, sempre ben disposto a discettare su ogni cosa, a don Zerai non seppe rispondere nulla.

Marcello Buttazzo

 

La lezione di Petrolini è ancora attuale

Ho assistito in tv al rito celebrato per Proietti nella Chiesa degli Artisti. Ho apprezzato quanto avete scritto su Proietti, il vero erede di Petrolini. In una mia lettera precedente citavo Petrolini che non incolpava chi lo fischiava ma coloro che non reagivano al fischiatore. L’articolo di ieri è l’esatta fotografia dell’anti-democrazia costituzionale voluta dalla destra a rimorchio di Salvini che fischia qualsiasi provvedimento e gli altri seguono.

Giuseppe Trippanera

 

Abolire le Regioni come campagna politica

Sì! Aboliamo le Regioni con i loro parlamenti, consigli regionali e i loro presidenti sgovernatori. Tra i tanti disastri da ascrivere alle Regioni non ho letto della colpevole assenza nella ricostruzione delle zone terremotate in Italia centrale. Gemona e Friuli furono ricostruiti a tempi di record perché non ostacolati dal mostro Regioni. I 5stelle si impegnino in questa campagna e troveranno molto consenso.

Sandro Santarelli

 

I nostri errori

Nell’articolo intitolato “L’islamofobia e la laicità sfigurata”, pubblicato sul Fatto venerdì, ho scritto per errore che il ministro dell’interno Darmanin ha ordinato la chiusura dei reparti halal nei grandi magazzini. Darmanin si è limitato a dire (a sproposito comunque) che era “scioccato per la presenza nei supermercati di reparti halal e casher”. Mi scuso con il ministro e i lettori. Colgo l’occasione per precisare che gli eventuali compromessi con i fondamentalisti musulmani (non tutti i fondamentalisti approvano il terrorismo e la violenza) vanno cercati solo se questi ultimi rispettano la legge e l’ordine pubblico, come più volte menzionato nel mio articolo.

Barbara Spinelli

Grazie Gigi per quel sorriso al fosforo

 

 

“Potrei esserti amico in un minuto, ma se nun sai ride mi allontano. Chi non sa ride, m’insospettisce”.

Gigi Proietti

 

Queste parole di Gigi Proietti sono il mio alibi per ciò che sto per scrivere, perché so che lui mi perdonerà se confesso di avere sorriso per un momento, giovedì scorso, mentre lo salutavamo nella Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo. È stato alla lettura del passo biblico che ci descrive Giobbe, quello della pazienza. Personaggio giusto, onesto, ricco e molto devoto, che viene messo alla prova da satana per convincere Dio che l’uomo lo onora solo per conservare i propri privilegi materiali. Seguiva l’elenco interminabile delle disgrazie, la morte di dieci figli, la perdita di ogni bene e infine la terribile lebbra che gli causa dolori e sofferenze. Ecco, in quel momento mi veniva in mente che questo eccessivo campionario di sfighe avrebbe strappato al protagonista della mesta cerimonia uno di quei suoi fantastici, assoluti sorrisi di traverso che saldati a quegli occhi di fosforo “please” hanno regalato tesori di complicità ai nostri pensieri più ribaldi. E poiché credo alla vita dopo la morte, sono convinto che, standosene lì tra chi lo commemorava e lo piangeva, ne avrà tratto spunto per un nuovo spettacolo il cui titolo, azzardo, potrebbe essere: “Se vuoi che tutti parlino bene di te, muori”. Ma il libro di Giobbe si addice anche alla piazza desertificata dalla malattia, così come la città e il mondo circostante, a ricordarci che nel nostro stato terreno alla fine tutto passa. Infatti ci viene detto che Dio, mosso a pietà, ristabilì il poveretto nello stato di prima, e accrebbe anzi più del doppio quanto aveva posseduto (e qui Proietti poteva sbizzarrirsi ancora su certe strampalate logiche divine). Per concludere questo breve, sgangherato pezzo colmo di gratitudine, ho trovato che anche Woody Allen chiama in causa Giobbe quando in “Manhattan”, rapito dalla beltà di Mariel Hemingway, le dice: “Senti tu sei la risposta di Dio a Giobbe: sai, avresti messo fine a tutte le discussioni tra loro. Dio avrebbe indicato te e detto: ‘Faccio tante cose tremende, ma ne so fare anche come questa, sai’. E Giobbe avrebbe detto: ‘Okay, hai vinto’”. E visto che Dio insieme al Covid ci ha pure regalato il tuo, il nostro sorriso, diremo: “Okay Gigi, hai vinto”.

Antonio Padellaro

Murdoch divorzia dall’amico per caso

The show must go on. Lo sa bene Rupert Murdoch, per cui sopra ogni cosa conta la disaffezione dal telecomando degli elettori-spettatori di uno spettacolo che si stava facendo sempre più noioso. Così, a sorpresa, l’emittente principe di Murdoch, la Fox mercoledì notte ha dato Biden vincente in Arizona, in pieno delirio di onnipotenza dell’amico Trump. E ieri anche il New York Post – quotidiano che fa parte della forza d’impatto mediatica di Murdoch, ha scaricato The Donald. Il giornale non ha aspettato l’annuncio della vittoria di Joe Biden per buttare a mare il capo della Casa Bianca a cui aveva fornito nelle scorse settimane un assist in extremis pubblicando presunti scoop sulle mail di Hunter Biden. In linea anche con il Wall Street Journal, i vertici del tabloid hanno incoraggiato lo staff ad “andare giù più duri” nella copertura del presidente, secondo quanto hanno riferito fonti del giornale al New York Times. Se non fosse per la mancata proclamazione della vittoria definitiva di Biden, battuta ieri in ritardo da Fox, sembrerebbe un divorzio in piena regola, di quello che Politico definisce un “matrimonio di convenienza” tra i due tycoon. A porvi rimedio ci ha provato anche il genero di The Donald chiedendo a un assistente della campagna di Trump un passo indietro sull’Arizona. “Fox ritiri l’annuncio”, ha twittato Jason Miller, senza successo. Anzi, Fox raddoppia e Arnon Mishkin, caporedattore, difende la chiamata dell’Arizona. Passeranno ore prima che Associated Press, New York Times e Cnnconfermino. Eppure il divorzio tra Murdoch e Trump era prevedibile fin dal primo appuntamento, quando il tycoon televisivo Trump era la novità da trasmettere soprattutto per i suoi discorsi pieni di falsità e insulti. Da lì l’orgoglio di avere il presidente come spettatore numero uno, quello che chiamava e interveniva dalla sua camera da letto. Ma prima che l’imprenditore tv capisse l’oro dello share che sgorgava dalle sue invettive, per Murdoch nel 2016 Trump non era la prima scelta. Allora brillavano di più le stelle esotiche di Ted Cruz e Marco Rubio. Storico resta il suo tweet del luglio 2015: “Quand’è che Donald Trump smetterà di mettere in imbarazzo i suoi amici e l’intero paese?”. Se non sono indizi questi… Indizi diventati faida durante le primarie, quando Murdoch si oppone alle politiche sugli immigrati, il muslim ban o il protezionismo commerciale di The Donald. Il resto è storia: Trump vince e diventa il candidato repubblicano a presidente. Qui share e narcisismo si incontrano. Finché il secondo non diventa eccessivo, trasformandosi in richiesta di lealtà personale.

Troppo per chi, come Murdoch, gli ordini è abituato a darli, non a riceverli. Se poi vengono da colui che solo tre anni prima riteneva un “fasullo”, un “fottuto idiota”, il fastidio diventa insofferenza. Niente di strano per un magnate come Murdoch che ha aiutato i Tory a seppellire i laburisti nel Regno Unito nel 1992, per poi farsi supporter di Tony Blair nel ‘97. Quanto agli Usa, la vittoria di Biden e la fine della carriera di Trump rendono necessario lo zapping: lo spettacolo continua. Il casting per il protagonista è aperto.

“Non illudetevi, il trumpismo è fra noi: e non se ne andrà”

John Niven, scozzese, è uno scrittore e sceneggiatore satirico. Il suo ultimo romanzo, La lista degli stronzi, ambientato nel 2026, è un intreccio fra thriller e satira politica in un’America immaginaria dominata dal trumpismo.

Il protagonista, Frank Brill, è un sessantenne che accoglie la diagnosi di cancro terminale quasi con euforia. Come è nata l’idea?

Dal mio amico Alan. Un giorno mi dice che aspetta il risultato di certe analisi. Chiedo: e nel peggiore dei casi che farai? Il viaggio della vita? E lui: Ma no. Se sto per morire prendo un’arma e faccio fuori tutti quelli che mi hanno fottuto. Mi è sembrata un’idea divertente, il sessantenne che diventa un killer per togliersi i sassolini dalle scarpe, tanto che il libro all’inizio doveva essere comico. Poi la realtà americana lo ha reso molto piu cupo del previsto.

Lei crea un futuro distopico: Ivanka figlia prediletta diventata presidente, Donald venerato come un Dio, Don J che evangelizza come lo spirito santo….

Sì, perché al di là dei risultati elettorali il trumpismo è come il genio della lampada: è uscito, nessuno può farlo rientrare. Era già nella società americana. L’intuito di Donald è stato di non farsi scrupoli, di parlare a questa massa di bianchi poveri con frasi brevi, parole semplici, come si fa con i bambini, dicendo: ‘è ok essere razzisti’, ‘è ok essere violenti’. ‘È ok essere ignoranti’. E loro gli hanno creduto, perché credono a qualsiasi cosa, perfino a un personaggio psicologicamente disfunzionale come Trump, una psiche danneggiata fin dall’infanzia, per il quale essere visto come un perdente è intollerabile. Per questo non concederà mai la sconfitta, continuerà con la storia della vittoria rubata, e potrebbe ricandidarsi nel 2024.

O potrebbe candidarsi Ivanka.

Lei è intelligente, può allargare l’elettorato, parlare alle donne della classe media suburbana, affascinare le piu giovani, rappresentare il volto umano di un regime trumpista. Don J, d’altra parte, sa parlare alla base, va oltre persino gli eccessi del padre, cementa il consenso. Ma ormai, chiunque lo incarni, basta il nome Trump per esaltare i seguaci di quel culto.

Nel regime che lei immagina, gli Usa hanno invaso l’Iran, nuclearizzato la Corea del Nord per farne un gigantesco affare immobiliare, e intanto in casa armi libere per tutti, aborto illegale, poteri militari alla polizia eppure consenso assoluto.

C’è una scena di Hannibal Lecter ambientata a Firenze in cui Hannibal usa strumenti di tortura medievali per uccidere. Ma il regista non indugia su questo: si sofferma invece sulla reazione della folla che assiste affascinata e divertita. E per me l’orrore assoluto delle manifestazioni di Trump delle ultime settimane non è nelle sue parole: è nelle facce di chi lo ascolta, grassi maschi bianchi con le facce stravolte dalle grida e gonfi di rabbia.

Non ne esce bene neanche il Partito repubblicano.

Ho odiato George Bush, ma ora sembra un gigante. Mi sono chiesto con sgomento se fra dieci anni rischiamo di rivalutare persino Donald Trump. Lo abbiamo visto nel Regno Unito con la Thatcher, in Russia con Putin, voi in Italia con Berlusconi: il danno che fanno queste figure, con la loro violazione delle norme democratiche e civili, diventa permanente. Le nuove generazioni sanno riconoscere solo quel modo di comportarsi.

Senza rivelare il finale, possiamo dire che non è consolatorio?

Frank è una biografia dell’America trumpista, di cui ha subito tutti gli orrori. Ma è anche corresponsabile perché Trump l’ha votato anche lui: la Clinton gli stava antipatica e non ha pensato alle conseguenze.

Che fine ha fatto Alan?

Sta bene! Non ce l’aveva, il cancro. Gli ho dedicato il romanzo, ma credo proprio di dovergli dei soldi per avergli rubato l’idea.

“Tutti insieme per battere il Covid”: le carte di Joe

Ora “Sleepy Joe” deve darsi una svegliata. L’uomo che a 78 anni diventa il 46° presidente degli Stati Uniti, dopo circa 40 anni di carriera politica, due anni di vice-presidenza con Obama, una visione politica moderata deve dimostrare che può farcela.

Lo spiega bene Barack Obama: “Quando a gennaio (Biden, ndr) entrerà alla Casa Bianca, avrà davanti a sé una serie di sfide straordinarie che nessun nuovo presidente ha mai affrontato: una violenta pandemia, un’economia e un sistema giudiziario iniqui, una democrazia a rischio e il clima in pericolo: gli americani gli diano una possibilità”. Let’s give him a chance, insomma.

Ricucire Che il primo passaggio sia quello di ricucire il Paese lo ha detto chiaramente lo stesso Biden nel discorso tenuto ieri sera nella sua residenza di Wilmington, nel Delaware. Un messaggio ripetuto giù più volte in questi giorni, senza mai abboccare alle provocazioni di Trump. “Dobbiamo stare insieme e voglio essere il presidente di tutti, anche di chi non ha votato per me”.

Il piano Covid Il passo successivo, annunciato ieri, è il Covid. Secondo il sondaggio del Norc dell’Università di Chicago, la gestione della pandemia è stata decisiva per il voto e il Politico.com ha pubblicato un insider nella campagna eletorale da cui emerge come Trump fosse stato avvertito del problema dai suoi consiglieri e avesse risposto: “This fucking virus, cosa c’entra con la mia rielezione?”. Biden ha annunciato che lunedì sarà istituita la task force co-presieduta dall’ex chirurgo generale Vivek Murthy, dall’ex commissario della Fda David Kessler e dalla dottoressa Marcella Nunez-Smith, professore associato di medicina dell’Università di Yale.

L’economia Ma il Covid non può che essere appaiato all’altra emergenza nazionale, e mondiale, l’economia. Il primo segnale sarà la nomina del Segretario al Tesoro: la più radicale Elizabeth Warren o una figura più moderata? Parlando al New York Times il leader dei Democratici al Senato, Chuck Schumer , dice che “se non facciamo un cambiamento coraggioso, potremmo finire con qualcuno peggio di Donald Trump in quattro anni”. Sono esattamente i timori della sinistra interna, da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio Ortez. Shumer dice che i primi 100 giorni dell’amministrazione Biden “dovrebbero assomigliare a Fdr”, Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal: “Abbiamo bisogno di un cambiamento grande e coraggioso”. Bisognerà vedere che maggioranza ci sarà al Senato – tutto dipende dai due ballottaggi in Georgia che, se vinti dai democratici, porterebbero la Camera alta a 50-50 con il voto decisivo della vicepresidente, Kamala Harris.

La transizione Intanto c’è da preparare la transizione che, nonostante le sparate di Trump, è regolata dal Presidential Transiction Act del 1963. Ad aprile è stato già istituito il White House Transition Coordinating Council che dovrà coordinarsi con gli emissari di Biden. Ci sono poche settimane per definire squadra di governo e sancire un passaggio non conflittuale con l’amministrazione Trump, ma le sorprese potrebbero non mancare.

I simboli Prima del discorso di insediamento del 20 gennaio 2021, saranno importanti i gesti simbolici. Cosa dirà Biden, a chi si rivolgerà, che viaggi farà. Come si comporterà, ad esempio, con il voto “nero” che, come ha ricordato ieri Black Lives Matter “ancora una volta ha salvato l’America”. Come si rivolgerà a chi ha garantito la spinta per arrivare a 81,8 milioni di voti contro i 74,9 di Trump? E che segnali di distensione darà al resto del mondo, Cina in testa, per far capire che opererà una svolta? Che gli Usa finiranno di insultare Greta Thunberg sembra abbastanza sicuro con il recupero del tema ecologico. Ma altrettanto importante sarà il segnale che invierà alla Cina.

Soprattutto, come farà uno degli uomini più incolori del mondo politico americano a districarsi in un’America che non era così politicizzata e controversa dagli anni 60? Obama propone di dargli una chance e molti statunitensi sono propensi, in queste ore di festa, a dargliela. Ma alla fine sarà Joe che dovrà darsi una svegliata.

Il silenzio di Melania Bella e “sdegnosa” una First Lady contro

Due donne, altrettanti stati d’animo. Jill Biden, nuova First Lady, si è affrettata a rassicurare il ceto medio: Joe “sarà presidente di tutte le famiglie”. Non vuol dire granché, ma è un tono confortante, persino soporifero, che non guasta, dopo le sparate del clan Trump. In quella famiglia, chi ha preferito il silenzio è Melania. “Non rilascerà dichiarazioni oggi, né di appoggio agli sforzi che il marito si appresta a compiere per contestare la vittoria di Biden, né di accettazione della vittoria del presidente eletto”, raccontava ieri a caldo la Cnn citando alcuni funzionari della Casa Bianca. Questi quattro anni da padrona di casa restano nebulosi per una ragazza che forse non era preparata allo show più pazzo del mondo. Melania, con quello sguardo un po’ perso da ragazza triste dell’Est, a suo modo chic, ma mai quanto Ivanka Trump, la figlia del marito; a suo modo rivoluzionaria, nel giugno 2018 andando a visitare un centro di detenzione di migranti al confine con il Messico ma sbagliando giacca, per cui quella scritta sulla schiena “A me non importante niente, e a te?”, aveva annullato ogni sforzo di umanità con quella mano tesa verso le famiglie che i federali separavano in nome della guerra ai clandestini voluta da The Donald. Melania donna fiera, che non stringe la mano al marito mentre scende le scale dell’Air Force One per ben due volte, facendo presagire una rottura; o Melania fedele alla linea, quando definisce Trump “un gentleman”, cercando di tirare fuori dai guai il marito per il suo linguaggio sessista. Tante verità e nessuna. Melania la migliore alleata del presidente, che fa tutto quello che lei dice come descritta nel libro The Trump White House: Changing the Rules of the Game di Ronald Kessler, o Melania calcolatrice in The art of her deal: the Untold Story of Melania Trump scritto da Mary Jordan, premio Pulitzer del Washington Post: capace di rinegoziare gli accordi prematrimoniali a suo favore, dopo la vittoria del marito alla Casa Bianca per tutelare Bannon, unico figlio avuto da Trump e imporre camere separate nella vita coniugale. E ora che Trump vuole la battaglia legale a tutti i costi, lei resta in silenzio. Forse, dopo tanta ribalta, un rimasuglio di saggezza slovena, di popoli che ne hanno viste tante, e sanno quando è il tempo di diventare invisibili.