La Liguria può diventare “arancione”. A rischio Campania e altre cinque

C’è la Liguria in cima alla lista delle Regioni che rischiano di diventare arancioni. Perché la Liguria, secondo i dati fino al 1° novembre elaborati dall’Istituto superiore di sanità, ha un’incidenza di 728 positivi per 100 mila abitanti ogni 14 giorni, inferiore solo a quella della Valle d’Aosta (1.246) e della Lombardia (768) già dichiarate zone rosse dal ministro Roberto Speranza, nonché dell’Alto Adige (770) che ha assunto autonome misure restrittive. Genova, secondo i nostri calcoli, al 4 novembre era già sopra i 1.000, appena sotto Monza e Brianza, Aosta, Milano, Varese, Prato e Como. In Liguria Rt, il tasso di riproduzione del virus, era a 1,35 secondo l’ultimo monitoraggio della cabina di regia ministero della Salute/Iss che si ferma al 25 ottobre, dunque nello scenario 3 (Rt tra 1,25 e 1,5) che significa zona arancione. Come la Puglia (1,37) e la Sicilia (1,38). La Calabria invece è zona rossa perché Rt era a 1,84 (lo scenario 4 che si apre sopra 1,5: Piemonte e Lombardia erano sopra 2, la Valle d’Aosta poco sotto) e perché ha il minor numero di addetti al tracciamento in Italia: appena 151, 0,8 ogni 100 mila abitanti.

Altro problema della Liguria è il monitoraggio. Nella settimana 19-25 ottobre ha saputo indicare la data di inizio sintomi solo per il 49,4% dei casi (la soglia d’allerta è il 60) contro il 73,7 della settimana precedente. Questo “porta ad un rischio di sottostima di Rt”, osserva l’Iss. L’Abruzzo era al 32,5%, la Basilicata al 7,2, il Veneto al 44,6 ma in aumento.

Secondo l’agenzia Agenas del ministero della Salute, la Liguria ha occupato il 70 per cento dei posti letto nei reparti ordinari (la soglia per farli funzionare è il 40), mentre nelle terapie intensive era al 37 (ma la soglia è 30). Della gestione dei pazienti Covid-19, su incarico di Agenas, si occupa da ieri Matteo Bassetti, il telegenico direttore delle Malattie infettive del San Martino di Genova, noto anche per le dichiarazioni della scorsa estate sul virus che “morde meno”. Le Regioni sopra soglia però sono tante: ci sono anche Emilia-Romagna (45% nei reparti ordinari e 31% nelle rianimazioni), Lombardia (69% e 49%) Marche (47% e 37%), Piemonte (93% e 46%), Alto Adige (98% e 55%), Trentino (44% e 33%), Umbria (49% e 51%), Valle d’Aosta (89% e 43%). Il Lazio nei reparti ordinari è al 44%, la Puglia al 30% nelle terapie intensive.

La Liguria infine è tra le Regioni segnalate dall’Iss per il ritardo nella trasmissione dei dati. La Procura di Genova, che aveva aperto un fascicolo conoscitivo sui pazienti lasciati in attesa nelle ambulanze, ora si interessa anche dei dati. “Stiamo verificando cosa sia stato inviato al ministero della Salute – ha spiegato una fonte investigativa – e se siano dati corrispondenti alla realtà del nostro territorio”. È il sospetto di alcuni medici, tutto da verificare.

Rischia di finire in zona arancione anche la Campania, dove secondo l’ultima valutazione Rt era a 1,29 ma con forti differenze tra le province di Napoli e Caserta, le più colpite, e quelle di Avellino, Benevento e Salerno. C’è un’alta percentuale di asintomatici e questo spiega il livello relativamente basso di Rt. Anche qui ci sono ritardi e incompletezze nella trasmissione dei dati, anche sui ricoveri. Rischia meno la Toscana, dove l’incidenza aumenta (cinque province su nove sono fra le venti più colpite in Italia: Prato, Firenze, Arezzo, Pistoia e Pisa) ma Rt resta basso (1,19 fino al 25 ottobre) anche per il gran numero di asintomatici e il monitoraggio funziona: per il 93,5% dei positivi c’è la data di inizio sintomi. Sotto la lente della cabina di regia ci sono anche il Lazio per le criticità negli ospedali, l’Emilia-Romagna perché Rt era a 1,6, l’Umbria per Rt a 1,45 e ben l’82% dei nuovi casi “fuori da catene di trasmissione” note.

Oggi dovrebbe riunirsi la cabina di regia, anche il Comitato tecnico scientifico attende da giorni i dati del monitoraggio settimanale da cui dipenderanno eventuali nuove ordinanze. I criteri sono noti, certamente complessi. Il governo punta a renderli più trasparenti e pubblicare online almeno i più importanti. Secondo una bozza sono sei: Rt, la percentuale di occupazione dei letti negli ospedali, il personale sul territorio, il rapporto positivi/tamponi, il tempo medio tra sintomi e diagnosi.

Malgrado l’Innominabile

Mentre gli strateghi discutono se abbia più vinto Biden o più perso Trump, se c’entri il Covid, se il sovranismo e il populismo siano passati o solo rimandati, noi profani preferiamo dedicarci a una questione all’apparenza minore: ma se il vecchio Joe è pappa e ciccia del nostro Innominabile, che salta sul carro del vincitore dopo aver perso tutto, lo chiama “fratello maggiore saggio”, racconta di averlo scoperto lui (“io ho capito che se la sarebbe giocata fino alla fine”) e narra telefonate, cene e pranzi quotidiani per scambi di “empatici consigli”, come avrà fatto a vincere? Stiamo parlando del politico che contende a Fassino il Guinness dei baci della morte e la fama di maggior perditore della storia dopo Fantozzi. Uno che dal 2014 riesce a schiantarsi in tutte le elezioni circoscrizionali, comunali e regionali, più referendum. Uno che annuncia la rinascita di Alitalia, che affonda. Il risanamento di Mps (“un bell’affare in cui investire”), che cola a picco. La resurrezione dell’Unità, che chiude. Il salvataggio di Almaviva, che defunge. L’Italicum che tutto il mondo c’invidia, e la Consulta glielo rade al suolo. Fa gli auguri agli azzurri per i Mondiali 2014 e vince la Germania. Li rifà per gli Europei 2016 e vince il Portogallo. Vola alle Olimpiadi di Rio e manda un “Forza Vincenzo” al superfavorito Nibali, che si schianta per la prima volta in vita sua (doppia frattura). Poi twitta: “Il mio atleta preferito è Federica Pellegrini, la Divina: l’ho vista in forma” e la poverina arriva quarta. Fa gli auguri alla sonda Schiaparelli per l’euromissione su Marte (“Un grande sogno europeo grazie alla straordinaria qualità dei ricercatori italiani che ho incontrato giorni fa a Torino. Viva chi ci prova, chi si mette in gioco e chi innova”) e la capsula spaziale precipita nel vuoto senza lasciare tracce. Fa il ganzo all’Expo con Putin: “Non parlo dei Mondiali, sennò c’è crisi diplomatica perché vogliamo vincere Russia 2018”: infatti l’Italia nemmeno si qualifica.

Nel 2016 tifa Hillary e vince Trump. Un anno fa vuole rovesciare Conte, e arriva il Covid. Non per nulla è l’Innominabile. Il Divino Otelma l’ha definito “un vampiro astrale che porta sfiga a chi gli è vicino”. Eppure stavolta tifava Biden e Joe ha vinto lo stesso. Un’eccezione alla regola? Mica tanto. Donald aveva dalla sua un menagramo ancor più potente: il Cazzaro Verde, che andava in giro con la mascherina “Trump 2020”. Quindi guai a trarre conclusioni affrettate: l’Innominabile ci ha provato anche stavolta, ma forze ancor più micidiali hanno neutralizzato le sue. Ieri però, mentre si arrampicava sulla spalla del fratello Joe per festeggiare, gli è piovuto in testa un avviso di garanzia. Come portatore di sfiga a se stesso, è sempre il numero 1.

Non ci si stanca mai di leggere le favole del buon Gipi

Gipi è una certezza, ma una certezza imprevedibile: non è mai dove ti aspetti di trovarlo e quando lo trovi non è mai nella forma in cui lo avresti riconosciuto. Un libro a fumetti, un film, un corto per Propaganda Live, un gioco di ruolo e adesso Aldobrando: massiccio graphic novel già pubblicato con gran successo sul mercato francese dal prestigioso Casterman e ora portato in Italia da Coconino.

Dov’è la novità? Gipi stavolta è solo sceneggiatore e cede la matita a Luigi Critone, uno dei migliori disegnatori italiani trapiantati in Francia. I due hanno trasformato quello che, in sé, sarebbe un romanzo piuttosto classico di formazione in una storia in bilico tra favola e cinismo, piena di un umorismo nero che vena anche i dialoghi più drammatici. Un racconto in cui i personaggi secondari hanno vite evocate dai loro stessi nomi: “L’uccisore”, “Lo strego”, “Boccamarcia”, “Dufficio” e via così. E poi c’è Aldobrando, il ragazzino protagonista, la cui storia viene raccontata pagina dopo pagina ed è una storia che già si sa come andrà a finire, anche nel colpo di scena in chiusura, ma che tiene incollato il lettore dall’inizio alla fine, come quelle favole che non ci si stanca di ascoltare. Ed è forse questo il bello delle certezze.

 

Il presidente Usa: non un monarca, ma il termometro della vita nazionale

Guardando al complicato intreccio che sta risolvendo l’elezione del 46° presidente degli Stati Uniti, sarebbe facile sottolineare l’assurdità e la pericolosità di un modello elettorale che, nella sostanza, risale al 1789, anno della Costituzione americana. Il lavoro di Francesco Clementi e Gianluca Passarelli, l’uno docente di Diritto pubblico, l’altro di Scienza politica, prova a dimostrare che, nonostante qualche incertezza, il sistema invece è ancora valido. Certo, il punto dolente emerso con l’elezione di Donald Trump e, prima di lui, con quella di George W. Bush nel 2000, per cui al presidente eletto è corrisposta la maggioranza dei Grandi elettori, ma non la maggioranza di voti popolari, “pone un problema politicamente molto serio, soprattutto perché è un segnale inequivocabile di un Paese molto diviso e frammentato”. Però non sufficiente a dimostrare l’inadeguatezza di un sistema politico-istituzionale statunitense, che mantiene intatto il suo fascino e il suo potenziale. Del resto, i dati che emergono in queste ore e che assegnano la maggioranza dei voti popolari a chi – Biden – si appresta a conquistare anche la maggioranza dei Grandi elettori, rinviano ugualmente a una frammentazione e polarizzazione che hanno cause strutturali. I due autori sono comunque convinti che il sistema di check and balances ideato dai Costituenti americani – in cui alla presidenza è contrapposto un potere legislativo molto forte e un altrettanto potente giudiziario – permettano al sistema di funzionare. E la presidenza, apparentemente monocratica, più che un potere esclusivo rappresenta soprattutto un indicatore dei cambiamenti complessivi, “un termometro dello stato del Paese”. Di più, “l’ambiguità” che le conferisce la Costituzione ne permette l’adeguamento ai vari rapporti di forza politici e istituzionali che si determinano di volta in volta. Particolarmente efficace il capitolo 4, “Il giorno del voto (e le sue conseguenze). Mai libro è stato così sulla cronaca.

 

“La mia arte? Rovisto in Leonardo o Burri”

“Mi piace rovistare nella storia dell’arte!”. A dirlo è Manolo Valdés, artista spagnolo classe 1942 tra i più celebri nel panorama europeo, noto soprattutto per il suo rapporto sempre leggibile con i classici. Nelle opere, dipinti e sculture esposti a Palazzo Cipolla a Roma – il bronzo femminile primitivista Infanta Margarita (2005) il ritratto tra il surrealista e il pop Rostro tricolor sobre fondo gris (2006) – nell’antologica Le forme del tempo (a cura di Gabriele Simongini, inaugurata il 17 ottobre e che ritroveremo a dicembre, alla sperata riapertura dei musei) l’impressione è quella accogliente e perturbante insieme di riconoscere opere di Picasso, Matisse, Velásquez, Giacometti. Del titolo della mostra dice: “Azzeccatissimo, perché dà la misura che siamo noi, con i nostri passi o con la nostra arte, a dare forma al tempo”. Come un innamorato bibliomane contempla, inciampa, sposta, legge e rilegge i volumi della sua biblioteca, l’esercizio di vita di Valdés è spostarsi da un tempo all’altro. “C’è chi piazza il cavalletto davanti a un paesaggio o un soggetto e lo ritraggono. Il mio pallino, invece, è commentare i quadri della grande storia dell’arte. Sono un uomo nato e vissuto nel XX secolo, durante il quale sono accadute molte cose, perciò la mia intenzione è rileggere quelle opere, tenendo conto del tempo e di tutto quello che è accaduto. Osservando un’opera di Diego Velázquez, la contamino con le varie correnti pittoriche a lui successive (perché no? fino alla Pop art), cerco di ricostruire un’interpretazione che sia autonoma”.

È legato anche alla scuola italiana?

Artisti come Raffaello, Leonardo, Botticelli e Caravaggio sono autori imprescindibili. Ricordo che quando da studente dell’Academia del Prado visitai per la prima volta gli Uffizi, passai ore di fronte a Primavera (Botticelli), il Bacco (Caravaggio) o La Velata (Raffaello). Ma mi affascinano anche artisti più contemporanei come Alberto Burri, che mi ha insegnato la tecnica della tela di sacco. Se si prende il mio Dama a caballo en azul (2017), è dipinto su tela strappata e rammendata come piaceva a Burri. Quello che faccio è creare un’opera da tante altre e che non abbia a che fare direttamente col suo punto di partenza.

L’arte, che per lei è una misura del tempo, racconterà anche questo periodo aiutandoci a superarlo, una volta che i musei verranno riaperti?

L’arte fa sempre riflettere poiché è qualcosa in continua estensione, ecco perché molte persone vi trovano rifugio (esattamente come nei libri o nelle canzoni) dalle paure, principalmente dalla paura della morte, che è la paura più ancestrale. L’arte è capace di dare un senso di infinitezza, di continuità nel tempo e nello spazio. Quando ero ragazzo, il mio luogo preferito era la stazione di Valencia da cui prendevo il treno per allontanarmi dalla mia realtà. Perciò la decisione di chiudere i musei è un fatto doloroso dato che l’arte è necessaria come l’aria che respiriamo. La mia preoccupazione è rivolta ai giovani, così assetati di vita e conoscenza, che devono sopravvivere senza potersi spostare o andare in un museo, appunto. Sono loro, le giovani generazioni, i principali destinatari della mia opera di recupero, di curioso rovistamento nei classici. Proprio adesso, durante la pandemia, sto lavorando per loro, rileggendo le rappresentazioni dei grandi drammi del passato, tentando di esorcizzare con un nuovo racconto – con la tecnica del “ricordo del ricordo” – quella paura di cui parlavamo prima.

Brutali omicidi durante il lockdown: un thriller profetico nella Londra del 2005

Peter May, uno dei nomi di successo del thriller scozzese, scrisse Lockdown ben tre lustri fa. Era il 2005 e lo ambientò in una Londra deserta per pandemia da aviaria. Gli editori britannici non vollero pubblicarlo. Spiega lo stesso May: “Pensavano allora che il mio ritratto di una Londra sotto l’assedio di un nemico invisibile come l’H5N1 non fosse realistico e non avesse alcuna possibilità di realizzarsi, sebbene tutte le mie ricerche dimostrassero che invece sì, quella possibilità esisteva eccome”.

Ovviamente, oggi Lockdown è finito in libreria. Londra è davvero deserta ma in uno scenario bellico, cui il Coronavirus per fortuna non ci ha portato. Negozi e banche vandalizzate; gli abitanti ricchi unici a salvarsi grazie alle loro dimore trasformate in bunker; niente traffico; esercito per le strade che spara a vista qualora dovesse servire. E poi la scena più cruenta e dolorosa. La vecchia centrale elettrica di Battersea trasformata in un immane forno crematorio: “Avevano sistemato un tetto di fortuna sul grande cortile interno, e le quattro ciminiere eruttavano di nuovo fumo nel cielo sopra Londra. A bruciare, però, non era il carbone trasportato su per il fiume dalle chiatte. Erano corpi umani. Vittime della pandemia”. Il protagonista di Lockdown è Jack MacNeil, poliziotto scozzese in servizio a Londra. Ha deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi al figlio Sean (e qui c’è una tragedia nella tragedia) e nel suo ultimo giorno di lavoro s’imbatte in una borsa piena di ossa umana. Una bambina. L’hanno uccisa e scarnificata. MacNeal indaga da una parte all’altra della metropoli, imbucandosi finanche in una discoteca clandestina. È una storia per lettori dai nervi saldi. L’incrocio tra omicidi e pandemia è micidiale.

 

La prima Atwood, una poetessa proto-femminista

Secondo Carl Jung, là dove l’amore impera non c’è desiderio di potere e là dove il potere predomina manca l’amore. Contraddire il padre della psicologia analitica parrebbe sacrilego eppure le logiche di potere tengono da sempre l’uomo sotto scacco, accade anche nella sfera privata.

La lotta di potere tra una donna e un uomo senza nome è il perno di Esercizi di potere (ottima la traduzione della poetessa Silvia Bre), raccolta poetica del ’71 a firma Margaret Atwood, diventata di culto perché da Il racconto dell’ancella, scritto nell’85, è stata tratta l’omonima serie tv nel 2017, ma che da mezzo secolo dimostra, attraversando tutti i generi, di essere poliedrica, sagace, abile ad anticipare i tempi grazie a un’osservazione critica della realtà. Power politics, questo il titolo originale, si rifà al motto datato 1969, “il personale è politico”, a dire che se una donna è vittima di discriminazione è un attacco personale ma ancor più politico da parte di una società incapace – non è ancora così? – di educare a rispetto e parità di genere. Non si tratta tuttavia di componimenti femministi, anche se la voce che guida è donna, quanto di liriche che, snidando ambivalenze, fraintendimenti, squilibri, derive reciprocamente distruttive nella comunicazione tra i due sessi, raccontano che l’amore – “ti adatti dentro me come un amo in un occhio, un amo da pesca, un occhio aperto” – è potere e questo potere può rivelarsi violento, trasformarsi in un’arma. Incedendo nella lettura emerge però la possibilità di uscire dal circolo vizioso, riscoprendosi-ritrovandosi ed evitando di rincorrere ciò che è irrimediabilmente perduto: “Posso cambiare me stessa piú facilmente di quanto io possa cambiarti”; “Lasciami sola, questo è il mio inverno, io resterò qui se lo scelgo”; “Quando ti cerco trovo acqua o ombra mobile. Non c’è verso che io possa perderti quando sei già perso”.

Ribellarsi, farlo attraverso il corpo, elemento onnipresente nelle sue opere, al conformismo imperante e agli schemi di una società folle e disumanizzante, è invece il tema di La donna da mangiare (nel 2021 diventerà serie tv), ora riproposto da Ponte alle Grazie, esordio che Atwood scrisse a 24 anni, nel ’64, e che uscì nel ’69, coincidendo con l’ascesa del femminismo in Nord America. Lei lo ha sempre definito un romanzo proto-femminista perché il movimento non esisteva ancora e benché avesse letto in segreto, come tanti a quei tempi, Betty Friedan e Simone de Beauvoir, non aveva il dono della chiaroveggenza (o sì?).

Protagonista della narrazione, che seppur acerba anticipa i motivi conduttori della produzione a venire, è Marian, ragazza alla mano, istruita, con una routine ordinaria. Impiegata in un’azienda che si occupa di ricerche di mercato, convive con un’amica indipendente e disinibita ed è fidanzata con un avvocato praticante il cui pragmatismo le dà una certa sicurezza. Quando lui le chiede di sposarlo (concedendole un ruolo), adducendo come motivazione il fatto che lei abbia buon senso – “la cosa più importante in una moglie” – lei fa il botto. Sviluppando la fobia di essere mangiata da chi le sta intorno, smette di nutrirsi, alienandosi sempre più dal suo involucro, esprimendo così la volontà di non essere divorata da chi vuole inscatolarla in un modello, spersonalizzandola. Un atto sovversivo che le darà modo di prendere coscienza di sé.

 

Alessandro Gassmann porta il teatro al cinema

Sono iniziate a Napoli le riprese de Il silenzio grande, il terzo lungometraggio diretto da Alessandro Gassmann, che per l’occasione trasferisce al cinema l’omonimo spettacolo teatrale da lui allestito un paio di anni fa e scritto da Maurizio De Giovanni. Interpretato da Massimiliano Gallo, Margherita Buy e Marina Confalone, sceneggiato da Gassmann con De Giovanni e Andrea Ozza e prodotto da Paco Cinematografica il film è incentrato sulle vicende di uno scrittore di successo, Valerio, di sua moglie, di due figli e di una simpatica e schietta governante di casa che funge da coscienza del protagonista.

Si intitola State of Consciousness il film di Marcus Stokes interpretato da Emile Hirsch, l’indimenticabile protagonista di Into the Wild in lavorazione a Bari e dintorni a cura della Iervolino Entertainment di Andrea Iervolino e Monika Bacardi e della Apulia Film Commission. Si tratta di un thriller psicologico in cui incubo e realtà diventano indistinguibili quando Stephen (Hirsch) si ritrova costretto ad assumere farmaci per un disturbo psicologico inesistente. L’unica possibilità di riconquistare la sua sanità mentale sarà quella di sfuggire al controllo dell’istituto in cui è stato rinchiuso.

Kasia Smutniak è la protagonista di Pantafa, un nuovo film prodotto da Fandango e ambientato nel Lazio, tra Roviano, Anticoli Corrado e Vallinfreda e in Abruzzo. Il regista è Emanuele Scaringi, anche autore della sceneggiatura con Tiziana Tria e Vanessa Picciarelli.

Andrea Segre è tornato nella sua Venezia per dirigere Welcome Venice prodotto da Jolefilm e Vivofilm e interpretato da Paolo Pierobon, Andrea Pennacchi, Roberto Citran e Ottavia Piccolo. In scena uno scontro di visioni sul futuro di Venezia tra lavoro e turismo attraverso le vicende di tre fratelli, due pescatori della Giudecca e uno gestore di un bed and breakfast in città.

Viaggio al termine del Massachusetts, per stilare una Guida “sicura per i neri”

Il blues nero, il cromatismo pastello degli anni 50, gli infiniti paesaggi della provincia americana. Nei sobborghi di Chicago si distingue una famiglia afroamericana per cultura e dignità, tanto da provocare il già dilagante razzismo del tempo. E quasi per gioco, o per testare il ventre molle di un Paese che ama perseguitarli, il giovane veterano Tic, suo zio George e l’amica d’infanzia Leti decidono di avventurarsi on the road, alla ricerca di un misterioso luogo nel Massachusetts ignorato dalle carte geografiche. D’altra parte la spedizione ha lo scopo “apparente” di costruire la Guida Turistica Sicura per Neri (The Tourist Guide for Safe Negroes): in realtà la motivazione guarda in direzioni ben più oscure e misteriose.

Ecco qualche suggestione da Lovecraft Country – La terra dei demoni, la nuova serie Hbo in onda su Sky Atlantic in 10 episodi, che vanta la produzione esecutiva di due “maghi” del genere fanta-horror: J.J. Abrams e Jordan Peele. E il loro tocco si vede e si sente dietro alla creatrice Misha Green: da una parte per le atmosfere vintage e fantasy che partendo dalla quotidianità della famiglia di provincia si aprono alla fantascienza estrema, dall’altra per la militanza black nutrita di ironia e gusto splatter. Insomma, un connubio da bomba a orologeria narrativa per questo genere a rischio banalizzazione quando non è organizzato a dovere. E questo, nel caso di Lovecraft Country, si traduce in un miscuglio di suspense, tensione, inquietanti fughe in boschi popolati da mostri, cadaveri vampirizzati e poliziotti razzisti che da quei mostri non molto differiscono. Del resto la metafora politica dell’horror è parte integrante del genere. Se l’ispirazione del racconto è l’omonimo romanzo di Matt Ruff, quella più antica e profonda deriva proprio dal nome presente nel titolo, quell’insuperabile H. P. Lovecraft che con E. A. Poe inventò l’horror (con elementi fantascientifici) letterario americano.

 

“The Morning Show”, il reale volto della tv

Dalla pandemia al terrorismo, alle elezioni americane più travagliate della storia recente. In questi tempi complicati e confusi ci sarebbe proprio bisogno di una serie tv in grado di parlare del presente in modo intelligente. Una serie come The Morning Show, che un anno fa (era il novembre 2019) ha raccontato il fenomeno del #MeToo in una maniera nuova e diversa. La seconda stagione era attesa per questo autunno, ma il Covid ha costretto a posticipare l’uscita. Le riprese sono ricominciate a fine ottobre e il secondo capitolo è previsto per la primavera 2021.

The Morning Show è ambientata nel dietro le quinte di un popolare programma televisivo e racconta le vite degli individui che ogni giorno lo confezionano. Le premesse, insomma, sono simili a quelle di The Newsroom, serie di successo creata da Aaron Sorkin. Con una differenza sostanziale: la prima stagione The Newsroom uscì nel 2012, ben prima che il caso Weinstein desse avvio alla valanga del Me Too, mentre The Morning Show è arrivata dopo e ha scelto di mettere il tema al centro della scena.

Il racconto inizia, in un certo senso, dalla fine. Mitch Kessler, l’affascinante e simpatico conduttore del Morning Show, viene licenziato dalla rete televisiva Uba dopo che un’ex stagista racconta di aver subito delle molestie sessuali. Alex Lexy, che ogni mattina da 15 anni divide il tavolo con Mitch, cade dalle nuvole: ma come, proprio lui? Lo stesso sconcerto è condiviso dal resto della redazione. Dopo qualche tentennamento, la rete decide di sostituire Kessler con Bradley Jackson, semisconosciuta giornalista di una rete locale balzata agli onori delle cronache per via di un video virale.

Bradley è una donna tenace e idealista che dopo anni di gavetta ha finalmente l’opportunità di mostrare il suo valore. Una bella storia di riscatto: sia per lei, sia per la rete televisiva che l’ha scelta. Peccato che al racconto manchino ancora molti pezzi. Man mano che gli episodi procedono si scopre che le molestie di Mitch non erano un caso isolato e che i piani alti della Uba sapevano dei suoi comportamenti. Non solo: anche in redazione molti sapevano, ma si giravano dall’altra parte perché era più comodo e più conveniente. Per gli uomini, certo, ma in fin dei conti anche per le donne.

L’ottavo episodio, un flashback che mostra la vita in redazione prima dello scandalo, rappresenta una sorta di epifania. Il personaggio di Hannah, giovane, bella e apparentemente indistruttibile, emerge in tutta la sua fragilità, finendo per incarnare la complessità delle emozioni che vive chi subisce una molestia. Se il movimento del Me Too, pur con i suoi indubbi meriti, ha ridotto la questione a bianco e nero, buono e cattivo, qui si colgono tutte le sfumature di grigio.

La serie-ammiraglia di Apple Tv+, costata ben 15 milioni di dollari a episodio, ha ricevuto i favori del pubblico ma un’accoglienza tiepida da parte della critica americana. Dalla sua ha due grandi punti di forza. Il primo è il cast stellare: Jennifer Aniston è Alex; Reese Witherspoon è Bradley; Steve Carell è Mitch; Billy Crudrup (Emmy Award come miglior attore non protagonista) è il dirigente della Uba Cory Ellison. Il secondo, e più importante, è l’aver raccontato il Me Too in un modo diverso e più articolato rispetto a com’era stato fatto fino a quel momento.

La prima stagione ha vissuto una genesi complicata. I due episodi iniziali erano già stati girati quando il Me Too ha convinto gli autori a riscrivere tutti i copioni. La stessa cosa è accaduta con The Morning Show 2: “Avevamo già girato sei o sette scene ma c’era la sensazione che mancasse qualcosa. Poi è arrivato il Coronavirus e Kerry (la showrunner Kerry Ehrin, ndr) si è rimessa a scrivere” ha raccontato Jennifer Aniston. Tutti i protagonisti, compreso Steve Carell, torneranno nel secondo capitolo. Fra le new entry ci saranno Greta Lee nel ruolo del capo di una media company che si rivolge al pubblico giovanile e Ruairi O’Connor nei panni di uno youtuber di successo.