“Mank”, Fincher svela Hollywood e “Quarto potere”

All’undicesimo film, David Fincher trasforma la sceneggiatura che il padre Jack, scomparso nel 2003, scrisse trent’anni fa. Disponibile su Netflix dal prossimo 4 dicembre (un approdo limitato in sala era previsto per il 13 novembre), Mank traduce la passione cinefila dei Fincher in uno stilizzato affresco in bianco e nero che contempla la genesi di quello che è unanimemente considerato “il” capolavoro della Settima Arte, Quarto potere, ovvero la redazione del copione “a quattro mani” da parte del regista e attore Orson Welles e dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, detto Mank.

La verifica della titolarità dello script ha fatto versare fiumi di inchiostro e, metaforicamente, di sangue per oltre sessant’anni: la critica Pauline Kael parteggiò strenuamente per Mankiewicz one and only, Peter Bogdanovich si stracciò le vesti per quell’attribuzione univoca, Fincher opta per l’assolo di Mank, ma pare aver mitigato il sentimento anti-wellesiano della versione originaria del padre. La diatriba non esaurisce il film, anzi: lo sfondo della Golden Age di Hollywood è preminente, il passaggio al sonoro, la mancanza di scrupoli, anche politici, degli Studios, gli scazzi e le gioie della “collaborazione forzata” tra registi e sceneggiatori, tutto filtrato dallo sguardo ironico, sarcastico e comunque probo di Mank, già corrispondente a Berlino per il Chicago Tribune, critico teatrale per il New York Times e il New Yorker, quindi il più influente sceneggiatore, sebbene spesso occulto e non dichiarato, della sua epoca, dal Mago di Oz a Gli uomini preferiscono le bionde fino, appunto, a Quarto potere che gli valse l’Oscar nel 1942. Alcolizzato e scommettitore, acuto e spassoso (che battute!), amato e tollerato dalla sua “povera Sara”, sullo schermo ha le fattezze di Gary Oldman, che col gomito alzato ha trascorsi e col Cinema continua a darsi del tu: potrebbe arrivargli la seconda statuetta, dopo quella non così meritata per il Winston Churchill de L’ora più buia nel 2018. Ma a rubare la scena sono Amanda Seyfried, nel ruolo dell’attrice Marion Davies, l’amante del magnate editoriale William Randolph Hearst (Charles Dance, bravo) da cui Mank mutuò il Charles Foster Kane di Quarto potere (Citizen Kane), Arliss Howard, ovvero il Louis B. Mayer boss della MGM, e soprattutto Tom Pelphrey, che con gioviale sprezzatura incarna Joseph L. Mankiewicz, il fratello minore per anagrafe e maggiore per esito, quattro Oscar per la regia e la sceneggiatura di Lettera a tre mogli ed Eva contro Eva. Splendidamente fotografato da Erik Messerschmidt (Mindhunter), montato da Kirk Baxter, musicato da Trent Reznor e Atticus Ross, Mank straccia un parente alla lontana come The Artist, perché ha l’ambizione, realizzata, di essere coevo, classico e non classicista, e tantomeno postmoderno. Nel mentre, alla voce Upton Sinclair che ne fece le spese, mette alla berlina le fake news con retrodatazione scoperta ma efficace. Da vedere.

 

Le radici ebraiche di Mussolini. L’avo Moisé nel Settecento

Benito Mussolini era ebreo? Ricorrendo al titolo di un romanzo di Gabriele D’Annunzio, bisognerebbe dire: forse che sì, forse che no. Certo è che nell’autunno del 1941, quando Bompiani pubblicò il saggio Agenti segreti veneziani di Giovanni Comisso (Treviso, 1895-1969), il riferimento nel libro a un certo “Moisé Mussolin, ebreo” – un mestatore che attorno al 1760, a Venezia, “alimentava i tumulti nelle piazze” contro la Repubblica Serenissima – fece infuriare il Duce.

A tre anni dalle leggi razziali, non poteva che essere così. La macchina della censura fascista si mise subito in moto. E dopo un primo sequestro e l’ordine del silenzio stampa, il volume venne ristampato con la cancellazione del passo ritenuto infamante. Lo stesso Comisso accettò “di sostituire ‘Mussolin’ con ‘Massarin’, e di eliminare l’epiteto incriminato”. Il ministero della Cultura popolare, il Minculpop, approvò, “richiedendo tuttavia altri cambiamenti, per dissimulare l’importanza di quell’ebreo”.

A raccontare la vicenda in un articolo uscito sull’ultimo numero di Il presente e la storia, la rivista dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, che si può leggere anche sul sito online del Premio letterario Comisso, è Emanuela Rotta Gentile. Insegnante e nipote degli scrittori Orsola Nemi (nome d’arte di Flora Vezzani, 1903-1985) e Henry Furst (1893-1967), che fu amico e collaboratore di Leo Longanesi, Eugenio Montale e Indro Montanelli, la Rotta Gentile ha ricostruito quella storia completamente dimenticata grazie al carteggio inedito fra Furst e Comisso, conservato da suo padre. La vicenda, infatti, non si esaurì con la censura di Mussolini. Perché se Comisso dovette allinearsi al diktat di Alessandro Pavolini, a capo del Minculpop, non per questo dimenticò ciò che era accaduto nel ’41, che “gli pesò”. E “poiché era uno scrittore dal carattere piuttosto ribelle”, scrive la Rotta Gentile, “ne parlò a lungo all’amico di una vita, anch’egli scrittore e poco avvezzo all’opportunismo politico”, ossia Furst, che peraltro assieme all’autore di Il porto dell’amore e di Mio sodalizio con De Pisis aveva preso parte all’impresa fiumana di D’Annunzio.

Tutto era cominciato all’inizio degli anni Quaranta. Il saggio sugli agenti della Serenissima, scritto dopo lunghe ricerche negli archivi “tra i documenti relativi agli inquisitori della Repubblica di Venezia”, era nato nell’inverno del 1940. “Con i tempi poco favorevoli ai miei soliti viaggi”, spiegò il narratore trevigiano, “pensai di ripiegare su una vita d’archivio”. E per l’appunto nelle carte di G. B. Mannuzzi, spia e delatore al servizio degli inquisitori veneziani, si imbatté nella denuncia, il 4 agosto del 1760, di un “sedizioso, uno che per mestiere alimentava i tumulti nelle piazze, noto come Moisé Mussolin, ebreo”. Mannuzzi specificava che il “Mussolin ebreo” correva “da per tutto colle novità discorrendone con tal calore, si rileva avere egli una passione predominante in favore dei Prussiani, forma adunanze di gente, e bisbiglia col suo parlare”.

Non è nota la fine del Mussolin. E assai probabilmente nemmeno Mussolini, quasi due secoli dopo, volle conoscere in quale segreta della Repubblica, o in quale isola dell’Adriatico, avesse scontato le sue colpe quel suo vero o presunto antenato. Allorché venne a conoscenza della citazione nel libro di Comisso, in ogni caso, il Duce diede ordine di cancellarla. Scriverà Comisso a Furst, il 10 agosto del 1945: “Il libro fu sequestrato dal fascismo per un passo d’una denuncia d’una spia del 700 dove si diceva di certo Moisé Mussolin ebreo partitante per i prussiani che faceva sorgere tumulti in Piazza San Marco. Il documento fu creduto falsificato da me, inchieste, trovato il documento fu tolto dalla busta dell’Archivio. L’edizione fu esaurita subito prima del sequestro. Dalla Svizzera una copia fu ricercata e pagata mille lire”. E, in un’altra lettera, aggiunse: “Il documento fu ritenuto allusivo a Mussolini, e non potendolo sopprimere nella sua storica autenticità ne fu ordinata la sostituzione del testo e il sequestro della prima edizione”.

Comisso, nel dopoguerra, chiese a Furst di pubblicare negli Stati Uniti il suo Agenti segreti veneziani, ma non se ne fece niente. “Il successo che Comisso si aspettava da questo suo saggio”, conclude Rotta Gentile, “non arrivò. Il peso della censura prima e gli eventi politico-letterari poi fecero la loro parte”. Resta comunque quella domanda “infamante” (per il Duce): Mussolin era davvero un antenato di Mussolini?

L’utopia “alla Chicco Testa” non risolve la crisi ambientale

Obiettivo del green deal della Commissione europea è uscire dalla crisi Covid abbracciando un “nuovo” modello di sviluppo. Gli investimenti per rilanciare le economie dovrebbero essere concentrati su strategie, dalla decarbonizzazione all’economia circolare, calibrate per superare la crisi climatica. Dietro lo slogan del green deal si nascondono però progetti differenti. Da una parte c’è quello tecno-utopistico che chiude, ad esempio, l’ultimo documentario del naturalista britannico Sir David Attenborough. Dopo aver provocato lacrime e applausi al Forum di Davos paventando il rischio della sesta estinzione di massa, Attenborough propone “semplici soluzioni” per invertire la rotta, mostrando il deserto marocchino ricoperto di pannelli solari per esportare elettricità in Europa.

L’ambientalismo tecno utopistico schiera dalla sua “ragione” e “ottimismo”. I termini ricorrono come un mantra nel recente pamphlet di Chicco Testa, ex di Legambiente, convertito alle sorti progressive delle società per azioni, da Acea a Enel. I tecno utopisti si sentono assediati da un popolo di ignoranti e oscurantisti, tra i quali si stagliano le figure di Greta Thunberg e Papa Francesco. Credete che sia in atto una transizione alle rinnovabili? No, ammonisce Testa, nel 1985 i combustibili fossili fornivano l’81% del fabbisogno energetico mondiale; trent’anni dopo, nel 2015, la percentuale era la stessa. Le fonti fossili sono il male? Piuttosto hanno consentito un incremento della popolazione, una riduzione della povertà e un aumento della ricchezza disponibile. Le “politiche ambientali” sono la panacea? Dipende: alcune sono regressive, come gli incentivi alle rinnovabili pagati in bolletta dai consumatori (15 miliardi l’anno) che arricchiscono rapaci fondi di investimento, mentre con gli stessi soldi si sarebbero potute realizzare ferrovie ad alta velocità, metropolitane e tranvie.

La razionalità dei tecno utopisti si inceppa quando c’è da criticare interessi cospicui. Perché sponsorizzare il gasdotto Tap se l’Italia ha già oggi una capacità di importazione di gas naturale maggiore di quel che consuma? Perché invocare ulteriori trivellazioni? Le royalties che si pagano in Italia sull’estrazione di idrocarburi sono le più basse al mondo e raddoppiandole lo Stato ricaverebbe i medesimi introiti a produzione dimezzata. Il punto debole dei tecno utopisti è l’idea che si possa “fare di più con meno”: sostenere aumenti della popolazione e dei consumi riducendo però la pressione sulle risorse naturali. La storia insegna altro. Negli ultimi 40 anni i Paesi ricchi hanno aumentato il proprio consumo di risorse del 50% (per ogni aumento di Pil del 10%, la pressione sulle risorse è aumentata del 6%).

Per affrontare la crisi ambientale bisogna prestare attenzione ai nemici giurati dei tecno-utopisti: i sostenitori della “decrescita”. Questi puntano, non tanto a una riduzione del Pil, quanto a un drastico raffreddamento del metabolismo di risorse naturali ed energia impiegate nell’economia. Questo dovrebbe tradursi nei Paesi più ricchi con una riduzione del Pil ma, considerando che questo è una misura del valore monetario della produzione, non ne conseguirebbe necessariamente una riduzione della qualità della vita, in termini di soddisfacimento di bisogni di base come istruzione, mobilità, energia, salute. Vi sono molti Paesi con un Pil pro capite inferiore a quello degli Usa ma con qualità della vita più alta, a partire dall’Italia.

Quale contributo portano i sostenitori della decrescita al dibattito sul green deal? Invocano la diffusione di servizi pubblici e cooperativi, dai trasporti alla sanità, perché i privati generano più sprechi e costringono gli utenti a produrre più reddito per garantirsi bisogni elementari. Chiedono un intervento dello Stato nella transizione dalle fonti fossili, sia perché i meccanismi di mercato non ne producono una rapida dovendo garantire alti ritorni sugli investimenti, sia perché rischiano di incrementare le disuguaglianze. Suggeriscono di creare lavoro non solo nelle fabbriche, ma anche in progetti di cura a persone e territorio. Invocano limiti all’estrazioni di risorse naturali e regole giuste per i Paesi esportatori, in modo da non sostituire Big Oil con aziende delle rinnovabili ugualmente predatorie. In altre parole, tecnologia e meccanismi di accumulazione del profitto non possono essere la chiave per uscire dalla crisi ambientale. Il green deal non dovrebbe ridursi a un supporto finanziario a tecnologie come l’idrogeno o la cattura del carbonio, ma incarnare un progetto sociale di fuoriuscita dal neoliberismo e dalla sua eredità in termini di squilibri ambientali e aumento delle diseguaglianze sociali.

“Anche Mosca tifa Biden: Trump era una vera catastrofe”

Mosca

Al Cremlino ovviamente si attendono i risultati definitivi per commentare le Presidenziali americane, ma le aperture da parte di Putin nelle ultime settimane verso Joe Biden ci sono state e ora la diplomazia russa resta in attesa degli eventi. Delle elezioni Usa e dei possibili scenari dei rapporti russo-americani ne parliamo con Ruslan Grinberg, politologo dell’Accademia delle scienze e docente all’Università Lomonosov di Mosca.

Professore, è di ieri la voce che Vladimir Putin sarebbe affetto da parkinson…

Trovo davvero difficile commentare una notizia che giunge dalla stampa scandalistica inglese, anche perché naturalmente non conosco lo stato salute del presidente. Ma se fossi un occidentale e volessi capire cosa succede in Russia mi concentrerei su altri aspetti, come il deprezzamento del rublo che ha ceduto il 25% del valore in un anno o sul fatto che non esiste una vera concorrenza politica nel nostro Paese, o ancora, che continuiamo a dipendere dall’esportazione degli idrocarburi.

Sembra che Biden sarà il nuovo presidente. Come pensa che reagirà Putin a questa novità?

Intanto credo bisognerà vedere se Trump uscirà di scena tranquillamente: in ogni caso il voto popolare e anche molte forze influenti della società americana stiano spingendo perché Biden possa alla fine entrare nello studio ovale. Io penso che il governo russo veda l’arrivo di Biden come un elemento di chiarezza, un fatto positivo. Questo non vuole dire assolutamente che i rapporti russo-americani saranno migliori – i motivi di conflitto sono molti e profondi – ma renderà i rapporti tra i due paesi più prevedibili, all’insegna del pragmatismo. Credo che si aprirà una fase di confronto sulla questione del controllo dei missili a medio e lungo raggio e partirà una trattativa seria. Sarà lunga, ne sono convinto, ma avremo di fronte a un presidente Usa di cui ci può fidare. Trump è stata una vera catastrofe non solo per i rapporti con l’Europa ma anche per quelli con la Russia. La politica estera a colpi di twitter è stata solo fonte d’imbarazzo. Malgrado le profonde differenze di punti di vista, Putin ha ricordato più volte che le relazioni con Obama erano sempre state improntate sulla serietà.

L’interscambio economico tra Russia e Usa è al minimo storico. Pensa che ci saranno novità anche da questo punto di vista?

L’interscambio tra noi è sempre stato ininfluente e probabilmente continuerà a esserlo. Quello che per la Russia può essere importante è la politica americana sul petrolio, qui gli Stati Uniti giocano effettivamente un ruolo. Se Biden e Putin troveranno il modo di coordinarsi su questo aspetto, ora è ancora difficile dirlo. Bisognerà vedere se Biden si metterà veramente sulla strada della green economy come ha promesso in campagna elettorale e se prenderà le distanze dai grandi potentati del petrolio. Se ci fosse un’accelerazione su questo terreno, ciò creerebbe più di un problema per la Federazione. Tuttavia gli Usa rientreranno nel Trattato sul clima di Parigi, che la Russia ha firmato, e ciò è una buona notizia per tutti, compresi ovviamente per i cittadini russi.

Buone notizie potrebbero venire da una normalizzazione dei rapporti tra America e Iran di cui è sostenitrice anche la Russia.

Si tratta di un obiettivo anche dell’Unione europea. Prevedo un riavvicinamento e un consolidamento delle relazioni Usa-Ue e un rafforzamento della solidarietà Atlantica: questa non piacerà a Mosca, che ha provato in questi anni a sfruttare le contraddizioni apertesi nell’alleanza occidentale negli ultimi anni. Ora avrà meno spazio.

Questo significa che lo scontro intorno a Ucraina e Bielorussia resterà insoluto?

L’Ucraina resterà un motivo di divergenza, sarà molto difficile trovare un accordo. Tuttavia auspico che l’atmosfera delle trattative almeno possa cambiare. Sono convinto che potrebbe esserci uno scambio: noi usciamo dal Donbass e loro pur non riconoscendo l’annessione – o la riunificazione come diciamo noi – accettino per ora il “fatto compiuto” in Crimea. Per la Bielorussia invece credo il ruolo americano sia marginale: Russia e Europa possono giungere a un compromesso, sulla base dell’uscita di scena in tempi brevi di Lukashenko.

Asse con il Gop al Senato. Joe punta su McConnell

Rispettare gli alleati e l’ala Sanders, ma soprattutto avere un appoggio dal Senato su questioni cruciali. E per ottenere questo, Joe Biden sarà costretto a negoziare con il leader del Grand Old Party al Senato, Mitch McConnell.

Potrebbe sembrare una “strana coppia” ma in realtà non lo è. Sleepy Joe con McConnell ha un consolidato rapporto di amicizia, dovuto alla comune esperienza nella Camera Alta del Congresso.

Una frequentazione che ha determinato un rispetto reciproco, tanto che il capo dei senatori del Gop è stato l’unico repubblicano a partecipare ai funerali del figlio di Biden, Beau, e a non usare i toni forcaioli di altri esponenti del partito sulle debolezze – gli stupefacenti di Hunter Biden, e i suoi affari non sempre limpidi fra Cina e Ucraina –. In questo contesto, potrebbero essere traballanti quelle nomine della nuova squadra di Biden che in un primo momento sembravano certe. Primi esempi, Elizabeth Warren. consulente economica di Biden dalla battaglia per la leadership del partito della scorsa primavera, la senatrice del Massachusetts potrebbe ricoprire la carica di Segretario del Tesoro; ma, appunto, è una nomina che per molti scatenerebbe lotte intestine tra l’ala più moderata e quella più radicale dei democratici. E poi lo stesso Bernie Sanders, a cui non dispiacerebbe il dicastero del Lavoro. Ma, come detto, sono nomi che fanno venire i brividi ai senatori repubblicani. E allora, al posto di Warren, fra le contendenti ci sono Sarah Bloom Raskin, ex funzionaria del dipartimento del Tesoro, Lael Brainard, governatore della Federal Reserve, o l’ex vice presidente della stessa, Roger Ferguson.

Se la Warren non dovesse raggiungere il vertice del Tesoro, “sarà comunque in squadra” secondo uno stratega vicino all’avversario di Trump che, parlando del prossimo team, ha chiamato all’appello con certezza anche Susan Rice, ex consigliera alla Sicurezza nazionale. Tra le papabili a questo ruolo, pure la californiana Karen Bass e la governatrice del Nuovo Messico, Michelle Lujan Grisham. Secondo l’ex governatore dello stesso Stato, Bill Richardson, Biden “governerà come Bill Clinton ma è circondato da Obama people”. In altre parole Biden deve fare i conti con l’eredità dell’amministrazione del primo presidente di colore d’America, che lo ha affiancato negli ultimi comizi per galvanizzare gli elettori dem. In corsa per un posto in squadra ci sono anche l’ex sindaco di South Bend, ed ex veterano di guerra Pete Buttigieg (ambasciatore all’Onu o segretario agli Affari per i veterani) e la senatrice Amy Klobuchar (Giustizia). Il sindaco di Los Angeles Eric Garcetti, tra i primi a sostenere Biden, è in corsa per i Trasporti. Tra i consiglieri economici, da sempre vicino a Biden, una nomina potrebbe arrivare per Jared Bernstein. Ha invece negato ogni coinvolgimento o partecipazione Lawrence Summers, ex segretario del Tesoro. Il nome del prossimo ambasciatore alle Nazioni Unite si dice sarà quello di Pete Buttigieg.

Di certo, una delle sfide che dovrà affrontare il nuovo team è quello di una America in ginocchio in balia della pandemia di coronavirus. Per questo serve unità fra Casa Bianca, Camera e Senato. In questo contesto, Biden potrebbe includere nel governo qualche repubblicano moderato. Fra i nomi più ricorrenti ci sono coloro che non hanno fatto mistero di essere contrari agli show di Donald Trump: così, circolano i nomi del senatore Mitt Romney, dell’ex governatore John Kasich e di Chuck Hakel, che potrebbe tornare al Pentagono come ai tempi di Obama.

 

I “siluri” di Donald: riconteggi e Corti (federali e Suprema)

Gli avvocati dalle parcelle astronomiche arruolati in massa dal presidente uscente Donald Trump per bloccare l’approdo di Joe Biden alla Casa Bianca, hanno già avviato ricorsi contro lo spoglio dei voti arrivati via posta negli Stati decisivi per la vittoria, mentre il riconteggio di quelli scrutinati è già iniziato in Georgia . Ma è in Pennsylvania – lo Stato che conta il maggior numero di Grandi Elettori e dove Biden sta vincendo – che i legali di Trump insisteranno maggiormente sulla richiesta di riconteggio delle schede. Inoltre lo stesso presidente prima della data elettorale aveva annunciato che in caso di sconfitta si rivolgerà alla Corte Suprema, confidando nella maggioranza repubblicana dei giudici a vita tra i quali l’ultima arrivata, la cattolica oltranzista Amy Conett Barrett.

Appellandosi al margine ristretto, questi hanno già chiesto il riconteggio nel Wisconsin e in Michigan, anche se è molto probabile che faranno lo stesso con gli altri Stati dove Trump non ha ottenuto la maggioranza. In Pennsylvania la legge obbliga il governatore a indire un riconteggio entro il 12 novembre se il margine è inferiore allo 0,5% dei voti. Qualora si dovesse optare per un secondo conteggio, questo dovrà terminare entro il 24 novembre. In Arizona la legge statale richiede un riconteggio obbligatorio quando il divario fra i due candidati è inferiore all’1% dei voti. In Nevada il candidato perdente può richiedere un secondo conteggio indipendentemente dallo scarto di voti purché entro tre giorni lavorativi e purché si accolli i costi, un problema per Biden ma non per Trump. In Georgia si è autorizzati a richiedere la verifica dei voti se il margine è inferiore allo 0,5% dei voti. Il Segretario di Stato, Brad Raffensperger, dopo aver sottolineato che su circa cinque milioni di voti espressi la corsa verrà decisa da “poche centinaia di schede”, ha dato parere favorevole al riesame. In Michigan il riconteggio è automatico se fra i due candidati rimane un margine al massimo di 2 mila voti. È possibile però richiederlo entro due giorni se il candidato ritiene siano avvenuti dei brogli. In Wisconsin, la legge statale dá l’opportunià a un candidato di chiedere un riconteggio quando il margine è inferiore all’1%.

Esaurite le procedure nei singoli Stati, si passa all’ambito federale dove le dispute sul numero di voti da assegnare a ciascun contendente devono terminare entro l’8 dicembre dato che il 14 dicembre si riunisce il collegio elettorale degli Stati Uniti che dovrà votare il nuovo presidente americano. Esaurite le controversie sul riconteggio, gli avvocati si possono appellare alla Corte Federale e infine alla Corte Suprema.

Il manager della campagna Trump ha giá intentato due cause presso la corte federale della Pennsylvania per il conteggio delle schede elettorali e la scadenza del conteggio, minacciando di portare le elezioni alla Corte Suprema come avvenne nel 2000 quando si sfidarono Al Gore e George W. Bush. Le cause di Trump in Pennsylvania si basano proprio sulla regola della “pari protezione” usata dai legali di Bush contro Gore. Ma allora il problema ruotava sulle schede perforate durante il voto elettronico che varia di contea in contea. Dal momento che solo alcune contee della Pennsylvania hanno portato avanti questo processo di “cura del voto”, sostiene il campo di Trump, la mancanza di uniformità all’interno dello stesso Stato viola questa clausola. Indipendentemente da ciò che stabiliranno i tribunali inferiori, i querelanti probabilmente porteranno questo caso alla Corte Suprema rivendicandolo come un problema di natura costituzionale.

Biden, traguardo vicino: per la sua America è il “presidente eletto”

Non s’è ancora finito di contare e già si comincia a ricontare: Joe Biden è vicinissimo al traguardo dei 270 Grandi elettori, che gli garantiranno la Casa Bianca per il quadriennio 2021-2025, e potrebbe, a conti fatti, superare quota 300, se dovesse fare bottino pieno – non è più inverosimile – in Pennsylvania, Georgia, Arizona e Nevada. Ma, per il momento, tutte quelle caselle restano ‘non assegnate’, perché la conta non è finita o perché il distacco è talmente minimo che deve essere verificato; e il tabellone dei grandi media Usa continua a indicare 253 Grandi elettori a Biden e 213 a Trump, che dovrebbe incamerare l’Alaska – sicura – e la North Carolina e salire almeno a 231. Nancy Pelosi, la speaker della Camera, che lancia la sua campagna per essere riconfermata, quando il nuovo Congresso si riunirà a gennaio, chiama già Biden “presidente eletto”, perché – spiega – “è chiaro che il ticket Biden-Harris vincerà la Casa Bianca”. Invece, Fox News intende evitare la formula “presidente eletto”, pur riconoscendo la vittoria di Biden, quando sarà ufficiale.

Trump minaccia di asserragliarsi nella Casa Bianca e di non accettare la sconfitta, anche se, fa filtrare la Cnn, ieri sera ormai fra il suo staff era chiaro che “la corsa era finita”. La campagna di Biden ironizza: “C’è modo di scortare gli intrusi fuori dalla Casa Bianca”. La prassi che il perdente conceda la vittoria al rivale è, del resto, un gesto di buona educazione politica e istituzionale, ma non è costituzionalmente rilevante. In campo repubblicano, l’ostinazione di Trump rischia di diventare una questione spinosa. C’è chi pensa che solo Ivanka, figlia e consigliera, possa farlo ragionare, insieme al marito Jared Kushner. Una resistenza del magnate presidente alimenterebbe tensioni nel Paese e innescherebbe proteste anche violente da parte dei suoi sostenitori. Per ora, però, il suo vice Mike Pence e la stessa Ivanka gli tengono bordone, distinguendo tra i voti legali, che devono essere contati, e quelli illegali – ma quali sono? quelli per Biden? – che non lo devono essere. Mitt Romney, invece, trova sbagliato mettere in dubbio la regolarità del voto.

L’ottimismo è diffuso fra i Democratici che, alla Camera, mantengono la maggioranza, ma perdono qualche seggio. La Pelosi dice: “Non abbiamo vinto tutte le battaglie, ma abbiamo vinto la guerra”. Lei punta a fare la speaker per altri due anni e chiede l’appoggio dei suoi colleghi. Ma le nuove leve sono favorevoli a un cambio della guardia. Al Senato, la situazione resterà incerta fino al 5 gennaio, quando la Georgia farà due ballottaggi; lì la legge prevede che si sia eletti al primo turno solo superando il 50% dei suffragi. Per ora, democratici e repubblicani sono 48 pari, ma i repubblicani sono in vantaggio in North Carolina e Alaska. Se finisse 50 a 50, il voto decisivo sarebbe quello di Kamala Harris, vicepresidente e automaticamente presidente del Senato. Fra i neo-senatori, c’è l’ex astronauta Mark Kelly, che strappa ai repubblicani il seggio dell’Arizona che fu di John McCain. Un risultato che ha offerto il pretesto a Trump per un ennesimo tweet incendiario: “Con l’attacco della sinistra radicale democratica al Senato repubblicano, la presidenza diventa ancora più importante”. Greta Thunberg gli rigira contro un tweet con cui il magnate cercò di ridicolizzarla quando, nel 2019, venne scelta da Time come persona dell’anno: “Donald, devi lavorare sul controllo della rabbia, poi andare a vedere un buon vecchio film con un amico. Rilassati Donald, rilassati!”. Tensioni in diverse città: ieri di fronte al convention center di Detroit usato per scrutinare le schede inviate per posta si sono radunate circa 200 persone che scandivano lo slogan “Stop the Steal”. Alcuni di loro erano armati.

La “Now age” di prof e negazionisti

Si allunga la lista delle lezioni che dovremmo imparare dal Covid in vista del temibile decennio che ci aspetta. Tentiamo un rapido inventario. Primo, il mondo in cui viviamo è regolato da inesorabili processi naturali, che spiegano ad esempio i mutamenti climatici e le pandemie; negare le leggi fisiche o biologiche non serve a niente.

Come ha scritto Bill McKibben sul New Yorker, la realtà fisico-chimica del pianeta si muove alla velocità che le è propria, non a quella che vorremmo noi. Prudenze, compromessi, esitazioni dettate da convenienze politiche non rallentano i processi di degrado.

Seconda lezione, il galoppante diffondersi di questa pandemia e di quelle che verranno dipende dall’allevamento intensivo di bestiame da macello: la prossimità fisica degli animali ammassati nelle stalle velocizza la diffusione dei virus e le loro mutazioni che poi colpiscono gli umani. Se rimuoviamo dalla coscienza questo dato non miglioriamo la situazione, la peggioriamo. Terza lezione, le crisi globali, che siano finanziarie o sanitarie, incrementano la diseguaglianza. I ricchi (che sono sempre meno) diventano sempre più ricchi, e alla folla dei poveri si aggiungono le sempre nuove povertà. La crescente disoccupazione non si risolve sognando l’improbabile ritorno allo status quo prima della pandemia, ma creando nuove linee lavorative dirette ad affrontare le nostre fragilità: la crisi climatica, il rischio idrogeologico, il degrado dell’ambiente, dell’agricoltura di qualità e delle tecniche di allevamento, le debolezze del sistema sanitario, il declino della scuola e della ricerca. Milioni di persone potrebbero così contribuire almeno a diminuire la pressione dei flagelli che ci affliggono. Per esempio, le energie pulite costano sempre meno e il lobbying delle grandi compagnie petrolifere, scrive McKibben, si è molto indebolito. Dovremmo dedicarvi più ricerca, più energie, più lavoro.

Di questi giorni è la quarta lezione: le misure di contenimento del contagio generano disordini di piazza, alimentati non solo dalle difficoltà economiche ma da incertezze, frustrazione e malcontento. In quelle piazze ci sono, certo, i negazionisti del virus o del riscaldamento globale, mescolati a scorie fasciste. Ma non possiamo accontentarci di questa spiegazione senza chiederci su quale terreno di coltura possano mai fiorire gli slogan auto-lesionistici urlati nelle piazze (“Libertà, libertà!”. Libertà di morire e di far morire?). Se la causa “negazionista” guadagna terreno, è anche perché nessuno al mondo sa veramente che cosa sta succedendo, quali e quante mutazioni del virus possiamo aspettarci, se e quando vi saranno cure e vaccini garantiti ed efficaci, quali siano le “giuste” misure di lockdown. Ma anche perché chi crediamo che sappia, i competenti (biologi, virologi, medici, ma anche giuristi e public intellectuals), solleticati dai media, non tacciono un istante. Hanno fretta di esprimersi, parlano troppo, dicono cose tra loro in contraddizione, cambiano idea senza ammetterlo, litigano fra loro. Si crea così un pulviscolo di asserzioni segmentate, parziali, instabili, in continua mutazione, da cui veniamo quotidianamente bombardati senza avere una bussola, un criterio di orientamento, la speranza di farci un’idea propria. In questa babele, le iniziative di piazza che si dicono contro “lo scientismo”, e sono in realtà contro la scienza, non possono che fiorire.

Ma c’è una quinta lezione, più ardua da riconoscere. È vero, il disorientamento dei cittadini che hanno il diritto di non avere su questi temi un’opinione esperta è conseguenza inevitabile della loquacità, spesso a vuoto, dei competenti. Ma c’è qualcosa che ci accomuna tutti, ed è l’abitudine a frequentare sui nostri computer o cellulari una “realtà” scivolosa, liquida, manipolabile. Tendiamo a dimenticare che la realtà fisica che ci circonda è, invece, solida, indomabile, talvolta ostile. Finiamo col credere che ipotesi indimostrabili, se ben formulate, possano prendere il posto della verità: e infatti così succede, ma dura lo spazio di un mattino. Coltiviamo un’estetica dell’effimero che ci corrompe nel profondo e cancella il confine fra il certo e il vagamente possibile. È per questo che anche veri esperti, in preda alla sindrome da twitter, vanno in caccia di facile popolarità. Professori d’ogni obbedienza e d’ogni disciplina (dalla virologia alla storia dell’arte) passano notti insonni immaginando il tweet con cui daranno il buongiorno ai propri follower, e lo costruiscono pensando alla sua efficacia e non alla sua verità. Sono protagonisti e vittime di questa Now Age che viviamo: l’età dell’“ora”, dell’istante, del corto respiro, dell’affanno, in cui per conquistarsi ‘pollici alzati’ in gran numero è meglio essere influencer che studiosi. Perciò emettono tweet, interviste e sentenze come un cavallo da soma che stilla incessantemente sudore anche quando va verso il macello. Tutto può esser detto senza alcun controllo, e siccome verrà prestissimo dimenticato possiamo permetterci qualsiasi errore senza avvertirne la responsabilità. Ci aggiriamo nel pulviscolo di troppe parole e di troppe approssimazioni come in una nebbia sempre più fitta. Perciò negare l’evidenza, che sia il riscaldamento globale o la pandemia, non è questione di verità, ma di politica e di appartenenza. In America, un partigiano di Trump rischia la vita pur di non portare la mascherina; in Italia, le destre condannano le misure di sicurezza come “autoritarie”, ma solo per far cadere il governo e mettersi al suo posto prendendo per sé i “pieni poteri” a loro assai graditi.

Questa quinta lezione è la più difficile da accettare, anche perché – diceva Arnaldo Momigliano – i professori sanno tutto tranne una sola cosa: dire “questo non lo so”, o peggio che mai “in questo ho sbagliato”. Intanto tutto si manipola e si logora: la biologia come la storia, i valori civili, le priorità del diritto, le regole del gioco della scienza, la giustizia sociale. La verità dei fatti cede il passo alla petulanza dei “fattoidi”, incontrollati ma confezionati per l’applauso. Diventa impossibile concordare anche su ciò che è di palmare evidenza: che i tagli alla sanità e la sua la regionalizzazione, chiunque li abbia voluti, stanno facendo vittime ogni giorno; che i tagli alla scuola e alla ricerca, chiunque li abbia voluti, sono una ferita al nostro futuro. Conta l’appartenenza di chi parla, e non quel che dice né con quali argomenti lo sostiene. Vince la sindrome da twitter, il corto respiro, lo sguardo miope. Perde chi guarda lontano, ragiona sui tempi lunghi, disdegna il parlottio della Now Age.

E invece il più attuale tweet, l’unico e solo che varrebbe la pena di rilanciarsi l’un l’altro ogni mattina, è forse un verso del Cimitero marino di Valéry: Le vent se lève! Il faut tenter de vivre! [Si leva il vento, bisogna tentare di vivere !]. Parole che hanno cent’anni giusti, ma rispetto ai tweet di oggi e di domani hanno un vantaggio: fanno pensare.

 

Addio Hacker russi, addio…

È dura doverlo dire, mentre faticosamente le ultime schede vengono contate negli Usa: non ci sono più gli hacker russi di una volta. Ve lo ricordate quant’erano potenti? Influenzavano le elezioni in America, i referendum in Europa, le assemblee condominiali in Asia, persino gli insulti online contro Sergio Mattarella per il rifiuto di nominare Paolo Savona all’Economia… Commissioni d’inchiesta, indagini giudiziarie, tutti a cercare la manina degli hacker di Putin in ogni fatto che contraddicesse le meravigliose sorti e progressive del mondo sempre più democratico, aperto e felice. Oggi quei poveretti devono avere qualche problema di connessione: sì, ci hanno provato, ma poca roba. La Stampa, ad esempio, raccontò di un furto di dati attribuito ai russi in Michigan e Florida a settembre: nel primo caso devono aver acquisito solo liste della spesa e bollette non pagate perché ha vinto Biden. Microsoft invece denunciò che un gruppo noto come Fancy Bear o APT28 stava tentando di violare gli account di personaggi e think tank importanti per le elezioni di novembre: non se n’è saputo più niente, forse hanno cambiato le password in tempo. “Joe Biden nel mirino degli hacker russi”, titolava il Corriere della Sera a settembre e, nonostante loro, sarà probabilmente il presidente più votato di sempre… Stavolta, ci avvertì il New York Times, Putin non sostiene Trump, vuole solo dividere gli americani: non si spiega, a questo punto, come The Donald abbia preso milioni di voti in più del 2016 e visto crescere le sue percentuali tra ispanici e neri (giurin giurello). Finisce che Vlad gli taglia i fondi: poveri hacker, semidei d’antan, che finaccia…

Disclaimer: non abbiamo neanche bisogno di prove per credere che la Russia, come tutti gli altri Paesi e in particolare gli Stati Uniti, ieri come oggi, organizzi operazioni di propaganda all’estero, ma abbaiare a cazzo ai cosacchi ogni volta che un’elezione non va come si sperava non è un complimento alla comprensione intellettuale del mondo dei media mainstream e finisce solo per dimostrare che il circo delle news si sceglie i propri fatti come un qualunque psicopatico sui social. A pagamento, però, che è un bel po’ peggio.

Mail box

 

Regioni, o meglio “venti granducati autonomi”

Ho notato con piacere recentemente, al contrario degli altri quotidiani che ne parlano solo accennandolo velatamente, che Il Fatto torna spesso sul tema dell’abolizione delle Regioni. Abbiamo fatto l’Unità d’Italia per eliminare staterelli, ducati, protettorati e regni per ritrovarci con 20 granducati che fanno ognuno il proprio comodo, spendono e spandono, non assumendosi mai responsabilità alcuna, governati da politici di mediocre competenza, ancor meno cultura istituzionale e senso dello Stato, attenti più che al bene comune alla soddisfazione dei propri elettori e dei partiti che li hanno eletti.

Doriano Pettinari

 

Salvini e la sua bravura nel prevedere i sondaggi

Credo che il senatore Salvini sia del tutto sprecato come politico. Il suo vero talento è preconizzare il futuro e potrebbe sostituire schiere di sondaggisti che mai azzeccano il pronostico. Ma non si rende conto di essere seduto su una miniera d’oro? Borgonzoni, Ceccardi ma il capolavoro è con le elezioni americane: dopo aver visto la sua mascherina con scritto “Trump 2020”, chi mai poteva avere dubbi?

Marco Maria Cortellari

 

L’esempio di Montanelli è ancora oggi attuale

“Glenn Greenwald, premio Pulitzer, lascia The lntercept da lui stesso fondato, accusandolo di essere diventato strumento del potere. Un esempio da imitare”. Ricordo che molto tempo fa, fu Indro Montanelli a lasciare il Giornale, da lui fondato, per non diventare strumento del potere politico. E Travaglio lo ricorda bene. Quindi Glenn Greenwald ha imitato un esempio da imitare.

Silvio Boccardi

 

I tempi della giustizia sono infettati dal virus

Il Coronavirus colpisce ogni settore della vita associata, giustizia compresa. In questo settore, dietro l’angolo, esiste lo spettro della prescrizione. Non passa giorno che ci giungano notizie che molti processi, anche importanti, vengono rinviati a data da stabilire quasi sempre per motivi legati al virus. Occorre quindi che il governo o il ministro competente prendano decisioni anche rigorose per evitare che si possa giungere a questa infausta conclusione che danneggia oltre ai diretti interessati, anche l’intera comunità nazionale.

Nicodemo Settembrini

 

Lucrare sulla Sanità sembra una prassi

Sembra che tutti si siano dimenticati che c’è una pandemia in corso. Non vorrei rivedere la fila di camion dell’esercito trasportare le bare di persone morte in solitudine. I vaccini antinfluenzali non sono disponibili per tutti, però a Milano, pagando 60/65 euro, tramite una struttura privata ci sono. Ciò non fa altro che confermare che la Sanità in mano alle Regioni è un pozzo senza fine per chi vuole lucrare: a tal proposito, la mia famiglia ha fatto il tampone (per scrupolo dopo la quarantena fiduciaria), 210 euro.

Pierangela Rosa

 

L’epidemia amplifica i conflitti sociali

Sani contro malati. Economia contro salute. Giovani contro vecchi. La pandemia fa crescere le spaccature sociali. La zattera è piccola, tutti non c’entrano e allora si cerca di buttare giù qualcuno. Magari chi non serve perché è troppo vecchio, malato, costoso e improduttivo. Questa strisciante “emarginazione di tutela” dell’anziano lo spoglia sempre più della sua funzione di “transitivo del sapere”, per ridurlo a mera fonte di sostegno economico dei nuclei più in difficoltà. Stiamo tornando ad essere tribù urbane di neo-raccoglitori (di lavori precari), che spendono troppe energie sottopagate, per averne ancora da dedicare ai loro vecchi.

Massimo Marnetto

 

Ode a Gigi, parte della “nostra” famiglia

Gloria gloria alle tue battute, alle tue barzellette, al tuo modo intelligente e sarcastico di farci ridere! Ci ha lasciato un attore che farà sempre parte della ormai sempre più grande famiglia del Fatto. Addio Maestro (di teatro e di vita) Gigi Proietti.

Giancarlo Rossini

 

De Benedetti e l’infelice uscita a “Otto e Mezzo”

Che pena l’altra sera vedere un nonnetto ultraottantenne che il buon Toti volentieri metterebbe in una Rsa; ma si tratta di un nonnetto speciale, l’ingegnere Carlo De Benedetti, ospite di Otto e Mezzo. A un certo punto, trasportato dalla sua veemenza verbale, ha spifferato, credendosi fuorionda, un sonoro “rompicoglioni” non si sa se indirizzato a Severgnini o al presidente della Repubblica. Che pena pensare che tanti uomini e donne si logorino per raggiungere denaro, successo, potere e vedere i risultati di tutto questo spuntare amaramente fra le rughe di un vegliardo che in questa età dovrebbe emanare luce, saggezza e bontà a conforto ed esempio per le nuove generazioni. Proprio vero, “la vecchiaia o è un porto o un naufragio”. Carlo De Benedetti quel naufragio lo porta sulla faccia.

Maurizio Dickmann