Calcio. Da Maradona a Van Basten, i campioni sono spesso tristi e fragili

Gentile redazione, non sono una appassionata di calcio, ma la depressione di Maradona mi ha molto colpita, ricordandomi quasi un eroe della mitologia classica, quell’Achille che, quando non combatte, piange. Il giorno dopo, anche Van Basten confessa che tutto il dolore provato per lo sport è stato pressoché inutile… Mi emozionano molto queste storie di umanità e fragilità di uomini considerati forti e valorosi, almeno sul campo da gioco.

Roberta Milano

 

Gentile Roberta, prima di Maradona, tornato all’attenzione del mondo per la ricorrenza del suo 60esimo compleanno, e poi per l’operazione al cervello cui è stato sottoposto d’urgenza, sotto l’occhio di bue era curiosamente finito a fine ottobre, per il suo 80esimo compleanno, Pelé: con Maradona il più grande calciatore mai apparso sulla faccia della Terra. E curiosamente, anche dal Brasile erano rimbalzate notizie del disarmo psicologico, oltre che fisico, del grande O Rei: che anche a causa di un intervento all’anca non perfettamente riuscito è costretto da tempo a passare le sue giornate in carrozzella. “Questo problema di mobilità lo ha fatto piombare in una strisciante depressione – ha raccontato il figlio Edinho –. Lui è sempre stato O Rei, una figura dominante, e oggi non può nemmeno camminare, può farlo solo con il girello e se ne vergogna. Ha perso la voglia di uscire di casa, non vuole farsi vedere”. “Muore giovane chi è caro agli dei”, si dice; e non c’è dubbio che gli eroi moderni, gli eroi sportivi soprattutto, senza saperlo muoiano (almeno dentro di sé) tutti giovani. Nemmeno lo sterminato affetto con cui la gente continua a gratificarli è sufficiente, a volte, a ridar loro il senso del contatto con la vita vera, nuova, reale, che non è più quella cui erano abituati. Astutillo Malgioglio, il portiere dell’Inter di Trapattoni che ai tempi del Brescia, della Roma e dell’Inter trascorreva il suo tempo libero dedicandosi alla rieducazione motoria dei bambini cerebrolesi, mi parlò un giorno di Agostino Di Bartolomei, che della Roma di Liedholm era il capitano. “Aveva saputo che ogni tanto andavo al Bambin Gesù, o in altre strutture, e un giorno mi disse: avvisami, voglio accompagnarti e fare questa cosa con te, nel tuo modo, senza che nessuno lo sappia. Fu di parola, facemmo spesso coppia in queste visite. Ago era un campione, ma in lui vedevi prima di tutto l’uomo. Era unico, davvero, ma smettere di essere il Di Bartolomei-campione fu rovinoso anche per lui. Scopri di colpo che sei tu ad aver bisogno degli altri. E non sai a chi chiederlo, né come”.

Paolo Ziliani

L’arte di recitare (e di mentire) dei presidenti Usa

“I politici e gli attori hanno sempre avuto molto in comune, se non altro perché puntano entrambi alla persuasione” (da I presidenti americani e l’arte della recitazione di Arthur Miller – Paravia Bruno Mondadori editore, 2004 – pag. 12)

Esattamente vent’anni fa, il 7 novembre 2000, il repubblicano George W. Bush divenne presidente degli Stati Uniti con 271 voti elettorali contro i 266 del democratico Al Gore che pure aveva raccolto 500 mila consensi popolari in più. Anche quelle furono elezioni molto controverse. Durante le operazioni di scrutinio lo scrittore, drammaturgo e saggista americano Arthur Miller, marito della star cinematografica Marilyn Monroe, aveva assistito personalmente a una scena che racconta lui stesso nel prezioso libretto citato qui sopra: un manipolo di una trentina di persone, in abito scuro, alcuni con la giacca sulle spalle e la cravatta allentata per il caldo della Florida, manifestavano rumorosamente all’esterno di un seggio dov’era in corso lo spoglio delle schede chiedendone l’interruzione. “Basta contare, Gore sta rubando le elezioni!”, urlavano. Proprio come stanno facendo ora Donald Trump e i suoi supporter.

“Era una manifestazione di protesta chiaramente preparata – scrive Miller – e all’inizio pensai dimostrasse quanto i sostenitori di Bush avevano disperato bisogno di vincere”. Ma due anni dopo Robert Greenwald, il produttore di Woody Allen, realizzò un docu-film di venti minuti che mostrava una foto di quel gruppo, con il nome e l’impiego di ciascuno stampati sotto ogni faccia. “Questi cittadini così giustamente indignati – spiega lo stesso scrittore – coprivano quasi tutti delle cariche o lavoravano alle dipendenze dei più alti leader repubblicani del Congresso e del Senato”. Erano, insomma, contestatori finti e prezzolati.

Ma le analogie politico-teatrali con il “Trump Show” di quest’ultima corsa alla Casa Bianca non finiscono qui. È noto che prima di essere eletto il presidente uscente era stato, più che un tycoon televisivo, il protagonista di un programma popolare di successo intitolato The Apprentice, ovvero l’apprendista, da lui stesso prodotto e condotto fra il 2004 e il 2015. Una specie di Gerry Scotti o di Gianluigi Paragone, insomma, per citare soltanto due esempi di conduttori nostrani proiettati dal piccolo schermo sul grande palcoscenico della politica, nel fatidico ventennio del berlusconismo imperante.

È vero, dunque, che i politici e gli attori hanno sempre avuto molto in comune. “Ma con la televisione – come notava Miller nel 2004 – il fenomeno ha acquisito una dimensione nuova: il potere che l’immagine ha di convincere non grazie alla forza e alla veridicità provata di un argomento, ma grazie allo stile in cui è presentato”. Oggi, nell’era dei social network, questa tendenza viene ulteriormente amplificata a colpi di “bufale” e fake news, diventando così ancora più pericolosa.

“La conseguenza di tutta questa recitazione – osserva il drammaturgo americano – è l’erosione graduale della realtà come fattore che promette ai cittadini di valutare le situazioni”. Più che una conclusione, è un avvertimento. E allora, “possiamo goderci la politica come fuga dalla realtà proprio come facciamo a teatro, ma prima o poi dobbiamo di nuovo uscire in strada, avere a che fare con la realtà e con le morti non necessarie causate dalle nostre illusioni”. Anche con le morti da Covid, purtroppo, provocate dal negazionismo, dall’indifferenza o dall’irresponsabilità.

 

Girare un’opera in pandemia sembra un film dell’orrore

Girare un film al tempo del Covid. Impresa ardua. È quanto sto cercando di fare da mesi per raccontare l’incredibile storia di un bambino abbandonato negli anni 40 dalla madre americana antifascista nelle montagne del Nord Italia e poi emigrato negli Stati Uniti alla fine della guerra all’età di 10 anni. Analfabeta e selvaggio, diventerà Nobel per la Medicina.

È la storia di Mario Capecchi, che ora vive e insegna a Salt Lake City, la città dei mormoni. Sono ben poche le produzioni che durante la pandemia si azzardano a mettere in piedi un film. In America quasi nessuna, in Europa qualche temerario. Il primo problema è che non siamo assicurati. Nessuna compagnia, né italiana né straniera, comprende le pandemie e dunque non sono coperti i danni derivanti dal fermo film. Se decidi di partire ugualmente e disgraziatamente qualcuno della troupe si ammala è d’obbligo la quarantena e i danni sono tutti a tuo carico. Solo Netflix al momento garantisce il buon fine delle sue produzioni, ma nessun altro gruppo di rilievo sta facendo altrettanto. Le difficoltà nascono quando metti in piedi la troupe e dai il via al set. In un film come il mio, titolo Resilient, la complessità della storia e l’ambientazione tra Italia e America obbligano i miei produttori (due donne coraggiose, vincitrici di vari Oscar, Elda Ferri e Milena Canonero) ad affrontare una serie di problematiche sconosciute. Migliaia di persone tra attori, tecnici e comparse devono sottoporsi ogni giorno a una quantità impressionante di obblighi e precauzioni. Ovviamente a tutti va misurata la febbre prima di presentarsi al lavoro, tutti devono indossare le mascherine per l’intera giornata, il che è frustrante e affaticante. I pasti vengono serviti sigillati ed è d’obbligo la presenza continua di personale anti-Covid, pronto a intervenire in caso di possibili emergenze.

Gli attori sono quelli che rischiano di più perché ovviamente non possono recitare indossando le mascherine e dunque sono i soli a rimanerne senza per ore, preoccupati di possibili esposizioni al contagio. Se durante le riprese i problemi sono tanti, non va meglio quando il film è finito e si appresta a uscire. Come si evince dalle cronache, le sale sono chiuse, il che sta sferrando un colpo ferale all’intero comparto. Gli ultimi incassi dei box-office sono così magri che la maggior parte delle produzioni con i film ultimati resta in attesa che la pandemia scompaia o si affievolisca. Ma quanto sarà possibile resistere? Per produrre un film di un certo valore occorre investire parecchi milioni, grazie a un cospicuo flusso di denaro prestato dalle banche (pagando non pochi interessi, che ovviamente crescono col tempo). Più aspetti, più paghi e già c’è chi non regge più. Se Hollywood è in crisi, figurarsi Cinecittà.

Se poi guardiamo alla composizione degli spettatori che hanno scelto di andare al cinema – quando ancora era possibile – vediamo che gli anziani sono i più restii, preoccupati di essere contagiati dai vicini e di dover restare due ore in un luogo chiuso. Né vengono rassicurati dalle debite distanze tra le poltrone e dalle precauzioni messe in atto dagli esercenti. I giovani sono quelli più propensi a frequentare le sale, ma solo per assistere ai soliti blockbuster prodotti oltreoceano. Osservando gli ultimi incassi c’è da mettersi le mani nei capelli. È meglio non uscire? C’è chi pensa di sì, ma c’è anche (e va considerato un atto di coraggio) chi pensa che se non si tiene alta l’asticella il pubblico finirà per disabituarsi a frequentare le sale cum magno gaudio delle piattaforme, da Netflix ad Amazon, le quali grazie a questo tragico virus che sta infettando il mondo hanno centuplicato i loro introiti. E infatti sotto i baffi sperano che non se ne vada via mai.

 

Trump e il sovranismo non sono belve invincibili

Neanche Matteo Salvini e Giorgia Meloni, i sostenitori italiani di Trump, hanno il coraggio di assecondare le sue farneticanti dichiarazione di vittoria. Il presidente che dovrà lasciare la Casa Bianca il 19 gennaio 2021 impersona la forma contemporanea più minacciosa di sovversivismo dall’alto. Inseguirlo nella contestazione delle cifre che lo hanno visto soccombere per almeno 5 milioni di voti popolari, numero di Stati conquistati e componenti del Collegio elettorale convocato il 14 dicembre prossimo, significherebbe anche per i populisti nostrani rischiare di chiamarsi fuori dal gioco democratico. Va constatato con rammarico che l’effetto intimidatorio della propaganda trumpiana sembra aver fatto maggior presa sui media italiani che non su quelli statunitensi, i quali già dal 4 novembre hanno iniziato a censurarne le palesi falsificazioni certificate da giudici indipendenti. Colpisce lo stupore manifestato da tanti sedicenti esperti di fronte alla tenuta dell’elettorato trumpiano. Cosa si aspettavano? Stiamo parlando di un candidato che partiva favorito dall’essere presidente in carica, portatore di un’ideologia reazionaria radicata nella società americana, in possesso delle leve del potere statale, dotato di enormi mezzi finanziari e scatenato nell’abuso della leva dei social. Una forza persuasiva senza precedenti, quella di Trump, che lo avvantaggiava enormemente sull’avversario e che però non gli è bastata. Questa è la vera notizia: il sovranismo, pur nel pieno di una crisi drammatica, non è una belva invincibile, per quanto i suoi disvalori aggressivi e machisti facciano presa al di là del tradizionale elettorato bianco. Di qui al 14 dicembre emergeranno con evidenza i numeri incontestabili della sua sconfitta e c’è solo da augurarsi che il delirio di onnipotenza di Trump non incentivi comportamenti eversivi, ogni giorno che passa meno probabili, ma pur sempre minacciosi. Intanto, è già possibile mettere in fila una serie di punti fermi che sovvertono giudizi frettolosi su quanto è avvenuto negli Usa dal 25 maggio scorso, il giorno dell’omicidio di George Floyd a Minneapolis, in poi. Nonostante le violenze metropolitane che lo hanno in parte funestato, il sommovimento di Black lives matter, nella sua radicalità, ha modificato profondamente il senso comune della comune cittadinanza statunitense. Non è stata solo una rivolta degli afroamericani, come al tempo di Martin Luther King e poi delle Black Panter, bensì un vero sussulto democratico interetnico che ha saputo unire ben più di quanto abbia diviso l’opinione pubblica. Vi ricordate, solo pochi mesi fa, chi sosteneva che le manifestazioni di protesta, con i loro strascichi estremistici, avrebbero provocato un riflesso securitario fra gli elettori benpensanti spaventati? Oggi possiamo a ragion veduta sostenere che, senza quella forte spinta di base, probabilmente la campagna democratica, la stessa candidatura “moderata” di Joe Biden, non avrebbero potuto contare sul sostegno di tanti giovani e meno giovani propensi all’astensionismo. La scelta di Trump di offrire copertura all’estrema destra suprematista e di cavalcare il negazionismo del Covid, ha certamente radicalizzato il conflitto, spaccato un Paese che pareva scivolare in un clima di guerra civile. È stata una mossa irresponsabile, ma ha introdotto anche un fattore di chiarezza nelle alternative poste di fronte all’elettorato. Nel cuore della prima potenza planetaria abbiamo visto riproporsi con stringente attualità una contrapposizione ideale – attualissima su scala planetaria – che solo un frettoloso revisionismo storico pretendeva di aver liquidato col giro di boa del Ventunesimo secolo. Lo abbiamo percepito in Europa, così come in Asia e dovunque nel mondo, con epicentro gli Usa: l’antifascismo e l’antirazzismo, declinati in chiave contemporanea, restano istanze tutt’altro che superate. Per questo possiamo dire che, benché rimanga temibile la pulsione sovranista e suprematista che in Trump nel 2016 trovò il suo massimo interprete, le elezioni americane del 3 novembre 2020 arrecano un durissimo colpo ai partiti nazionalpopulisti di ogni latitudine, che vedono indebolirsi il loro principale punto di riferimento. Ciò che spiega anche l’estrema cautela di Salvini e della Meloni nel legare il proprio destino politico alla negazione del risultato elettorale Usa. Non sono i soli, naturalmente, ad accusare il colpo. Spiazzato è il gruppo dirigente israeliano di Netanyahu che aveva incoraggiato l’avventurismo di Trump fino al fragilissimo “Patto di Abramo” con le petromonarchie reazionarie sunnite. Altrettanto spiazzato si ritroverà l’isolazionismo antieuropeo di Boris Johnson e di Victor Orbán. A Bruxelles e nelle capitali dell’Ue sarà possibile affrontare con maggior serenità la dura sfida comune imposta dal Covid.

 

Gesù, Bombolo, Cavour, Del Debbio, emorroidi, James Bond e una foca

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 21.10: Autumn in New York, film-romantico. Il maturo Will si innamora della giovane Charlotte, ma la differenza d’età non è un problema: per fortuna, la ragazza è molto malata.

Italia 1, 21.20: Freedom – Oltre il confine, documentario. Scienza, storia, mistero e avventura: ecco la ricetta del programma condotto da Roberto Giacobbo. La puntata di questa sera ripercorre la vita di Manfredo il Malinconico, il re bulgaro che scoprì l’America due ore dopo Colombo. Manfredo, a cui era apparsa in sogno la visione gloriosa di una nuova terra promessa, con libertà per tutti tranne per quelli che vogliono fumare in ascensore; dopo aver agonizzato per mesi sul dilemma se il sogno fosse di origine divina o gastrica, finalmente salpa da Dubrovnik alla volta di Miami, a bordo di una grande cesta di vimini remata da un ordine di suore masochiste.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Gesù, crocifisso, giura vendetta.

Sky Cinema Suspense, 21.00: Out of Blue – Indagine pericolosa, film-thriller. La detective Rebecca Hoolihan indaga sull’assassinio di un astrofisico. Mentre cerca di risolvere i nodi del caso, si ritrova a fare i conti con le sue emorroidi.

Rete 4, 21.30: Dritto e rovescio, attualità. Va riconosciuto a Paolo Del Debbio un merito: ogni settimana si ostina a cercare di approfondire argomenti che sono superiori alle sue capacità (la crisi economica, la crescita dei contagi, le elezioni Usa) quando potrebbe facilmente triplicare gli ascolti con un programma dedicato alla dieta che gli ha fatto perdere 27 chili in pochi mesi. C’è dell’integrità, in tutto questo.

Rai 1, 21.25: Superquark, documentario. La riproduzione sessuale della polvere di casa.

Cine 34, 23.05: W la foca!, film-commedia con Bombolo e Lory Del Santo. Quando penso ai più grandi attori di tutti i tempi, tre nomi mi vengono subito in mente: Laurence Olivier, Spencer Tracy e Bombolo. Quando penso ai più grandi film mai realizzati, penso a Citizen Kane, Via col vento e W la foca!. Quando penso ai ruoli più memorabili mai portati sullo schermo, penso a Ben Kingsley in quello di Gandhi, Liam Neeson in quello di Oskar Schindler e Bombolo nel ruolo del dottor Patacchiola (Scusate, computer hackerato per un attimo da Marco Giusti, ma adesso tutto è di nuovo sotto controllo).

Rete 4, 21.20: Fuori dal coro, attualità con Mario Giordano. Uno di quei programmi su cui ti sintonizzi per poter spegnere la tv con più gusto.

Premium Cinema 1, 22.50: 007 Dalla Russia con amore, film-azione. James Bond salva il capitalismo dalla minaccia sovietica inquinando le riserve nazionali di vodka con un batterio geneticamente modificato che in due minuti rende le vittime irritabili, nauseate, e sentimentali fino alle lacrime al ricordo dello zar.

Giallo, 21.10: L’ispettore Gently, telefilm. Un corpo carbonizzato viene ritrovato vicino a una base dell’aeronautica inglese. Succede, se il jet parte mentre tu stai ancora pulendo uno dei reattori.

Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. Cavour. I manuali di storia l’hanno sempre dipinto come un freddo stratega, ma Camillo Benso conte di Cavour era anche un grande sciupafemmine. Nella puntata di oggi, il professor Lucio Villari e Paolo Mieli raccontano cos’aveva di speciale il cazzo di Cavour.

 

Dopo Previti e Dell’Utri, Sofri piange per Verdini

Sul Foglio non poteva mancare un tenero ricordo di Denis Verdini, che l’altro giorno dopo l’ultima condanna ha varcato le porte del carcere di Rebibbia. Lo scrive Adriano Sofri, raccontando un aneddoto di quando in prigione c’era lui. “In galera non circola denaro – scrive Sofri – e per giunta alcuni di noi, io compreso, erano dentro dal tempo della lira, così chiedemmo a Verdini di mostrarci com’era fatto l’euro. Tirò fuori dal portafoglio una banconota rosa violetto da 500 euro che girò di mano in mano”. L’immagine è suggestiva. Sofri ha vissuto le pene del carcere, è comprensibile il rispetto e l’empatia per chi condivide questo destino. Aveva tributato la stessa solidarietà, in forma differente, anche a Cesare Previti e Marcello Dell’Ultri. Lecito. Il rischio, tutt’al più, è che rispetto ed empatia finiscano per diventare un genere giornalistico.

Il complottismo uccide, lo dice la scienza

Una delle lezioni che non dovremmo dimenticare nell’epoca post-Covid è l’importanza della cultura. La “salute”, che si parli in termini individuali o globali, dipende anche dal livello culturale. Un articolo apparso il 2 novembre sul Journal of the American Medical Association dimostra quanto la scarsa cultura sia correlabile persino alla mortalità dovuta a Covid-19. Gli autori dell’articolo Science Denial and COVID Conspiracy Theories Potential Neurological Mechanisms and Possible Responses (“Negazione scientifica e teorie del complotto Covid – Potenziali meccanismi neurologici e possibili risposte”) dimostrano quanto disinformazione e scarsa cultura abbiano inciso nella pandemia negli Stati Uniti, dove si è registrato il 20% delle morti mondiali legate al Covid-19 e si sono avuti risultati meno positivi rispetto a molte altre nazioni ricche. Proprio negli Usa, infodemia e strumentalizzazione politica dell’informazione hanno raggiunto i massimi livelli, con l’informazione “scientifica” declassata a retorica. Ebbene la retorica dell’antiscienza ha delle conseguenze e si fonda sulla scarsa alfabetizzazione scientifica che contribuisce alla negazione della scienza. La relazione tra punti di vista antiscienza e bassa alfabetizzazione scientifica è alla base di nuove scoperte riguardanti i meccanismi cerebrali che formano e mantengono false credenze. Esiste una correlazione provata tra alfabetizzazione scientifica e meccanismi cerebrali che sostengono false credenze, che hanno origini neurali e riflettono connessioni in circuiti cerebrali dedicati. Addirittura pare che attaccarsi a false credenze, soprattutto di tipo complottistico, dimostri menomazioni neuropsicologiche e informazioni sensoriali errate. L’esempio limite è la sindrome di Capgras nella quale il soggetto si convince che una persona cara sia sostituita da un impostore. Se gli Usa hanno il primato dell’antiscienza, Europa e Italia seguono sicuramente. Senza disinformazione, quanti morti avremmo risparmiato? Non lo sapremo mai, ma la lezione non dovrà essere dimenticata.

 

Salvini come Trump: balle libere in tv

“Without any evidence”, senza alcuna prova. Per la prima volta nella storia dell’informazione televisiva americana, le principali reti hanno deciso di interrompere la diretta dalla Casa Bianca per chiarire che le affermazioni di Donald Trump sui brogli ai suoi danni erano “false” e non sostanziate da “nessuna prova”. Pensate se il medesimo criterio fosse applicato qui da noi quando, per esempio, Matteo Salvini aizza i “suoi” presidenti di Regione (Fontana, Cirio, Spirlì) a pretendere il “riconteggio”, sostenendo che i dati del governo sul contagio dilagante in Lombardia, Piemonte, Calabria “sono vecchi di dieci giorni”.

Un modo truffaldino di negare la realtà, forse ancora più grave delle schede contestate in Arizona o Pennsylvania visto che riguarda direttamente la salute, e la vita, di milioni di persone. Per non parlare di quando, nel lockdown di marzo, Giuseppe Conte fu accusato dalla premiata ditta sovranista, Matteo & Giorgia di essere un “criminale”, in altre parole di avere segregato in casa gli italiani per qualche suo losco disegno. Sul modello americano, Rai, Mediaset, La7 avrebbero dovuto accompagnare le sparate di cui sopra con l’avvertenza “senza alcuna prova”? O censurarle direttamente come hanno fatto Nbc, Abc, Cbs con Trump? Quando, per ragioni di parte, si delegittima il governo alle prese con una pandemia che provoca ogni giorno centinaia di decessi e mette in crisi ospedali e terapie intensive, è cosa meno grave che contestare la validità delle elezioni solo perché il risultato non è a tuo favore? Sia lì che qui, “non si getta benzina sul fuoco in una situazione estremamente infiammabile?” (Fox News).

Per quel che conta, chi scrive ritiene che in una democrazia degna di questo nome non si possa mai togliere la parola a un presidente in carica, o a un leader dell’opposizione. Anche se mentono spudoratamente, anche se rivolgono accuse infondate ai loro avversari. Una informazione degna di questo nome lascia il microfono aperto, e solo dopo corregge e contesta ciò che va corretto e contestato. Saranno i cittadini a farsi un’opinione di ciò che hanno visto e ascoltato. Sono essi a decidere, e non per essi un’autorità superiore. Per questo esistono i Trump e i Salvini, per dimostrarci quanto siamo diversi da loro.

Accordo in maggioranza sull’emendamento per tutelare Mediaset dall’assalto di Vivendi

Una norma che affida all’Agcom il compito di avviare un’istruttoria su possibili incroci e concentrazioni di potere nelle telecomunicazioni, ma che di fatto offre uno scudo a Mediaset dalla scalata di Vivendi: condiviso dalla maggioranza, l’emendamento arriverà nel decreto Ristori dopo la bocciatura della Corte di Giustizia Ue alla legge Gasparri. “Nel caso in cui un soggetto operi contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche e nel sistema integrato delle comunicazioni, anche attraverso partecipazioni azionarie rilevanti”, si legge, l’Agcom deve avviare un’istruttoria “da concludersi entro sei mesi per verificare la sussistenza di effetti distorsivi” o di “posizioni dominanti o lesive del pluralismo” tenendo conto “dei ricavi, delle barriere all’ingresso nonché del livello di concorrenza” e adottare nel caso “provvedimenti per inibire l’operazione o rimuoverne gli effetti”. Dovrebbe essere approvato prima del 16 dicembre, quando è prevista la decisione del Tar del Lazio sul ricorso di Vivendi contro l’ordinanza, che ne ha congelato i due terzi del diritto di voto.

Scalate straniere, allarme Copasir su banche e Generali

Il Copasir lancia l’allarme sul rischio di scalate straniere. Eppure, a leggere la relazione “sulla tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo”, approvata dal comitato parlamentare che vigila sui servizi emerge soprattutto che il Covid rischia di dare il colpo di grazia allo spiantato capitalismo italiano. “Le iniziative da parte di attori esteri su entità strategiche per la sicurezza economica nazionale rappresentano un rischio di particolare rilevanza per il sistema bancario e del pubblico risparmio – si legge nel documento – oltre a pregiudicarne l’indipendenza, potrebbero determinare una forte asimmetria tra l’area di raccolta delle risorse (Italia) e quella di impiego delle stesse (estero)”. Il comitato guidato da Raffaele Volpi ce l’ha soprattutto con Unicredit e Generali. L’accusa alla banca guidata dal francese Jean Pierre Mustier è di seguire una strategia che sembra voler “affrancare la banca dall’Italia”, come la vendita dei “gioielli italiani, quali Fineco e Pioneer, o la riduzione del portafoglio di Titoli di Stato italiani”. Il Copasir cita poi le “preoccupanti notizie su possibili operazioni di fusione con Commerzbank, ovvero le banche francesi Crédit Agricole e Société Générale”. Ipotesi non nuove, anche se Mustier ha detto di aver accantonato per ora l’idea di creare una sub-holding delle attività estere. Su Generali, il Copasir chiede invece di mantenere la “governance in Italia”, visto che detiene 85,5 miliardi di titoli italiani, “pari al 3,5% del debito pubblico” che non devono andare a rivali, specie se francesi, come “Axa”. Entrambi i colossi pagano strategie sbagliate ma hanno un filo comune. Mustier ha schiantato i soci storici con un aumento di capitale monstre, ma poi si è infilato in una strategia suicida e oggi Unicredit è in un limbo. Le Generali “italiane” sono in mano a Mediobanca che per anni ha impedito di chiedere nuovi capitali ai soci, perché gli azionisti non avevano risorse. Il Copasir, però, questo non può dirlo.