“Idea surreale in un Paese che invecchia sempre più”

L’idea di isolare gli anziani per tutelarli dal Coronavirus, ammesso si decidesse mai di darle seguito, potrebbe riguardare solo chi non svolge alcuna attività. È perciò abbastanza lontana dalla realtà: oggi tantissime persone ancora lavorano a 70 anni. Basti pensare al presidente della Repubblica o ai commercianti, agli imprenditori e agli artigiani. Ma anche molti liberi professionisti. Io stesso a 70 anni ero in piena attività”: e su questo non c’è dubbio, visto che a dirlo è il più famoso giornalista e divulgatore scientifico italiano.

Piero Angela, da dove nasce secondo lei questa idea?

Probabilmente dal fatto che l’80 per cento di chi muore durante questa pandemia è anziano, soprattutto se presenta altre patologie. È più fragile. Isolarlo sarebbe una scelta dettata dalla sola necessità di alleggerire il sistema sanitario e in particolare i servizi di emergenza, sui quali siamo più in difficoltà.

Lei come vive questo periodo?

Mi sono auto-recluso da tempo, esco quando è strettamente necessario e per il resto sto in casa. Mia figlia viene a trovarmi ogni tanto e indossiamo la mascherina, manteniamo la distanza di sicurezza e cerchiamo di non avere contatti: facciamo scelte di buon senso. Le precauzioni non dipendono dalla data di nascita: la tutela della salute vale per tutti. Con il lockdown c’è stato un crollo della curva dei contagi, rimasta bassa finché sono state prese precauzioni. Le nuove misure vanno in quella stessa direzione. Ai ragazzi e a tutti coloro che non prendono abbastanza sul serio l’epidemia dico sempre che il contagio va ben oltre la salute, riguarda anche l’economia. I “mi tolgono la libertà”, “mi dà fastidio la mascherina”, “voglio uscire” si contrappongono alla perdita di posti di lavoro, alle attività commerciali che chiudono, all’economia che rallenta. Penso anche al mondo dello spettacolo: il teatro, le attività culturali in generale soffrivano già prima. E con esse tutto l’indotto: dagli orchestrali ai tecnici. Rischiamo di non tornare più indietro.

Molti giovani vivono a casa con i genitori fino a tardi e i nonni sono spesso un importante aiuto per permettere loro di coniugare vita familiare e lavoro.

Il baby sitting dei nonni è fondamentale. Molti non possono permettersi una baby sitter e gli asili nido non bastano. Se quindi questa convivenza è necessaria, bisogna prendere ancora più precauzioni: indossare le mascherine, disinfettarsi e disinfettare spesso, cosa di cui si parla sempre meno. Il lavoro da casa aiuta, è di alleggerimento sia per i mezzi pubblici, sia per la scuola. È in alcuni casi meno efficiente, ma sono necessari sacrifici fino al vaccino.

Anche perché, come lei racconta spesso, siamo un Paese di anziani.

Abbiamo pochi figli, è uno dei problemi futuri della società. Continuo a raccontare che l’Italia sta scomparendo pian piano. Un autorevole studio pubblicato sulla rivista scientifica Lancet stima che alla fine di questo secolo, non poi così lontana, l’Italia avrà 28-30 milioni di abitanti, con tantissimi anziani. Di questo passo avrà anche un Pil inferiore a quello dell’Olanda mentre Francia, Germania e Uk avranno 60 milioni di abitanti e un Pil tra i primi dieci. Dovremo aprire le porte all’immigrazione e ci sarà competizione per far entrare i più preparati.

Con pesanti ripercussioni, ancora una volta, sull’economia.

Al momento non siamo nel pieno di una crisi finanziaria grazie alla Bce che compra e tutela i nostri Btp. Ma se questo dovesse finire, sui mercati internazionali rimarremmo in balia dei grandi fondi che si spostano e vengono seguiti dagli altri investitori, esponendoci al serio rischio di affondare. C’è una immagine che amo molto: questi fondi sono come una grande palla di ferro che rotola sul fondo della stiva di una nave. E chi pagherà poi il debito pubblico? La nostra produttività è ferma da 20 anni, non possiamo peggiorare assolutamente la situazione economica.

C’è chi pensa che lasciar morire la popolazione più fragile sia da un certo punto di vista “naturale”.

È molto cinico. C’è un film di fantascienza degli anni 70 che si intitola 2022 – I sopravvissuti, ambientato in un mondo rovinato dall’inquinamento e dalla crisi climatica. È una sorta di giallo, con un ispettore impegnato a indagare su un omicidio. Attorno a lui, le persone sono ridotte alla fame, non c’è più cibo normale e ci si nutre quasi esclusivamente con questa sorta di misteriosi biscotti proteici prodotti da una multinazionale. Ebbene, gli anziani sono gli unici a ricordare come fosse la vita prima di questo disastro e ogni tanto vengono convocati per assistere a una conferenza in un cinema. Peccato che nel bel mezzo dello spettacolo, il conferenziere tiri una leva facendo ribaltare le poltrone e spedendo gli anziani sotto il livello del pavimento, proprio nella fabbrica di quei biscotti proteici le cui proteine, si scopre, sono fornite proprio da quegli anziani. Ecco: non vorrei fare questa fine.

Crisi e tagli: perché isolare gli anziani. È impossibile

La pandemia li falcidia e fa intasare i letti in rianimazione. Nonostante decenni di miglioramento delle loro condizioni di vita e la crescita del loro peso sociale, economico e lavorativo, gli anziani per qualcuno sono tornati così a essere un problema. Come gestire queste “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” (copyright Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria)? Nel centrodestra piace molto il “lockdown selettivo” per fascia d’età. Una definizione altisonante dietro la quale si celano i domiciliari di massa per gli over 65. Se l’idea funziona solo idealmente nella teoria epidemiologica, nella realtà è però un nonsense irrealizzabile e deleterio.

Dopo l’uscita di Toti, l’idea che gli anziani siano “improduttivi” e dunque sacrificabili in nome degli interessi economico, per quanto falsa, è diventata virale e ha fornito le basi per una mozione del gruppo di Forza Italia in Regione Lombardia. Il progetto chiedeva misure specifiche per proteggere i “target di fragilità” e “salvare l’economia”. In soldoni, confinare in casa gli anziani e lasciare libero di circolare il resto della popolazione. Il piano è stato ritirato ma martedì 3 novembre il Consiglio della Regione Lombardia ha approvato a maggioranza un’altra mozione che chiede al presidente Attilio Fontana di varare un piano di interventi specifico da presentare alla Conferenza Stato-Regioni. Il documento ritiene “indispensabile cambiare il paradigma delle misure di contenimento, individuando modalità di convivenza con il Covid 19 che consentano di svolgere le attività quotidiane di studio e di lavoro riducendo il più possibile il rischio contagio”. La mozione chiede di evitare “un ulteriore lockdown generalizzato che rischierebbe di compromettere irrimediabilmente parecchie attività con pesanti ricadute su economia e occupazione” e di “individuare target di persone fragili a sostegno e azioni a protezione e tutela dei soggetti a rischio ospedalizzazione”. In una delle Regioni più colpite da Covid19 anche a causa dell’inerzia degli amministratori, il progetto è dunque uscito dalla porta per rientrare dalla finestra.

A lanciare l’idea dell’“isolamento selettivo” per alleviare la pressione sugli ospedali – senza però alcuna garanzia che il sovraccarico sia evitato – è stato Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Secondo l’analisi di Villa il lockdown generazionale è un piano assai complicato, visto che gli italiani con 65 anni o più sono il 22,8% della popolazione, oltre 13,7 milioni di persone, ma “sarebbe sufficiente isolare gli ultra 80enni per dimezzare o quasi la mortalità diretta del virus”. “Se poi riuscissimo a isolare efficacemente gli ultra 60enni, la mortalità scenderebbe allo 0,07%, circa 10 volte inferiore”, scrive Villa. “Anche in uno scenario di diffusa circolazione virale nella popolazione più giovane, si scenderebbe da un eccesso di mortalità diretta di 460mila persone senza isolamento, a 120mila (-74%) se si isolassero gli ultra 70enni e a 43mila (-91%) se si isolassero gli ultra 60enni”, conclude il ricercatore dell’Ispi.

La trovata non tiene conto del ruolo degli over 60 nel mondo del lavoro. In Italia i lavoratori con più di 65 anni sono 643mila e sono cresciuti del 60,8% nell’ultimo decennio. La loro spesso è una scelta obbligata a causa dell’aumento dei requisiti anagrafici e contributivi necessari per il pensionamento. Tra questi, secondo l’Istat, c’è un esercito di 406mila pensionati che continuano comunque a lavorare, soprattutto al Centro-Sud, con un’età media di oltre 68,5 anni. Oltre il 43% di questi lavoratori è qualificato, per il 31% sono operai. Il 54% è rappresentato da lavoratori autonomi, il 28,3% da liberi professionisti, il 6% da imprenditori. Due terzi sono impiegati nei servizi e nel commercio, molti in agricoltura.

I pensionati sono poi l’estrema forma di ammortizzatore sociale per un pezzo del Paese. La disoccupazione o la precarietà dei figli sono tra le loro principali preoccupazioni. L’Istat rilevava che nel 2017 “la presenza di un pensionato all’interno di nuclei familiari vulnerabili, con genitori soli o in altre tipologie, consente quasi di dimezzare l’esposizione al rischio di povertà”. Come funziona lo spiega il rapporto “Sogni e bisogni dei pensionati” della Fondazione Giuseppe Di Vittorio e di Tecnè per lo Spi Cgil: il 35,7% dei pensionati, 6 milioni di persone, sostiene economicamente un parente stretto, con un welfare informale che vale tra gli 8 e i 10 miliardi l’anno, molto più del reddito di cittadinanza. Il 14,9% lo fa costantemente e il 20,8% sporadicamente. Invece solo l’11,2% dei pensionati chiede aiuto ai familiari: 1,5 milioni di tanto in tanto e appena 300mila in modo costante.

C’è poi una realtà ineliminabile: quella abitativa. Secondo Eurostat, nel 2018, due terzi dei giovani europei dai 16 ai 29 anni viveva con i genitori. La percentuale saliva all’86,8% in Italia. Nella fascia dai 20 ai 29 anni la quota saliva al 90% in Italia. Nella fascia 18-34 non va meglio: nel 2019 il 66,1% dei giovani adulti viveva ancora con i genitori in Italia; quasi il 70% in Grecia e il 64,5% in Spagna. In tutti i Paesi la quota è aumentata dopo la crisi del 2008 e le politiche seguenti alla crisi del 2010-2012. Secondo l’ufficio statistico europeo, la loro decisione di continuare a vivere con i genitori dipende in gran parte della crescente precarietà lavorativa. Come si può “proteggere” un over 65 in abitazioni condivise con familiari che escono per lavoro?

Ultimo, ma non per importanza, è il tema della qualità della vita. Uno studio realizzato con l’Istituto Mario Negri per lo Spi Cgil della Lombardia ha svelato che durante il lockdown il 30% degli anziani lombardi ha subito un peggioramento dello stato psicologico. Imporre la reclusione sociale chi ha un’età già fragile può devastare non solo molte vite, ma la stessa tenuta sociale.

Cds e Anac non bastano: i pasti ospedalieri in Veneto restano un affare di Serenissima

Serenissima Ristorazione pigliatutto. Ancora una volta il gruppo vicentino di Mario Putin si aggiudica praticamente tutti i lotti del mega-appalto per le mense degli ospedali del Veneto, un affare con base di gara da 110 milioni di euro, a dispetto di Consiglio di Stato, Autorità Anticorruzione e di un nuovo bando che avrebbe dovuto eliminare il monopolio sugli ospedali della Regione Veneto. E pensare che un anno e mezzo fa, il Consiglio di Stato aveva annullato le assegnazioni (su ricorso di Dussmann Service) per violazione del diritto di concorrenza. Poi Anac aveva censurato che il gruppo godesse di una situazione privilegiata e di bandi di gara su misura, grazie a un centro di cottura a Boara Pisani (Padova) realizzato in project financing nel 2009 (era di Giancarlo Galan in Regione) che permette di cuocere i cibi, raffreddarli e riscaldarli alla consegna. Come se non bastasse, 5stelle e Pd andarono all’attacco della giunta di Luca Zaia, accusandola di favoritismi.

Alla fine cambia l’ordine dei fattori, non il risultato. Perché la nuova gara si sta per concludere e assegnerà la ristorazione ospedaliera allo stesso gruppo, anche se Anac aveva imposto di riscrivere il capitolato (a cui era stata tolta la clausola della precottura) per inserire un “vincolo di aggiudicazione per un massimo di tre lotti”, così da impedire concentrazioni. Serenissima Ristorazione ha vinto tre lotti: 100 punti su 100 a Rovigo e Padova, 95 a Venezia. Gli altri due (Treviso e Bassano-Asiago-Schio) sono andati a Euroristorazione, controllata all’81 per cento da Vegra Camin, una controllata di Serenissima, rispettivamente con 100 e 97,92 punti.

I risultati non sono stati ufficializzati, ma alla graduatoria manca la verifica su tre lotti, per accertare che il ribasso non sia stato eccessivo. Intanto, dal febbraio 2019, Serenissima ha continuato a fornire i pasti, in prorogatio. Il bando da 98 milioni per un quadriennio (più 12 milioni per proroga semestrale) è del 2 luglio 2019 e riguardava sei Usl venete, ma al lotto di Belluno non ha concorso nessuno. Adesso la commissione ha stilato due graduatorie, una qualitativa (massimo 70 punti) e una economica (massimo 30 punti). Serenissima ed Euroristorazione hanno stravinto. Solo terza o quarta Dussmann Service, che nel ricorso ad Anac nel 2018 aveva denunciato: “Serenissima detiene il 90 per cento del mercato delle mense ospedaliere nella Regione Veneto. È un dato anomalo”.

Quell’incontro con il n.2 di Zinga, nuove conferme

Non ci sono solo le intercettazioni finite agli atti dell’inchiesta di Trento a raccontare dell’incontro del 18 dicembre 2017 fra il vicepresidente della Regione Lazio, Daniele Leodori, e alcuni ritenuti i rappresentanti della presunta ‘ndrina romana legata alla cellula trentina della ‘ndrangheta. Anche gli accertamenti dei carabinieri del Ros di Trento e le dichiarazioni di Alessandro Schina – arrestato con l’accusa di riciclaggio e associazione mafiosa – confermano che l’appuntamento (sempre smentito dal numero due di Nicola Zingaretti) si è concretizzato presso la sede regionale della Pisana. Non solo. Dalle 2000 pagine di informative consegnate dai Ros al procuratore di Trento, Sandro Raimondi, emergono nuove conversazioni di altri indagati sui presunti rapporti fra Leodori e Schina. Fabrizio Cipolloni, contabile del gruppo romano, il 13 novembre parla con Domenico Morello, ritenuto l’anello di congiunzione fra le ‘ndrine di Roma e Trento. Cipolloni si lamenta con Morello di Schina e della sua “incapacità di gestire i rapporti con i malavitosi”. Il contatto con Leodori sarebbe stato costruito, a detta di Cipolloni, grazie a Marco Vecchioni, pluripregiudicato romano. “Gli ha affittato la Smart… tutto – dice Cipolloni – ma addirittura è andato sugli appalti (…) Da Marco (titolare di un ristorante a Centocelle, ndr) fece una cena col vicepresidente della Regione Lazio (…) ci stava uno che non poteva il vicepresidente della regione adesso… prima era un consigliere”. E ancora: “Poi vengo a sapere che mo è venuto il vicepresidente della Regione Lazio Leodori (…) è venuto a chiedermi delle cortesie per il discorso informatico… per le società di San Cesareo… io faccio… ma senti ma io ti ho pure sponsorizzato all’epoca quando hai fatto le elezioni…”. Leodori, estraneo all’inchiesta, ha già smentito l’incontro. Nei prossimi giorni sarà interrogato dagli investigatori.

Toscana, Giani (Pd) vuole nominare la vigilessa di Renzi

Firenze-Roma andata e ritorno. Con la crisi politica di Matteo Renzi, anche i petali del (fu) Giglio magico devono provare a rifarsi una vita. Fino a passare in pochi anni da Palazzo Chigi al più modesto Palazzo Strozzi Sacrati, sede della giunta regionale toscana a pochi passi dalla Cupola del Brunelleschi. Ma tant’è: Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani a Firenze con Renzi sindaco e da lui portata nel 2014 a dirigere il Dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, potrebbe presto traslocare di nuovo nel capoluogo toscano: il neo-governatore Pd Eugenio Giani vuole nominarla nuovo direttore generale della Regione Toscana. Un incarico che, sebbene minore rispetto a quelli romani che le hanno attirato non poche antipatie, prevede un compenso di 170 mila euro annui e soprattutto una grossa responsabilità: Manzione sarebbe la deus ex machina della nuova giunta regionale. Dopo l’incarico di governo nel 2016 la “vigilessa”, come veniva chiamata in Largo Chigi, era stata nominata dal premier Renzi consigliera di Stato, una decisione che aveva suscitato molte polemiche: l’Associazione nazionale magistrati amministrativi ha fatto ricorso contro la legittimità della designazione perché Manzione nel 2016 non avrebbe avuto i requisiti e nemmeno l’età minima (55 invece che 53) per occupare la poltrona di Palazzo Spada. La decisione del Consiglio di Stato sulla nomina sarebbe dovuta arrivare a dicembre scorso, ma è stata rinviata prima a febbraio e poi a data da destinarsi. A lei, lucchese di Forte dei Marmi ma fiorentina di adozione, l’ipotesi di diventare nuova dg della Regione Toscana piacerebbe molto ma ha davanti a sé un ostacolo: dovrebbe ottenere il parere favorevole del Consiglio di Stato per l’incarico da fuori ruolo e, in quel caso, avrebbe la strada spianata. L’intenzione di Giani viene confermata da diversi esponenti dem toscani – “Abbiamo rottamato Renzi, ma il giglio magico è per sempre” è la battuta che circola tra i corridoi della giunta regionale – e nel mondo renziano Manzione sarebbe sponsorizzata (oltre che dall’ex sindaco di Firenze) da Luca Lotti, leader della corrente Pd Base Riformista che in Toscana continua ad avere un peso specifico molto forte sulle scelte del governatore.

Lotti infatti sarebbe rimasto deluso perché nessuno dei suoi è entrato nella giunta di Giani – solo il suo fedelissimo Antonio Mazzeo è diventato Presidente del Consiglio Regionale – e quella di Manzione potrebbe essere una nomina riparatrice. Ma la consigliera di Stato è in ottimi rapporti anche con lo stesso Giani che dopo le elezioni vinte contro la leghista Susanna Ceccardi ha annunciato di voler riorganizzare la macchina amministrativa regionale. Al momento infatti il ruolo di direttore generale è occupato da Antonio Davide Barretta, nominato nel 2015 dall’ex presidente Enrico Rossi, che potrebbe essere spostato al vertice della Sanità regionale per aiutare anche il nuovo assessore Simone Pezzini, che ha una lunga esperienza amministrativa alle spalle nella politica senese ma nessuna nel mondo della Salute regionale. Anche per questo Giani vorrebbe nominare Manzione: “Adesso ho davvero altro a cui pensare – spiega al Fatto Quotidiano il governatore – visto il momento, sono concentrato sull’emergenza. Poi dopo si vedrà”. Non sembra certo una smentita.

Vitalizi, Alemanno e Jervolino ora si aggiudicano un aumento

Chi lamentando condizioni di infermità o altri acciacchi. Chi dolendosi di essere sul lastrico tanto da non riuscire a sbarcare il lunario. Alla fine ce l’hanno fatta: grazie a una delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera riavranno parte del vitalizio. Così contribuendo alla demolizione del taglio degli assegni sforbiciati a partire dal 2019. La lista dei beneficiati è lunga: circa 50 tra ex deputati o loro congiunti in regime di reversibilità. Ma l’elenco di coloro che adesso possono ben sperare di riavere il malloppo potrebbe presto allungarsi.

A superare l’esame dei questori e a vedersi rimpinguare il trattamento ci sono personaggio di primo piano. Come Gianni Alemanno, esponente di An, un tempo sindaco di Roma, condannato di recente per corruzione in un processo nato da un filone dell’inchiesta Mondo di Mezzo. L’ex ministro Rosa Russo Jervolino, avvocato oltre che primo cittadino di Napoli. Falco Accame, già ammiraglio e presidente della Commissione difesa della Camera. Franco Grillini, ex deputato dei Ds e leader storico dell’Arcigay. O Stefano Menicacci, missino doc, già avvocato di Stefano Delle Chiaie.

Come è stato possibile il ritocco degli assegni? In aprile l’organo di giustizia interna della Camera, il Consiglio di Giurisdizione, ha invitato l’Amministrazione a rivedere la delibera sul taglio dei vitalizi perché ritenuta troppo rigida: originariamente la misura prevedeva che fossero in parte esentati dal giro di vite solo gli ex deputati in possesso di un doppio requisito: l’essere affetti da patologie particolarmente gravi (o invalidi al 100 per cento) e non percepire altri redditi, al di là del vitalizio, di ammontare superiore alla misura dell’assegno sociale (circa 5.900 euro lordi all’anno). Maglie ritenute troppo penalizzanti dagli ex parlamentari che infatti si sono ribellati in massa.

Come noto in 1400 hanno fatto ricorso contro la stretta voluta dal presidente della Camera, Roberto Fico. E 300 di loro, dopo il varco aperto dall’organo di giustizia interna di Montecitorio, si sono rivolti al collegio dei questori per ottenere l’agognata integrazione del vitalizio.

Di fronte alla valanga di istanze e di carte finora presentate, i questori di Montecitorio hanno elaborato criteri più morbidi, seppure proponendo un calmiere al ripristino degli aumenti, specie per i vitalizi più ricchi: a ogni modo chi potrà vantare il doppio requisito di indigenza e invalidità riotterrà al massimo il 50 per cento del vitalizio originario e il 40 se in possesso di uno soltanto dei requisiti richiesti, salvo il caso che si tratti di assegni di reversibilità o di ultraottantenni: in questo caso potrà essere aggiunto un altro 25 percento.

Ma gli altri non disperino. Perché “pur non sussistendo alcuno dei presupposti richiesti”, i questori si riservano comunque la possibilità di valutare “singole e specifiche situazioni individuali per le quali, per effetto della rideterminazione del trattamento, si sia determinata una grave e documentata compromissione delle condizioni di vita personale o familiare”.

Una delicatezza per la quale qualunque cittadino brinderebbe. Ma nel caso degli ex deputati manco è detto: chissà infatti se Alemanno si accontenterà dell’arrotondamento del quasi 10 per cento che gli è stato accordato e se la Jervolino si sentirà soddisfatta per quel 7,28 per cento in più che si ritroverà nel cedolino di novembre. Chissà se l’ex azzurra Cristina Matranga deporrà le armi ora che ha spuntato un incremento del 21 per cento che però impallidisce di fronte al 40 accordato a Franco Grillini.

E chissà se lo faranno l’altra quarantina di beneficiati dai questori tra i quali spiccano l’ex sottosegretario Dc Romeo Ricciuti, il repubblicano Adolfo Battaglia, il radicale Giuseppe Rippa, il comunista Antonio Rubbi. Sicuramente si mangeranno i gomiti per l’impresa riuscita al sodale di Giorgio Almirante, Menicacci: lui si era rivolto come un fulmine ai questori e non ottenendo risposta nei tempi previsti era tornato a bussare al Consiglio di Giurisdizione. Che in suo favore ha già sentenziato un incremento del vitalizio del 75 per cento.

Operazioni ai denti pagate, ma il reparto ormai è chiuso

Spiacenti, ma la ditta è fallita, il servizio è sospeso e ogni prestazione bloccata. È quanto si sentono rispondere dal 28 ottobre scorso i pazienti che avevano prenotato – e pagato – prestazioni al Centro odontostomatologico dell’ospedale Niguarda di Milano. Da quando, cioè, la società Odos Service – appaltatrice privata di un servizio pubblico, effettuato in un ospedale pubblico –, ha portato i libri in tribunale. Da quel giorno i pazienti, come la signora Amina (nome di fantasia), che solo il 26 ottobre avevano pagato in anticipo per l’estrazione di alcuni denti (la fattura è stata incassata da Niguarda) e che il 30 avevano l’appuntamento per l’operazione, dovranno attendere. Fino a quando, non si sa. Così come dovranno aspettare per incassare gli stipendi arretrati i 150 dipendenti della Odos, che non ricevono buste paga né Cig Covid da luglio. E con il Covid che ha bloccato ogni prestazione elettiva, la prospettiva è che lo stop non sarà breve.

Ma il caos di Niguarda è più frutto della corruzione che della pandemia. Per capire perché Amina dovrà tenersi i denti cariati, bisogna riavvolgere il nastro al 16 febbraio 2016, quando finisce in manette Maria Paola Canegrati, alias “Lady Sorriso”, fino a quel momento signora incontrastata delle cliniche dentarie.

Prima di finire sotto inchiesta (ed essere poi condannata nel gennaio scorso a 12 anni), Lady Sorriso faceva incetta di appalti pubblici in tutti gli ospedali lombardi. Vinceva perché pagava maxi-tangenti al pupillo del presidente Maroni, il consigliere regionale leghista Fabio Rizzi. Allora Rizzi – che era solito nascondere le mazzette della Canegrati nel frigo e che ha patteggiato una pena a 2 anni – era presidente della commissione Sanità del Pirellone, nonché l’autore della riforma sanitaria di Maroni, che tanti soldi ha concesso alla sanità privata. Tra gli appalti “vinti” dalla Canegrati con la società Servicedent, anche quello di Niguarda. E già allora qualcosa non andava: l’allora primario di Chirurgia maxillofacciale, Mario Cirincione denunciò a Direzione Sanitaria e magistratura la società della Canegrati perché rovinava i pazienti. Raccontava di “tumori maligni scambiati per funghi”, di “immigrati convinti a ricostruire dentature in realtà perfette”, di malati terrorizzati con diagnosi di “lesioni precancerose inesistenti”. Il risultato fu che la Canegrati rimase dentro Niguarda e il primario chiese il prepensionamento e lasciò l’Italia. Quando scoppia la bomba giudiziaria, Canegrati, Rizzi e altre 20 persone finiscono sotto inchiesta, ma Servicedent continua a operare.

Almeno fino al 2019, quando entra in concordato preventivo e viene assorbita dalla Odos Service. Ma anche Odos versa subito in brutte acque, non riuscendo a garantire personale a tutti gli ospedali previsti di contratti (firmati in era Canegrati).

Viste le difficoltà, Niguarda indice un maxi-appalto spacchettandolo in lotti per i singoli nosocomi, dal valore di 328.733.703 euro. Solo il lotto di Niguarda vale 115 milioni per 60 mesi. E così siamo all’oggi: Odos il 28 ottobre porta i libri in tribunale e tutto si blocca. Il 16 febbraio 2021 è fissata l’udienza di fallimento e fino a quella data il Centro potrebbe rimanere chiuso. I pazienti che hanno chiamato l’Urp per avere informazioni, si sono sentiti rispondere che non si hanno notizie e che, probabilmente, il centro riaprirà con un’altra società. Chi sia, non è dato saperlo. Ma come si è potuti arrivare fino a questo punto? Per le tangenti, ma anche per l’inerzia dei vertici di uno dei più grandi ospedali lombardi (che non ha risposto alle domande del Fatto). La Fp Cgil per mesi ha scritto alla Direzione Sanitaria, avvertendo del blocco imminente. L’ultima lettera è del 20 ottobre scorso. Senza risposta. Il sindacato aveva mobilitato anche il Prefetto di Milano, inutilmente. L’unico segno di vita dato dal Niguarda risale al 30 ottobre, quando ha risposto al sindacato che tra l’ospedale e la Odos “non intercorre più alcun tipo di rapporto contrattuale”. Tuttavia, fino a due giorni prima, il personale Odos operava e Niguarda incassava.

Spirlì presidente per caso già devoto al cane Dudù

Chi è Antonino Spirlì detto Nino? Giornalista, autore teatrale, politico marginale fino all’altroieri. Omosessuale, cattolico, di destra, molto anticonvenzionale. Grande interprete di se stesso. Mai stato una figura di primissimo piano nella politica calabrese: non era noto alle grandi folle. Spirlì finisce al centro del palco per una circostanza tragica, la morte della governatrice Jole Santelli: diventa presidente (facente funzioni) della Regione Calabria. In teoria per pochi mesi, giusto il tempo di tornare al voto. Ma nel panico senza fine del Covid e della seconda ondata le elezioni sono come l’orizzonte: non ci si avvicina mai.

Il nostro non percepisce affatto il suo ruolo come provvisorio. Stragoverna, straparla. Il destino, ironico, l’ha trasformato in uno dei simboli della battaglia delle Regioni, governatore in barricata, attore quasi protagonista nella commedia politica della pandemia. Spirlì attacca a testa bassa, dichiara senza pensieri: “Impugneremo l’ordinanza di fronte al Tar, la decisione del governo – la Calabria rossa – è incomprensibile, non si capiscono i criteri scientifici in base ai quali hanno deciso di uccidere questo territorio”.

Criteri scientifici: parliamone. Il 3 novembre, prima dell’ultimo Dpcm, la Calabria fa sapere con i suoi bollettini che i ricoverati in terapia intensiva sono più che dimezzati. Al mattino sono 26, di sera diventano 10. Guarigioni di massa? No. La Regione ha modificato all’improvviso i criteri (scientifici?) delle terapie intensive: all’improvviso si contano solo i pazienti intubati. Un tentativo disperato per “truccare” i numeri e scongiurare la zona rossa. Inutile.

È solo una delle prodezze del governatore “facente funzione” che negli ultimi giorni ha macinato nomine su nomine, assumendo nel suo staff ben sette compagni di partito, tutti salviniani.

Ma chi era Spirlì prima di diventare Spirlì? Un devoto berlusconiano. Nel 2014 Nino partecipa alla fondazione del club di Forza Italia “Dudù” di Taurianova, dedicato al barboncino di Silvio. Ne assume la carica di presidente. In quegli anni si guadagna la fama di intellettuale anticonformista con il libro (e il blog) Diario di una vecchia checca.

Spirlì è questo: omosessuale, sì, ma pure oscurantista cattolico. Può indossare con la stessa naturalezza uno scialle vellutato o uno scapolare della Madonna del Carmine. È gay ma detesta le battaglie dei gay e ogni ipotesi di legge contro l’omofobia: “Così diventeremo un ghetto. Ricchioni e intoccabili”. Dove poteva finire uno così? Da Salvini, of course. Quando il “capitano” organizza la sua classe dirigente in Calabria, dal nulla, Nino è tra i convocati.

L’Italia impara a conoscerlo il 2 ottobre, il giorno della manifestazione pro Salvini a Catania. Sale sul palco e si mostra in tutta la sua splendente retorica: “Avete mai visto un bambino con due padri, o con due madri? Li avete mai visti in natura? Avete mai visto un cucciolo di cane che ha due padri che abbaiano allo stesso modo? Dirò negro, frocio e ricchione fino alla fine dei miei giorni”.

L’aumento dei casi: dopo il Nord Ovest c’è mezza Toscana

C’è sempre il Nord-Ovest in cima alla classifica dei contagi rilevati ma anche province che escluse dalle zone rosse e arancioni vedono l’incidenza crescere. È il caso di Prato, che è quinta: ha contato 1.046 casi ogni 100 mila abitanti nei 15 giorni tra il 21 ottobre e il 4 novembre contro il 643 del periodo 15-29 ottobre, quando per la prima volta abbiamo pubblicato. Allora era settima. In sei giorni sono aumentati del 38 per cento. Firenze è appena sotto, dodicesima a quota 847 contro 621 della precedente quindicina, Arezzo è undicesima con 861 contro i 526 della seconda metà di ottobre quando era ventesima, Pisa è tredicesima con 839 contro 593, Pistoia sedicesima con 816 contro 562. Anche a Genova il virus corre veloce, 1.011 contagi contro 832, sia pure scendendo dalla quarta alla settima posizione. E a Bolzano, dove è stato ordinato a un quasi lockdown provinciale, sono passati da 605 a 937. Caserta, decima in Italia, è la prima del Mezzogiorno, 907 casi ogni 100 mila abitanti contro 534; Napoli è quindicesima con 819 contro i 604 del periodo 15-29 ottobre, quando era dodicesima.

Nei sei giorni tra il 29 e il 4 novembre la media italiana su due settimane è passata da 352 a 509 casi ogni 100 mila abitanti. L’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione delle malattie di Stoccolma, pubblica giornalmente il dato dei contagi rilevati negli ultimi 14 giorni (e non 15) ogni 100 mila abitanti: ieri l’Italia era già a 595, una settimana fa era a 389. In sette giorni abbiamo superato il Regno Unito che da 437 è passato a 469, talloniamo la Spagna che è salita da 509 a 596, siamo sempre lontani dalla Francia che è andata da 706 a 898 ma anche dalla Germania che è salita da 182 a 259. Il Belgio che rimane il Paese più colpito nell’Europa occidentale è sceso da 1.600 a 1.535, che non è un dato troppo lontano da quello delle province italiane in testa alla classifica.

Ai primi posti da noi ci sono aree delle regioni nordoccidentali dichiarate zona rossa. Monza e Brianza stavolta è prima, passa da 899 a 1.422 casi ogni 100 mila abitanti in 15 giorni. Vuol dire che nelle ultime due settimane hanno avuto un tampone positivo ogni 70 abitanti. Segue Aosta (1.331 casi ogni 100 mila abitanti contro 1.112 della precedente rilevazione quando era prima). Milano è sempre terza (1.255 contro 858), Varese è quarta (1.245 contro 777), Como è sesta (1.022 contro 556), Torino è nona (916 contro 632), Cuneo quattordicesima (828 contro 653). Ma nelle prime venti posizioni ci sono anche Perugia, diciassettesima con 773 casi contro i 602 della precedente quindicina quando era tredicesima con 602;Viterbo diciottesima con 756 contro i 623 tra il 15 e il 25 ottobre quando era nona; L’Aquila diciannovesima con 750 contro 565. Roma rimane pressappoco dov’era, scende dalla 53esima alla 55esima posizione passando da 323 casi ogni 100 mila abitanti a 467, con un aumento del 44 per cento.

Ora è fin troppo chiaro che l’andamento dei contagi, in sé, non vuol dire abbastanza. L’effetto sul tasso di riproduzione del virus Rt, che consente anche una previsione come spiegato due giorni fa dal professor Giovanni Rezza del ministero della Salute, non ha nulla di automatico. Anche perché Rt è calcolato dall’Istituto superiore di sanità sui sintomatici, in base a una formula complessa. L’aumento dei contagi rilevati dipende anche dalla capacità diagnostica e in una certa misura può essere il caso della Toscana, che nel monitoraggio fino al 25 ottobre aveva un Rt relativamente basso di 1,19 contro 1,84 in Calabria dove i contagi sono in numero inferiore ma il sistema sanitario territoriale è assai meno efficiente secondo i parametri presi in esame per definire le zone rosse e arancioni. Anche nella nostra classifica Reggio Calabria, la più colpita delle province calabresi, scende dall’87esima all’89esima posizione passando da 179 a 235 casi ogni 100 mila abitanti. Vibo Valentia è sempre la meno colpita, in 107esima posizione: da 22 a 46. Partendo dal basso ci sono Lecce (da 39 a 70), Crotone (da 49 a 89), Catanzaro (da 83 a 144), Agrigento (da 93 a 144). Tutte però hanno registrato, da una settimana all’altra, significativi aumenti.

A questo ritmo in terapia intensiva più di 5 mila persone fra 12 giorni

Morti 446 (uno in più di giovedì); 2.515 persone nelle terapie intensive: 61,8% del picco massimo (il 3 aprile 4.068) con un raddoppio che avviene più o meno a dodici giorni, il che significa che, se le misure passate e il Dpcm in vigore da ieri non cambieranno nulla, avremo oltre 5.000 pazienti in rianimazione il 18 novembre e 10 mila il 30 novembre; in reparto ordinario ci sono 24.005 malati di Covid, l’82,7% del picco massimo (il 4 aprile 29.010). Questi sono i numeri dell’emergenza coronavirus che spaventano di più nella speranza che il rallentamento della curva dei contagi in atto da giorni sia reale: ieri +37.809 su 234.245 test.

Il dato tragico della progressione dei decessi non lascia tranquilli perché, spiega il fisico Alessandro Amici, “si stacca sempre di più verso l’alto dalla relazione coi nuovi casi, con un ulteriore allarme per la media a sette giorni”. Quindi “se il numero di morti giornalieri non rallenta significativamente entro questo fine settimana, il dubbio che il rallentamento dei nuovi casi sia una illusione ottica dovuta alla crescente incapacità di eseguire tamponi diventerà praticamente una certezza, e allora saremmo tornati davvero esattamente come a marzo”, ma “ancora trovo questa possibilità incoerente con tutte le altre osservazioni”. Con i decessi l’Italia è al 40,4% del picco massimo (5.727 morti nella settimana 27 marzo-5 aprile).

La corsa di SarsCov2 continua ad avvenire in modo molto diverso da una regione all’altra e allora rimane la Lombardia la maggior indiziata rispetto alla possibilità di aver perso il controllo dei tamponi: ieri ha sfiorato i diecimila nuovi casi, 4.296 nella sola città metropolitana di Milano. “La Lombardia avrebbe dovuto assumere persino prima misure più dure. Noi abbiamo preso misure giuste e spero siano utili, questa è l’unica cosa che mi importa”, ha attaccato ieri su Rai1 Sandra Zampa, sottosegretario alla Salute. Sempre ieri 4.878 contagi sono stati registrati in Piemonte, 4.508 in Campania, 3.297 in Veneto, 2.699 nel Lazio e 2.592 in Toscana. Un altro numero importante è quello della media settimanale del rapporto tra nuovi casi e soggetti testati per la prima volta, dato che secondo le rilevazioni del consigliere regionale del Lazio Alessandro Capriccioli, in Italia “arriva al 25,48% contro il 24,82% di giovedì, con un valore secco giornaliero (record) del 28,09% (male) e una crescita che prosegue con un ritmo un tantino (ma sempre non abbastanza) ridotto rispetto a quello di qualche giorno fa”: negli ultimi 7 giorni: 22,15% – 22,79% – 23,19% – 23,85% – 24,36% – 24,82% – 25,48%.

La situazione degli ospedali è sempre più critica e l’Instant report Covid-19 dell’Altems (Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari) dell’Università Cattolica di Roma rende bene l’idea della gravità della situazione: “Tredici regioni stanno già utilizzando i posti letto di terapia intensiva che dovrebbero essere dedicati ai pazienti non Covid-19: Alto Adige, Lombardia, Umbria, Toscana, Marche, Puglia, Liguria, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Abruzzo, Calabria, Campania e Basilicata. In particolare l’Alto Adige sta utilizzando più del 40% della propria dotazione strutturale di posti letto di terapia intensiva, la Lombardia il 38,56%, l’Umbria il 31,43%, la Toscana il 23,55%, le Marche il 22,61%, la Puglia il 16,78%, la Liguria il 12%, l’Emilia Romagna il 10,47%, la Valle d’Aosta il 10%, l’Abruzzo l’8,94%, la Calabria il 3,42% e la Campania l’1,49%. La Basilicata, pur avendo raggiunto la massima saturazione della capacità extra, al momento non utilizza la capacità strutturale per pazienti Covid-19. Sono prossime alla totale saturazione della capacità aggiuntiva la Sardegna (97,93%), il Piemonte (93,95%), la Sicilia (87,06%), il Trentino (84,62%) il Lazio (78,62%) e il Friuli-Venezia Giulia (72,73%). In Veneto è utilizzato il 45% della capacità extra. Il Molise, al momento, non ha implementato alcun posto aggiuntivo”.