Poteri regionali: inizia la guerra per cambiarli

Le Regioni che sono un alveare di proteste e ira vanno calmate. Così la pensa tutto il governo, e allora il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, tende la mano, innanzitutto alla Lombardia: “Non stiamo dando schiaffi a nessuno, ma siamo costretti a intervenire, abbiamo a che fare con un treno in corsa che va fermato, o ci travolgerà”. E il ministro della Salute, Roberto Speranza, suona le stesse note, prima in audizione alla Camera e poi nella riunione all’ora di pranzo proprio con i governatori: “Non c’è nessun spirito punitivo verso le Regioni, ora serve unità”. Ma non c’è solo miele nelle parole della maggioranza, c’è anche la minaccia di un bastone prossimo venturo per le giunte. Perché Luigi Di Maio e diversi big del M5S, proseguendo con Matteo Renzi e vari di Leu evocano la riforma del Titolo V della Costituzione, cioè la revisione dei poteri delle Regioni. “Questa vicenda dà un colpo mortale all’idea di autonomia” riassume il vicesegretario dem Andrea Orlando.

Fendenti soprattutto tattici, magari. Di sicuro il tema degli enti locali è affiorato anche nel vertice di maggioranza di giovedì sera convocato a Palazzo Chigi da Conte. Ora però le emergenze sono altre, prima tra tutte la curva dei contagi. “Ma non vogliamo penalizzare alcune zone” assicura il premier. Invece, da Montecitorio, Speranza invoca continenza: “Ci sono dei limiti che la battaglia politica non deve mai superare, tanto più dentro un’emergenza sanitaria”. E poi, ricorda, “la fonte dei dati sono sempre le Regioni”. Poco dopo lo stesso Speranza riunisce i governatori in conference call. E sceglie toni concilianti: “Dobbiamo stare uniti in questa fase, le chiusure le abbiamo decise sulla base di calcoli matematici. Non volevamo penalizzare o favorire nessuno. E, comunque, ognuno di voi potrà adottare ordinanze più restrittive, le norme glielo consentono”. I presidenti però volevano il confronto con il ministro prima che Conte presentasse le fasce colorate in conferenza stampa. Il campano Vincenzo De Luca insiste: “Servivano norme univoche per tutta Italia”. E il piemontese Alberto Cirio: “I parametri per le chiusure andavano chiariti prima e meglio”. Ma il tema che fa salire la temperatura è la scuola. Il Tar di Bari ha sospeso l’ordinanza con cui il governatore pugliese Michele Emiliano aveva chiuso tutte le scuole, “perché la didattica a distanza non può essere assicurata” come fanno notare dalla Regione. Mentre quello di Lecce ha respinto il ricorso di 16 genitori “perché il diritto alla salute prevale”. Ne parlano diversi governatori.

Poi interviene proprio Emiliano: “Dove sono i dati sul fattore di accelerazione dei contagi rappresentato dalle scuole?”. Ovviamente ce l’ha con il ministro dell’Istruzione Azzolina. È furente, il governatore. Tanto che si alza e se ne va: “Confrontarci ora non ha alcuna utilità, diteci cosa fare ed eseguiremo”. Emiliano alla fine cede e firma una ordinanza in cui riapre elementari e medie. Nel frattempo i presidenti chiedono a Speranza un confronto preventivo sui dati, prima delle prossime ordinanze. Il ministro apre. E il presidente della Conferenza Stato-Regioni, l’emiliano Stefano Bonaccini, conferma in chiaro: “Abbiamo condiviso con Speranza la necessità che vi possa essere un esame congiunto dei dati, utile a favorire le decisioni”. Vuole spegnere l’incendio, il presidente dem. Ma avverte: “Le spinte centraliste non sono la risposta in questa grave crisi sanitaria”. Tradotto: i nostri poteri vogliamo tenerceli.

Il ministro si è fatto commissario: “Altre zone rosse possibili”

Con il nuovo Dpcm la gestione è cambiata. Se non c’è un vero commissario all’emergenza Covid-19, salvo Domenico Arcuri per gli approvvigionamenti, ora c’è un commissario alle chiusure. È il ministro della Salute, Roberto Speranza, che agisce in base ai dati elaborati dalla cabina di regia formata dai dirigenti del ministero e dell’Istituto superiore di Sanità e da tre rappresentanti delle Regioni. “I criteri sono quelli, approvati da tutti – spiega Speranza –. Nelle prossime 48 ore vedremo i nuovi dati e se necessario ci saranno altre ordinanze”, cioè altre zone rosse o arancioni. Le Regioni sotto la lente della cabina di regia sono tante: la Liguria e l’Umbria soprattutto per la situazione difficile negli ospedali, la Toscana perché i contagi corrono anche se il servizio sanitario territoriale regge più altrove, il Veneto perché non sempre sono arrivati tutti i dati, la Campania perché Napoli e Caserta sono messe male.

Il monitoraggio settimanale potrebbe tardare ancora fino a domani, il ministro ha detto ai tecnici di prendersi il tempo che serve. Non è questione di chiudere l’area metropolitana di Napoli, come invece ha suggerito anche ieri Walter Ricciardi, che del ministro è consulente, facendo arrabbiare il sindaco Luigi de Magistris che chiede coerenza. “Il Dpcm ­ – spiega il ministro al Fatto –­ prevede che il ministro possa intervenire su una Regione, non su una Provincia. Ma sul- l’area metropolitana può intervenire il presidente De Luca, come ha fatto Zingaretti a Latina”. Vincenzo De Luca invece insiste che Napoli dev’essere chiusa, basta che non tocchi a lui, tanto che ieri ha detto “comportatevi come se ci fosse il lockdown”. “Dev’essere chiaro – avverte Speranza –­che noi stiamo svolgendo una funzione di supplenza nei confronti delle Regioni, che non si possono lamentare anche perché i dati vengono da loro. Nessuna trattativa ma i tecnici del ministero si confronteranno con quelli delle Regioni. C’è un modello standardizzato, i criteri sono lì da 24 settimane e se per tre settimane una Regione non dà i dati diventa zona rossa”. Sono i i 21 parametri elencati puntigliosamente dal ministro ieri alla Camera, introdotti a fine aprile per il monitoraggio settimanale quando l’Italia ha cominciato a uscire dal lockdown. Sempre allora furono discussi con le Regioni: “Nessuna ha eccepito”, ricordail ministro. Quei parametri ora devono essere combinati con il documento dell’Iss, approvato a ottobre e condiviso anche con le Regioni, che definisce i quattro scenari in base al livello di Rt, il tasso di riproduzione del virus: scenario 3 quando è fra 1,25 e 1,15; scenario 4 se supera stabilmente 1,5 come è successo in Lombardia e in Piemonte dove era oltre2. In quel caso possono essere chiusi interi territori regionali.

Lo scontro, peraltro, si va attenuando, almeno secondo Speranza. Dopo l’incontro di ieri con i cosiddetti governatori il ministro ha osservato che “c’è un clima più confortevole, maggiore collaborazione, anche loro capiscono che la situazione è grave”. La preoccupazione è alta. L’aumento dei decessi fa pensare che l’apparente relativa flessione della curva dei contagi sia legata a fluttuazioni, se non a carenze della diagnostica. Molti ospedali danno segni di cedimento. “Non ci preoccupano tanto le terapie intensive – dice ancora Speranza – quanto i reparti dell’area medica”. Del resto, se fosse dipeso solo da lui, le chiusure sarebbero iniziate prima e sarebbero state ben più estese.

“Sistema condiviso. Assurda la protesta delle Regioni ora”

Domenico Arcuri, Commissario all’emergenza che è, per così dire, il braccio secolare del governo per il Covid, la butta lì a metà di un ragionamento sul rapporto con le Regioni: “Le misure prese sono necessarie, ma non è detto che siano sufficienti”.

Eppure le Regioni si lamentano.

Non capisco perché, visto che hanno condiviso, approvato e implementato per mesi questo famoso sistema coi 21 parametri. Un sistema, peraltro, basato in larga parte su dati forniti dalle Regioni stesse e che ha due finalità: comprendere a che punto è l’epidemia nei vari territori e prevederne l’evoluzione.

Per alcuni governatori produce decisioni arbitrarie o basate su dati vecchi.

Nessuno è contento di subire chiusure, ma questa mi pare una discussione di maniera o basata su presupposti sbagliati come l’anzianità dei dati: se, com’è vero, l’epidemia corre, i numeri della settimana successiva potranno essere anche peggiori.

La Calabria ha minacciato di impugnare il Dpcm…

Spero non lo faccia. Certo, anche questo potrebbe sollevare riflessioni sul sistema istituzionale italiano, uno Stato federale di fatto.

C’è chi parla di scelte dettate dal “colore” delle Regioni.

Una surreale falsità. Questi provvedimenti servono a raffreddare la curva dove è necessario, tentando di tutelare la salute senza mandare troppo in sofferenza il nostro sistema economico.

Allude a un nuovo lockdown?

L’andamento attuale della curva dimostra che le misure prese sono necessarie, ma non è detto che siano sufficienti.

Ci dica come siamo messi.

La curva dei contagi è impetuosa e continua e crescere. Lo vediamo anche grazie alla moltiplicazione delle attività di screening: siamo passati dai 26mila tamponi al giorno di marzo-aprile ai 234mila di oggi (ieri, ndr) e puntiamo – coi test antigenici – ad arrivare a 350mila al giorno.

Così pare sia cambiato solo il numero dei tamponi.

Prima c’era un esercito sconosciuto di asintomatici, oggi riusciamo a rintracciarli. La differenza vera è che il 94,7% dei positivi in questo momento è in isolamento domiciliare, a marzo-aprile erano il 51,8%; solo il 4,8% è ricoverato e lo 0,5% è in terapia intensiva contro il 41,5% e il 6,7% di mesi fa.

Quindi tutto a posto?

No, soffre la rete ospedaliera, in cui ci sono 24mila ricoverati, e soprattutto i Pronto soccorso e non le terapie intensive: i letti occupati sono 2.515, meno dei 3.565 ventilatori che abbiamo distribuito sinora.

A questo proposito, qualche Regione si è lamentata di non avere posti letto.

È un dibattito concluso. I posti attivi o attivabili oggi sono 9.714 in tutto e con le dotazioni a disposizione arriveremo alla fine a 11.307. Numeri su cui oggi concordano pure le Regioni, a cui ogni giorno mandiamo altre attrezzature.

Una terapia intensiva non sono solo i ventilatori: e le assunzioni?

Potrei rispondere che non è compito mio, ma comunque la mia impressione è che ci sia scarsità di offerta: anche per questo la curva va raffreddata.

Il piano di rafforzamento degli ospedali è in ritardo.

Lunedì abbiamo pubblicato i 21 accordi quadro per i piani regionali e aperto il catalogo delle attrezzature disponibili: chi non deve fare lavori e ordina ora potrà riceverle al più presto. Ma mi lasci dire una cosa: a fine luglio abbiamo ricevuto dei fogli Excel senza dettagli e il 2 novembre abbiamo chiuso le procedure. Per me è un miracolo.

Quindi siamo attrezzati e lo saremo anche di più. Allora perché chiudere?

Siamo meglio attrezzati, ma se i numeri restano questi nessun sistema può reggere. Basta guardare il resto d’Europa.

Sui famosi banchi monoposto siete in ritardo.

Ad oggi è stato consegnato l’80% dei 2,4 milioni di banchi ordinati, vale a dire 9 volte la produzione annuale italiana.

Il centrodestra chiede spesso le sue dimissioni.

È il prezzo del ruolo, forse anche il modo in cui ho deciso di interpretarlo: potevo stare chiuso in una stanza a comprare dispositivi e inviare Pec, invece ho pensato di avere un ruolo più esplicito: gli italiani meritano che gli si spieghi cosa si fa.

Molte critiche le arrivano anche per via del suo ampio ventaglio di poteri…

Cerchiamo di usare un regime di eccezione il meno possibile. Oscilliamo, per così dire, tra chi è nostalgico di una stagione, finita per fortuna, che interpretava l’emergenza come sospensione del diritto e chi mi contesta che non corro come dovrei, perché non prescindo dal diritto: va trovato un equilibrio, questo tento di fare.

Vergogniamoci per loro

I fatti sono semplicissimi, talmente elementari che può capirli persino un “governatore” di centrodestra. I dati che hanno spinto il governo a dichiarare 4 Regioni rosse, 2 arancioni e tutte le altre gialle sono quelli comunicati dalle stesse Regioni alla Cabina di regia Governo-Regioni per il monitoraggio regionale della pandemia, creata ad aprile e operativa da maggio. Cabina di cui fanno parte tre rappresentanti delle Regioni. “Ogni settimana – spiega il presidente dell’Iss, Brusaferro – quei dati vengono analizzati, condivisi e validati tra Regioni, Iss e ministero e poi assemblati tramite 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. I 21 parametri oltre cui scatta l’allarme rosso sono noti alle Regioni dal 30 aprile, nero su bianco nel decreto ministeriale di Speranza che fissa i criteri di chiusura in vista della seconda ondata. Non solo: il 12 ottobre tutti gli assessori alla Sanità hanno ricevuto il dossier con i quattro scenari di rischio e le misure restrittive per ognuno: le stesse che hanno imposto il Dpcm di mercoledì.

Quindi le Regioni sapevano e condividevano tutto, anche se molti presidenti fanno finta di niente. Ma ormai il disgustoso giochino va avanti da nove mesi. Quando non volevano chiudere Alzano e Nembro, Fontana e Gallera dicevano che era compito del governo. Ora che il governo chiude la Lombardia, dicono che è compito loro, che però non l’hanno mai chiusa (nemmeno le province più infette: Milano, Brianza e Varese). Quando decide il governo, invocano l’autonomia; quando concede autonomia, vogliono il centralismo. Quando il governo apre, vogliono chiudere; quando chiude, vogliono aprire. Quando il governo differenzia le misure per aree, chiedono misure unitarie per tutta Italia; e viceversa. Questa vergognosa quadriglia l’ha ricostruita Daniele Fiori sul sito del Fatto. Il 22 agosto, quando si trattava di allentare i divieti, Bonaccini (Emilia-Romagna), Toti (Liguria), Fedriga (Friuli-Venezia Giulia) e Fugatti (Trento) andarono al Meeting di Rimini a chiedere “maggiore autonomia”. Del resto avevano riaperto le discoteche, riattizzando la pandemia. E, mentre la curva risaliva, il 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede l’ok alla riapertura degli stadi ai tifosi fino al 25% dei posti: Cts e governo la bloccarono. Poi il 13 ottobre il Dpcm col primo giro di vite, seguito da quelli del 18, 25 ottobre e 4 novembre. E qui i detti e i contraddetti degli sgovernatori si perdono nella psichiatria e nella psichedelia.

Attilio Fontana (Lombardia): “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo, quindi potrei magari sollecitarla, ma non posso autonomamente assumerla” (28.10).

“Una serie di interventi, territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero inefficaci. Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace” (1.11). “Zona rossa inaccettabile, uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi” (4.11). Ora e sempre coerenza.

Alberto Cirio (Piemonte). “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee” (15.10). “Le misure devono essere nazionali, perché dalla Val d’Aosta alla Calabria il virus c’è e cresce ovunque” (2.11). “Il governo usa due pesi e due misure per Piemonte e Campania” (5.11). Coerenza saltami addosso.

Vincenzo De Luca (Campania). “Oggi in Campania la situazione del Covid-19 è pienamente sotto controllo” (18.9). “Già oggi dovremmo prendere decisioni drastiche. Ma attendiamo ancora, una chiusura generale sarebbe tragedia” (De Luca, 9.10). “È indispensabile decidere subito il lockdown. I dati attuali sul contagio rendono inefficace ogni provvedimento parziale. Chiudere tutto, fatte salve le categorie dei beni essenziali. In ogni caso la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo” (23.10). “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie” (24.10). “Ristoranti e bar restino aperti fino alle 23” (25.10). “Ci sono fortissimi ritardi nelle decisioni del governo” (30.10). “Serve muoversi in maniera unitaria: differenziazioni territoriali porterebbero a reazione diverse, in Campania non sarebbero capite e sono improponibili” (1.11). “Qualcuno si aspettava, quasi voleva, che la Campania venisse inserita tra le zone rosse. Come quando Peppino diceva a Totò che a Milano non sentiva freddo e Totò rispondeva che non era possibile perché a Milano non può fare caldo: è capitata la stessa cosa per la Campania: non può essere una regione di eccellenza, dev’essere per forza il degrado e il disastro” (6.11). Coerenza portami via.

Nino Spirlì (Calabria). “La Calabria è in un momento già critico. Lockdown? A valutare cosa fare devono essere i singoli territori” (23.10). “Ci auguriamo che, grazie alla nostra nuova ordinanza, la curva dei contagi scenda. Dobbiamo far decongestionare gli ingressi negli ospedali e fermare l’aumento dei contagiati. Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre altamente colpite, le zone arancioni, e poi territori tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno” (1.11). “La Calabria zona rossa è ingiustificabile. Qui il contagio è più basso che altrove. Il governo si è accanito contro di noi. Tutta l’Italia doveva avere lo stesso trattamento” (5.11). “Le terapie intensive? Sono ignorante sulla situazione” (6.11). Lo portano via.

Eppure i motori a combustione avranno sempre il loro spazio

Gli elettroni fanno faville, verrebbe da dire. I numeri che leggete in questa pagina lo dimostrano, ancorché siano frutto di un periodo e di provvedimenti particolari. Del resto ce l’hanno ripetuto più volte: per centrare i limiti sulle emissioni, non c’è altra via che la batteria. Eppure i motori termici di ultima generazione, e delle prossime, potranno ancora dire la loro, come spiega Daniel Yergin, vicepresidente degli analisti di mercato di IHS Markit nonché vincitore del premio Pulitzer col suo libro libro The New Map: Energy, Climate and the Clash of Nations: due terzi delle auto in circolazione nel 2050 avranno ancora motori a combustione, perché “la strada prima che la benzina perda la posizione di carburante predominante nei trasporti è ancora molto lunga”. Una transizione dovuta ai tempi di sostituzione e ammodernamento della flotta circolante nel mondo, che fra trent’anni raggiungerà la cifra monstre di 1,9 miliardi di veicoli. Continuando così, secondo le stime di IHS Markit auto elettriche, ibride, plug-in e a idrogeno peseranno per il 60-80% delle vendite nel 2050. Ma il punto da tenere a mente è che almeno per il momento la spinta verso i veicoli elettrificati “non proviene dai consumatori, ma dai Governi le cui politiche evolvono perché modellate dalle preoccupazioni climatiche, dall’inquinamento urbano e dalla congestione del traffico congestione”, al punto che le multe in Europa ai costruttori per il mancato rispetto dei suddetti limiti potrebbero arrivare fino a 40 miliardi di euro nei prossimi 5 anni. Difficile pensare che questi costi extra non verranno trasferiti su chi le auto le compra.

La i20, ancor più sportiva ed elettrificata

La compatta coreana Hyundai i20, arrivata alla sua terza generazione, si rinnova nel design, nelle dotazioni tecnologiche e in quelle motoristiche, imboccando la via dell’elettrificazione. Senza rinunciare a uno stile più sportiveggiante, specie per via del look del paraurti anteriore e posteriore, così come dalla griglia frontale.

L’offerta motoristica include due propulsori e tre trasmissioni: al vertice della gamma c’è l’unità turbobenzina da un litro di cilindrata, disponibile nella versione da 100 Cv di potenza massima. Questo tre cilindri si abbina al sistema ibrido a 48 volt ed è disponibile con la trasmissione manuale a 6 marce o col cambio a doppia frizione a sette rapporti. Il piccolo motore elettrico ausiliario fa da alternatore, da motorino d’avviamento e sostiene il motore termico nelle accelerazioni. Ma la nuova Hyundai i20 è anche disponibile col 1.2 da 84 Cv, abbinato a un cambio manuale a cinque rapporti.

L’impatto visivo è migliorato grazie al tetto abbassato, alla carrozzeria più larga e alla maggiore lunghezza (4 metri totali), mentre il passo è stato aumentato di 10 mm. I centimetri in più sono a tutto vantaggio della spaziosità interna, in aumento. Nell’abitacolo, poi, spicca il pattern a linee orizzontali del ponte di comando, rialzato e sporgente, e dove figurano il nuovo cluster digitale da 10.25” e il touchscreen centrale da 10.25”, dedicato all’infotainment.

Curata la sicurezza, che sfrutta tecnologie come il cruise control adattivo collegato al gps, frenata automatica di emergenza con riconoscimento pedoni, sistema di mantenimento della corsia di marcia e rilevatore di stanchezza del driver. Il listino, infine, parte da 16.950 euro.

Anno 2020, la batteria inizia a mandare in pensione il Diesel

Era nella natura delle cose industriali, ma anche l’effetto delle polemiche. Secondo gli ultimi dati disponibili relativi al mese di settembre, per la prima volta nella storia, in Europa le vendite di vetture elettrificate hanno superato quelle a gasolio. L’insieme delle auto elettriche pure, ibride e ibride ricaricabili ha toccato quota 300 mila unità e la quota del 25% del mercato, contro un 24,8% del diesel: 10 anni fa era il 50%.

È indubbio che l’elettrificazione abbia subito un’accelerazione grazie alle diverse politiche di incentivazione statale, ma la questione è una nuova direzione, impressa dalla volontà dei grandi gruppi automobilistici di costruire una piattaforma di mobilità davvero più ampia, nuove geometrie, con un preciso e inevitabile disimpegno. È stato fin troppo riduttivo pensare che Volkswagen abbia abbracciato l’auto elettrica come reazione al coinvolgimento nel Dieselgate. In ballo c’è stato piuttosto il circolo vizioso in cui da anni è finito il gasolio, unico combustibile dai costi di raffinazione rimasti elevati pur nel clima di crollo generalizzato del prezzo del petrolio. La tecnica poi dimostra che i motori diesel più recenti emettono oggi meno CO2 di quelli a benzina, ma la soglia di filtraggio allo scarico imposta dalle più recenti normative comunitarie ha un costo che ricade pesantemente sul listino di ogni vettura, e diventa ormai improponibile su quelle di piccola e media taglia. Proprio lì dove Volkswagen in settembre ha venduto in Europa meno veicoli elettrificati soltanto di Toyota. Il marchio giapponese da ben 23 anni ha aperto la strada dell’ibrido su cui oggi seguono e crescono Ford, Suzuki, Fiat, Bmw e Mercedes. Renault brilla nell’elettrico puro affiancandogli la nuova piattaforma a doppia motorizzazione realizzata in alleanza con Nissan.

Questa è oggi l’Europa. E si può obiettare che sulla sua nuova facciata verde pesi l’attivismo dei paesi del Nord, da sempre più vicini all’elettrico, ma non è così. Il declino del gasolio arriva da quei mercati che negli ultimi due decenni gli hanno fatto da presidio. In Italia a ottobre la sua quota è scesa al 30,8%, mentre l’elettrificato ha raggiunto un totale del 28,8%, sommando le ibride al 24,7%, le ibride ricaricabili al 2,3% e le elettriche pure all’1,8%. Dove si cresce non passa il gasolio, insidiato nel futuro prossimo anche dal gas naturale, mai così a buon mercato: l’orizzonte è il suo utilizzo come combustibile dei sistemi Range Extender, quelli dove una vettura a batteria ospita a bordo anche un motore tradizionale destinato a produrre energia elettrica, come un generatore di bordo che aumenta l’autonomia e abbatte i costi chilometrici. Mettendo in discussione anche l’ultimo baluardo del Diesel.

Elvis? Un mito di Seneca. Che classici i maledetti del rock

Ben più di Montmartre o di Notre Dame, il clou delle gite scolastiche a Parigi è il pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison al Père-Lachaise – che è poi anche uno dei primi momenti in cui gli allievi del classico apprezzano i loro studi di greco, decifrando l’enigmatica epigrafe Kata Ton Daimona Eaytoy (“secondo il suo dèmone”).

Di tutte le 50 morti di celebri rockstar descritte da Ezio Guaitamacchi in Amore, morte & rock’n’roll (Hoepli), quella di Jim Morrison non è soltanto una delle più controverse (dove avvenne esattamente l’overdose? Fu per l’eroina “cinese” spacciata da un nobilastro francese che dormiva con Marianne Faithfull, e già responsabile della morte di Janis Joplin in California?), ma è anche l’unica avvenuta sul vecchio continente. Ingombrati di memorie millenarie, gli europei faticano talora a capire quanto le gesta e le vite dei moderni aedi siano centrali per la cultura angloamericana: per questo le notizie e le immagini che il libro fornisce sui funerali, le sepolture e i monumenti aiutano a costruire una sontuosa geografia culturale della memoria collettiva britannica e soprattutto statunitense – non solo la Graceland di Elvis, la Neverland di Michael Jackson, o il Paisley Park di Prince, non solo le ville inglesi di Bonzo o George Michael, o il Chelsea Hotel di New York dove Sid Vicious (forse) squartò Nancy Spungen, ma anche luoghi meno glamour: il sordido motel dove nel 1964 spararono a Sam Cooke, la riva del Mississippi dove annegò Jeff Buckley nel 1975, il campo di grano dell’Iowa su cui si schiantò l’aereo di Buddy Holly nel 1959, o il lago del Wisconsin in cui s’inabissò quello di Otis Redding nel 1979. O, più di recente, le strade violente della Florida o della California dove caddero crivellati rapper come XXXTentacion, Tupac Shakur e Biggie Smalls.

Rei di aver raggiunto le vette divine dell’arte, i cantanti qui allineati somigliano agli Argonauti i cui exitus diri (“trapassi terribili”) vengono descritti dal coro della Medea di Seneca: tutti colpevoli di aver violato il mare con la carena della nave Argo. Morti spesso orribili e violente, quelle degli Argonauti moderni, talora sopraggiunte all’apice del successo, quando gli dèi potevano invidiarli, talaltra a un’età ormai matura, quasi a saldo di una carriera al limite del collasso – e i fulmini di Zeus sono per lo più l’alcol, i farmaci e la droga, mediati da partner gelosi, da loschi pusher, da dottori compiacenti o da manager senza scrupoli. I morti giovani “li amano gli dèi”, e più facilmente sfociano nel mito: Jimi Hendrix (27 anni) è stato stroncato dall’abuso di farmaci tanto quanto Tom Petty (67), ma solo per il primo la morte è diventata parte integrante della leggenda; lo stesso décalage vale per Amy Winehouse (27) e Chris Cornell dei Linkin’ Park (53), ambedue condannati dall’alcol e dall’instabilità psichica; così anche due voci immortali come Dolores O’Riordan dei Cranberries e Whitney Houston, entrambe trovate strafatte riverse in una vasca.

Il libro di Guaitamacchi ripercorre in realtà un genere raro, inaugurato da un’opera latina scritta nel 1529 e pubblicata postuma giusto 400 anni fa: il De litteratorum infelicitate del bellunese Pierio Valeriano. In questo dialogo, dedicato alle tristi fini di tanti ingegni del nostro Umanesimo (da Pico della Mirandola a Giano Parrasio a papa Leone X), si osserva che “quegli intellettuali che speravo di vedere erano morti sciaguratamente in così grande numero, portati via prematuramente da un destino crudele… alcuni stroncati dalla peste, … chi trucidato con le armi, chi stremato da lunghi tormenti; altri ancora si erano tolti la vita”. Anche per alcune di quelle star la fine si tinse di giallo: Angelo Poliziano morì nel 1494 per una malattia improvvisa, per un avvelenamento o per la sifilide? Lo stesso identico dubbio aleggia sulla scomparsa del bluesman Robert Johnson a Greenwood Mississippi (1938). Il letterato friulano Giovan Francesco Fortunio, autore della più antica grammatica dell’italiano, si buttò dalla finestra del Palazzo di Ancona, dove era podestà nel 1517, oppure fu spinto giù da qualcuno? Analoga incertezza grava oggi sul presunto suicidio del dj svedese Avicii in Oman (2018), oltre che notoriamente su quello di Kurt Cobain a Seattle nel 1994. Per non parlare delle tante voci sui veri moventi di chi ammazzò il poeta ferrarese Ercole Strozzi nel 1508, o l’immenso John Lennon nel 1980.

Immortali, universali, e non di rado (Guaitamacchi lo segnala sempre con cura) profetiche nel prefigurare la sventura dei loro autori, le canzoni di queste sventurate rockstar rimangono comunque con noi. Torna buona, dunque, la consolatoria conclusione di Pierio Valeriano: “Salve, o alunni delle Muse che vi preoccupaste di coltivare il vostro divino ingegno piuttosto che la salute fisica! Noi, finché saremo vivi, non permetteremo mai che le vostre opere cadano nell’oblío”.

Rudy Giuliani: da “sceriffo” a paraninfo di The Donald

Da procuratore antimafia “di ferro” ai tempi di Reagan, e collaboratore di Falcone e Borsellino contro il narcotraffico, a sindaco sceriffo di New York, in prima linea dopo l’attacco alle Torre gemelle, per finire come avvocato personale “azzeccagarbugli” di Donald Trump e della sua battaglia per invalidare il voto. Al confronto, la brutta figura rimediata accanto a una giovane donna in una stanza d’hotel – scena poi mostrata nell’ultimo film di Borat – potrebbe sembrare una performance d’autore. “Vinceremo queste elezioni, anzi, le abbiamo già vinte – ha spergiurato in conferenza stampa in Pennsylvania l’ex primo cittadino con lo stesso piglio con cui ha combattuto il crimine newyorchese – concludendo: “È una questione di contare i voti correttamente”. L’evocazione di brogli senza prove nonché l’annuncio di un ricorso federale prima di vedere i risultati, non si attaglia a un uomo di giustizia che ha ricevuto il suo primo incarico come procuratore di Manhattan a soli 27 anni, né ai riconoscimenti collezionati da Giuliani negli ultimi 20 anni. Uomo dell’anno nel 2001 per il Times quando a braccetto degli eroi pompieri risollevò la Grande Mela dall’attentato del Millennio, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana e Cavaliere dell’Ordine di Santi Maurizio e Lazzaro, non è certo la prima volta che “Rudy” ridicolizza la sua immagine con gaffe degne del suo assistito. Non ultima quella in cui assicurava che “nessuno muore più di Covid”. Quella dei brogli sì, potrebbe essere l’ultima barzelletta.

Latini, afro e asiatici: etnie divise secondo manuale

Se non è ancora certo chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, è già possibile capire come hanno votato le diverse comunità etniche che compongono la demografia degli Stati Uniti: bianchi, latini, afroamericani e asiatici sono, in ordine di grandezza, le quattro etnie principali. Nel 2016 Donald Trump riuscì a strappare a Hillary Clinton gli Stati della Rust belt – ossia il Midwest impoverito dal declino industriale – abitato prevalentemente da bianchi protestanti di origine irlandese e inglese. Questa volta sembra invece che buona parte degli elettori di tutta la Rust belt abbia dato la preferenza al democratico Joe Biden. I latini (la seconda etnia dopo quella bianca anglosassone protestante) cioè coloro che provengono da Cuba, dal Centro e Sudamerica si sono divisi e ancora non è certa la percentuale di voti, ma sembra stia rimontando Trump. Gli afroamericani hanno, come previsto, votato come la volta scorsa per il candidato democratico. A causa degli omicidi di persone di colore da parte della polizia e degli scontri animati da Black Lives Matter e Antifa molti neri che finora non avevano mai votato, lo hanno fatto a favore di Biden. La maggioranza degli asiatici avrebbe scelto Biden. I latini e gli afroamericani non si sono mai alleati per sostenere un candidato unico e questa divisione ha sempre giovato ai Repubblicani. In seguito a scontri e atti di vandalismo di alcuni manifestanti durante gli ultimi mesi e impauriti dalle accuse di “deriva socialista” del Partito Democratico alimentate da Trump, i latini hanno votato per il tycoon. Considerato che negli Stati-chiave del Midwest la popolazione è costituita prevalentemente da bianchi e afroamericani e che lo spoglio è ancora in corso, il voto delle persone di colore è diventato cruciale per l’esito delle elezioni. Ma vediamo nei dettagli il quadro che si è finora delineato.

Afroamericani: secondo un sondaggio di Edison Research, l’87% dei neri americani ha votato per il candidato democratico Joe Biden, mentre il 12% ha votato per il presidente Trump.

Bianchi anglosassoni: sempre dalle proiezioni di voto si evince che il 56% ha votato per Trump mentre il 42% ha votato per Biden. Uno dei motivi per cui il candidato democratico ha puntato su uno degli Stati della Rust Belt, la Pennsylvania, è il fatto che una delle città dello Stato, Scranton, è il suo luogo di nascita che è anche una roccaforte democratica. La contea di Lackawanna di cui la città fa parte è l’incarnazione della coalizione democratica della vecchia scuola, ancorata al lavoro. Qui come in altre contee la classe lavoratrice rappresentata dai maschi bianchi non pare ritenere la politica industriale messa a punto da Trump conveniente per la propria crescita economica e sufficiente, inoltre molti hanno sostenuto Biden perché critici nei confronti di Trump per la sua gestione della pandemia.

Latini: il sondaggio afferma che il 65% della comunità latina ha votato per Biden e il 32% per Trump. Ma i dati che stanno emergendo mostrano una chiara rimonta di Trump. Del resto i “latinos” vengono da nazioni con un trascorso storico diverso se non opposto. Quelli dell’Arizona, uno degli Stati fondamentali per la vittoria, in ambito politico non la pensano come quelli del Texas e della Florida dove ha vinto nuovamente Trump. In Texas, dal 41 al 47 % degli elettori ispanici ha votato Trump in diverse contee di confine fortemente latine nella regione del Rio Grande, roccaforte democratica. In Florida, Trump ha vinto il 45% dei voti latini, un miglioramento di 11 punti rispetto alla sua prestazione del 2016.

Asiatici: il 63% ha votato per Biden e il 31% per Trump.