“La sinistra radicale vuole solo il caos: ci saranno violenze”

Armi in vista, i sostenitori di Trump in Arizona “presidiano” i seggi dove si stanno contando i voti. Sono i supporter repubblicani che hanno risposto alla chiamata del presidente sui “brogli”. A New York, la polizia ha arrestato 50 manifestanti, 11 a Portland, altri arresti a Minneapolis. La tensione cresce anche a Washington. Fino a ieri nella Capitale c’era anche Enrique Tarrio, il presidente dell’organizzazione dei Proud Boys, il gruppo di estrema destra che nelle piazze di Portland si è già scontrato con Antifa, il movimento antirazzista.

Cosa sta succedendo a Washington? Da giorni si parla di proteste.

I risultati stanno tardando. Siamo in un momento di calma prima della tempesta.

Come si risolverà?

C’è poca chiarezza, non abbiamo certezza sui numeri delle preferenze. Inoltre sono stati denunciati brogli. Bisogna agire, fissare dei punti certi.

Questo stato di tensione potrebbe portare ad azioni violente?

Ci saranno degli scontri. In tanti, nascosti dalla sinistra radicale, tenteranno di approfittare della debolezza delle istituzioni. Saccheggi e devastazione. I Proud Boys non partecipano a proteste, ma saremo in strada accanto ai cittadini. Pronti a difendere la proprietà privata di altri americani.

Con le armi?

Lo dice il Secondo emendamento. Ognuno ha il diritto di difendere i propri beni. E se qualcuno attacca, è nostro diritto difenderci.

Ci sono delle città più a rischio, secondo la vostra prospettiva?

A Portland ci saranno scontri, come quelli dei mesi scorsi. Ma tutte le grandi città saranno scosse dalla violenza.

Qual è lo Stato che potrebbe avere più problemi?

Mi sembra che tutto si stia concentrando sul Nevada. Come può uno Stato così piccolo, con solo sei grandi elettori, decidere per tutti gli Stati Uniti?

Ma non è difficile giustificare che una elezione in un Paese democratico come gli Stati Uniti possa portare a queste reazioni?

La stampa straniera, soprattutto europea, non si rende conto che abbiamo una cultura diversa. Non capisco come ci descrivete. La politica da voi è molto diversa da come la interpretiamo qui.

Si può parlare, secondo la sua prospettiva, di una svolta a destra degli Usa?

Non posso dire che siamo un Paese di destra, al contrario vedo sempre più elementi che ci spingono verso il comunismo. Il socialismo cresce. Dovrebbe essere un tabù. Se fossimo un Paese di destra, non si dovrebbe nemmeno poter dire ‘socialismo’.

Per lei il candidato democratico Biden è un socialista?

No. Ma il problema non è Biden. Il problema è il suo partito, e le nuove correnti che lo hanno sostenuto nella corsa alla Casa Bianca. Sono loro la minaccia, lo controllano. Per questo è nata una destra alternativa a quella dei Repubblicani. Non a tutti i Proud Boys piace Trump, ma nessuno di noi vuole lasciare il Paese in mano ai radicali di sinistra. Persone come Alexandria Ocasio Cortez non le avevamo mai viste nei palazzi della politica.

Se vince Biden, cosa faranno i Proud Boys in quattro anni?

Siamo un’organizzazione di uomini fieri di essere occidentali. Non importa chi vinca, vogliamo un Paese migliore.

Da Biden a Trump, occhi puntati sulla Pennsylvania

Anche i giudici, non solo gli elettori, votano per Joe Biden futuro presidente: azioni legali intentate da Donald Trump vengono respinte in Pennsylvania e in Georgia, ma la campagna del magnate rilancia in Nevada, dove ancora si contano i voti, e sollecita riconte in Wisconsin e Michigan (dove però subisce uno smacco). E proprio la Pennsylvania diventa punto centrale della campagna con i suoi 20 Grandi Elettori. Intanto, gli osservatori dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che sono abituati a monitorare le elezioni del Terzo mondo e di regimi autoritari, giudicano l’atteggiamento di Trump “un abuso di potere”, non avendo riscontrato nessun broglio ai seggi di Usa 2020: “Abbiamo fatto controlli e non abbiamo trovato alcuna irregolarità”, dice il direttore della missione di sorveglianza elettorale, Michael Georg Link.

La missione dell’Osce continua a monitorare i seguiti delle elezioni Usa del 3 novembre. Proteste e tensioni, con qualche ferito, molti arresti e frizioni fra sostenitori di Trump e attivisti di Black Lives Matter, a Minneapolis, dove viene bloccata la Interstate 94, a Portland, che è ormai la ‘capitale dell’America insurrezionale’, e pure in Arizona, a Houston, Denver, Detroit, Pittsburgh, New York, Los Angeles, San Diego, Seattle.

“La campagna è finita, i voti sono stati espressi ed è ora di rispettare la volontà degli elettori. Non consentirò a nessuno di fermare lo spoglio. Sono voti legali e saranno contati”, dice il procuratore della Pennsylvania, Josh Shapiro, respingendo l’azione di Trump, che aveva già definito “sbagliata”. E un giudice della Georgia non avalla una contestazione dei voti per posta. Forte di questi verdetti, la campagna di Biden afferma: “Le azioni legali della campagna di Trump sono senza merito: sono solo un tentativo di ritardare il risultato elettorale. Mentre il magnate, che conserva “un sentiero verso la Casa Bianca”, fin quando non saranno ufficiali verdetti a lui contrari in Arizona e Nevada, twitta: “Fermate il conteggio!”, anche se la pretesa di bloccare lo spoglio dopo l’Election Day non ha alcun fondamento perché negli Usa s’è sempre continuato a contare le schede dopo il giorno delle elezioni. La campagna di Biden alza la posta e fa sapere d’aspettarsi di vincere in Pennsylvania “con un margine considerevole”. Degli Stati ancora ‘aperti’, i primi a chiudere i conti dovrebbero essere la Georgia, dove Trump aveva meno di 20 mila voti di vantaggio, con il 96% delle schede scrutinate, e il Nevada, dove Biden era avanti di neppure ottomila voti, con l’86% delle schede scrutinate.

Con il risultato elettorale sempre più incerto, il genero e consigliere del presidente, Jared Kushner, s’è messo alla ricerca di una figura alla James Baker in grado di condurre una battaglia legale su vari fronti. Baker, ex Segretario di Stato ed ex stratega elettorale di casa Bush, guidò con successo uno stuolo di avvocati nella ‘battaglia della Florida’ del 2000, decisa dalla Corte Suprema.

La mancata ‘onda blu’, attesa da molti, potrebbe tradursi in un assottigliamento della maggioranza dei Democratici alla Camera, che però resterà in mano loro, e fiacca la leadership di Nancy Pelosi, che s’appresta a riprendere i negoziati sugli stimoli all’economia per fare fronte alla pandemia, che ha ieri stabilito un nuovo record di contagi in un solo giorno con oltre centomila casi. Nel Midwest e nelle Grandi Pianure, il coronavirus non è mai stato così virulento. Al Senato la situazione è per ora di equilibrio: 48 pari, con due seggi strappati dai Democratici e uno dai Repubblicani. Se Biden sarà presidente, ai Democratici basterebbe assicurarsi due dei quattro seggi ancora ‘ballerini’, perché avrebbero il voto determinante della vicepresidente Kamala Harris, che diverrebbe la presidente del Senato con diritto di voto in caso di parità.

Chi sa già che la sua corsa è stata un flop è Kanye West: il rapper, marito di Kim Kardashian, era candidato indipendente sulle schede di 12 Stati e ha raccolto appena 60 mila voti in tutto, fra cui il suo, espresso in Wyoming, dove non era neppure in lizza – era la prima volta che il rapper votava –. Se la sua missione era quella di sottrarre voti neri a Biden, per fare un favore al suo amico Trump, è fallita. Ma il rapper guarda già al 2024: sui suoi social, dà appuntamento ai fan fra quattro anni. Magari raddoppia, candidatura e voti.

Mail Box

 

Poesia per Gigi: il tuo palco è il cielo

Giunge per tutti, inevitabilmente,

Il momento dell’addio al mondo:

Giustificato da ciò che il destino

Intende per ogni essere vivente.

Premiata, però, è già la tua vita,

Rivolta in continuazione a

Offrire quel sollievo che, porgendo

Immediato sorriso con l’autoironia

Espressa in memorabili esibizioni,

Ti consacrò indiscutibile mattatore

Teatrale e cinematografico, poiché

In cielo, pur, sorridono gli angeli.

Eugenio Mosconi

 

La Lega non silenzierà le verità di “Report”

Ho letto l’articolo che descrive la guerra dichiarata dalla Lega e i suoi amici alla utile e coraggiosa trasmissione di Ranucci. Mentre leggevo, stentavo a credere che vi siano ancora tentativi malriusciti di manager e politici che non vogliono che si sappia la verità su fatti ascrivibili a loro amici o alla loro parte politica.

Paolo Benassi

 

Ritratti da incorniciare: complimenti a Federighi

I ritratti di Francesco Federighi mi piacciono molto e sono anche divertenti! Il ritratto di Sgarbi l’ho messo in cornice. Vi ringrazio!

Graziella Iaccarino-Idelson

 

Regioni, un disastro economico e sociale

Caro Travaglio, da almeno 30 anni cerco invano di convincere qualcuno della necessità di abolire le Regioni: sono un vero cancro che è stato introdotto per aumentare il debito pubblico e per tenere sempre sotto ricatto un popolo intero. Adesso vedo con grande gioia che qualcuno s’è accorto dove si trova l’origine di tutte le malattie dell’economia italiana.

Angelo Casamassima Annovi

 

IPhone 6 non supporta Immuni, come fare?

Un lettore vorrebbe obbligare tutti a scaricare l’app Immuni minacciando multe salatissime per chi non lo fa. Anch’io e mia moglie avremmo voluto scaricarla ma ciò non è stato possibile in quanto l’iPhone 6 non supporta Immuni. Per poter scaricare l’applicazione ci sono due possibilità: o chi ha realizzato l’app la modifica rendendola scaricabile anche sul mio cellulare o qualcuno, magari il lettore in questione, ci regala almeno 1.000 euro per comprare due nuovi IPhone.

Pietro Volpi

 

Si parla troppo di Usa e poco di vaccini

In Lombardia, Regione più ricca d’Europa, ancora senza vaccino antinfluenzale, criticità per anziani. Si parla solo di Covid e delle elezioni americane.

Salvatore Rosselli

 

Caro Toti, gli anziani sono una risorsa

Carissimo presidente Toti, sono una di quelle persone, secondo lei inutili, che non servono più. Ogni mattina ho d’accudire un anziano di 87 anni, da tre anni invalido. Io ne ho 83, invalida civile dall’86, e tutt’oggi sto curandomi per un tumore al seno. L’Asl mi doveva mandare un aiuto, ma per quanto abbia insistito è stata lettera morta; eppure io continuo a fare da moglie e badante. I vecchi non sono solo una risorsa se i figli sono in difficoltà, ma lo sono anche materialmente. Ma forse queste cose non le può capire.

Anna Ramagini in Costa

 

Pirandello e Proietti, i re dell’umorismo

Pirandello fondò vita e opera sull’umorismo fin dai suoi esordi. Proietti ha sviluppato Pirandello dalla pagina alla gente, e il palcoscenico era solo il suo splendido veicolo.

Mario Dentone

 

Opere e spettacoli: “The show must go on”

Perché le nostre strutture qualificate alla rappresentazione di opere di eccellenza universale devono chiudere? Sono una grande ricchezza della nostra nazione da investire attraverso creatività, operosità e l’impiego di tecnologie digitali! Tutto ciò senza anticipare alcun costo di produzione, in quanto la preparazione e la programmazione della stagione lirica e teatrale sono già state tracciate. È sufficiente riappropriarsene perché si dia inizio agli spettacoli con le modalità e i tempi calendarizzati. Senza pubblico, in massima sicurezza anti-Covid.

Emanuele e Marco Sansolini

 

“Il Fatto”, unico giornale corretto e puntuale

Caro Marco, compro il tuo giornale ogni santo giorno, anche quando sono certo di non poterlo leggere in tempo. Ritengo doveroso sostenervi, essendo il solo giornale a dare notizie corrette e puntuali. Grazie per il tuo impegno e quello della tua fantastica squadra. Avanti così!

Annunziato Labate

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nel titolo di pagina 18, abbiamo scritto che Steve McQueen è “leggenda da 50 anni”, anche se l’attore è morto 40 anni fa. Ce ne scusiamo con i lettori.

Fq

Teatro. Le sale chiuse sono una ferita, ma evitiamo la retorica (in pandemia)

 

Buongiorno, la lettura dell’intervento di Goffredo Bettini lo scorso 29 ottobre mi ha sconfortato. Come si fa a pensare che “sfogliare l’album di famiglia” possa compensare l’inguaribile ferita della chiusura dei teatri? Perché non la tombola o le carte? Persino ai soldati al fronte in guerre lontane vengono talvolta inviate piccole compagnie teatrali. Auspico invece che la Rai, se si ricorda di essere un servizio pubblico, si faccia promotrice della messa in scena di alcuni degli spettacoli bloccati. Gli attori potrebbero lavorare e gli spettatori privati della rappresentazione dal vivo, potrebbero vederle su Rai 5. Sarebbe molto utile anche per le scuole.

Franco Villardi

 

Gentile signor Villardi, l’intervento di Goffredo Bettini sul nostro giornale era di ampio respiro e molto più circostanziato e cauto di quanto lei lo dipinga (“Non credo che, se transitorio, lo stop [degli spettacoli, ndr] rappresenti necessariamente uno spegnimento totale di ogni possibilità di crescita intellettuale e spirituale”). Ciò detto, condivido con lei che la chiusura dei teatri rappresenti un’“inguaribile ferita”, e sfido chiunque a sostenere il contrario. Tuttavia, la sua e la mia – “la nostra” – resta una considerazione ovvia, forse persino banale: “Viva la cultura, bello il teatro, l’arte è necessaria…” rischiano di rimanere slogan vuoti, innocui e buoni per ogni cattiva coscienza. Al di là della pelosa retorica – oltretutto di pessimo gusto, a pandemia in corso –, purtroppo i dati dicono tutt’altro, ovvero che in Italia la cultura non si consuma, non si fruisce, non si condivide. Non da oggi: il sistema è ingessato da anni. Figuriamoci il teatro: secondo i numeri Istat più recenti (2018), solo il 19,2 per cento dei connazionali dai 6 anni in su ha dichiarato di essere andato a teatro almeno una volta in un anno. Le percentuali più alte interessano bambini e ragazzini, cioè coloro che i teatranti definiscono cinicamente i “deportati con i pullman dalle scuole”. Chi a teatro non ha proprio messo piede sono l’89,2 per cento dei sardi e l’86,5 per cento dei molisani. Ora che le sale sono chiuse, le televisioni – Rai, Mediaset, Sky e La7 – si sono impegnate col Mibact a “rafforzare la presenza della cultura nei palinsesti”, messinscene comprese. Ma anche sfogliare un’opera di Shakespeare o Cechov non sarebbe male.

Camilla Tagliabue

L’islamofobia e la laicità sfigurata

In principio i francesi li chiamavano arabi, appellativo che assume connotazioni peggiorative alla fine degli anni 70, producendo ingiurie come bicot o bougnoule. Poi gli arabi diventano islamici, o peggio islamo-fascisti se non prendono le debite distanze pubbliche dagli atti terroristici compiuti in nome di Allah.

Dopo l’11 settembre il secondo epiteto si diffonde. Il giornalista Thomas Deltombe critica nei primi anni 80 l’“islamizzazione degli sguardi”. Sono gli anni in cui si discute l’interdizione del velo indossato dalle donne musulmane negli spazi pubblici. Alcuni interpretano la proibizione come il divieto di nascondere il proprio volto ovunque, mentre la legge si applica solo nelle istituzioni pubbliche: “Il cittadino ha il diritto di credere o non credere, e può manifestare all’esterno tale credenza o non-credenza, nel rispetto dell’ordine pubblico”, così scrive Nicolas Cadène, membro dell’Osservatorio della Laicità, in un ottimo manuale uscito in ottobre con la prefazione di Jean-Louis Bianco, presidente dell’istituto governativo (En finir avec les idées fausses sur la laïcité – Farla finita con le idee false sulla laicità). Molti chiedono subito l’espulsione dall’Osservatorio dei due autori. Fortunatamente il Presidente Macron non cede.

Sulla rivista Regard, Aude Lorriaux ricorda la definizione dell’ebraismo che Sartre diede nel 1944: “È l’antisemita che crea l’Ebreo”. Definizione riduttiva e giustamente controversa, che però fu adattata all’Islam dalla scrittrice Karim Miské nel 2004: “È l’islamofobo che crea il musulmano” (è discutibile anche questa variazione: l’islamofobo semmai “crea” l’Islam radicale).

Grosso modo è questa la storia che precede gli attentati delle ultime settimane, e le dispute su Islam e laicità ricominciate in Francia. Più ancora che in passato, gli argomenti islamofobi escono dai territori di estrema destra e diventano linguaggio non sempre esplicito ma dominante. Macron scongiura le derive, ma è pur sempre lui ad aver denunciato il “separatismo” che affligge la vasta comunità musulmana (4,7 milioni). A Nizza promette sostegno ai cristiani martoriati ma non ai musulmani che col terrorismo non hanno nulla a che fare.

Il ministro dell’Educazione Blanquer accusa di complicità con il terrorismo chiunque difenda nelle accademie l’“intersezionalità”, termine coniato dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali o religiose. Il ministro dell’Interno Darmanin ordina la chiusura della moschea di Pantin presso Parigi (aveva diffuso un video sulla vicenda Paty), di due associazioni che lottano contro l’islamofobia, e dei reparti halal nei supermercati. Nel mirino del ministro: i deputati “islamo-gauchisti” di France Insoumise, il partito di Mélenchon. La laicità viene sfigurata, trasformata in uno strumento di guerra anziché di convivenza con comunità gelose della loro autonomia, nel rispetto dell’ordine pubblico.

Tranne alcune eccezioni, anche in Italia lo sguardo si islamizza e la laicità è presentata come valore supremo, refrattario a compromessi (“Ogni compromesso è compromissione”, twitta Darmanin, mentre nel suo manuale Cadène afferma che la laicità “non è affatto un valore ma un metodo”). Alcuni scrivono che le religioni sono “categorie del passato”. Sono citati Cristianesimo e Islam (non l’Ebraismo, protetto da salutare tabù). L’eccezione ebraica rende ancora più offensiva la designazione di Cristianesimo e Islam come “categorie”. Chi ci dà il diritto di fissare la data di scadenza delle religioni, quasi fossero etichettabili cibi in scatola?

Un post di Carlo Rovelli, filosofo della scienza, accende la miccia in Italia due giorni dopo la feroce decapitazione del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine. Per spiegare cosa sia la libertà d’espressione, Paty aveva mostrato in classe una vignetta di Charlie Hebdo – la più brutta, quella che illustra il Profeta nudo, inginocchiato e col sedere scoperto. Non è ancora chiaro cosa abbia detto agli alunni musulmani: se veramente li abbia invitati a girare la testa o andarsene, qualora si sentissero offesi. Se così stanno le cose Paty resta vittima di un’efferatezza allo stato puro, ma la sua lezione di educazione civica non era ben fatta.

È quello che sostiene Rovelli, ragionando così: “Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello. Ma penso che offendere, e poi – dopo essersi resi conto che offendere ferisce delle persone –, continuare ancora a offendere non sia un comportamento né apprezzabile, né ragionevole. Dobbiamo vivere insieme su questo pianeta. Non possiamo farlo rispettandoci? Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto. E, diciamoci la verità: le avete viste? sono davvero offensive. Crediamo forse di essere più democratici, più paladini della libertà, offendendoci a vicenda? Offendendoci, non facciamo che alimentare la violenza, dividerci in gruppi in conflitto, mostrare il grugno duro ‘io non mi faccio spaventare da voi anche se mi uccidete!’, ‘io sono più duro di te’”.

Non solo alimentiamo la violenza. Alimentiamo quello che Macron vuol scongiurare: il separatismo di intere comunità. E questo in tempi di lockdown sanitari, quando la popolazione è chiamata a unirsi contro ogni secessionismo negatore del Covid. Quando è consigliabile facilitare i compromessi con tutte le comunità religiose, anche le fondamentaliste.

L’islamofobia più o meno latente si dichiara favorevole a una laicità che scambia per secolarismo o intiepidirsi delle religioni, e minimizza le virtù del compromesso. Il sociologo François Héran, uno dei massimi esperti di migrazione nel Collège de France, ricorda opportunamente come compromesso e compromissione non siano mai sinonimi. Cita il filosofo Paul Ricoeur: “Il compromesso non è un’idea debole, ma al contrario estremamente forte. Nel compromesso ognuno resta al suo posto, e nessuno è privato del proprio ordine di giustificazione”. La laicità francese è una grande conquista, ma rischia il fallimento quando se ne fa abuso.

Se nelle scuole si discutesse di libertà di espressione senza ripetutamente mostrare le vignette di Charlie Hebdo, e si spiegasse quel che essa significa con le parole – evocando ad esempio la storia delle caricature politico-religiose in Francia come suggerito da Héran – avremmo fatto un importante passo avanti verso compromessi che non dividono le nazioni oltre misura.

 

Il voto Usa secondo l’ecumenismo di Vespa

Eh, se fossimo in America… due partiti, due candidati, o bianco o nero, se rinasco voglio nascere a Washington, ammazza gli americani… Be’, forse non va proprio così, forse la questione è un po’ più complessa; ma non è detto sia un male per tutti. Prendete i nostri talk show, gli unici teatri che non solo non hanno chiuso, ma mercoledì sono rimasti aperti tutta la notte. Costretti a camuffare le loro simpatie, se non il loro libro paga, una volta ogni quattro anni opinionisti e conduttori hanno il loro liberi tutti, grazie all’Election day possono gettare la mascherina, dire chiaramente da che parte stanno. Piovono pochi dati certi e frammentati, dunque dire tutto e il contrario di tutto a seconda delle convenienze non è un’opzione. È un dovere, nella notte brava degli americani a Roma.

Su Rete 4, Nicola Porro ospitava un tea party repubblicano con tutti i crismi. Daniele Capezzone faceva il calcolo dei seggi di Trump come alla sala Bingo (sto per uno a fare cinquina), Paolo Guzzanti annunciava la presa della California, e secondo alcune indiscrezioni Trump era in vantaggio anche in Emilia Romagna. In ogni caso, era la sintesi di Maria Giovanna Maglie, “The Donald” aveva già vinto anche se avesse perso. Rai3 rispondeva con Giovanna Botteri che si collegava con se stessa che si collegava con Lucia Annunziata che si collegava con Giovanna Botteri. Qui l’iniziale soddisfazione pro Biden si è mutata in prudenza, ma niente panico, siamo radical chic. In attesa dei dati della Pennsylvania, una conclusione si poteva trarre: “The Joe” aveva già vinto anche se avesse perso. La cera migliore di tutti, va detto, l’aveva Bruno Vespa su Rai1. Coadiuvato dal fido Antonio Polito, la sua maratona sprizzava ecumenismo cosmopolita da ogni dato: la Cina, la Merkel, i mercati… Una ennesima lezione di equivicinanza: mai schierarsi con un vincitore prima che abbia vinto. Abbiamo disfatto la Democrazia cristiana, ma non ci disferemo mai dei democristiani.

Visti i gravi danni, è il momento di ripensare agli “sgovernatori”

A seguito della emanazione del nuovo Dpcm recante disposizioni per fronteggiare l’epidemia in corso, si è potuto leggere sulla stampa: “Dpcm: la rivolta dei Governatori” (Il Corriere della Sera, La Verità); “il NO dei Governatori” (La Verità); “Conte litiga con i Governatori” (Il Tempo); “I Governatori muovono molte contestazioni” (La Stampa); “L’esecutivo non si piega alle proteste dei Governatori” (Il Messaggero); “Il Governatore campano contesta le tre zone” (Repubblica). Il Fatto, in prima pagina e nell’editoriale del direttore, ha parlato, con efficace ironia, di “Sgovernatori”. Si può constatare come si sia diffuso nel gergo giornalistico, l’uso del termine “governatore” per designare il presidente della giunta regionale. Si tratta di un uso improprio, riconducibile a un fenomeno di acculturazione giornalistica al modello federale statunitense, poiché nell’ordinamento italiano nessuna norma prevede tale titolo. Stabilisce, infatti, l’art. 121 della Costituzione che “sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la Giunta e il suo presidente… il Presidente della Giunta rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta”. Quindi, affermare che in Italia, il Presidente di una giunta regionale è un “Governatore” è un errore sia sotto il profilo terminologico che giuridico ingenerando nella opinione pubblica l’errato e fuorviante convincimento che il Presidente della giunta regionale abbia, in quanto “Governatore”, un ruolo, a livello locale, analogo a quello del Capo del Governo a livello nazionale o sia equiparabile, per carica e poteri, al Governatore di uno Stato della federazione statunitense. Alcuni di questi “fittizi Governatori” in un delirio di onnipotenza, hanno assunto una posizione di scontro con il Governo contestando i provvedimenti adottati dall’esecutivo per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Occorre far capire a coloro che amano farsi chiamare “Governatori”, ma che “Governatori” non sono, bensì (semplici) “Presidenti delle giunte regionali” (art. 121 Cost.). Del resto, l’art. 121 Cost. stabilisce che “Il Presidente della giunta regionale… dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica”. Questo improprio comportamento di molte Regioni non deve meravigliare sol che si consideri che lo sfascio della sanità pubblica deve, in gran parte, ricondursi alle irregolarità, agli sprechi, alle corruttele e alle turbative degli appalti che negli anni hanno investito numerose regioni. Basterà ricordare il commissariamento della Sanità regionale in Calabria; la condanna del “Governatore” Formigoni per corruzione nell’ambito della sanità della Lombardia ove, peraltro, si è verificato l’incredibile caso della nomina (regionale) a “manager” dell’Asl di Pavia del calabrese Carlo Chiriaco, già destinatario di misura di prevenzione e poi condannato per 110 – 416 bis (oltre che per corruzione e turbativa d’asta) a 12 anni di reclusione con sentenza definitiva. E come non ricordare lo scandalo che travolse la sanità del Lazio e che portò all’arresto per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa per oltre 40 milioni di €euro, di “Lady Asl” e di alcuni assessori – compreso quello alla sanità – della “giunta Storace” e del capo-gabinetto, oltre vari dirigenti delle Asl. Senza dimenticare la disdicevole attività di designare ai vertici delle aziende sanitarie personaggi la cui competenza, nella maggior parte dei casi, consisteva esclusivamente nell’essere in possesso di una tessera di partito. L’indecoroso spettacolo offerto in un momento drammatico, impone di ritenere che è forse giunto il momento di ripensare il ruolo di questi “Sgovernatori” e delle stesse Regioni che hanno contribuito in maniera determinante allo sfascio della sanità pubblica.

 

Dati e aiuti concreti: la sfida al Covid-19 ora si può vincere

Alla fine, il nostro libro – Covid segreto (Paper First) –, che fa chiarezza sulle cose non dette o dette male a proposito della pandemia di Covid-19, è arrivato in libreria contemporaneamente alla promulgazione del nuovo Dpcm deciso per contrastare la seconda emergenza in atto.

Una coincidenza certo, ma a suo modo significativa, vista la lunga e tormentata gestazione del provvedimento, che segna una svolta nella strategia di attacco al virus del governo. Perché ha avuto ragione il ministro della Salute Speranza a definire “terrificante” la situazione, nel senso dell’imponenza della crescita quotidiana di tutte le curve.

Da parte sua, il presidente del Consiglio Conte ha giustamente ribadito con forza che l’obiettivo di riferimento per tutti deve essere quello di cercare di evitare un nuovo lockdown generale. La giusta sintesi si è trovata nella scelta di modulare interventi mirati nelle zone, negli orari e sulle attività di volta in volta più a rischio. Anche perché ci siamo convinti, esperienza alla mano, che non si può puntare ad azzerare la curva del contagio, quanto piuttosto si deve mirare a piegarla e stabilizzarla.

Molti già giudicano troppi i tanti parametri presi in considerazione per identificare le diverse fasce regionali dove intervenire con misure diverse. Ma noi ci permettiamo di insistere sul fatto che una pandemia di lunga durata smette di essere un problema solo sanitario per diventare una sfida umana, sociale, economica e politica. Nel senso di una scelta di valori guida.

Pensiamo al dibattito sulla “produttività” degli anziani come criterio per la graduazione degli interventi. Non appartiene alla nostra civiltà la distinzione fra cittadini “utili” e “inutili”. Tutti vanno protetti col medesimo impegno, anzi gli anziani ancor di più per la loro oggettiva vulnerabilità. E comunque i nostri vecchi sono tutt’altro che improduttivi. La cosiddetta silver economy concorre in modo decisivo alla composizione della ricchezza nazionale.

Insomma, come indichiamo nel nostro libro, la sfida al Covid-19 si vince sul periodo medio lungo e con una visione d’insieme. Dobbiamo farci guidare come sempre, prima di tutto, dai dati scientifici e da quelli sanitari più sensibili, poi da quelli sui deceduti e sull’occupazione delle terapie intensive. Ma dobbiamo sempre più considerare le sofferenze degli italiani, confusi da troppe voci e troppi dati, a cui garantire indennizzi e sostegni materiali, ma anche attenzioni nuove di carattere morale. Nel senso dei ripetuti appelli del Presidente Mattarella, per recuperare una nuova concordia nel segno del senso della Patria. E dell’invito di Papa Francesco a costruire insieme, pur nelle diversità, un nuovo futuro comune in nome della fratellanza necessaria nei momenti più difficili.

Troppi al 41-bis: è ancora una misura eccezionale?

Alcuni recenti casi riguardanti in particolare anziani detenuti, qualcuno dei quali dietro le sbarre da decenni, hanno riaperto – e rischiano di infiammare, sia pure di tangente – il dibattito sulla umanità del 41-bis, espressione ricorrentemente usata per indicare il complesso di restrizioni e deroghe al regime carcerario ordinario, specificamente previsto per soggetti considerati particolarmente pericolosi dall’articolo 41-bis (appunto) dell’Ordinamento penitenziario.

I critici del 41-bis giungono a definirlo un sistema sadico mirante all’annientamento di un presunto nemico, e come tale incompatibile con la nostra Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena. È un regime – dicono – che impone l’isolamento e forti restrizioni ai rapporti con l’esterno, ma anche molte altre prescrizioni che non hanno niente a che vedere con la “sicurezza”. Cosa c’entra con la sicurezza, per esempio, il divieto di vestirsi come si vuole? O di usare lenzuola meno grezze di quelle fornite dall’amministrazione? O le mille altre restrizioni senza altra ragione che non sia quella di rendere la vita di alcuni detenuti impossibile? Avanzano dunque il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente”, o peggio di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, con ciò aggravando fortemente i profili di incostituzionalità dell’istituto. Perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato e alla decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura.

Per conto mio, mi permetto di rilevare che il carattere comunque eccezionale attribuito dalla legge alle restrizioni dell’ordinario trattamento penitenziario sembra poco adattarsi al fatto che i soggetti attualmente sottoposti al 41-bis siano tanti, oltre 600, e che le proroghe sono di fatto automatiche e senza limitazioni temporali. Circostanze, queste, che lo fanno piuttosto assomigliare a un regime “ordinario” per detenuti “speciali” o, peggio, a una sorta di pena supplementare che viene peraltro applicata da un’autorità amministrativa, in relazioni a fattispecie evanescenti e astratte come il ricorso di “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”. Il fatto poi che, per legge, i ricorsi relativi siano stati attribuiti alla competenza esclusiva del Tribunale di Sorveglianza di Roma, fa storcere il naso a molti, evocando lo spettro del “Tribunale speciale”.

Al battaglione di detenuti al 41-bis, fa poi da specchio l’armata dei collaboratori di giustizia, oltre 1.000, sottoposti a speciale regime di protezione. Anche qui il numero elevatissimo si adatta poco a misure concepite come “eccezionali”, facendo sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione. Benefici che possono fruttare, nei fatti, una condanna a una pena complessiva inferiore ai venti anni di carcere (oltre ad arresti domiciliari e semilibertà), a fronte anche di una decina di omicidi da ergastolo.

Anche qui, e senza alcuna considerazione di ordine morale, i critici del sistema parlano di una misura criminogena che, paradossalmente, favorisce il crimine, offrendo una prospettiva – il “pentimento” – ai più efferati assassini, messi nella condizione di delinquere senza dover subire conseguenze irrimediabili. Addirittura, c’è chi si spinge ad affermare che, in vista del “pentimento”, conviene ai criminali moltiplicare i propri reati, per avere più cose da “rivelare” e, dunque, accrescere la “rilevanza del contributo all’accertamento della verità”, cui sono commisurati i benefici di legge.

Non v’è dubbio che tutto questo dibattito, e più in generale il dibattito che riguarda il sistema penitenziario, che investe punti strategici del nostro sistema penale, quale il trattamento dei detenuti e le misure premiali per i collaboratori di giustizia, meriterebbe un migliore approfondimento e una più vasta platea, che non sia solo quella degli addetti ai lavori.

Per quanto mi riguarda, mi lascia tuttavia molto perplesso il fatto che in Italia chi critica il 41-bis – che, per carità, entro limiti ben determinati e soprattutto se relegato all’ambito di eccezionalità per il quale era stato concepito, è pure utile e necessario in un Paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata è particolarmente aggressiva – rischia concretamente di essere additato come “fiancheggiatore delle mafie”, e mi lascia ancor più perplesso che il dibattito sul carcere, soprattutto da parte dei media, si concentri quasi esclusivamente sul 41-bis, dimenticando che ci sono altri 60 mila detenuti (circa), sovente costretti a vivere in condizioni ai limiti del disumano, tanto da essere stati per questo spesso bacchettati dall’Europa. A proposito di Europa, chi sa se una piccola parte dei soldi che arriveranno coi programmi del Recovery Fund non possa essere spesa, invece che in sussidi vari, per migliorare il sistema carcerario e dunque le condizioni di vita dei 60 mila e più esseri umani detenuti.

 

Caro dottor Woodcock, immagino che le sue osservazioni susciteranno un dibattito fra gli addetti ai lavori, vista la sensibilità del tema 41-bis. “Il Fatto” lo ospiterà volentieri.

M. Trav.

Non guardo la D’urso, non sono mai stato una casalinga di Voghera

E per la serie “Sei troppo bella per un uomo solo così ho portato mio fratello”, la posta della settimana.

Caro Daniele, un olandese ha completato il suo giro del mondo in bicicletta. Ci ha messo nove anni. Notevole, no? (Ernesto Gallo, Cosenza)

Sì, ma gliene serviranno altri nove prima che gli ritorni la sensibilità ai coglioni.

Quando un film può essere definito “porno”? (Andrea Esposito, Napoli)

Un film è porno quando vi recitano donne e/o uomini che ciucciano sperma dai cazzi come vitellini una mucca. Per un errore, il mese scorso una tv inglese ha mandato in onda un varietà di cucina intervallato da spezzoni di un film porno così. Immagina lo choc dei telespettatori quando le immagini di una donna che monta la panna improvvisamente sono diventate un varietà di cucina.

Sono una casalinga di Voghera. Ogni pomeriggio accendo la tv su Canale 5 e mi masturbo guardando Barbara D’Urso. Ti è mai capitato? (Ines Gatti, Voghera)

No, non sono mai stato una casalinga di Voghera.

Differenze fra fare satira in Italia e fare satira nel resto del mondo? (Franco Filice, Cosenza)

Le democrazie solide tutelano la libera espressione, quindi pure la satira. In Francia, in Inghilterra e negli Usa si può fare satira feroce anche in tv, e sono i programmi più visti, e proprio dal pubblico giovane, tanto inseguito dai pubblicitari. L’ineffabile Aldo Grasso, invece, è arrivato a scrivere che “la satira interessa solo poche persone, come la pornografia”. Questo è falso, come dimostrano gli ascolti quando riesco a mettere piede in tv; solo che qua non decidono né il mercato né la democrazia, ma i vari clan di potere (partiti, Chiesa, massoneria) attraverso i loro doganieri. Inoltre i potenti usano le querele milionarie per tapparti la bocca: perdono sempre le cause, ma dopo 15 anni; intanto il deterrente funziona, e le tv scelgono altro, di solito cretini fosforescenti. Come antidoto, consiglio la lettura dell’opera omnia di Michel Foucault, che è una glossa erudita a questa frase di Proudhon: “Sotto il pretesto dell’utilità pubblica, e a nome dell’interesse generale, ogni cittadino viene regolamentato, diretto, indottrinato, controllato, valutato, censurato, chiuso in un recinto, messo a tributo, oppresso, mistificato, derubato; e, alla minima resistenza, viene represso, multato, vilipeso, vessato, braccato, bastonato, disarmato, sfottuto”. Chi fa satira rompe il contratto di ipocrisia che tutti stipulano con la società, per cui dà fastidio a troppi: quelli che ne avrebbero davvero bisogno. È anche vero che gli uomini non cambiano; è un’ingenuità pretendere di migliorarli, trasformarli, correggerli. Perché allora uno fa satira? La fa per sé, perché la vita non va subita. Se la sua satira aiuta anche altri, tanto meglio.

In Africa un missionario ha messo incinta 26 suore perché le sue amanti avevano l’Aids e non voleva più farsele. (Roberta Sanna, Nuoro)

Meno male che non ha usato metodi contraccettivi. Sarebbe finito nei guai con le gerarchie.

Le grandi squadre di calcio non stavano facendo bancarotta? (Alfonso Innocenti, Prato)

Sì, ma poi hanno chiesto un prestito ai loro giocatori.

Ti piace di più giocare a bowling o a tennis? (Valentina Alunni, Perugia)

A bowling. Col bowling raramente perdi la palla.

Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi! (lettere@ilfattoquotidiano.it)