Renzi come Benigni: Denis ti voglio bene!

Lontani i tempi del comunismo, di Roberto Benigni (o meglio, di quel Roberto Benigni) e di Carlo Monni, la Toscana è pronta a rottamare il passato e a concedere alle sale cinematografiche, non appena sarà possibile, una più fresca versione del fortunatissimo Berlinguer ti voglio bene. La triste circostanza della condanna di Denis Verdini per la bancarotta del Credito cooperativo fiorentino ci offre infatti l’insperato sequel: Denis ti voglio bene. L’idea è tutta di Matteo Renzi, già pronto erede di Benigni, che ieri su Avvenire ha espresso un sentito cordoglio per i guai dell’ex alleato: “A livello personale mi dispiace molto. Una cosa che mi ha insegnato la vita è che il più grande lusso della politica non sono i voli di Stato o le auto blu, ma le relazioni umane. E io sono amico di Denis, gli voglio bene e sono vicino alla sua famiglia” (Salvini compreso, immaginiano, ndr). Il set è pronto. Non ci resta che piangere.

“Rendita di (op)posizione”. Così ha conquistato il web

Non sarà la “Bestia” di Luca Morisi che agisce alle spalle di Matteo Salvini, ma poco ci manca. Qualcuno, tra gli addetti ai lavori parla di “bestiolina” social, qualcun altro di “buona struttura comunicativa” e chi si azzarda perfino a definirla una “vera macchina da guerra”, ma guai a citare la fonte ché poi si viene associati subito alla galassia della destra. E quindi la sentenza arriva da sé: Giorgia Meloni è la nuova “regina” dei social network tra i leader politici italiani. E non è un caso che parallelamente alla crescita sui social – oltre 2 milioni di seguaci su Facebook con una crescita giornaliera di 20 mila, 1 milione su Twitter e 900 mila su Instagram – la leader di Fratelli d’Italia abbia portato in soli sette anni il suo partito dall’1,94% delle Politiche del 2013 al 17% che gli viene attribuito dai sondaggi insidiando il M5S al terzo posto ed essendo stata eletta poche settimane fa leader della famiglia europea dei Conservatori e Riformisti (Ecr). Se siano i social a influire sulle urne o le urne a influire sui social è come provare a indovinare se è nato prima l’uovo o la gallina.

Ma una cosa è certa: il successo della Meloni sulla piazza virtuale (e non solo) è dovuto alla “rendita di (op)posizione”, come la chiama il politologo dell’Università di Urbino, Fabio Bordignon, che in questi anni ha studiato la comunicazione politica della “zarina” sovranista. Ovvero: “Rispetto agli altri leader populisti di tutta Europa può rivendicare la purezza di non essersi sporcata le mani al governo rispetto per esempio a Matteo Salvini – spiega il politologo – e la coerenza: FdI è sempre stato all’opposizione in tutti gli ultimi governi di coalizione”. Questo, continua Bordignon, si riflette anche in uno stile comunicativo “aggressivo, schietto, diretto ma anche cattivo” in grado di “polarizzare i propri follower”: “Meloni o si ama o si odia”. Il successo sui social di Giorgia Meloni – con un engagement (tasso di condivisioni, reazioni e commenti) stabile sopra il 10% e nel mese di settembre oltre al 13%, superando anche Matteo Salvini – dipende anche da chi ha plasmato questo stile: il social media manager Tommaso Longobardi. Romano, classe 1991, una laurea in Psicologia e un anno alla Casaleggio Associati, Lombardi è considerato il “Morisi” di Giorgia Meloni, in grado di imprimere una svolta alla comunicazione della leader di Fratelli d’Italia. Da una parte usando una strategia social aggressiva pubblicando post, video e immagini in linea con la narrazione dei leader europei sovranisti: la retorica patriottica, anti-immigrazione e contro il governo “degli inciuci” (tant’è che le parole più usate nei suoi post sono “Italia”, “italiani” e “governo”). Dall’altra, Longobardi ha fatto diventare Meloni una leader politica “pop”, che dall’infanzia alla Garbatella è diventata la leader del quarto partito italiano dimostrando di essere “una del popolo”. A dimostrarlo c’è che Giorgia Meloni è la prima leader politica italiana a essersi iscritta a Instagram, social di fotografie, il 23 novembre 2012 dove tutt’oggi pubblica foto della sua vita privata con la figlia, con il gatto Pallocchio, ma anche di cibo (la pizza e il risotto tricolore) o con personaggi dello spettacolo.

Longobardi poi l’ha introdotta anche nella nuova frontiera della comunicazione social: i meme. Basti pensare all’uso del “non c’è coviddí” nel suo ultimo discorso alla Camera davanti al premier Conte per mettere in evidenza le carenze del governo nella gestione del coronavirus. Ma secondo molti studi recenti, l’impennata di popolarità sul web Meloni l’ha avuta dopo il suo discorso in piazza San Giovanni in cui, per difendere i valori della “famiglia tradizionale”, parlava di sé in prima persona (“Io sono Giorgia”) usando l’artificio retorico del “Genitore 1” e “Genitore 2”.

La comunità Lgbt ne ha fatta una canzone e sui social sono esplosi i remix e i meme che Meloni ha prontamente cavalcato. “Anche mio figlio di dieci anni che non sa niente di politica la conosceva per quei meme” conclude Bordignon. La sociologa dei nuovi media dell’Università di Pisa, Roberta Bracciale, che ha studiato a lungo questo fenomeno fino a parlare di “memizzazione della politica” spiega che Meloni è “la leader politica italiana che sa usare e sfruttare meglio i meme”. Infatti non c’è solo il frame “Io sono Giorgia” ma anche le magliette, i manga e i post citando l’episodio “Non oggi” della serie Games of Thrones contro lo sbarco di migranti. “Meloni diventa popolare: è quella simpatica della canzone – conclude Bracciale – così anche il suo tratto ideologico più duro si perde e diventa trasversale. Non è detto che questo abbia un riflesso anche sui consensi, ma essere pop e mostrarsi vicina alla gente aiuta”.

Chi c’è dietro il gruppo di Giorgia Meloni

Donazioni da grandi multinazionali, un oligarca russo, un petroliere britannico con residenza a Dubai, un ex dipendente di Cambridge Analytica, e poi quasi 60 milioni di euro investiti in immobili e titoli. È la radiografia finanziaria della galassia europea di cui fa parte Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Secondo l’ultima rilevazione di “Tecnè”, si tratta del terzo partito italiano dietro Lega e Pd, con il 17% dei consensi. Merito della retorica nazionalista della Meloni, nominata il 29 settembre scorso anche presidente dell’Ecr, il Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei, di cui fanno parte anche lo spagnolo Vox e il Conservative Party del premier britannico Boris Johnson. Ed è proprio dall’Europa che arrivano i principali finanziamenti di cui beneficiano anche i meloniani entrati a far parte di Ecr a fine 2018.

 

18 mila euro Il denaro della società di Temerko

Quest’anno l’Ecr ha raccolto finora 85mila euro da privati (soldi incassati, è bene ripeterlo, dal partito dei conservatori europei e non da Fd’I). Un record assoluto, visto che gli altri partiti non hanno beneficiato di donazioni. Tra i finanziatori del partito europeo presieduto dalla Meloni ci sono alcuni nomi noti dell’economia, soprattutto britannica. Diciottomila euro sono arrivati ad esempio dalla Aquind Limited, società inglese che progetta di costruire un cavo sottomarino da 1,2 miliardi di sterline per connettere la rete elettrica britannica a quella francese. Aquind è diretta dall’oligarca Alexander Temerko, 54 anni, nato nell’ex Unione Sovietica e residente nel Regno Unito dal 2011. Come riportato dal Guardian, Temerko negli ultimi anni ha donato 1,3 milioni di sterline ai conservatori inglesi. Con quale obiettivo è difficile da dire. Lui si definisce infatti un oppositore di Putin e della Brexit, ma secondo un’inchiesta pubblicata l’anno scorso da Reuters è in realtà un sostenitore dell’uscita del Regno Unito dalla Ue e ha lavorato in passato per il ministero della Difesa russo. Altri 18mila euro sono arrivati quest’anno all’Ecr da Richard Upshall, britannico con residenza a Dubai, azionista di maggioranza di varie aziende tra cui il gruppo petrolifero Oes.

Tra i finanziatori c’è poi anche l’italiana Milano Business Consulting, società di consulenza costituita l’anno scorso da Luigi Mollese. Attraverso la sua società, Mollese, ex esponente di Futuro e Libertà, aveva donato all’Ecr altri 17.500 euro al partito presieduto dalla Meloni già nel 2019. Milano Business Consulting non ha risposto alle domande del Fatto sui motivi delle sue donazioni, né su eventuali lavori svolti per enti pubblici o aziende private a controllo pubblico.

 

Da praga L’azienda dell’ex ministro della Rep. Ceca

Nella lista dei maggiori finanziatori dell’Ecr c’è poi la CI Consult&Research, azienda basata a Praga e controllata da Ivan Langer, ex ministro dell’Interno della Repubblica Ceca nel governo di centro destra presieduto da Mirek Topolanek.

L’azienda ceca quest’anno ha donato in totale 36mila euro: 18mila euro al partito, direttamente, e altri 18mila alla New Direction, fondazione europea amministrata da vari esponenti dell’Ecr tra cui l’ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto, che riveste la carica di vice presidente. Nelle casse della fondazione New Direction sono arrivati circa 200mila euro negli ultimi due anni.

 

New direction e l’ex uomo di Cambridge Analytica

Tra questi ci sono i denari donati da due delle più grandi multinazionali al mondo: il gigante delle telecomunicazioni AT&T, e la British American Tobacco, uno dei più grandi produttori di sigarette. Nomi che contraddicono la retorica di Giorgia Meloni, sempre pronta a schierarsi a parole contro multinazionali e lobby varie. Nella lista dei finanziatori del partito europeo di cui fa parte Fd’I c’è poi un nome che rimanda direttamente all’internazionale sovranista: è quello della Voter Consultancy, società controllata dal britannico Thomas Borwick, che alla fine del 2019 ha donato 18mila euro all’Ecr. Esperto di comunicazione digitale, 33 anni, Borwick ha lavorato negli anni scorsi per Cambridge Analytica, la società fondata dall’ex consigliere di Donald Trump, Steve Bannon, e finita al centro dello scandalo per aver sfruttato i dati di 87 milioni di utenti di Facebook con l’obiettivo di influenzare le ultime elezioni americane a favore di Trump e il referendum sulla Brexit nel Regno Unito. Sulle donazioni a Ecr, il tesoriere di Fd’I, Roberto Mele, spiega: “Ecr è un altro partito, che ha una sua struttura organizzativa di cui non rispondiamo. I finanziamenti di Ecr, come impone la legge, non sono assolutamente utilizzati per eventi elettorali legati a Fd’I. Possono fare degli eventi ai quali partecipano anche i nostri parlamentari europei eletti con Fd’I e che aderiscono a Ecr. Ma sono eventi fatti da Ecr su territorio italiano, ungherese, polacco e così via”.

 

L’associazione i veri ricchi tra appartamenti e titoli

Se in Europa Ecr non disdegna le donazioni delle multinazionali, in Italia Fd’I vive per lo più grazie alle donazioni del 2 per mille e alle erogazioni liberali. Stando al bilancio 2019, il partito in quell’anno ha ricevuto 1,1 milioni di euro dal 2 per mille, e poco più di un milione dalle erogazioni liberali, cioè dalle donazioni degli stessi parlamentari e di qualche piccola impresa. Il patrimonio di Fd’I è scarno, meno di 1 milione di euro, fatto per lo più da liquidità depositata in banca. La vera ricchezza è custodita nelle casse di un ente molto vicino a Fd’I. Si tratta della Fondazione Alleanza Nazionale, nata nel 2011 e presieduta da Giuseppe Valentino, un ex senatore di An. Sebbene sia ufficialmente slegata dal partito della Meloni, la fondazione intrattiene legami politici ed economici con Fd’I.

Basti citare i nomi di alcuni membri del comitato esecutivo: i deputati di Fd’I Ignazio La Russa, Edmondo Cirielli, Francesco Lollobrigida (cognato della Meloni) e poi c’è anche l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e il forzista Maurizio Gasparri. “I rapporti istituzionali originano dal fatto che l’Assemblea della Fondazione An del 2014 ha concesso in uso a Fd’I il simbolo di Alleanza Nazionale”, spiega al Fatto il vicepresidente vicario della fondazione, Antonio Giordano. La fondazione ha un patrimonio di 59,6 milioni di euro, fatto soprattutto di titoli finanziari e di immobili. Nel 2019 gli investimenti iscritti bilancio valevano 24,6 milioni di euro, in aumento di quasi 5 milioni rispetto all’anno precedente. Soldi in buona parte usati per comprare titoli di Stato, si limita a spiegare Giordano senza aggiungere dettagli.

 

Gli affitti del partito: 4166 euro per la sede a Roma

Il resto del patrimonio è costituito da case. La Fondazione detiene due società, Italimmobili e Immobiliare Nuova Mancini, proprietarie di una serie di immobili sparsi su tutto il territorio nazionale e messe a bilancio per un valore di quasi 20 milioni di euro. Alcuni di questi immobili vengono affittati alle sedi di Fd’I, come quello in via della Scrofa, in pieno centro a Roma, per la quale il partito della Meloni paga un affitto mensile di 4.166 euro al mese. E poi ci sono alcuni appartamenti sparsi per l’Italia che invece vengono affittati a sedi locali del partito.

Ma quanto incassa in totale la Fondazione da Fratelli d’Italia in canoni d’affitto? A questa domanda Giordano si è limitato a rispondere che la fondazione non ha “rapporti di comodato gratuito con partiti politici”.

Gigi, il lungo addio della Città eterna: “Era Roma, era noi”

Quant’è bella Roma, nella luce quasi trasparente della mattina autunnale.

Quant’è composta Roma, è raro vederla così: mostra la sua faccia gentile per salutare uno dei figli più amati.

L’auto che accompagna Gigi Proietti per l’ultimo viaggio nella Città eterna procede adagio attraverso i luoghi della sua vita. Parte dalla clinica di Villa Margherita presto, sono le 9. Circonda villa Torlonia, scivola lungo la Nomentana, si ferma di fronte al Teatro Brancaccio. Proietti ne è stato direttore dal 2001 al 2007, il suo sorriso, nella notte, è stato dipinto da due artisti sulla serranda della porta d’ingresso.

Il carro funebre riparte, naviga intorno al Colosseo, imbocca via dei Fori Imperiali. È scortato da una piccola flotta di moto della polizia, seguito con rispetto e timidezza da una manciata di ciclisti e motociclisti. Sui marciapiede di tutte le strade c’è qualcuno che lo aspetta per applaudire. E chi non l’aspetta, magari ci si trova per caso, capisce subito e applaude lo stesso.

Questi tempi infami hanno privato Proietti del bagno di folla che la sua città gli avrebbe tributato, ma forse è meglio così. C’è un torrente di affetto spontaneo che accompagna il viaggio. Tutti in piedi, quasi tutti in silenzio; una prova d’amore intima, intensa e piena di dignità, un lunghissimo applauso che tiene insieme la città, centinaia di guance rigate sotto le mascherine. Sono davvero, malgrado tutto, funerali monumentali: monumentale è la commozione, l’empatia; monumentale è Roma intorno.

Il feretro sale verso il Campidoglio per il saluto ufficiale delle istituzioni, l’auto gira intorno alla statua di Marco Aurelio, si ferma di fronte al picchetto della polizia municipale, riceve il saluto di Marcello De Vito, presidente del consiglio comunale (dagli arresti domiciliari alla fascia tricolore in 12 mesi, ma questa è davvero un’altra storia, problemi di Roma).

La piazza è transennata, chiusa al pubblico. Ci sono due file di giornalisti e fotografi sotto il colonnato, tra di loro si è infilato un uomo anziano, indossa una giacca a vento di una squadra di calcio e un paio di jeans consumati. Si presenta, si chiama Enzo Fusillo, viene da San Basilio. Vuol dire che si è fatto un bel viaggio dalla periferia est al punto esatto che identifica il centro di Roma. “Sono arrivato troppo presto per il saluto in Piazza del Popolo, sono riuscito a entrare qui grazie a un amico pizzardone”. Ha una miniera di aneddoti: “Quando vivevo a Trastevere e facevo il meccanico, abitavo davanti a casa sua. Gli ho rifatto un paio di parafanghi”. Ride. “Gigi è tutto, è Roma, è uno di noi”.

L’auto riparte, risale via del Corso, via del Tritone, piazza Barberini, via Veneto. Il traffico impazzisce ma nessuno suona il clacson. Miracolo. Ci sono sempre due ali di persone sui lati della strada, ancora applausi. Giuseppe Pannelli è un vecchio impiegato dell’Inail, un siciliano trapiantato a Roma nel 1973: “Abito qui vicino, stavo seguendo la cerimonia in tv. Sono sceso sperando di indovinare il percorso del feretro, sono contento di essere riuscito a salutarlo”. Anche lui è testimone di un affetto che prescinde persino dall’eredità artistica – straordinaria – di Proietti. La gente è scesa in strada prima di tutto perché Gigi era un uomo buono, lo dicono tutti: “Ne nascono poche di persone così”.

Si arriva a Villa Borghese, fino al Globe Theatre, il luogo più caro, che da oggi porta il suo nome. Dentro, dalla platea e dalle balconate si amplifica un’ovazione che dura cinque minuti. Per l’ultimo saluto ci sono gli amici “famosi”: Flavio Insinna, Enrico Brignano, Walter Veltroni, Massimo Wertmuller, Marisa Laurito, Edoardo Leo, Paola Cortellesi. La sindaca Virginia Raggi è collegata in video dalla quarantena. Fuori, c’è ancora la gente comune, che aspetta paziente. La signora Paola, giacca grigia e occhiali scuri, si tiene all’inferriata e guarda verso le pareti del teatro. Si ritrae, sussurra solo una parola: “Era un grand’uomo”. C’è una ragazza dai capelli lunghi e lisci, in piedi accanto alla sua bicicletta. Si chiama Ludovica, nel cestello ha una rosa rossa e una cassa bluetooth, fa suonare Nun je dà retta Roma. Piange piano e sorride: “Ci voleva un po’ di musica, sennò che tristezza”. È una cantante folk, Proietti per lei è un maestro, ma le lacrime sono quelle che scendono per un amico o un familiare. “Si meritava tutta la città ginocchioni, come Alberto Sordi. Ma è bello anche così, penso che gli avrebbe fatto piacere. È stato uno dei pochi a non bistrattare la cultura popolare, a portare la strada ai livelli delle stelle”.

L’ultimo tratto è verso piazza del Popolo e la Chiesa degli Artisti. Il carro funebre si affaccia sul Muro Torto, scende lungo via di Porta Pinciana, via Sistina, Trinità dei Monti. L’affaccio su piazza di Spagna, gli ultimi tornanti. Roma è una favola.

La forma dei funerali è ancora privata, non si può stare vicini. La piazza è chiusa su ogni lato, ma dietro ogni transenna ci sono decine di persone che aspettano, composte. Alcuni sono qui da ore. Il feretro viene portato dentro la chiesa, scompare alla loro vista. Si scioglie l’ultimo applauso. Un gruppo di ultrà della Roma srotola uno striscione: “Me vie’ da piagne, ma che sarà?”.

Violenza sessuale, Longo si presenta dai pm. Un’intercettazione accusa l’ex legale di B.

Non ci sono querele, né verbali d’accusa. L’inchiesta della Procura di Padova a carico dell’avvocato Piero Longo per violenza sessuale nei confronti di una ragazzina nasce da un’intercettazione della polizia dopo l’aggressione subìta dal difensore di Berlusconi il 30 settembre nell’androne di casa. Poco importa se si tratti di un colloquio telefonico o di una registrazione ambientale, o che i fatti, ammesso che siano veri, risalgano a più di 15 anni fa. Il penalista si è subito presentato per chiarire la sua versione su un sospetto imbarazzante al pm Roberto D’Angelo, cui era arrivato il testo della conversazione di uno dei protagonisti di questa storia misteriosa, a cui finora mancava un movente. Il movente di un’irruzione notturna in un esclusivo palazzo e della reazione dell’avvocato che ha sparato tre colpi di pistola per difendersi. Il dialogo accenna a una possibile storia d’amore con una ragazzina (all’epoca minorenne, figlia di una donna con cui Longo aveva avuto una relazione) che dopo essersi laureata in Giurisprudenza ha svolto la pratica nello studio di Longo.

La vittima dell’aggressione è Longo, 76 anni, che ha subito gravi lesioni al volto e alla testa. Gli aggressori sono l’elettricista e maestro di sci Luca Zanon, 49 anni, trentino, e la sua compagna Silvia Maran, 47 anni, commercialista. Entrambi irreprensibili, eppure si scagliarono contro il penalista. Una loro amica, Rosanna Maria Sole Caudullo, 31 anni, rimasta all’esterno della casa, aveva rivelato la sua delusione perché il professore l’aveva cancellata dai numeri di cellulari ricevibili. Gli investigatori della Mobile non credevano solo alla delusione di una trentenne. Così si sono imbattuti nel riferimento a un rapporto con la ragazzina, risalente nel tempo, e comunque destinato alla prescrizione. Ma non ci sono tracce di ricatti. Longo ha risposto alle domande per due ore. Ha ribadito di aver sparato perché aggredito. Top secret sulla parte personale dei rapporti con la giovane donna. Niccolo Ghedini, il suo difensore: “Ha rappresentato l’assoluta inconsistenza e infondatezza di ogni ipotetico illecito. Si tratta di una iscrizione quale atto dovuto, correlata a dichiarazioni ‘de relato’ rilasciate dai suoi aggressori e non confermate assolutamente dalla diretta interessata”. Annuncia querele, denunce per violazione di segreto e richieste di danni.

Molfetta, inchiesta sugli appalti: indagato il sindaco

Un avviso di garanzia per presunti appalti irregolari a Molfetta (Bari) è stato notificato dalla Guardia di Finanza, su disposizione della Procura di Trani, a 23 indagati, tra i quali il sindaco Tommaso Minervini, l’assessore ai Lavori pubblici Mariano Caputo, funzionari e dirigenti del Comune e imprenditori. L’inchiesta riguarda presunte turbative d’asta relative a lavori di rifacimento di piazza Aldo Moro, interventi alla sede della ex cementeria e servizio di monitoraggio delle acque del porto. In tutti i casi, è l’ipotesi dei pm Francesco Tosto e Giuseppe Francesco Aiello, il Comune avrebbe proceduto indebitamente ad affidamento diretto senza fare le gare, favorendo imprenditori “amici” in cambio di soldi e regali. I reati, a vario titolo contestati, risalenti al periodo luglio 2018-agosto 2020, sono turbativa d’asta (unica accusa rivolta al primo cittadino), corruzione e peculato. “Sono sereno – ha commentato il sindaco Minervini – e ho completa fiducia nell’operato della magistratura”.

Lega, operazione sull’immobile Lfc ideata dal 2016

Un anno prima della vendita alla Lombardia Film Commission (Lfc), gli uomini della Lega indagati oggi per peculato stavano già organizzando l’affare del capannone di Cormano. A novembre del 2016, il commercialista del partito, Alberto Di Rubba, e uno dei fornitori preferiti dalla Francesco Barachetti, effettuarono un sopralluogo presso l’immobile. E sempre in quel periodo fu scritta una proposta di vendita del capannone alla Lfc. Le novità sono contenute nei documenti depositati al Tribunale del Riesame dalla Procura di Milano dopo il ricorso presentato da Di Rubba e Andrea Manzoni (l’altro commercialista della Lega indagato). I contabili scelti da Matteo Salvini chiedono al Riesame il dissequestro di due ville sul lago di Garda. Secondo il gip Giulio Fanales, le ville sono frutto del peculato perché acquistate con i soldi incassati dalla compravendita di Cormano. In attesa della decisione del Riesame, l’11 novembre i magistrati interrogheranno di nuovo Luca Sostegni, presunto prestanome dell’operazione.

L’affare di Londra e le commissioni a Dubai. In tre iniziano a parlare, perquisito Mincione

Qualcuno nell’indagine vaticana sulla compravendita di un immobile a Londra finanziato, in parte, con somme di denaro della Segreteria di Stato, sta parlando. Più di uno. Tre soggetti che vengono indicati nelle carte dell’ufficio del promotore di giustizia del Vaticano “per cautela” con i nomi di Alfa, Beta e Gamma. Ed è anche grazie alle loro dichiarazioni che l’inchiesta sta proseguendo velocemente. Così ieri la Guardia di Finanza, su delega della Procura di Roma che ha dato esito a una rogatoria vaticana, ha perquisito Raffaele Mincione, finanziere italiano con base a Londra, Enrico Crasso, ex Credit Suisse e poi gestore del patrimonio riservato della Segreteria di Stato e Fabrizio Tirabassi, ex dipendente della Segreteria di Stato. “È stata fornita tutta la collaborazione e si è certi che le verifiche compiute confermeranno la totale estraneità”, ha detto ieri Mincione. Nel decreto di perquisizione dell’ufficio del promotore di giustizia si spiega che “nell’ambito delle indagini (…) sono state escusse numerose fonti probatorie tra le quali alcune (…) hanno concordemente confermato che Tirabassi e Crasso, con la mediazione di alcuni soggetti (…) hanno preteso e ricevuto somme di denaro nell’ambito della vicenda dell’immobile di Londra”. Uno dei tre ha dichiarato: “Tirabassi mi ha raccontato che tramite Andrea Negri venivano incassate delle commissioni su una società avente sede a Dubai, che poi questa provvedeva a suddividerle tra Crasso e Tirabassi. Sempre a detta di Tirabassi, a un certo punto, Mincione non ha più versato queste commissioni alla società di Dubai e anche per questa ragione sarebbe sorto il problema d’interrompere i rapporti con Mincione”. Sempre la stessa persona ha dichiarato “che a lui consta che sin dai primi momenti della trattativa con Mincione, con lo stesso erano intercorsi rapporti economici e che nell’ambito della vicenda di Londra a occuparsi delle richieste economiche per conto di Tirabassi era stato demandato Renato ‘il professore’, vale a dire Giovannini” (anche questi perquisito ieri, non indagato, ndr). Un altra persona poi ha parlato di “un asse tra Tirabassi e Crasso in forza del quale Tirabassi indirizzava gli investimenti della Segreteria di Stato in una certa direzione, ricevendo, a fronte di ciò, commissioni…”. Intanto la gestione dei fondi tolta dal Pontefice alla Segreteria di Stato è passata all’Apsa, sotto il controllo della Segreteria per l’Economia.

Dl Ristori bis, aiuti del 200% alle attività nelle aree rosse

Alle nuove restrizioni previste dall’ultimo Dpcm in vigore da oggi, si affiancano altri aiuti a fondo perduto a sostegno delle attività economiche che si trovano nelle zone rosse dove bar, ristoranti, palestre, cinema e negozi hanno tirato giù la saracinesca. Ma anche il mantenimento degli aiuti già stabiliti la scorsa settimana per partite Iva, commercianti e artigiani delle zone gialle. È su questo doppio binario che scorre il decreto legge Ristori bis che, dopo uno slittamento di 24 ore, dovrebbe arrivare oggi in Cdm per poi confluire nel primo decreto Ristori, attualmente in esame al Senato. Gli aiuti vanno incontro alle richieste delle Regioni che nella partita sulle nuove restrizioni si sono opposte fino all’ultimo all’introduzione di un sistema modulare, premendo per misure immediati a tutte le attività coinvolte dalle chiusure parziali e totali. I tecnici dei ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico hanno continuato a lavorare sulle categorie che possono accedere agli aiuti a fondo perduto estendendoli ai codici Ateco finora esclusi. Una settimana fa si è deciso che la cifra di ristoro vada parametrata su una percentuale della somma già corrisposta per le chiusure della scorsa primavera. Percentuale che ora dovrebbe salire al 200% del rimborso già erogato a bar, ristoranti e negozi delle zone rosse destinati a chiudere per almeno due settimane. Per chi dovesse entrare successivamente nelle zone rosse e arancioni ci sarà un automatismo. Previsti ristori anche per musei, centri commerciali e trasporti. Saranno rifinanziati anche congedi parentali e bonus asili nido. Sul tavolo ci sono 2 miliardi di euro. Si tratta di aiuti rapidi e con meccanismi automatici gestiti dall’Agenzia delle Entrate che consentiranno di far arrivare i ristori direttamente sul conto corrente dei beneficiari entro metà dicembre. Soldi che vanno ad aggiungersi ai 5,4 miliardi del primo decreto. Restano molti dubbi delle associazioni di categoria sul fatto che i ristori riusciranno a mitigare la rabbia di commercianti e gestori.

Lombardia, sindaci in rivolta. Nuova corsa alle seconde case

Vogliono “conoscere i dati relativi ai 21 indicatori sanitari di rischio, nonché l’Rt delle nostre province e capoluoghi nella settimana appena conclusa” per “monitorare l’andamento epidemiologico” e “spiegare ai nostri cittadini, imprese e categorie economiche e sociali lo stato di fatto”. Nelle ore che hanno preceduto l’entrata in vigore del Dpcm che ha fatto della Lombardia una zona rossa, Giorgio Gori, Emilio Del Bono, Gianluca Galimberti e Mattia Palazzi – sindaci di Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova – hanno scritto a Regione e ministero della Salute. “Vorremmo conoscere questi dati – spiegano dall’entourage di Gori –. A noi risulta che siamo messi meglio di altre aree della Lombardia e nei nostri ospedali ci sono pazienti che arrivano da altre zone, quindi l’indicatore sul riempimento delle strutture dipende anche da questo. Se la situazione di rischio del nostro territorio lo consentirà, chiederemo la possibilità di valutare l’applicazione del comma 2 dell’articolo 3 dell’ordinanza che ha chiuso le Regioni”. Secondo cui il ministro della Salute può prevedere “l’esenzione dell’applicazione” delle restrizioni “in relazione a specifiche parti del territorio regionale, in ragione dell’andamento del rischio epidemiologico”.

Ieri Attilio Fontana, che mercoledì ha definito la zona rossa “uno schiaffo alla Lombardia”, ha dato una propria interpretazione del Dpcm: ricorda, l’avvocato di Varese, che dopo almeno due settimane dall’entrata in vigore dell’ordinanza che ha chiuso la Regione “sulla scorta dell’evoluzione della situazione, è possibile per i presidenti di Regione chiedere misure di allentamento per determinati territori”. Come a dire: ‘Se pensate che nella vostra provincia la zona rossa sia poco giustificata, prendetevela con Roma. Quando si potrà io chiederò un allentamento’. Funziona così: il ministero verifica con cadenza settimanale la situazione epidemiologica dei singoli territori e nel caso in cui una provincia abbia per 14 giorni consecutivi dati migliori rispetto a quelli che hanno determinato la chiusura il ministro può allentare le misure con una nuova ordinanza. I governatori possono proporre, ma a decidere è sempre Speranza.

Dai territori le voci degli scontenti si sono levate fin dal primo minuto. “Un altro lockdown per il Lodigiano è inaccettabile”, attacca il presidente della Provincia Francesco Passerini, sindaco di Codogno, che ha firmato una nota congiunta con gli altri primi cittadini leghisti della zona: Sara Casanova (Lodi), Elia Delmiglio (Casalpusterlengo), Giovanna Gargioni (Borghetto Lodigiano), Maurizio Villa (Sant’Angelo Lodigiano) e Severino Serafini (Massalengo). Se i sindaci del Pd puntano il dito contro la Regione, quelli della Lega se la prendono con il governo: “Oggi non possiamo essere paragonati ad altre zone d’Italia fortemente investite dal Covid nella misura in cui noi lo siamo stati a marzo e aprile – hanno spiegato –. Questa, da parte del governo, risulta essere un’evidente forma di accanimento nei confronti di un territorio che ha già pagato tanto”. “Siamo stati i primi in Europa a fare il lockdown e i secondi nel mondo dopo Wuhan – fa eco Elia Delmiglio, primo cittadino di Casalpusterlengo –. Siamo arrabbiati perché qui la situazione è sotto controllo: su 15mila abitanti, abbiamo 77 positivi, di cui solo 7 ricoverati in ospedale”.

E c’è già chi dalle aree sottoposte a chiusura si è mosso. Verso il mare: mercoledì notte è partita la corsa alle seconde case nella Riviera ligure di Ponente da Lombardia e Piemonte, altra regione chiusa dal governo. A Bordighera, in provincia di Imperia, sono stati segnalati arrivi già dalle 5 del mattino di ieri. “Da noi i proprietari sono sempre i benvenuti e chi si è mosso oggi lo ha fatto regolarmente – commenta Vittorio Ingenito –. Se il governo avesse previsto questo fenomeno, ampiamente prevedibile, avrebbe potuto disciplinarlo”.

Anche “qui da noi gli arrivi sono aumentati – spiega Giorgio Del Ghingaro, sindaco di Viareggio –. Non c’è nulla di strano, la legge lo consente fino a questa sera (ieri sera, ndr). Io ho proposto alla Regione di riprendere l’ordinanza di maggio che permetteva di spostarsi solo alle persone che hanno nella città di destinazione un medico curante o un pediatra. La cautela in questo momento è d’obbligo. Non sono stato ascoltato”.