Reggio C. Zona rossa di malasanità. Spirlì: “Sono qui per caso”

Se la “zona rossa”, che inizia oggi, è una iattura, ieri in Calabria è andata anche peggio. La politica ha detto tutto e il contrario tutto: la piazza si è scagliata contro la Regione che, a sua volta, ha tentato di scaricare la colpa sul governo, “colpevole” di aver prolungato il commissariamento della sanità inserendo la Calabria tra le regioni nello “scenario di tipo 4” e con un livello di rischio “alto”. Nel mezzo almeno due performance di Nino Spirlì, presidente facente funzioni dopo la morte della governatrice Jole Santelli. Una delle due sparate è collegata proprio alla scomparsa della presidente di Forza Italia. Meno di un mese fa, infatti, Spirlì si è congedato dalla governatrice promettendo di lavorare “senza sosta per portare a termine il progetto politico di Jole”. Ascoltando le sue parole di ieri (“Sono qui per una sciagura, non sono stato eletto”), delle due l’una: o rinnega il progetto o si prende la sua parte di responsabilità come componente di quella giunta”.

Con la seconda ondata Covid, infatti, il governo nazionale chiude la Calabria non per l’aumento dei contagi ma, caso unico in Italia, per malasanità e per una politica che ha promesso di correre ai ripari e, in nove mesi, non l’ha fatto.

La gente lo ha capito e alcune centinaia di persone ieri si sono ritrovate a Catanzaro davanti alla Cittadella regionale. Ci sono anche medici e infermieri con il camice bianco. Chiedono “assunzioni subito” e “salute per tutti”. C’è chi tiene in mano addirittura un cartello con scritto: “Per un pugno di inetti, i calabresi ne pagano le spese”. Il riferimento è al rischio di collasso della sanità regionale nonostante i fondi stanziati dal governo per far fronte all’emergenza Covid: “Ho dato tutta la disponibilità della Regione per aumentare i posti letto e di terapia intensiva”. Spirlì esce dal palazzo e, a favore di telecamere, prova a calmare gli animi. Nulla da fare. Partono i fischi e la domanda sul “perché siamo arrivati a questo punto?” è insormontabile. “Io sto lavorando adesso”.

Giravolta e via. Spirlì batte in ritirata e torna nel palazzo da cui, poche ore prima, si era collegato con la trasmissione Coffee Break di La7. Anche lì l’esponente leghista ha dato il meglio di sé rispondendo al segretario del Partito comunista, Marco Rizzo: “Quando Arcuri ha fatto il concorso per i posti aggiuntivi la terapia intensiva?”. Con sulla scrivania i santini della Madonna, si è definito da solo “ignorante in questa situazione”.

C’è poco da fare. Con due Asp sciolte per infiltrazioni mafiose, assunzioni di medici e infermieri rimaste sulla carta e posti di terapia intensiva in numero degno di un Paese del Terzo mondo, la Regione Calabria e la politica di centrodestra attaccano perché non sanno che rispondere. Dopo aver tentato di truccare i numeri dei ricoverati in rianimazione, minacciano addirittura di impugnare l’ordinanza con la quale il ministero della Salute ha istituito la “zona rossa”.

E intanto a Reggio, in serata, cittadini e commercianti sono scesi in piazza per protestare contro la chiusura. Il no alle restrizioni del governo è stato urlato da quasi mille persone davanti alla prefettura: “La colpa è dei politici che si sono mangiati gli 86 milioni. Ci devono dire che fine hanno fatto questi soldi e i 440 posti di terapia intensiva promessi a marzo”.

Milano. “È già fase 4”. La nota di Gallera smentisce Fontana

Nelle stesse ore del 2 novembre scorso, nelle quali il sindaco Sala – in sintonia con il presidente Fontana – dichiarava che “a oggi, dal lato Regione, non si ipotizza nemmeno lontanamente di andare in lockdown stile marzo-aprile, e io lo condivido”, agli ospedali della Lombardia l’assessore Gallera recapitava la circolare che tutti i sanitari avevano sperato di non ricevere mai: “In considerazione della ulteriore crescita della curva dei contagi da virus Sars Cov 2”, si legge nella nota, “si rende necessario dichiarare l’attivazione del livello 4 dell’organizzazione ospedaliera”.

La Lombardia entrava ufficialmente nel livello più alto di allarme sanitario, quello che blocca ogni attività ospedaliera non Covid. Perché lo tsunami già allora non era più arginabile. Una verità taciuta da Fontana. Altrimenti avrebbe dovuto ammettere che il governo aveva ragione e che il lockdown andava fatto almeno tre settimane fa. Quando cioè Cts, medici e sanitari tutti avevano iniziato a invocarlo.

Un’omissione andata avanti per giorni. Il 4 novembre, alla firma del nuovo Dpcm, Fontana è arrivato a dire che la regione era stata “relegata in fascia rossa senza una motivazione valida e credibile” e blaterava di “schiaffi in faccia a tutti i lombardi”. Forse l’assessore Gallera non lo aveva avvertito di quanto aveva comunicato ai direttori sanitari: “Le attuali proiezioni delle esigenze di offerta assistenziale ospedaliera fanno ritenere che tra 14 giorni il fabbisogno di posti letto per pazienti Covid risulti essere di circa 750-800 p.l. di TI, di circa 7.500- 8.000 p.l. per acuti (di cui circa il 15-20% con assistenza ventilatoria non invasiva), e di circa 1.500 p.l. di degenze sub acute e di comunità”. Tanto che ordinava entro 48 ore “l’immediata sospensione totale” “dell’attività di ricovero programmato”.

Così, bombardati da messaggi fuorvianti, nella Milano alla vigilia del lockdown, ieri si parlava molto di soldi e per nulla di terapie intensive, tamponi mancanti, contact tracing in tilt e morti. Anzi. “Oggi abbiamo fatto più colazioni del solito”, dice il barista Mimmo, “e tutti stavano con Fontana, contro Conte”. Ma Mimmo aggiunge: “Ma è tutta gente da bar. Chi conosce la reale situazione negli ospedali, qui non viene da settimane. È rintanato in casa. Ha paura”.

Il suo locale non riaprirà e lui finirà in Cig: “Ma vale più la salute che il soldo”, dice. Il bar è a 5 minuti dall’Ospedale in Fiera, monumento al fallimento del duo Fontana-Gallera. “Una figuraccia nazionale, più utile per fotografi e inaugurazioni che per i pazienti, e soltanto ora parzialmente utilizzato, sempre per carenza di personale”, ha scritto ieri la Cgil.

Nei negozi si parla di bonus bici e mancati incassi, anche se poi tutti devono fare i conti con la realtà. E così si colgono telefonate di 50enni preoccupate che gridano “No, il vaccino antinfluenzale qui non c’è! Forse lo daranno dopo il 20, ma non si sa, l’Ats non risponde al telefono”.

E intanto sulle serrande dei negozi appaiono i primi cartelli di “Chiuso per lutto”. Come sulla vetrina del panettiere di piazza Wagner, davanti al quale una signora si ferma e sussurra: “Dicono: se ci chiudono, moriremo di fame. E non capiscono che ci chiudono perché stiamo già morendo”.

Gestione Covid, l’uomo dell’Oms dai pm

Un interrogatorio di cinque ore, sul cui verbale i pm di Bergamo hanno apposto il segreto. Sentito come persona informata dei fatti, Ranieri Guerra, direttore generale del ministero della Salute e vicedirettore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

I magistrati del pool che sta indagando sulla gestione dell’emergenza Covid-19 tra febbraio e maggio nella provincia di Bergamo – l’area più colpita d’Europa dal virus – hanno rivolto a Guerra domande sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, fermo alla versione del 2016 che ricalcava quella del 2006. Guerra tra il 2014 e il 2017 era direttore della Prevenzione presso il ministero della Salute, dunque sarebbe stato suo compito redigerlo e aggiornarlo. È stato interrogato anche sul dossier dell’Oms pubblicato il 13 maggio sul sito dell’organizzazione. Tema: la risposta italiana alla pandemia, l’impreparazione ad affrontare il diffondersi del contagio, la mancanza di misure adeguate, gli errori prevedibili e poi commessi. “Il piano nazionale di prevenzione 2014-2018, il quadro guida per la pianificazione e il finanziamento strategico della sanità pubblica, richiedeva una maggiore preparazione alle pandemie”: così si legge nel dossier, rimasto visibile sul sito dell’Oms non più di 24 ore e poi scomparso.

È stato in seguito recuperato da “Noi Denunceremo”, il comitato che riunisce migliaia di familiari di vittime e contagiati dal virus, che lo ha diffuso alla stampa il 10 settembre, dopo un articolo del quotidiano britannico The Guardian del 13 agosto (titolo: “Il piano pandemico italiano è vecchio e inadeguato”) che raccontava la storia del rapporto scomparso. La vicenda è stata poi ricostruita anche la programma tv di Rai3 Report.

Ranieri Guerra per cinque ore, dalle 11 alle 16, ha ricostruito i fatti e risposto alle domande dei magistrati di Bergamo, coordinati dal procuratore Antonio Chiappani, che hanno segretato proprio la parte del verbale che riguarda il dossier scomparso. I magistrati hanno intenzione di approfondire la vicenda, anche con nuovi interrogatori da realizzare nei prossimi giorni (lockdown permettendo) a membri del Comitato tecnico scientifico e a rappresentanti dell’Oms in Italia, sempre che l’Organizzazione mondiale della santà voglia collaborare.

Il punto della situazione, stamattina in Procura, a Bergamo, in un incontro tra il procuratore Chiappani e i due sostituti che si occupano dell’inchiesta, Maria Cristina Rota e Paolo Mandurino.

Accanto a questo filone, i magistrati di Bergamo continuano a indagare anche sulla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo il 23 febbraio e sulla zona rossa, ipotizzata ma poi non realizzata, nell’area di Alzano e Nembro. È in questo filone che sono indagati per epidemia colposa l’ex direttore generale dell’assessorato lombardo al Welfare Luigi Cajazzo, l’allora suo vice Marco Salmoiraghi, la dirigente Aida Andreassi, oltre a Francesco Locati e Roberto Cosentina, allora direttore generale e direttore sanitario dell’Asst Bergamo Est, da cui l’ospedale di Alzano dipende.

Locati e Cosentina sono indagati anche per falso in atti pubblici, per aver mentito, secondo l’accusa, sulla sanificazione della struttura.

Coi morti si torna a maggio. Lombardia fuori controllo

La corsa di SarsCov2 in Italia procede molto diversamente da una regione all’altra: la media settimanale del rapporto tra nuovi positivi e soggetti testati ieri decresceva in Puglia, Campania, Molise e Valle d’Aosta; aumentava a ritmo ridotto in Basilicata, Trentino, Marche, Toscana, Piemonte e Lazio; e cresceva, invece, in modo ancora deciso in tutte le altre a cominciare da Lombardia e Calabria. Questi dati, in forma aggregata, rendono il tasso di crescita nazionale dell’epidemia, che già da qualche giorno dà segnali di rallentamento con un frenata netta tra il 31 ottobre e il 1° novembre (come mostra il grafico in pagina elaborato dal fisico Alessandro Amici). A fronte di queste differenze tra una regione e l’altra sono più che comprensibili le diverse misure restrittive semplificate nei colori giallo, arancione e rosso, decise sulla base del report (oggi dovrebbe esserci l’aggiornamento) dell’Istituto superiore della sanità, il cui presidente Silvio Brusaferro ieri ha dovuto puntualizzare: “L’analisi del rischio guarda il trend, non è uno strumento che dà i voti e non è una valutazione, ma uno strumento per capire dove siamo, come evolve la situazione con regole rigide molto ben definite”.

 

I decessi Ritorna l’incubo, ora due giorni per frenare

Il dato drammatico del bollettino di ieri è ovviamente il numero dei morti: 445 (352 mercoledì), il 2 maggio erano stati 474. Un balzo indietro nel tempo, un ritorno all’orrore. Il fisico Amici spiega: “È preoccupante: il dato è molto sopra la stima fatta il 30 ottobre, talmente tanto da spostare anche la media a sette giorni molto sopra la curva derivata dai nuovi casi”. Questo che significa? “Da inizio ottobre a due giorni fa i decessi sono stati sempre l’1,3% dei nuovi casi di sette giorni prima. Per rimanere la stessa relazione tra due giorni anche l’aumento del numero dei morti dovrebbe rallentare, più o meno improvvisamente. Se invece dovesse rimanere molto rapido o addirittura accelerasse, come ieri, sarebbe un segno molto forte che il dato sui nuovi casi non è più affidabile e che il rallentamento del 1° novembre è dovuto a un problema di test e non una reale minore velocità di diffusione del virus. Non mi azzardo a fare stime per la settimana prossima sia perché la curva ha appena girato, sia perché spero ancora arrivi a breve l’ulteriore rallentamento dovuto al Dpcm del 25 ottobre”.

 

Il bollettino Pressione sugli ospedali in crescita

Ieri i nuovi casi registrati a livello nazionale sono stati 34.505 (più 3.955 rispetto a mercoledì) a fronte di 219.884 temponi (più 8.053 rispetto a mercoledì). “Non un buon segnale”, per il direttore generale del ministero della Salute Gianni Rezza, ma in realtà non un numero particolarmente sorprendente perché la media a sette giorni dei nuovi casi (come mostra il grafico in pagina) rimane allineata con la nuova pendenza cominciata il 1° novembre. Il rischio, come paventato da Amici, è appunto che non si tratti di un rallentamento ma di un problema di test con la Lombardia, addirittura 8.882 nuovi casi ieri, che potrebbe aver raggiunto una saturazione dei tamponi ed esser totalmente fuori controllo: non lo siamo a livello nazionale per il commissario straordinario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri, anche se “dobbiamo raffreddare la curva dei contagi”.

A ogni modo, se il rallentamento si confermerà, ci vorrà ancora tempo per diminuire in modo significativo la pressione sugli ospedali, già in grande difficoltà in molte zone del Paese. Ieri i ricoverati in terapia intensiva hanno raggiunto quota 2.391 (58.8% del picco massimo del 3 aprile: 4.068), il 31% (+1% sul valore soglia) dei posti letto disponibili in Italia. E i ricoverati in reparto Covid ordinario erano 23.256 (80,2% del picco massimo del 4 aprile: 29.010), il 45% (+5% sul valore soglia) dei posti-letto con Piemonte addirittura al 101, Valle d’Aosta al 92 e Lombardia al 71%.

De Luca rivuole chiudere (ma solo se non firma lui)

In Campania si ipotizzava la fascia rossa, si era sicuri di andare in fascia arancione, ci si è ritrovati in fascia gialla, ma nessuno se ne è rallegrato. Motivo del colore sbiadito? “Un Rt (l’indice di contagio, ndr) non altissimo, tra 1,2 e 1,5 e buoni numeri di disponibilità di posti in terapia intensiva”, rispondono – ma è una loro analisi – fonti dell’Unità di crisi regionale anticoronavirus guidata da Italo Giulivo. Che sottolineano “preoccupazione, perché far passare il messaggio che in Campania le cose vanno meglio che altrove non è corretto, e potrebbe indurre a comportamenti poco responsabili nei cittadini disorientati”. Una interpretazione che trova conferma nelle parole di Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione del ministero della Salute: “La Campania ha molti casi, ma ha un Rt molto più basso ad esempio di Lombardia o Calabria. Perché evidentemente la trasmissione è molto aumentata nelle scorse settimane, ma adesso in qualche modo si è stabilizzata. Evidentemente le ordinanze regionali possono avere avuto un certo effetto sulla trasmissione”. Chissà se De Luca apprezza il plauso. Pare di no.

I colori delle regioni sono stati disegnati sui dati del 25 ottobre, quando in Campania i nuovi positivi erano 2590 e i morti zero. Ieri erano 3888 con 37 deceduti. E infatti dagli staff del governatore Vincenzo De Luca e del sindaco di Napoli Luigi de Magistris filtrano perplessità e domande sul perché di un colore sbiadito e forse inadeguato alla situazione. Ben rappresentata dalle foto di degenti sistemati tra pronto soccorso, triage improvvisati e lettighe nei corridoi che rimbalzano dagli ospedali. Il Covid galoppa veloce: oltre ai 3888 contagi ieri su 19568 tamponi, con un rapporto test-positivi che sfiora il 20%, ci sono 210 sintomatici. Il secondo dato peggiore di sempre dopo gli oltre 4000 comunicati mercoledì pomeriggio. I posti letto di terapia intensiva occupati sono 174 su 243 attivabili, i degenti sono 1608 su 1940.

De Luca è irritatissimo per essersi trovato nell’area gialla. “Per quello che ci riguarda, sarebbe fuori luogo ogni atteggiamento di autoconsolazione e di rilassamento. La situazione è pesante”. Ha subito rinnovato l’ordinanza di chiusura delle scuole primarie e sta ragionando anche su ipotesi di coprifuoco anticipato e divieti alla mobilità tra Comuni. Scelte impopolari, che perciò preferirebbe arrivassero direttamente dal governo. Caduta nel vuoto la sua richiesta di un giro di vite severo su tutto il territorio nazionale “perché ormai il virus è diffuso ovunque”, De Luca ha lanciato un appello ai sindaci a emettere ordinanze che interdicano i luoghi del passeggio, i lungomare e i centri storici. Ha subito aderito il sindaco di Salerno, Vincenzo Napoli. Non pare voler fare altrettanto De Magistris, per ora. Al fronte contro De Luca – che lo tiene fuori dall’Unità di crisi e non gli consente di conoscere i dettagli dei numeri del contagio – il sindaco ne ha aperto un altro contro Roberto Speranza: attende da otto giorni il focus su Napoli e Milano promesso dal ministro (infatti si sente ogni giorno con Beppe Sala), e ancora non l’ha ricevuto. Ricordate? La promessa risale a quando il consigliere di Speranza, Walter Ricciardì, dipinse Napoli come un posto dove era possibile “prendersi il virus ovunque”. Pareva il preludio di un lockdown imminente. Invece Napoli e la Campania si sono ritrovate gialle. “O la Regione Campania non fornisce dati reali e attuali, oppure la sanità in Campania è andata in tilt nonostante il livello giallo, il più basso di rischio. Siamo sconcertati e preoccupati. Abbiamo il diritto di capire e ricevere dal governo informazioni precise”, commenta De Magistris. Il giallo della Campania gialla. Per poco, probabilmente. Con l’aggiornamento dei dati al 1º novembre, è probabile il passaggio all’arancione.

I giallorosa: Conte scaccia il rimpasto con nuove riforme

Una riunione per mostrare ai partiti che lui non si sente un premier solo al comando e che vuole ascoltare tutti. Ma anche per aprire un tavolo sulle riforme “per rendere più efficiente il sistema”: tutte da discutere, ma che è utile evocare anche per dare una prospettiva di legislatura al suo governo. È soprattutto questo, il senso del vertice di ieri sera tra Giuseppe Conte e i leader dei partiti di maggioranza. Con i contagi schizzati a oltre 34mila, il clima di quella che doveva essere una “verifica” di governo, infatti, è quanto meno surreale.

Molti nodi non vengono neanche affrontati, mentre un po’ tutti si affannano a ribadire che si tratta dell’inizio di un percorso. Sono le 19 in punto quando Nicola Zingaretti, Matteo Renzi, Vito Crimi e Roberto Speranza varcano la porta di palazzo Chigi. Conte cerca di mandare dei segnali di apertura. La settimana scorsa ha riunito anche i capigruppo di maggioranza e in Parlamento ha affrontato il voto sulle sue comunicazioni. Ha accettato il principio di un luogo di coordinamento con le Camere, che coinvolga l’opposizione (la prima opzione rimane quella di una conferenza unificata dei capigruppo). Ma al primo giro di tavolo si arriva nella consapevolezza che non è il momento di grosse forzature e grossi bracci di ferro. Zingaretti la verifica la stava aspettando fin dalle Regionali, nel tentativo di ottenere un cambio di passo dell’esecutivo e una maggiore incidenza del Pd. Tra gli argomenti da porre all’attenzione, prima di tutto il Mes. Ma il fondo salva Stati resta fuori dal tavolo di ieri sera. Così come quel rimpasto di cui tutti parlano, ma che poi sostengono di non voler sentir nominare. Anche perché il Movimento vuole rimandare le questioni più delicate a dopo gli Stati generali, il congresso che si concluderà a metà mese. “Dobbiamo avere una nuova leadership legittimata per impegnarci a lungo termine” è il ragionamento dei 5Stelle. Renzi invece vuol far pesare i suoi voti al Senato e cercare di rivendicare un neonato asse con il premier: a differenza della primavera scorsa, quando l’ex premier sposò la causa della riapertura per primo e contro la linea scelta da Conte, stavolta i due hanno giocato di sponda, almeno su qualche punto. Per un coprifuoco il più ritardato possibile a livello orario, sulle scuole da tenere aperte, contro l’asse più rigorista Speranza-Franceschini. Anche Iv è consapevole che non è il momento di porre la questione del cambio di alcuni ministri.

Ma non evita qualche stoccata, come la richiesta di trasparenza sui dati. C’è pure il ministro della Salute, ma ci arriva piuttosto scarico: tutta la sua attenzione è concentrata sulla gestione dell’emergenza sanitaria e di quella politica, con le Regioni impazzite.

In questo scenario si riparte dalle basi. Ovvero da quelle riforme che dovevano accompagnare il taglio dei parlamentari: dunque, il voto ai 18enni che i renziani hanno affossato alla Camera, e a cui il M5S tiene molto. Poi il sistema di voto per eleggere il presidente della Repubblica e la legge elettorale, su cui un accordo definitivo non c’è.

Il dato politico è la riunione stessa, con Conte che ci tiene a chiedere che sia limitata pure nella durata, per rispetto degli italiani costretti al coprifuoco. Alle 21 è già finita. “È andata molto bene”, commenta Zingaretti. D’altronde, è forse la prima volta che lui e il leader di Iv siedono insieme a un tavolo di governo.

Salvini aizza i presidenti. E Fontana, Cirio e Spirlì chiedono il “riconteggio”

Il registro chiamate del telefono è monotona, perfino noiosa. “Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì, Fontana, Cirio, Musumeci, Spirlì” e così via. Matteo Salvini chiama, ascolta e, se necessario, incita i governatori delle zone rosse e arancioni. A impugnare il Dpcm al Tar, come annunciato ieri dal governatore della Calabria Nino Spirlì, o a chiedere trumpianamente il riconteggio ché “i dati di Conte sono vecchi di dieci giorni”. Certo, il Piemonte, la Lombardia e la Calabria non saranno il Michigan, la Georgia o la Pennsylvania e la richiesta di lasciare aperto non sarà come conquistare la Casa Bianca, ma in serata la sintesi la fa il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, che da mercoledì sera è il più arrabbiato di tutti: “I dati sono vecchi di dieci giorni, il nostro Rt è passato da 2,16 a 1,91. Chiedo una verifica”. E a ruota si associano anche Fontana, Spirlì e il siciliano Nello Musumeci. Al punto che il ministro Speranza deve intervenire: “È surreale che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati nei propri territori”.

Ma il problema è politico e le telefonate tra Salvini e i governatori in lockdown sono drammatiche: “Matteo, così non teniamo più i commercianti e i ristoratori”, gli dice mercoledì sera Fontana dopo aver appreso che da oggi la sua Regione chiude. “I calabresi così muoiono di fame” gli confida Spirlì, già vice di Jole Santelli che si candiderà alle prossime Regionali: sicché il ricorso al Tar è cosa quasi scontata. E allora ieri mattina, dopo aver risentito Fontana, il leader del Carroccio è furioso e lo dice dritto: “Dobbiamo reagire contro questo governo indegno, non staremo a guardare le previsioni del tempo”.

Cosa questo voglia dire non è dato saperlo, ma il ricorso del governatore della Calabria è un buon inizio. Qualche collega potrebbe seguirlo, qualcuno chiedere di allentare la stretta tra due settimane se i dati dovessero migliorare, ma nel centrodestra circola anche l’ipotesi di ordinanze à la Trentino per disobbedire alle norme nazionali. E Salvini non si opporrebbe di certo. D’altronde il leader del Carroccio legge la “zona rossa” di Conte come un marchio per colpire le Regioni leghiste almeno fino al 3 dicembre: “Per un mese non si tocca palla – attacca – ma così si mette in ginocchio un Paese. I ristori sono mance o elemosina”. Così ieri ha sentito anche diversi sindaci leghisti della bassa Lodigiana dove a marzo era esplosa l’epidemia – tra cui Francesco Passerini (Codogno), Sara Casanova (Lodi) e Elia Delmiglio (Casalpusterlengo) – che sono pronti a impugnare singolarmente il Dpcm perché “oggi non possiamo essere paragonati ad altre parti d’Italia”.

Poi c’è la sindrome dell’accerchiamento. O meglio, dell’accanimento politico. E anche se l’esercizio nel dialetto lascia un po’ a desiderare, il concetto di Salvini è chiaro: “La Campania dove De Luca chiude tutto e dove c’è il disastro negli ospedali dov’è finita? Perché è zona gialla? Ccà nisciuno è fesso”. Come dire: il governo ha chiuso le Regioni di centrodestra (Lombardia, Piemonte, Sicilia e Calabria) e lasciato aperte quelle di centrosinistra. Un’accusa che rimbalza per tutto il giorno, dalla Camera dove anche Forza Italia e Fratelli d’Italia protestano animatamente contro il “mero calcolo politico” del governo (la deputata calabrese Maria Tripodi) ai leghisti vicini a Salvini: “Le zone rosse sono state decise dal colore politico”, si agita il segretario lombardo del Carroccio, Paolo Grimoldi. E anche il segretario, all’ora di pranzo, dal suo ufficio in Senato, attacca: “Le nuove norme sono una lotteria basata su dati vecchi: perché Lombardia sì, Toscana e Campania no? A Milano, Torino e Palermo non ci sono fessi, e a Roma c’è qualcuno attaccato alla poltrona”. L’unico leghista che si dissocia è il governatore del Veneto Luca Zaia, Regione che è ancora zona gialla ma presto potrebbe diventare arancione: “Le proteste sono legittime e anch’io avrei qualcosa da replicare, ma tutti abbiamo un obiettivo, cioè di uscire presto da questa crisi”. Un altro segnale di distanza da Salvini. E infatti nel Carroccio nessuno ci fa più caso: “Ormai Luca va per conto suo”.

Pagliacciata sediziosa

Dopo le mosse eversive delle giunte di Lombardia, Piemonte e Calabria, aizzate dal mestatore Salvini, si spera che nessuno rompa mai più le palle con le prediche al governo sul dialogo con le opposizioni. Almeno finché le opposizioni non saranno qualcosa di diverso dal Cazzaro Sedizioso. Ormai anche il leghista più sfegatato dovrebbe aver capito che la salute e la vita sono cose troppo serie per affidarle a una banda di spostati che si fanno chiamare “governatori” e non riescono a governare neppure il ballatoio di casa loro. Hanno voglia Conte, Speranza, Brusaferro e gli altri con la testa sul collo a spiegare che la divisione dell’Italia in zone rosse, arancioni e gialle non è una pagella politica per punire le giunte di destra e premiare quelle di sinistra: è la presa d’atto di un contagio che, in certe aree, galoppa e minaccia gli ospedali più che in altre. Le gabbie numeriche per incasellare le Regioni sono state concordate fra governo, Iss, Cts e sgovernatori in lunghe e defatiganti riunioni. Quindi nessuno ha scavalcato nessuno. E gli squilibrati che contestano i dati come “vecchi”, “superati” o financo “truccati” fanno ridere per non piangere: perché sono i dati che forniscono loro.

Le colpe sono tante e di tanti, ma la pandemia è mondiale e colpisce anche i Paesi meglio governati e organizzati. Non è il momento di affrontarle: prima si limitano le occasioni di contagio e dunque gli ingressi negli ospedali, poi si fanno i conti. I dati dicono che i Dpcm del 13, 18 e 25 ottobre qualche risultato l’hanno già sortito, stabilizzando la crescita giornaliera della curva: non quella dei morti, sempre più spaventosa (quasi tutti anziani contagiati in famiglia da parenti asintomatici che tornano da scuola e dal lavoro), ma riferita a contagi di 15-20 giorni fa; bensì quella del rapporto positivi-tamponi e dei nuovi ricoveri. Quindi anche il Dpcm, il più severo, che parte oggi migliorerà verosimilmente le cose. E forse ci risparmierà il lockdown totale, ora meno duro di marzo anche nelle quattro Regioni “rosse”. Bisogna saperlo e farlo sapere, per dare una prospettiva ai cittadini incolpevoli chiamati a sacrificarsi al posto dei colpevoli: quei sacrifici servono e stanno già producendo risultati. L’importante è concentrarsi su ciò che è utile ed essenziale e lasciar abbaiare negazionisti, catastrofisti e perdigiorno del Mes, del rimpasto, delle larghe intese, del dialogo con opposizioni e Regioni. Chi sgoverna la Lombardia non sa neppure comprare i vaccini antinfluenzali (e, quando li trova, attiva un call center che manda dal dentista gli anziani che chiamano). E chi sgoverna la Calabria è riuscito in sei mesi ad aumentare i posti letto in rianimazione di 6 unità (sei!). Il minimo sindacale è negargli il diritto di parola.

Benito Pérez Galdós e il sogno di sentirsi come Shakespeare

“Sono un vagabondo” diceva di sé lo scrittore Benito Pérez Galdós (1843-1920), “uno spagnolo errante”, preso com’era a concedersi le sue escapatorias (fughe), che lui stesso chiamava così proprio perché frettolose. Drammaturgo sopraffino e romanziere altissimo, l’esistenza dell’autore è in effetti movimentata. La sua stessa ispirazione letteraria proviene da un viaggio. È il 1867, un giovane Benito si trova a Parigi: un giorno, a passeggio tra i bouquinistes del lungosenna, scopre Balzac (acquista una copia lisa di Eugénie Grandet) e avverte ardere dentro il fuoco della letteratura, che andrà di pari passo per tutta la vita con l’amore per i viaggi che, scrive in Memorias de un desmemoriado, “mi correggevano gli affanni dell’animo”. Così, alla corposa produzione narrativa (tra gli altri, i 46 volumi della serie storico-romanzesca Episodios nacionales) affianca un’ampia collezione di racconti di viaggi dal registro più acuto e brillante. Tra questi, l’editore elliot recupera nel centenario della morte La casa di Shakespeare (a cura di Carlo Alberto Montalto): una cronica del viaggio del 1889 a Stratford-upon-Avon. Per il nostro è una specie di “pellegrinaggio”: insieme a Dickens – di cui fu il primo traduttore in castigliano – l’autore di Amleto è ciò che vuol diventare. Sul treno che dalla grigia e industriale Birmingham lo porta a Stratford scrive: “Ogniqualvolta ho visitato l’Inghilterra sono stato tormentato dall’ansia di vedere l’illustre patria di Shakespeare”. Giunto “nel ridente paese” ora che “sono fuggiti quei nudi fantasmi che si avvolgono nel fumo e soffocano lo spirito del viaggiatore” alloggia allo Shakespeare Hotel, in cui il proprietario ha assegnato a ogni stanza il nome di un’opera del maestro. Quando il giorno dopo si reca alla dimora natale, una casupola ben tenuta ma modesta su due piani, lui non esita a definirla “un luogo augusto”. Una volta dentro, nella cucina del piano terra si siede sulla panca dove William trascorreva ore a scrivere come in una specie di passaggio di testimone. Tuttavia, quello di Pérez Galdós per Shakespeare resta l’innamoramento dell’allievo per il maestro, che “è stato e sarà sempre meraviglia dei secoli”.

Garko, uno sventurato privato dello stato di essere umano

Qualche tempo fa, il Sommo Pontefice ha reso noto che la Chiesa guarderebbe con occhio clemente un legislatore il quale attribuisse alle coppie omosessuali una tutela (quale?) così come la garantisse alle cosiddette “coppie di fatto” eterosessuali. I divorziati non trascorsi per un annullamento rotale, e così via. Lo ha fatto non attraverso un documento, ma un’intervista a un settimanale: che dal punto di vista giuridico vaticano altro non è che l’espressione di un parere di uno, pur prestigiosissimo, dei tanti.

Questi preti sono bravissimi nel girare la frittata giusta convenienza. Solo pochi decennî fa i più saggi e più dotti dei Monsignori sostenevano: l’omosessualità è un peccato mortalissimo, imperdonabile, soprattutto se inquadrato in un’unione la quale al peccatore facesse manifestare il proposito della fermezza e della durata nel tempo. L’omosessuale che invece fosse (per istrada e simili) caduto una tantum in tentazione, per poi pentirsi – e ripentirsi con il Sacramento della Confessione – cadeva in un peccato, nella scala, di minor gravità. La condanna di tale comportamento risale, peraltro, nemmeno al Vangelo, quanto piuttosto dalle veementissime prese di posizione delle Epistole paoline, di San Giovanni Crisostomo e di Santa Caterina, che decretano la consumazione dell’atto contro natura il più grave della scala dei crimini contro Dio. Adesso si propende per la via opposta: ma i buoi sono già scappati dalla stalla e di clienti ne restan pochi, per lo più in provincia.

Vengo ora a un caso attualissimo e popolarissimo, quello dell’attore Gabriel Garko. Premessa: non lo conosco come non conosco nessuno del suo ambiente. Procedo per quelle che il Diritto chiama presunzioni. E ho anche colpe nei suoi confronti. Negli anni del passato ho scherzato su di lui, tanto mi pareva ridicolmente improbabile che non appartenesse al vasto ambito dei maschi attratti dagli altri maschi – cosa, che a mio vedere, non appartiene affatto all’ambito di ciò ch’è contro natura. Era difficile, pur se ribadisco di aver sbagliato, non sfottere un così palese ed effeminato omosessuale che ribadiva di avere profondi amori femminili.

Glieli avevano procurati, questi amori, e imposti, i suoi padroni, agente, produttori, ufficio stampa. Ai quali doveva obbedire – per un complesso di motivi non solo di carattere economico – perinde ac cadaver. Or Garko fa un’accorata confessione televisiva, fa il suo coming out: commosso e commovente, pur se diciamo, come un annuncio a tumulazione avvenuta. È omosessuale, lo è sempre stato, e ora ha un profondo legame d’amore con un ragazzo di Torre Annunziata che scarica i bagagli alla Malpensa. Le mie presunzioni dicono: i padroni dello sventurato Garko hanno deciso che il loro tutelato (ossia la loro cosa) era un po’ in ribasso, che come prodotto rendeva meno, e che serviva dunque creare un fatto clamoroso che lo riportasse al centro dell’attenzione. Hai fatto la “velata”? basta, devi essere l’eroe del coming out. Ma non limitarti a questo: creati una vera storia d’amore (pur essa fabbricata da noi) che t’inquadri nella categoria piccolo-borghese dell’omosessuale che ha famiglia e vincolo basato sull’amore. Il Papa e la Casalinga già si estasiano all’idea della coppietta che al supermercato la domenica fa la spesa per tutta la settimana. Garko è stato dunque, per la seconda volta, reificato, reso una cosa alla quale si negano volontà e sentimenti. Peccato d’incomparabile gravità, se Dio esistesse. Non so se abbia Garko la forza di vergognarsene, pur non potendo impedirla, la reificazione. Ma non ci scherzo più sopra. Se fossi in lui, direi: sono omosessuale, vado per istrada, e mi scelgo dieci ragazzi al giorno come mi piace. Ma non può. Si tratta, invece, di uno sventurato privato dello stato di essere umano da parte d’interessi, in teoria opposti, di fatto coincidenti. Non voglio esprimermi sul cosiddetto “fidanzato”: tutti dobbiamo campare. Ma per lui, Gabriel Garko, provo solo tenerezza e pietà.