McQueen. Da 50 anni è leggenda. Ribelle, sensuale, unico

“Non sono un grande attore, ammettiamolo”, confessò una volta. “Non ho molte possibilità. Uno come Richard Burton ne ha una vasta gamma, io no. Ci sono alcune cose che posso fare, ma quando non sono bravo, faccio schifo… C’è qualcosa nei miei occhi da cane arruffato che induce la gente a credere io sia bravo. Non sono così bravo”. Che un attore si dia del cane, fosse anche solo per lo sguardo, dice dello sprezzo del pericolo, ma non può stupire: era uno che gli stunt, da Bullitt a La grande fuga, se li faceva da solo; che la gioventù bruciata non l’ebbe per parte ma per fedina; che auto e moto veloci erano il pane quotidiano e prima, ventenne in sella a Long Island, il modo per guadagnarselo. Era Steve McQueen: morto il 7 novembre 1980, senza lasciare eredi, almeno al cinema.

Fu un cancro, curato con metodi alternativi e scriteriati (iniezioni intramuscolari di cellule animali, vitamine, dieta biologica e frequenti clisteri di caffè) da un medico in odore di ciarlataneria a Juárez, Messico, a portarcelo via, un cancro che a lungo l’attore si ostinò a negare, in perfetta continuità con i suoi ruoli, “per risparmiare un dolore alla mia famiglia e ai miei amici e mantenere il mio senso di dignità”. Attecchì ai polmoni, per i due pacchetti di sigarette al giorno o per l’amianto respirato da giovanissimo portuale, chissà. Aveva cinquant’anni, e quaranta dopo il suo lascito è intatto: l’omonimo regista britannico avrà pure vinto, con 12 anni schiavo miglior film nel 2014, quell’Oscar che a lui è mancato, ma è un campionato diverso, cinema contro leggenda. Nella Hollywood anni Sessanta e Settanta pareggiò Paul Newman, col quale condivise il sex-appeal, il set, L’inferno di cristallo (1974), e soprattutto la passione per le corse, condensata in una battuta di La 24 Ore di Le Mans, magniloquente flop del 1971: “La vita è correre. Tutto quello che avviene prima o dopo è solo attesa”. C’era lui, c’era Paul, c’erano Robert e Clint, ma McQueen aveva qualcosa in più, e qualcosa in meno: “Sembrava meno complicato di Newman, più ruvido di Redford, meno legnoso di Eastwood”. I critici, tirò le somme il Los Angeles Times in un bel necrologio, ne avevano fatto “il modello dell’eroe scarno, laconico – o antieroe. Era più fisico che cerebrale: un uomo d’azione operaio”.

Impossibile prenderne il calco, le radici, l’idiosincrasia e l’aura non l’avrebbero permesso: “McQueen e l’immagine di McQueen spesso trascendevano i film che interpretava”. Iniziò nel 1952, sul palcoscenico newyorchese, nella pièce yiddish di Molly Picon in cui gli toccava un’unica battuta, “Alts iz farloyrn”, vale a dire “Tutto è perduto”: invero, avrebbe fatto di tutto per disattenderla, con un quindicennio – da I Magnifici Sette alla star del 1959 a L’inferno di cristallo – senza eguali, anche in termini di cachet. Desiderato dalle donne, ammirato dagli uomini, malgrado i premi non fioccassero e la poliedricità non gli arridesse, il pubblico ne fece il divo più pagato: per ciascuno dei due ultimi, non esaltanti film, Tom Horn e Il cacciatore di taglie del 1980, strappò gli abituali cinque milioni di dollari; per tre settimane di lavoro sul set di Apocalypse Now arrivò a chiederne tre, rifiutati. Ma il suo destino era già scritto, bastavano i titoli a desumerlo, maschio, temerario, ineluttabile: L’inferno è per gli eroi (Don Siegel, 1962), Amante di guerra (1962), La grande fuga (John Sturges, 1963), Soldato sotto la pioggia (1963), Cincinnati Kid (1965), L’ultimo buscadero (Sam Peckinpah, 1972), Getaway! (ancora Peckinpah, 1972, dove conosce la seconda delle sue tre mogli, Ali McGraw), Papillon (1973). Sessuale più che sensuale, nondimeno, ha saputo provarsi romantico, come ne Il caso Thomas Crown (1968), e dunque negarsi l’autocertificato ridotto spettro di interpretazione: biondo, occhi blu, cazzone quanto cazzuto, sicuro di sé quanto inquieto, ha fatto di identikit immaginario, di indole epica. Bullo da riformatorio, taglialegna, venditore ambulante, fattorino, riparatore di televisori, allibratore, barista, Marine, quindi, motociclista, pilota, e attore. Come nessun altro, come se stesso: “Steve McQueen – osservò il critico inglese David Shipman – può recitare con la nuca. Può recitare senza fare nulla… La sua voce non è eccezionale e non mostra segni di versatilità. Ma la versatilità, per quanto lo riguarda, è immateriale. Gli basta apparire sullo schermo per riempirlo”.

Dalle barricate allo yacht, la biografia di tutta una generazione

Sono tempi, i nostri, in cui la gente è presa dalla fregola di parlare di sé, nell’inspiegabile convinzione che la propria vicenda personale possa parlare a tutti o anche solo interessare a qualcuno. La lezione di Gadda – “l’io è il più lurido dei pronomi” – è caduta nell’oblio a discapito della qualità del dibattito pubblico, delle relazioni personali, dei libri e dei giornali. Ma fin dalle prime pagine de L’infedele, titolo bifronte dell’ultimo libro di Gad Lerner, si capisce che dentro questa autobiografia disordinata c’è il ritratto di una generazione, o almeno di parte di essa, certamente la più pubblica. L’autore comincia a raccontarsi in mutande, non solo metaforicamente. E non per lagnarsi di quella foto che lo ritrae a bordo piscina in Sardegna con De Benedetti, che ciclicamente salta fuori dalle teche del luogocomunismo. C’è lui in mutande, nel sedile posteriore di una Volvo, intento a cambiarsi dopo il funerale del padre, figura capitale (vabbè, lo è quasi sempre) raccontata con una sincerità disarmante. Dopo una vita di scomposti rapporti con un padre che trasmetteva “inadeguatezza per condividere le proprie sconfitte”, neanche la morte riesce “a provocare un moto di filiale disperazione”. Gad si cambia d’abito perché deve partire per le vacanze (è il Natale 2013): villeggiatura di lusso, alle Seychelles, sullo yatch di un amico facoltoso. Tra gli atolli legge un ritratto al vetriolo del Foglio: “Dove c’è un principe, c’è Gad”. Aneddoti falsi e maldicenze a poco prezzo, ma quel che conta è che l’articolessa centra sulla fronte della gauche caviar il bersaglio della contraddizione. L’incoerenza dei cuccioli del maggio – finiti non in banca, come il Compagno di scuola di Venditti, ma sulla barca dei banchieri – diventa il filo (rosso, naturalmente!) di una narrazione dove trovano cittadinanza mille altre storie non meno interessanti (l’ebraismo, i quotidiani e le tv, Lotta continua, il sesso).

Al nostro giornale, in quell’estate del 2018 in cui la stampa di sinistra celebrava Marchionne, Gad Lerner rilasciò un’intervista coraggiosa, i primi vagiti della riflessione de L’infedele: “Sono un radical chic. Il Pd non ripartirà da quelli come me. Reputo la mia biografia compromessa. Da giornalista mi sono occupato a lungo dei lavoratori e dei loro diritti perché ritenevo giusto farlo. Ma sono un borghese benestante”. Gad ancora non scriveva sul Fatto, a cui sarebbe approdato la scorsa primavera dopo la dolorosa separazione da Repubblica (cui sono dedicate pagine amorevoli, trasparenti e taglienti come un vetro). Vi chiederete se l’ammissione del tradimento è sufficiente o se è imperdonabile aver dimenticato che “non esistono poteri buoni” (De André). Quale che sia la risposta, l’autore non è in cerca di assoluzioni. Si è spogliato, pensa il lettore voltando l’ultima pagina, nel tentativo di mettere a frutto un’esperienza e accettando le imperfezioni che rimanda lo specchio: “Non ce l’hanno insegnato le femministe che bisogna ‘partire da sé’? Pago il prezzo dell’esibizione per cercare di spiegarmi le ragioni di un distacco doloroso: la sinistra senza operai”. Ma soprattutto gli operai e il popolo senza rappresentanti, i poveri senza dignità e lavoro. Tornando a parlare di generazioni, quella di chi scrive è rimasta orfana: se sinistra è una parola sinistra, le responsabilità sono anche di quella generazione che ha sognato la rivoluzione. E poi si è svegliata.

Sartre, Marchionne e Pasqualino Settebellezze

Pubblichiamo qui un estratto del nuovo libro di Gad Lerner “L’infedele. Una storia di ribelli e padroni”, in libreria da oggi per Feltrinelli.

Solo una volta ebbi l’occasione di incontrare personalmente Sergio Marchionne. La Fiat aveva già firmato accordi separati con i sindacati metalmeccanici, isolando la Fiom Cgil. E, perseguendo la medesima logica di rottura, nel 2012 era uscita da Confindustria. Fui invitato a cena al Lingotto da un suo stretto collaboratore che da decenni seguiva con discrezione e competenza le relazioni con la stampa della Fiat. Naturalmente ero compiaciuto che Marchionne volesse fare una chiacchierata con me e, soprattutto, ero curioso. Dunque, nella foresteria, in una sede ormai deserta, ci trovammo solo in tre. Marchionne mi fece molte domande sulla situazione politica e sugli orientamenti della Cgil, che stava vivendo un periodo di forte isolamento. Manifestò un atteggiamento sprezzante nei confronti del ceto imprenditoriale italiano per via dei troppi suoi esponenti (fece i nomi) che si davano alla bella vita campando di rendita. Enfatizzò la mole di lavoro cui si sottoponeva. Ma devo confessare che a spiazzarmi e a rimanermi impressi furono due dettagli di quella cena, peraltro frugale.

Il primo fu la quantità di sigarette che Marchionne accendeva e spegneva in continuazione fra una portata e l’altra. Mai avevo visto un fumatore così incallito. Il portacenere di fianco al piatto si riempiva di mozziconi, uno dopo l’altro. All’uscita, il collaboratore che lo accompagnava anche nei frequentissimi spostamenti fra Torino e Detroit mi confidò che il rivestimento interno del jet privato con cui volavano, e in cui giocavano a carte, doveva essere cambiato spesso, perché impregnato di fumo. Ma ancor di più mi impressionò il desiderio manifestato da Marchionne di mostrarmi la scena di un film di Lina Wertmüller, nella quale egli vedeva racchiusa la condizione strutturale dell’Italia e la sua stessa filosofia di vita. Si trattava di Pasqualino Settebellezze, risalente al 1975. Invano, più volte, il cameriere tentò di azionare il videoregistratore già predisposto nella saletta. Tanto che, finita la cena, prima di congedarmi, Marchionne, un po’ innervosito dall’inconveniente tecnico, mi condusse nel suo ufficio sottostante dove finalmente il filmato partì. Era una scena terribile. Pasqualino, interpretato da Giancarlo Giannini, prigioniero in un lager nazista, si trovava al cospetto di Hilde, la sadica comandante del campo. Un donnone maturo, cui l’attrice Shirley Stoler donava sembianze che inevitabilmente richiamavano la cancelliera Angela Merkel. Alle sue spalle, un ritratto di Hitler. Sul pavimento, il tappeto con disegnata una svastica. Nelle mani di lei, un frustino.

“Ora tu fai amore con me, poi io uccido te con mie mani, hai capito?”

Il poveretto si toglieva i pantaloni della divisa da deportato e invano cercava di ottemperare alla prestazione sessuale richiesta. Allora la carceriera gli allungava una ciotola di cibo per dargli l’energia necessaria e, nell’attesa, intonava un canto nazista. Quando poi Pasqualino la spogliava e riusciva a compiere fino in fondo il suo dovere, Hilde finalmente lo ricambiava con accenti di verità sconsolata e crudele:

“Tu fai schifo a me, tua voglia di vivere, tuo amore… Tu merda subumana mediterranea riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio… Per questo rimarrete voi, vincerete voi, piccoli vermi vitali senza ideali né idee”. Il guappo napoletano Pasqualino sopravvivrà e verrà nominato kapò della baracca 23, ma a condizione di indicare sei prigionieri da eliminare subito, altrimenti verranno sterminati tutti. In quello spietato confronto fra la vitalità mediterranea e la disciplina germanica, Marchionne trovava forse lo spirito di rivincita che lo animava e al tempo stesso lo induceva all’autodistruzione con il fumo. Un’incarnazione dello spirito animale del capitalismo che non avrei mai saputo concepire. Né saprei dire veramente quanto egli si identificasse nel disperato maschio italiano Pasqualino, e quanto invece nella sua altrettanto disperata aguzzina tedesca. Quando morì di cancro, nell’estate del 2018, Sergio Marchionne venne celebrato anche a sinistra come un manager lungimirante che aveva saputo imporre la sua visione del mondo. Dell’enorme ricchezza che aveva accumulato, non sapeva che farsene. Mai se l’è goduta.

© Feltrinelli 2020

Crisi senza fine: i salari italiani sono ancora più bassi di quelli del 2007

Arrivano i nuovi lockdown e torna il concetto di lavoratori essenziali. Ma gli stipendi, specie di molti addetti ritenuti “indispensabili”, restano i più bassi delle principali economie europee. Per le buste paga degli italiani è come se la crisi non fosse mai finita. E con la parola crisi non si intende il crollo della produzione innescato dal Covid, ma la recessione iniziata nel 2008. Anche un attimo prima che il virus ci travolgesse, infatti, i nostri salari erano comunque inferiori a quelli del 2007. Nel 2019 quello medio si è fermato a 30.028 euro annui, contro i 30.172 euro di dodici anni prima.

Questo è il risultato dello studio del ricercatore Nicolò Giangrande per la Fondazione Di Vittorio (Cgil). La situazione dell’Italia, dove è esploso il part-time e la maggior parte dei posti creati in questi anni è a basse qualifiche, è unica tra i Paesi comparabili. Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna hanno superato la cifra che avevano registrato nel 2007. I francesi, per dire, sono passati da 35 mila a 39 mila euro; i tedeschi da circa 36.500 a 42.400 euro. Il nostro Paese non è riuscito a sfruttare il treno della ripresa ed è arrivato alla nuova crisi senza aver colmato il ritardo (ritardo che riguarda anche il Pil in generale). Tornando ai salari, anche se allarghiamo lo sguardo al 2000, la crescita italiana è di appena il 3,1%. Solo la performance della Spagna ci assomiglia, partita da 26.884 all’inizio del millennio, arrivata 26.676 sette anni dopo e a 27.468 nel 2019.

Da noi, una famiglia con due redditi prende poco più di 45 mila euro lordi all’anno, mentre in Germania supera i 69 mila. Un single italiano va di poco oltre i 21 mila euro, reddito inferiore di 10 mila euro rispetto a un tedesco. Per capire che cosa ci porta in fondo alla classifica bisogna vedere come è composto – e come sta cambiando – il nostro mercato del lavoro. Nel 2008 i dirigenti, figure con gli stipendi più alti, erano il 2,1% del totale, mentre oggi sono l’1%. Il problema più grande sembra il declino dell’industria, che nessun governo è riuscito ad arginare. Gli addetti alle professioni tecniche sono passati dal 22,3% al 17,6%. Quelli che svolgono mestieri manuali specializzati sono scesi dal 26,6% al 21%. Sono invece aumentate le posizioni nel commercio e nei servizi e, al contrario di quanto successo nell’Eurozona, le mansioni non qualificate. Poi c’è il proliferare del part-time, che da noi è spesso involontario. In Italia con un tempo parziale si guadagna meno di un full time non solo per le minori ore lavorate, ma anche in termini di salari orari.

Anche se calcoliamo la quota salari in rapporto al Pil, la nostra percentuale risulta la più bassa. La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha ripetuto martedì che punta a introdurre un salario minimo e pure la Commissione europea viaggia in tal senso con una proposta di direttiva. L’obiettivo è anche sostenere chi – operando per esempio nella logistica, nei supermercati e nelle pulizie – sta garantendo servizi essenziali rischiando la propria salute.

Proprio la crisi Covid, però, è usata dalle imprese come pretesto per non innalzare gli stipendi dei dipendenti. Il leader della Confindustria Carlo Bonomi sta dettando la linea per i rinnovi: niente aumenti sui minimi, solo premi di risultato nelle aziende che vanno bene. Oggi, per questo, sciopereranno i metalmeccanici.

La minaccia “tedesca”. È ancora guerra nella Bce

La reazione messa in campo dall’Eurozona davanti alla pandemia e alla relativa crisi economica – in sostanza, sostegno incondizionato della Bce e sospensione dei vincoli di bilancio (più quella parziale del divieto di aiuti di Stato) – è qui per restare o bisogna invece tornare quanto prima al vecchio mondo? Lo scontro silenzioso che si combatte tra i governi dell’area dell’euro è tutto qua e la Banca centrale ovviamente non è indenne da queste tensioni, specie perché finora è stata l’unico vero argine al tracollo: la Francia, i Paesi mediterranei e persino nordici come l’Olanda sono convinti che il mondo di prima non debba tornare, un bel pezzo dell’establishment (non solo conservatore) tedesco e i suoi tradizionali alleati “rigoristi” non vedono l’ora che lo faccia.

È questo stato di cose che riflette una notizia battuta dall’agenzia Reuters, che ha ottime fonti a Francoforte e stavolta ne cita quattro (ovviamente anonime), che potrebbe innescare una bomba nell’Eurozona: la sostanza è che, visto che a dicembre bisognerà comunque aumentare il pacchetto di stimolo all’economia, tra i governatori si discute se (o meglio, alcuni governatori spingono per) usare uno strumento tecnico che spinga alcuni Paesi a usare i prestiti europei anziché emettere debito statale. Portogallo e Spagna, che si finanziano ormai quasi a zero anche sui decennali, hanno infatti annunciato che – Sure a parte – non ricorreranno a prestiti comuni neanche per il Recovery Fund: un credito condizionato a una serie di obiettivi e controlli e, per di più, privilegiato rispetto a quello statale. Lo stesso governo italiano ha fatto sapere che li userà con parsimonia. Tra Bce e assenza del Patto di Stabilità siamo, per molti versi, in una situazione in cui non c’è alcun vincolo esterno per i Paesi mediterranei: in sostanza, non gli si può dire che politiche adottare e costringerli se non vogliono.

E qui arriva la notizia, diciamo la minaccia, riportata dalla Reuters. Attualmente la Bce ha in piedi, per quel che interessa ai nostri fini, due programmi di acquisto: il vecchio Quantitative easing (App in sigla), teoricamente in via di chiusura, e quello anti-pandemia da 1.350 miliardi (Pepp) fino a giugno 2021. Quest’ultimo, peraltro, è molto più flessibile del Qe (non rispetta, ad esempio, il limite degli acquisti per quota di capitale) e finora è stato gestito “premiando” Paesi come l’Italia, che ha assorbito circa il 20% degli acquisti che, sommati a quelli del programma App, fanno 150 miliardi molto abbondanti nel 2020 (è appena il caso di ricordare che la banca centrale sta rinnovando i titoli in automatico e retrocede gli interessi agli Stati). Il Btp decennale italiano ieri pagava lo 0,66%: una cosa che non era mai successa.

Torniamo alle intenzioni tedesche riportate da Reuters: tutti sanno che a dicembre la Bce dovrà allungare e aumentare (di 500 miliardi, si dice) i suoi programmi di acquisti; come si farà allora a mettere pressione sui Paesi ad alto debito? L’idea in discussione, pare, sia estendere non il flessibile Pepp, ma il più rigido Quantitative easing, che è sottoposto alla cosiddetta “capital key”, cioè gli acquisti pro-quota (per l’Italia si passerebbe dal 20% del Pepp a meno del 14%): sarebbero comunque un sacco di soldi, ma evidentemente si spera che il segnale di “normalizzazione” faccia effetto sui mercati facendo salire gli spread e spingendo Italia, Spagna eccetera nelle braccia dei prestiti del programma Next Generation EU (se non del famigerato Mes).

Il motivo è presto detto: quei soldi – raccolti dalla Commissione ma garantiti dagli Stati – comportano vincoli quanto a destinazione e tempistica, ma anche in termini di bilancio pubblico quando sarà ripristinato il Patto di Stabilità (pienamente e nella sua forma originaria dal 2023 auspicano anche pubblicamente i politici nordeuropei) visto che nel Recovery si fa riferimento alle “raccomandazioni” della Commissione ai vari Stati.

Finora la Bce francese della governatrice Christine Lagarde ha fatto argine a questi progetti, ma la partita – come si vede – non è chiusa: le difficoltà nel chiudere l’accordo proprio su Next Generation EU stanno lì a ricordare a tutti che non bisogna troppo far conto sugli afflati solidaristici in quel ring commerciale che è l’Unione europea.

Lockdown al tempo dei lanzichenecchi

I

l mio concittadino Antonio Balbiani, classe 1838, fu uomo dal multiforme e stravagante ingegno. Stando ai suoi pochi biografi ebbe una vita altrettanto singolare. A conferma di ciò l’incredibile particolare che riguarda la sua morte: tornato nella casa natale per consumarvi gli ultimi giorni di vita vi morì. Ma, a quanto è detto, del cadavere non si trovò traccia alcuna né a tutt’oggi è dato sapere dove riposino i cosiddetti resti mortali (il che accende uno sprazzo di memoria sull’omonima novella pirandelliana).

In vita peraltro non si risparmiò né quale gaudente né quale scrittore poiché quella fu la passione che lo animò per tutta l’esistenza. Stante l’epoca il romanzo storico fu il suo principale campo d’azione, pur se non si sottrasse nemmeno al giornalismo arrivando a fondare addirittura una gazzetta. Per i cultori il suo titolo più famoso è Lasco, il bandito della Valsassina, per i curiosi invece è I figli di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella che sulla copertina si dichiarava quale seguito ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni con aggiunte circa peste, untori e colonna infame.

Per quanto mi riguarda, invece, il suo capolavoro è una splendida guida del lago di Como, minuziosa come se il buon Balbiani ne avesse percorso le rive munito di una lente d’ingrandimento, farcita di notizie pratiche a uso dei viaggiatori d’allora, aneddoti, descrizioni di ville, monumenti, panorami e anche, non potevano mancare, raccordi storici con le vicende di questo o quel posto. La tengo sempre a portata di mano, aprendola spesso a caso e dedicando qualche minuto a un paio di paginette per rinfrescare la memoria. Non potevo quindi non riprenderla in questo periodo e ripassare ciò che il Balbiani documenta a proposito del passaggio dei Lanzichenecchi in quel Seicento che fa da cornice al romanzo manzoniano. Poiché l’anagrafe non gli permise di essere testimone diretto della vicenda, il mio concittadino si affida alle memorie di un altro bellanese (non si fraintenda, lungi da me ogni campanilismo, ma le cose stanno proprio così): è, costui, Sigismondo Boldoni, medico, filosofo, poeta che morirà di peste a soli 33 anni in quel di Pavia e finirà gettato in una fossa comune, così che nemmeno di lui esiste una tomba su cui deporre un fiore. Ma bando alle tristezze e torniamo al caso in oggetto. Il destino vuole che il buon Sigismondo si trovi in quel di Bellano proprio mentre la marmaglia alemanna, stimata in circa 40 mila esseri umani contaminati, si riversa sulla sponda orientale del lago, lasciandosi andare a ogni sorta di crimine, dal saccheggio allo stupro, dall’omicidio all’incendio onde “da ogni parte grondano le lagrime degl’infelicissimi abitatori”. Lo stesso Boldoni non è meno spaventato dei suoi poveri concittadini. Lo è anzi al punto che una notte, nonostante il lago sia in pessime condizioni (si può immaginare che soffiasse un brutto vento di tempesta) lo affronta lo stesso per raggiungere un convento di frati cappuccini in quel di Bellagio per mettere al sicuro il suo denaro, le poesie scritte che gli stanno particolarmente a cuore e pure un testamento prevedendo di non riuscire a salvare la pelle.

A margine di quest’avventura notturna, è quantomeno singolare notare quanto Antonio Balbiani scrive, cioè che ad accompagnare il nostro furono due donnicciuole: così è scritto e così riporto. Voglio credere che il Balbiani non abbia voluto usare tale termine nella sua accezione dispregiativa. Piuttosto, invece, indicando due persone di umile origine magari, ma dotate di quel coraggio che probabilmente mancò a qualche uomo cui il Boldoni chiese aiuto. E muscoli anche, necessari per vincere un lago in tempesta nel viaggio di andata e pure in quello di ritorno. Già, perché il Boldoni temeva che, lui assente, potessero mettere a fuoco la sua nobiliare dimora “risplendente di allori e di fontane”. Nulla di tutto ciò però accadde poiché il prestigio di cui Sigismondo Boldoni, nonostante la giovane età, già godeva nel mondo accademico e in quello delle lettere gli valsero un certo rispetto da parte di alcuni condottieri di quella milizia. Mentre fuori ogni sorta di bruttura prosegue, spaventando addirittura gli uccelli che abbandonano le alte vette dove si annidano, guardie vengono poste alla porta di casa Boldoni affinché nessuno osi entrare e fare danni. Così che quel luogo diviene un porto sicuro per molte donne che vi trascorrono una sorta di lockdown, riparandosi dalle violenze della soldataglia e proteggendosi dal pestifero contagio. Questa la storia da quanto si può ricavare dalla lettura della guida di cui s’è detto sopra. Chiosatori semiseri tuttavia mi hanno fatto osservare che un tal gineceo così formatosi non poteva lasciare indifferenti il padrone di casa né gli ospiti stranieri che ne garantivano la sicurezza. In poche parole, hanno voluto spingermi a ipotizzare che mentre fuori infuriava il caos, entro quelle mura invece accadeva ben altro.

Nulla di quanto è a mia conoscenza mi porta a pensare che ciò abbia in sé anche solo un minimo di verità. È la ragione per la quale continuo a pensare che tutte quelle donne chiuse entro le mura di villa Boldoni se ne siano poi tornate alle proprie case con la coscienza e il resto a posto. Il resto è solo pettegolezzo, che certo dà un po’ di colore a un resoconto drammatico, ma resta sempre tale. Ne fa uso solo chi può trarne qualche vantaggio o vuole screditare la memoria altrui. Dall’alto del mezzobusto che infine la municipalità gli dedicò, Sigismondo Boldoni, specie quando d’estate si confonde tra la fioritura degli ippocastani, guarda con occhio sornione i discendenti delle donne che grazie a un lockdown ante litteram protesse.

 

Il Patriot act versione Vienna

Quando succedeuna cosa orribile, com’è il caso dell’attentato islamista che ha insanguinato Vienna, una inevitabile reazione umana consiste nello sforzarsi di dare ordine a un’atrocità che la mente si rifiuta di accettare: un colpevole con un movente razionale, un particolare organizzativo o logistico che avrebbe potuto evitare il danno. Non manca, in questa affannosa ricerca di senso, chi si rifugia in una di quelle costruzioni mentali che un antico filosofo greco catalogava come “cazzate col botto”. Questa premessa, ovviamente, non ha nulla a che fare con quanto segue: era così, per dire. Dicevamo: dopo l’attentato di Vienna il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – prima su Facebook e ieri sul Corriere della Sera – ha ribadito l’importanza di “proteggere i confini” (italiani e dunque dell’Ue) e lanciato l’idea di “un Patriot act europeo”. Ora, proteggere i confini è attività doverosa ovviamente (anche se sul come ci sarebbe forse da dibattere), ma il ventenne che ha ucciso 4 persone e ne ha ferite 16 in Austria era nato a Mödling, un sobborgo di Vienna, da genitori macedoni non implicati nell’attacco e peraltro non religiosi: si poteva, forse, fermare al confine l’attentatore di Nizza, ma per questo serviva la psicopolizia di Minority Report. C’è poi l’infausta espressione “Patriot act europeo”: il Patriot act è una legge americana, adottata dopo l’11 settembre, che ha concesso (e in parte concede ancora) al governo Usa poteri francamente incompatibili coi diritti fondamentali dell’individuo, ivi compreso quello di procedere allo spionaggio di massa senza neanche passare da un giudice. Di Maio lo articola come “bisogna far funzionare le banche dati europee comuni che abbiamo e che usiamo ancora troppo poco, dotarsi di un sistema europeo che punti a prevenire gli attacchi” e passi. Solo che il signor Kujtim Fejluzai era già noto alla polizia austriaca per essere un islamista e prima dell’attacco si era fotografato su Instagram in divisa da attentatore con un Kalashnikov, una pistola, un coltellaccio e l’anello dell’Isis. Ma più che il Patriot act, non possiamo attivare un sistema di notifiche – europeo, per carità – sugli account social degli islamisti già schedati. Hai visto mai?

Covid Medici&C. costretti a lavorare anche se in attesa del tampone

Buongiorno, i sanitari (medici, infermieri, tecnici radiologi, o.s.s., ecc.) che operano nei vari settori (reparti, sale operatorie, ambulatori di ogni tipo, radiologie, laboratori chimici, impiegati addetti al pubblico, ecc.) ma che naturalmente hanno contatti con ogni tipo di paziente, nel caso in cui dovessero risultare positivi al Covid ma con una bassa carica virale, sono dapprima segnalati, devono stare in quarantena a casa, ma devono andare al lavoro! Mi domando: se devono stare in quarentena, per non avere altri contatti, perché al lavoro possono andare? Anzi, devono andare. Io sono un ex infermiere di Livorno e ho dei colleghi con i quali ci sentiamo e mi raccontano di questi paradossi, per me insopportabili. Non so se tutto questo valga per tutti gli ospedali, ma se ciò fosse sarebbe un dramma, a mio modo di vedere. Vorrei che voi del Fatto, che ritengo siate le persone più adatte, faceste una indagine in tal senso.

Vi ringrazio dell’attenzione e vi saluto cordialmente, augurandovi buon lavoro.

Mauro Perondi

 

Gentile Mauro, questa cosa non può e non deve accadere. Il decreto legge 9 marzo, il cosiddetto dl “#iorestoacasa” prescrive che “la quarantena non si applica agli operatori sanitari e a quelli dei servizi pubblici che vengono sottoposti a sorveglianza” e “i medesimi operatori sospendono l’attività nel caso di sintomatologia respiratoria o esito positivo”. Non significa affatto che le strutture possano far lavorare i soggetti positivi al SarsCov2, ma che infermieri e medici che hanno avuto un contatto con un soggetto positivo in attesa dell’esito del tampone devono tornare in corsia, ovviamente protetti da guanti, camici e mascherine. Una prescrizione che, ad esempio, la Regione Lombardia ha tradotto in una delibera il 26 ottobre con una curiosa specifica: “Gli operatori individuati quali contatti asintomatici di caso – si legge nel documento – (…) non sospendono l’attività e vengono sottoposti a un rigoroso monitoraggio attivo” e “sono tenuti a rispettare la quarantena nelle restanti parti della giornata”. In pratica una quarantena part-time. Una situazione dettata dal fatto che, nonostante l’emergenza Covid-19, le Regioni non hanno rinforzato i propri organici, già pesantemente decurtati da anni di tagli alla spesa sanitaria.

Marco Pasciuti

Mail box

 

L’errore di non imporre le mascherine a scuola

Ci si sta accorgendo ora che la riapertura delle scuole ha contribuito ad aumentare la diffusione del contagio nell’ambiente esterno, ma soprattutto all’interno delle scuole. La politica scolastica seguita finora è sbagliata. Questa conclusione è basata sul presupposto che la diffusione interpersonale del contagio possa avvenire solo per inspirazione delle goccioline emesse fino a una distanza di 1 metro dalla persona infetta. In realtà, in ambiente chiuso, se non si indossa una mascherina, non esiste una distanza di sicurezza. Se uno studente è infetto, il residuo solido contenente aggregati di virus, proteine, ecc. diffonde rapidamente nell’intera aula scolastica, rimane per tempi lunghi e viene inspirato da tutti gli allievi, con conseguente contagio. L’errore fondamentale è stato quello di aprire le scuole, non imponendo l’obbligo di indossare le mascherine.

Gianni Santachiara

 

Mancano menti capaci di abolire le Regioni

Caro direttore, Lei veramente pensa che oggi in Italia ci sia una “mente saggia” che abbia il coraggio di proporre l’abolizione delle Regioni? Io credo di no, non perché non ci sia “una mente saggia”, ma perché nessuna “mente” ha mai il coraggio di proporre l’abolizione delle Regioni, altrimenti dopo non si può più “piangere e fottere”? In Italia le cose devono andare così perché eccetto Il Fatto nessuno denuncia nulla e nessuno prende iniziative concrete e valide.

Elio Alfano

 

Annichilire l‘umanità per favorire la tecnica?

Gentile direttore, le scrivo perché dalla Gruber ha detto qualcosa di essenziale: ha capito che la mentalità tecnica si è rivelata in tutta la sua razionale freddezza nelle parole dello scrittore Giordano e della virologa presente, nel ribadire che l’importante è che la politica agisca seguendo i dati scientifici e i modelli matematici. Il dominio della tecnica che costoro difendono nei fatti, negandolo a parole, porta, come lei giustamente ha replicato a costoro, al silenzio del pensiero legato alla visione umanistica delle cose. Se ha ragione Giordano, tanto vale sostituire Conte con un mega computer visto che è tecnicamente vero che i modelli matematici sbagliano molto meno delle persone! Oppure mandiamo via Conte e mettiamoci Bill Gates o Mark Zuckerberg… o già ci stanno?

Roberto Giagnorio

 

La mancanza di Gigi fa commuovere

Grazie per gli inediti ricordi, interviste, che mi fanno godere ancora della presenza-assenza di Proietti. Ne vorrei leggere ancora, ancora e poi ancora … Non sapevo quanto fosse legato al nostro Fatto. E ne sono felice.

Rido alle battute… e mi commuovo. Non può essersene andato. Eppure è vero.

E me lo ripeto.

Giusy De Milato

 

Priorità alla privacy, ma gestione inefficace

Qualcuno può spiegarmi che senso ha, con la gente che muore come le mosche negli ospedali e l’economia che va a rotoli, ostacolare la lotta al virus con la privacy? Ma non si poteva obbligare tutti, pena multe salatissime, a scaricare l’app e buonanotte? E incaricare, per il suo aggiornamento qualcun altro invece del medico, che ha da fare fin sopra i capelli? Ma saremo dei cretini!

Carlo Sproccati

 

Virus, non paragonate Italia e Germania

Giovedì scorso a Piazza Pulita hanno cercato di fare un confronto tra Italia e Germania e hanno affermato che in Italia per Covid-19 ci sono stati 38.000 decessi mentre in Germania solo 10.000! Trovo questa comparazione “bestiale”, come se contassero esattamente nello stesso modo. Ma ciò non è! Sappiamo tutti che in Germania definiscono seriamente le cause primarie di morte e se un malato di cancro muore positivo al Covid-19, la causa primaria rimane il cancro. In Italia, invece, qualsiasi decesso viene catalogato come causa primaria Covid-19 se era anche positivo al Covid-19!

Eugenio Girelli Bruni

 

Gli intellettuali vogliono un altro governo?

Sono un’insegnante, ho sempre votato a sinistra e sento fortemente la necessità di esprimere una preoccupazione: questo governo viene attaccato in tutti i talk show televisivi, cosa che sarebbe comprensibile se avvenisse da parte dell’opposizione. Mi chiedo come mai anche tutti gli esponenti e gli intellettuali che si definiscono di sinistra, che vi partecipano, non controbattono alle critiche pretestuose, ma anzi le supportano. Forse preferirebbero un governo Salvini-Meloni a quello Conte?

Anna Padula

 

L’errore del crederci soltanto quando lo vivi

È da tempo che noto un curioso fenomeno accentuato dall’ignoranza: quello del “minimizzo fino a che non capita a qualcuno che conosco”. Questi soggetti non credono a tutto quello che non vedono, e questo, durante una pandemia, è un problema grande. Troppo poco si fa per rendere l’idea di cosa avvenga nelle “zone rosse” degli ospedali al punto che la sensazione è che la gente sia convinta che quei drammi avvengano su un altro pianeta. Ho notato che sulla home page del vostro sito c’è un video di un reparto di terapia intensiva: proprio questo intendevo!

Daniele Teodori

In attesa di Sala, Milano è preda di candidature folli

Le storie del ciclismo annotano che Giovanni Pettenella, durante i campionati italiani di velocità su pista del 1968, restò fermo in equilibrio sulla bicicletta per un’ora e 3 minuti: non vinse il titolo, ma conquistò il record di surplace, la tecnica di aspettare fermi sui pedali il momento migliore per scattare e sorprendere l’avversario. Il record assoluto di surplace, non in gara e non in pista, ma a favor di telecamera, è ancor oggi detenuto da Salvatore Colosimo, che entrò nel Guinness dei primati restando fermo in bici per 3 ore, 5 minuti e 25 secondi durante il programma tv di Maurizio Mosca. Riuscirà Giuseppe Sala a battere Colosimo? Da mesi è in surplace, in attesa che scatti prima l’avversario per mettersi in scia, o per buttare la bici a terra e andare a fare un altro lavoro, meno faticoso e meglio pagato di quello di sindaco. Speriamo che prima o poi ci dica che cosa vuol fare. Nell’attesa, è la fiera delle candidature. Un rutilante quanto improbabile elenco di nomi e di cognomi, vip e sconosciuti, persone e personaggi, alcuni wannabe, altri a loro insaputa, di destra e di sinistra, alcuni buoni sia per la destra sia per la sinistra.

Di lì, a sinistra, sono tutti appesi ai capricci del sindaco uscente – che intanto ha comunque già avviato la campagna elettorale, decine d’incontri sotto la sigla “Fare Milano” a spese di Milano&Partners, l’agenzia di “valorizzazione della città”. A destra invece sparano nomi come fossero mortaretti. In principio era Giulio Gallera, che si preparava al salto da teleassessore regionale alla Salute che sorrideva ogni giorno rassicurante nelle quotidiane conferenze stampa della prima fase della pandemia. Poi è diventato visibile a tutti il disastro di Bergamo e delle residenze per anziani e dell’ospedale in Fiera e dell’impreparazione e degli errori della Regione, e Gallera, pronto a conquistare la poltrona di sindaco a Palazzo Marino, ha rischiato invece di perdere anche la poltrona di assessore a Palazzo Lombardia. C’era anche il professor Alberto Zangrillo, primario di anestesia al San Raffaele, che aveva iniziato bene criticando con argomenti medici il grande bluff dell’ospedale di Fiera, ma poi si è avventurato ad annunciare la morte del virus, purtroppo smentito dai fatti.

Niente paura, ecco il centrodestra sfoderare le candidature dei ritornanti – erano i giorni di Halloween – Gabriele Albertini (già sindaco dal 1997 al 2006) e Letizia Moratti (a Palazzo Marino dal 2006 al 2011). Poi la fantasia si scatena. Ecco Franco Baresi, l’ex libero del Milan. Ecco Paolo Veronesi, figlio di Umberto, medico e oncologo. Per restare in zona sanità, ecco Sergio Dompè, il re dell’Oki. Per la categoria manager, ecco Flavio Cattaneo, ex Rai, ex Telecom, ex Italo, ex Terna, che ha però subito smentito di volersi candidare sia a Milano sia a Roma. Più cultura al potere con Ferruccio Resta, rettore del Politecnico, che curiosamente è stato accreditato come possibile candidato sia della destra sia della sinistra. Pochi se ne sono accorti, ma si è detto disponibile anche il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Alessandro Galimberti. Nessun politico ha invece avuto il coraggio di farsi avanti, tranne forse Gianmarco Senna, consigliere comunale della Lega e amico di Matteo Salvini, ma soprattutto imprenditore: è l’inventore del ristorante “Bianca”, del “Brando Bistrot”, della catena “Fatto Bene Burger”. I più spiritosi sostengono che deve candidarsi una giovane promessa, Silvio Berlusconi. Alla fine, perché non Morgan (candidato da Vittorio Sgarbi)? Sarà anche un po’ matto, ma ha della genialità.

A sinistra, se il surplace finirà con Sala che lascia la pista, inforcheranno la bici i due Pier, l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran e il parlamentare europeo Pierfrancesco Majorino. In tribuna, aspetta gli eventi anche Tito Boeri.