“Non sono un grande attore, ammettiamolo”, confessò una volta. “Non ho molte possibilità. Uno come Richard Burton ne ha una vasta gamma, io no. Ci sono alcune cose che posso fare, ma quando non sono bravo, faccio schifo… C’è qualcosa nei miei occhi da cane arruffato che induce la gente a credere io sia bravo. Non sono così bravo”. Che un attore si dia del cane, fosse anche solo per lo sguardo, dice dello sprezzo del pericolo, ma non può stupire: era uno che gli stunt, da Bullitt a La grande fuga, se li faceva da solo; che la gioventù bruciata non l’ebbe per parte ma per fedina; che auto e moto veloci erano il pane quotidiano e prima, ventenne in sella a Long Island, il modo per guadagnarselo. Era Steve McQueen: morto il 7 novembre 1980, senza lasciare eredi, almeno al cinema.
Fu un cancro, curato con metodi alternativi e scriteriati (iniezioni intramuscolari di cellule animali, vitamine, dieta biologica e frequenti clisteri di caffè) da un medico in odore di ciarlataneria a Juárez, Messico, a portarcelo via, un cancro che a lungo l’attore si ostinò a negare, in perfetta continuità con i suoi ruoli, “per risparmiare un dolore alla mia famiglia e ai miei amici e mantenere il mio senso di dignità”. Attecchì ai polmoni, per i due pacchetti di sigarette al giorno o per l’amianto respirato da giovanissimo portuale, chissà. Aveva cinquant’anni, e quaranta dopo il suo lascito è intatto: l’omonimo regista britannico avrà pure vinto, con 12 anni schiavo miglior film nel 2014, quell’Oscar che a lui è mancato, ma è un campionato diverso, cinema contro leggenda. Nella Hollywood anni Sessanta e Settanta pareggiò Paul Newman, col quale condivise il sex-appeal, il set, L’inferno di cristallo (1974), e soprattutto la passione per le corse, condensata in una battuta di La 24 Ore di Le Mans, magniloquente flop del 1971: “La vita è correre. Tutto quello che avviene prima o dopo è solo attesa”. C’era lui, c’era Paul, c’erano Robert e Clint, ma McQueen aveva qualcosa in più, e qualcosa in meno: “Sembrava meno complicato di Newman, più ruvido di Redford, meno legnoso di Eastwood”. I critici, tirò le somme il Los Angeles Times in un bel necrologio, ne avevano fatto “il modello dell’eroe scarno, laconico – o antieroe. Era più fisico che cerebrale: un uomo d’azione operaio”.
Impossibile prenderne il calco, le radici, l’idiosincrasia e l’aura non l’avrebbero permesso: “McQueen e l’immagine di McQueen spesso trascendevano i film che interpretava”. Iniziò nel 1952, sul palcoscenico newyorchese, nella pièce yiddish di Molly Picon in cui gli toccava un’unica battuta, “Alts iz farloyrn”, vale a dire “Tutto è perduto”: invero, avrebbe fatto di tutto per disattenderla, con un quindicennio – da I Magnifici Sette alla star del 1959 a L’inferno di cristallo – senza eguali, anche in termini di cachet. Desiderato dalle donne, ammirato dagli uomini, malgrado i premi non fioccassero e la poliedricità non gli arridesse, il pubblico ne fece il divo più pagato: per ciascuno dei due ultimi, non esaltanti film, Tom Horn e Il cacciatore di taglie del 1980, strappò gli abituali cinque milioni di dollari; per tre settimane di lavoro sul set di Apocalypse Now arrivò a chiederne tre, rifiutati. Ma il suo destino era già scritto, bastavano i titoli a desumerlo, maschio, temerario, ineluttabile: L’inferno è per gli eroi (Don Siegel, 1962), Amante di guerra (1962), La grande fuga (John Sturges, 1963), Soldato sotto la pioggia (1963), Cincinnati Kid (1965), L’ultimo buscadero (Sam Peckinpah, 1972), Getaway! (ancora Peckinpah, 1972, dove conosce la seconda delle sue tre mogli, Ali McGraw), Papillon (1973). Sessuale più che sensuale, nondimeno, ha saputo provarsi romantico, come ne Il caso Thomas Crown (1968), e dunque negarsi l’autocertificato ridotto spettro di interpretazione: biondo, occhi blu, cazzone quanto cazzuto, sicuro di sé quanto inquieto, ha fatto di identikit immaginario, di indole epica. Bullo da riformatorio, taglialegna, venditore ambulante, fattorino, riparatore di televisori, allibratore, barista, Marine, quindi, motociclista, pilota, e attore. Come nessun altro, come se stesso: “Steve McQueen – osservò il critico inglese David Shipman – può recitare con la nuca. Può recitare senza fare nulla… La sua voce non è eccezionale e non mostra segni di versatilità. Ma la versatilità, per quanto lo riguarda, è immateriale. Gli basta apparire sullo schermo per riempirlo”.