Le dispute tra governo e regioni relative alle competenze in materia Covid-19 sono all’ordine del giorno e questa dialettica affannosa rischia di estendersi alle città metropolitane. È perciò indispensabile stabilire quale soggetto è legittimato dall’ordinamento a regolamentare e statuire in proposito. Oggetto del contendere non sono le prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale attraverso Asl, aziende ospedaliere e rete territoriale (tutte di riferimento regionale), ma l’ampio spettro delle misure aspecifiche che convergono a mitigare o a contrastare l’avanzata epidemica: cioè la profilassi. Sono previsti due tipi di profilassi: quella internazionale (art. 6, c. 1 lett. a legge n. 833/1978 e art. 117, c. 2 lett. q Cost.) e quella delle malattie infettive e diffusive (art. 6 c. 1, lett. b e art. 7 legge n. 833/1978).
Se il fenomeno fosse presente solo nel nostro Paese, la profilassi sfuggirebbe dall’ambito internazionale. Per il Covid 19 così non è: sia per esperienza comune sia perché ammesso esplicitamente dai provvedimenti governativi, che hanno disposto limitazioni agli spostamenti da e per l’estero (ad es., art. 4 dpcm 24 ottobre 2020). Le misure che impediscono l’ingresso nel territorio dello Stato per motivi di sanità incidono non solo sulla libertà di soggiorno, ma anche su quella di stabilimento e sul connesso diritto al lavoro nell’ambito comunitario (art. 15 Carte Europea e 49 ss. Trattato di funzionamento Ue). Le caratteristiche del Covid-19 incidono anche sulle modalità di tutela e di contrasto, ricompattandole in un contesto che va oltre la zona transfrontaliera. D’altro canto le risposte e le metodiche che l’Europa ha previsto conducono a qualificare l’apprestamento dei presidi come parte integrante della profilassi internazionale. Corollario di quanto osservato è che, in virtù della riserva alla legislazione esclusiva statale della “profilassi internazionale”, materia peraltro non delegabile alle Regioni (ex art. 7 L. 833/1978), solo il governo ha titolo a adottare idonee misure per tutto il territorio. Le Regioni non possono invocare attribuzioni in materia, ma devono applicare i provvedimenti emessi dallo Stato quando non sia loro imposto da circostanze speciali di provvedere con ordinanze contingibili e urgenti (art. 32 l. 833/1978). In questo caso insorge un autonomo e prioritario dovere dell’istituzione regionale coerente con la profilassi, ma legato a specifiche necessità, individuabili solo in sede locale per l’immediatezza della conoscibilità e del rapporto col territorio. Per completezza si rileva che, quand’anche non si trattasse di profilassi internazionale, le conclusioni qui raggiunte verrebbero confermate. Con sentenza n. 5/2018 la Corte, nell’affrontare il tema dell’obbligo di vaccinazione, ha affermato che la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive (cioè quella delegata alle regioni ex art. 7 L. n. 833/1978) “richiede l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale” e, dinanzi a interventi fondati sulla competenza statale, “le attribuzioni regionali recedono”.
La posizione recessiva delle Regioni nella profilassi sia questa internazionale o interna implica la doverosità della resipiscenza da parte di molti c.d. governatori da atti e comportamenti in conflitto con quanto statuito dagli organi del governo. È bene rammentare che il diritto alla salute impone una tutela non frazionabile, bensì omogenea, anche se articolata in base alle necessità e contingenze territoriali. Tale diritto richiede il coinvolgimento e l’attivazione di tutte le componenti della Repubblica (anche delle regioni), senza mai perdere l’identità di situazione soggettiva alla quale si correlano livelli essenziali di prestazioni che solo la legge statale può determinare (art. 117 c. 2, lett. m) e la cui primaria realizzazione è affidata, per il principio di sussidiarietà verticale, al governo.