Zone rosse, roba delle Regioni difesa della salute allo Stato

Le dispute tra governo e regioni relative alle competenze in materia Covid-19 sono all’ordine del giorno e questa dialettica affannosa rischia di estendersi alle città metropolitane. È perciò indispensabile stabilire quale soggetto è legittimato dall’ordinamento a regolamentare e statuire in proposito. Oggetto del contendere non sono le prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale attraverso Asl, aziende ospedaliere e rete territoriale (tutte di riferimento regionale), ma l’ampio spettro delle misure aspecifiche che convergono a mitigare o a contrastare l’avanzata epidemica: cioè la profilassi. Sono previsti due tipi di profilassi: quella internazionale (art. 6, c. 1 lett. a legge n. 833/1978 e art. 117, c. 2 lett. q Cost.) e quella delle malattie infettive e diffusive (art. 6 c. 1, lett. b e art. 7 legge n. 833/1978).

Se il fenomeno fosse presente solo nel nostro Paese, la profilassi sfuggirebbe dall’ambito internazionale. Per il Covid 19 così non è: sia per esperienza comune sia perché ammesso esplicitamente dai provvedimenti governativi, che hanno disposto limitazioni agli spostamenti da e per l’estero (ad es., art. 4 dpcm 24 ottobre 2020). Le misure che impediscono l’ingresso nel territorio dello Stato per motivi di sanità incidono non solo sulla libertà di soggiorno, ma anche su quella di stabilimento e sul connesso diritto al lavoro nell’ambito comunitario (art. 15 Carte Europea e 49 ss. Trattato di funzionamento Ue). Le caratteristiche del Covid-19 incidono anche sulle modalità di tutela e di contrasto, ricompattandole in un contesto che va oltre la zona transfrontaliera. D’altro canto le risposte e le metodiche che l’Europa ha previsto conducono a qualificare l’apprestamento dei presidi come parte integrante della profilassi internazionale. Corollario di quanto osservato è che, in virtù della riserva alla legislazione esclusiva statale della “profilassi internazionale”, materia peraltro non delegabile alle Regioni (ex art. 7 L. 833/1978), solo il governo ha titolo a adottare idonee misure per tutto il territorio. Le Regioni non possono invocare attribuzioni in materia, ma devono applicare i provvedimenti emessi dallo Stato quando non sia loro imposto da circostanze speciali di provvedere con ordinanze contingibili e urgenti (art. 32 l. 833/1978). In questo caso insorge un autonomo e prioritario dovere dell’istituzione regionale coerente con la profilassi, ma legato a specifiche necessità, individuabili solo in sede locale per l’immediatezza della conoscibilità e del rapporto col territorio. Per completezza si rileva che, quand’anche non si trattasse di profilassi internazionale, le conclusioni qui raggiunte verrebbero confermate. Con sentenza n. 5/2018 la Corte, nell’affrontare il tema dell’obbligo di vaccinazione, ha affermato che la profilassi per la prevenzione della diffusione delle malattie infettive (cioè quella delegata alle regioni ex art. 7 L. n. 833/1978) “richiede l’adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale” e, dinanzi a interventi fondati sulla competenza statale, “le attribuzioni regionali recedono”.

La posizione recessiva delle Regioni nella profilassi sia questa internazionale o interna implica la doverosità della resipiscenza da parte di molti c.d. governatori da atti e comportamenti in conflitto con quanto statuito dagli organi del governo. È bene rammentare che il diritto alla salute impone una tutela non frazionabile, bensì omogenea, anche se articolata in base alle necessità e contingenze territoriali. Tale diritto richiede il coinvolgimento e l’attivazione di tutte le componenti della Repubblica (anche delle regioni), senza mai perdere l’identità di situazione soggettiva alla quale si correlano livelli essenziali di prestazioni che solo la legge statale può determinare (art. 117 c. 2, lett. m) e la cui primaria realizzazione è affidata, per il principio di sussidiarietà verticale, al governo.

 

La Lega e Salvini sono il partito dei padroni

Ve lo ricordate quel momento ineffabile in cui Salvini si presentava da Floris a Dimartedì con la camicia bianca che pian piano si inzuppava di sudore, simbolo di genuinità virile e passione politica, e con una pausa teatrale in mezzo al solito repertorio mostrava al pubblico le ascelle, scatenando la più irrefrenabile delle ovazioni? Era il Salvini di popolo, nemico delle élite schizzinose, il comunista padano che sotto le insegne di Alberto da Giussano rovesciava i poteri forti, il Messia del momento Polanyi, dal nome dello studioso venerato dai leghisti che teorizzò la rivolta della società contro il predominio dell’economia neo-liberista. Erano i tempi in cui legioni di marxisti e keynesiani per Salvini ci spiegavano sui social che non conta il mezzo, ma il fine, cioè la rivolta dei popoli, di cui la Brexit e l’elezione di Trump erano l’epitome e insieme la spinta. Gli economisti della Lega andavano in Tv a spiegare a quelli di sinistra, rintronati, come si spendono i soldi pubblici e come la parola “populismo” fosse nobile e bella, in confronto alla loro spocchia da privilegiati.

L’altro giorno alla Camera l’economista della Lega Claudio Borghi, uno dei più massimalisti, ha accusato Conte di chiudere le attività produttive mettendo la salute sopra al lavoro, quando invece, se proprio si vuole classificarli, il lavoro compare prima. Verbatim: “Signor Presidente, lei ha detto che il diritto alla salute è preliminare su tutti gli altri diritti costituzionali. (Non l’aveva detto; la frase era: “Non ci può essere dilemma tra la difesa della salute e la tutela dell’economia”, ndr). Ma come si permette… I diritti costituzionali sono tutti importanti… e se per caso i numeri qualcosa contano, il diritto alla salute è al numero 32, il diritto al lavoro è al 4. E le ricordo l’1”. Insomma, l’ordine di apparizione sta lì a dire che si lavora pure da malati (dev’essere la stessa Costituzione che tutela il diritto d’asilo all’art. 10): il sogno di tutti i padroni.

A dire il vero noi qualche sentore che fosse tutta una truffa e che la Lega fosse il partito dei padroni e non dei lavoratori lo avevamo avuto, almeno dal settembre del 2019, quando dal raduno ex-celtico di Pontida citò Margareth Thatcher, peraltro in una delle massime più fatue della sua produzione: “Non ci può essere libertà se non c’è libertà economica”, un motto che sarebbe stato bene in bocca a un berlusconiano o a un renziano: establishment puro.

Intanto Giorgetti apriva a Mario Draghi (“Mi piace”), mentre le maestranze della Bestia spiegavano sui social che era tutta una strategia, quella di mandare avanti il poliziotto buono per sfibrare il nemico dall’interno, mentre i “falchi” occupavano le commissioni e ripristinavano la popolare lira. Aspettavamo che la Rai mandasse in onda la musica classica come durante i golpe, invece è arrivato il coronavirus, e il castello fatato di paure indotte e gastropolitica ha cominciato a smottare sotto il peso della realtà. L’ex ministro agli Stabilimenti Balneari ha cominciato a vaneggiare: “Chiudete tutto”, anzi: “Riaprite tutto”, due giorni dopo, in linea con Confindustria, Confcommercio e tutte le altre Conf-, nonché in sintonia con gli odiati sindaci della Ztl e delle pause pranzo, quelli di #Milanononsiferma e #Bergamononfermarti, in un’alternanza schizoide che non gli ha impedito per tutta l’estate di emettere orgogliosamente droplets in faccia a quel popolo che diceva di amare. Intanto Giorgetti riapriva a Draghi (come tutti i neo-lib d’Italia, editori, politici, industriali, grand commis) e lanciava l’iscrizione della Lega al Ppe, il partito di Merkel, praticamente l’Anticristo, con Salvini che il giorno dopo smentiva animosamente a Non è la D’Urso (omettendo di dire che è la Merkel che non ce lo vuole).

Il 5 luglio in piazza del Popolo, davanti al popolo chiamato a stringersi promiscuamente contro la dittatura sanitaria di Conte-Bill Gates, ri-citava la Thatcher, quella alla cui morte i lavoratori inglesi hanno festeggiato; mentre un’altra parte di popolo, padano e non, moriva di Covid, la malattia inventata dai poteri forti, curabilissima col plasma anzi no, con l’idrossiclorochina cara a Trump (che però è stato curato con anticorpi monoclonali).

L’emergenza ha disconnesso Salvini dal territorio, oltre che dalla realtà (del resto fu Giorgetti a decretare l’anno scorso l’inutilità della medicina di base, e questo nella Lega è quello perspicace): la tragica gestione dell’epidemia da parte dell’arcitragico Fontana, in quella Lombardia terra d’eccellenza della Sanità che ha succhiato risorse allo Stato e alle altre Regioni col sistema dei ricoveri privati, era il prologo della irresponsabile tiritera attuale degli autonomisti (già secessionisti) che chiedono al governo di decidere per loro e dieci minuti dopo si dicono esautorati. Il lavoro prima della salute era un inedito: farà parte del momento Polanyi? Ci manca solo che chiedano il Mes.

 

Il gatto persiano bianco dei Benetton. È il vero capo della “Spectre”

Il gatto dei Benetton, un persiano bianco che è la mente diabolica dietro ogni decisione della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi-Aeroporti di Roma-Mapuche), finora non aveva sbagliato una mossa. Tutto procedeva bene, e la Spectre già stava pregustando la copiosa plusvalenza dello scorporo di Autostrade per l’Italia, quando il bassotto di Andrea Camanzi, che fino al 28 ottobre scorso era presidente dell’Autorità di regolazione dei trasporti, s’è accorto che il nuovo piano tariffario per Aspi approvato dal ministero dei Trasporti avvantaggia i Benetton nella trattativa con il governo. “Il piano tariffario da accordare ad Aspi dovrebbe essere dell’1,08% sulla base delle ordinarie componenti di gestione e costruzione” spiega il bassotto, che abbiamo incontrato a Torino nella biosauna delle terme di Palazzo Abegg prima della chiusura temporanea imposta dal nuovo decreto governativo “e non dell’1,75% come promesso dal ministero dei Trasporti”. Il persiano si è incazzato di brutto: ”Bassotto del cazzo! Contesta anche il riconoscimento ad Aspi dell’indennizzo per i danni dovuti all’impatto del Covid sul traffico”. “E perché?” ha chiesto la giraffa che segue la trattativa per Aspi con un pinguino e un ippopotamo. Il pinguino: “Perché il sistema tariffario prevede che il rischio traffico sia in capo al concessionario, immagino”. Il persiano: “Esatto. Ma porco cane! Eravamo riusciti a far dimenticare al governo pure la manleva dai contenziosi legali per il crollo del Morandi e gli omicidi, si mette in mezzo il bassotto! Che ne sai tu dei sistemi tariffari! Sei un esperto di sistemi tariffari, adesso”. Il pinguino: “Comunque, a dirla tutta, noi abbiamo fatto sapere di considerare inaccettabili le manleve legali chieste dal governo per firmare l’accordo, ma dopo il disastro del Morandi, che Mattarella stesso ci ha imputato, non voler pagare le cause penali e civili che fioccheranno inevitabili dopo la firma dell’accordo, mi sembra una pretesa oscena”. L’ippopotamo: “Vabbè, ma la legge non dice che il nostro profitto deve essere garantito sempre e comunque, a spese degli automobilisti?”. Il persiano: “Non ufficialmente”. L’ippopotamo: “A”. La giraffa: “Addio ai 332 milioni di euro di recupero tariffario”. Il pinguino: “Dov’è la delibera dell’Autorità dei trasporti?”. Il persiano: “Tieni. Cosa bevete?” L’ippopotamo: “Una Schweppes, grazie”. La giraffa: “Un Campari”. Il pinguino: “Mmm…” La giraffa: “Cosa c’è?” Il pinguino: “Il bassotto ha capito anche che l’indebitamento previsto dal piano economico finanziario (16 miliardi di euro tra il 2020 e il 2038) serve ad assicurare l’erogazione dei dividendi (utili per oltre 21 miliardi di euro tra il 2020 e il 2038) più che al rafforzamento patrimoniale della società, come la sostenibilità del progetto richiederebbe”. Il persiano: “Era un bel piano: prevedere profitti elevati, in modo che Cassa depositi e prestiti dovesse pagare una somma molto più alta alla Spectre per farla uscire dal settore autostrade”. L’ippopotamo: “Quanto più alta?” Il persiano: “Invece di sette, undici miliardi”. L’ippopotamo: “Pataffia!” La giraffa: “Però!” Il pinguino: “Era un bel piano. E adesso che facciamo?” Il persiano: “Ho un cugino che è il gatto di Yossi Cohen”. Il pinguino: “Il capo del Mossad?” Il persiano: “E futuro premier israeliano. Mio cugino gli suggerì il piano per trafugare da Teheran l’archivio nucleare segreto iraniano. Voglio fargli due domande”. Il pinguino: “Un bassotto sarà più sensibile al polonio o alla cioccolata?” Il persiano: “Quella è la seconda”. La giraffa: “Chissà se il Mossad ha mai fatto saltare un ponte”. Il persiano: “Bingo”.

 

L’infodemia parla russo e cinese

Infodemia, come più volte detto anche dall’Oms e ampiamente trattato nel mio libro Ombre allo specchio, è la pandemia parallela della disinformazione. Credevamo che fosse dovuta esclusivamente da scarsa preparazione o da voglia di protagonismo di “falsi esperti”, nonché dall’esasperata smania dei media. Il fenomeno invece è molto più grave e coinvolge interessi geopolitici. Chi ha ipotizzato che dietro all’infodemia si possano nascondere interessi internazionali è stato accusato di complottismo. Eppure Ue e Copasir si stanno occupando già da mesi del fenomeno. In un rapporto del Copasir del maggio scorso si legge che Russia e Cina rientrerebbero fra quelli che hanno scelto di “cavalcare palesemente l’onda della disinformazione, cercando in qualche modo di sfruttare l’emergenza per i propri interessi”. La strategia comunicativa è sofisticata, l’obiettivo è creare sfiducia nei governi occidentali, nei loro sistemi sanitari e nel settore scientifico. In Russia e in Cina, al contrario, si tende a rassicurare sul fatto che l’epidemia sia gestita adeguatamente e che non creerà particolari problemi. In Cina viene esaltato il successo per aver debellato il virus (!!!). Sarebbe interessante valutare quanto questo stia influenzando l’economia. Da quando è iniziata la pandemia, Sputnik “è stato tra i media russi più attivi impegnati in questa campagna di fake news”. Il Copasir allega una lista di articoli della testata del Cremlino contenenti fake news o titoli volutamente fuorvianti. Risale al 6 marzo 2020 un articolo dal titolo: “Neoliberal countries don’t care about containing the coronavirus epidemic” (Ai Paesi neoliberisti non interessa contenere l’epidemia di coronavirus”). E la Cina, mentre è stato il nostro primo soccorritore, inviando mascherine, diagnostici ecc, ha instaurato una campagna mediatica denigratoria dell’Italia, a proprio favore. Due esempi vengono citati come obiettivi della Repubblica Popolare in Italia. Il primo: “Utilizzare la crisi e la conseguente visibilità dell’Italia per promuovere l’attività dei propri governi nel proprio Paese e nella comunità internazionale, concretizzatosi nella diffusione del video “Grazie, Cina!” rilanciato su Twitter dalla portavoce del ministro degli Esteri cinese HuaChunying – account @SpokespersonCHN –, video in realtà frutto di una manipolazione”. Sempre più difficile, anche per i più attenti, distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Sempre più difficile leggere il backstage di questa pandemia.

 

Per la “terapia” Salvini non è il giorno giusto

Quando un giorno, ci auguriamo non lontano, si racconterà la storia di questi tempi difficili, con il distacco dello scampato pericolo, una parola chiave sarà: idrossiclorochina. Che non è soltanto un farmaco antimalarico (prescritto anche per l’artrite reumatoide), ma un efficace strumento della strategia del discredito. Volta a dimostrare che i lockdown servono unicamente alla dittatura sanitaria di Conte, della Merkel, di Macron per soggiogare i popoli attraverso la paura del contagio e la minaccia della segregazione. Mentre con il costo “di sei, sette euro in farmacia”, la miracolosa pillola “ha salvato migliaia di pazienti a primi sintomi”. Parola di Matteo Salvini che, l’altroieri, affiancato da un paio di infettivologi di stretta fiducia, e dal celebre scienziato leghista Armando Siri, ha propinato la medesima patacca propagandata mesi fa da Donald Trump. Per dimostrare che i nove milioni e mezzo di contagi negli Stati Uniti, e i 233mila decessi, erano una fake news di quel menagramo di Anthony Fauci. Visto e considerato che il Commander in Chief, aveva sconfitto in un baleno il virus grazie a quell’idroqualchecosa. Sulle pesanti controindicazioni a livello cardiaco di queste cure fai-da-te si è già espressa l’Agenzia del farmaco, ma è il format, diciamo così, politico, a suscitare un rinnovato interesse nel momento in cui la stella (di latta) di Trump non sembra più splendere incontrastata nel cielo d’America. Infatti Salvini, che dall’estate del mojito non ne azzecca una, ha scelto proprio il giorno giusto per provarci con l’ennesima spallata a Conte, riciclando la trovata che non ha portato molta fortuna al suo mentore. Il fatto che nel presiedere quel consesso di premi Nobel egli indossasse la mascherina “Trump 2020” conferma in pieno la teoria marxiana della storia che si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Speriamo che l’inquilino della Casa Bianca rinunci a drammatizzare l’esito del voto a lui non favorevole, visto il clima abbastanza teso. Perché la farsa ce la prendiamo volentieri noi.

“I Dem vogliono venderci alla Cina. Meglio il Gop”

Miami

“Ay, ay, ay por Dios. Yo voy a votar, por Donald Trump”. Inizia con un coro la salsa che ha fatto vincere la Florida al candidato repubblicano. Nel quartiere della Piccola Avana di Miami non si sente altro. “Sono orgoglioso di essere cubano, americano, super habano”. Un testo semplice e un ritmo incontenibile hanno creato l’inno di queste elezioni.

“La comunità cubana vale due milioni di voti – dice Jorge Luis, che ha passato tutta la giornata elettorale davanti a una residenza per anziani dove sono stati allestiti dei seggi –. Siamo scappati da Cuba e dal comunismo. Non possiamo volere una cosa simile anche negli Stati Uniti”. Tra i vari candidati alle primarie, Joe Biden era tra i più moderati. Sicuramente distante dal castrismo. E questo ha pesato nello scontro con Bernie Sanders, lui sì socialista dichiarato. “Però la sua vice, Kamala Harris, è una radicale e a favore dell’aborto” le signore sedute al caffè Versailles, punto di ritrovo della Miami cubana, non le fanno sconti. “Una donna senza figli, ambiziosa e che vuole venderci alla Cina – Mercedes Diaz ha 68 anni, tre figli e otto nipoti – sono arrivata sola da Cuba e ho ricostruito la mia vita. Il presidente Trump è una garanzia per il mio futuro. Per un paese con dei valori che condivido”. I riferimenti alla famiglia li ripete anche Dalia Gomez: “Sono a Miami da 36 anni e ho sempre votato democratico. Ho votato per Obama due volte. Ma sull’aborto non sono disposta a far finta di nulla”. Il cognato di Dalia vive in Italia, ad Asti: “Veniamo spesso nel vostro paese e vedo che non si racconta bene quello che accade negli Usa. Fate difficoltà a capire che il presidente decide tanto, ma soprattutto sceglie quale indirizzo dare alla società. Il resto spetta ai governatori”. Nessun presidente repubblicano è mai stato eletto senza aver vinto in Florida. Donald Trump conosce bene Miami e tutto lo Stato. Mar a Lago, a un’ora dal centro della città, è il suo resort preferito. Lì ha organizzato diverse attività istituzionali, facendoci arrivare gli uomini più importanti del mondo.

Nel 2016 Trump vinse sulla Clinton con uno scarto di 120mila voti. Quest’anno ha più che triplicato il distacco. “Sono andato a cinque suoi comizi e ho visto anche Ivanka. Bravissima”. Rafael Alvarez indossa una maglietta ricavata da una bandiera americana ed è uno dei nuovi elettori di Trump: “Nel 2016 non avevo votato, non mi convinceva l’uomo d’affari che viene in Florida in vacanza. Poi ci sono stati quattro anni di fatti: disoccupazione bassissima, una politica estera senza guerre e dura verso l’Iran, Cina e Venezuela”. Nessuno parla della pandemia nonostante i 100mila contagi di ieri. E ai festeggiamenti per la vittoria di Trump, anticipati e forse troppo affrettati, i cubani sono quasi tutti senza mascherina.

A cercarli bene, anche tra i democratici si trovano dei cubani. Poche decine di persone si sono date appuntamento per seguire lo spoglio in un drive-in. Sul maxi-schermo viene proiettata la Cnn, ma il commento ha un tocco latino. Due percussionisti si danno da fare sui tamburi accompagnati da un dj. La piccola folla balla. Melissa Medina è una seconda generazione cubana. Porta la mascherina e il cappellino ‘Team Joe’: “I miei genitori si sono conosciuti dopo essere arrivati a Miami. Io non ho ricordi del regime di Castro, solo racconti. Guardando cosa sta facendo Trump mi intristisce vedere tanti cubani che lo sostengono”.

Tutti i sondaggi per Joe. Ma Donald beffa i guru

“Non è il caso di dedicare troppo tempo alle previsioni sul risultato delle Presidenziali: Joe Biden ha ormai un vantaggio molto ampio.(…) Credo che la sinistra quest’anno abbia la possibilità di rovesciare gli equilibri anche lì”. Con certi sondaggisti dalla tua parte, meglio affidarsi agli avversari. Eppure, come ricordava Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, Charlie Cook è “l’ascoltatissimo guru delle indagini demoscopiche”. Praticamente l’unico che non sembra temere figuracce”. Beato lui.

Facile oggi dare l’assalto ai sondaggisti dopo l’ennesima previsione sbagliata. Anche perché sarebbero troppi i colpi da sparare. Ancora domenica scorsa, 1 novembre, nonostante i più avvertiti avessero percepito un vento diverso – e negli articoli del Fatto Quotidiano ne abbiamo dato la prova – la proiezione FiveThirtyEight dava a Biden il 90% delle probabilità di vittoria stimando per lui ben 348 grandi elettori. In Michigan, dove il testa a testa è al cardiopalma, gli veniva accreditato un +12%, in Wisconsin un +8%.

Incapacità di costruire il campione o voglia di un Paese corrispondente ai desideri della elite democratica? Ieri, onestamente, il corrispondente Rai da New York, Antonio Di Bella, lo ha detto chiaro e tondo: “Si mescolano speranze e analisi”, non guardando a cosa il Paese sia veramente.

Rispetto al 2016 Donald Trump guadagna 4 milioni di voti, ne prende 6 milioni in più del candidato repubblicano del 2012, Mitt Romney. Anche Biden conquista tre milioni di voti in più di Hillary Clinton e di Obama nel 2012, ma il balzo di Trump colpisce di più perché la gestione del Covid da parte sua è stata fallimentare, perché l’economia è crollata nel secondo trimestre (ma poi è rimbalzata nel terzo), perché ha fatto a botte con mezzo mondo e perché non rientra nei canoni di quella politica che riconosce un pacchetto di regole minime da rispettare per organizzare uno spazio pubblico condiviso. Eppure sembra rappresentare sempre più una rabbia diffusa, a volte canagliesca e insopportabile, che percorre gli Stati Uniti.

Ed è ormai chiaro che proprio per questo vince, anche se dovesse perdere queste elezioni da cui esce come una figura inaggirabile.

I Democratici non hanno imparato la lezione del 2016, non hanno ascoltato a fondo la pancia profonda del Paese: anche se dovessero vincere, la loro sarebbe una vittoria a metà. In parte compensata dalla riconquista del Congresso (ma dalla delusione per il Senato) o dal risultato delle “Squad”, le quattro deputate “socialiste” e giovani che lo stesso Trump aveva additato come il nemico: Ilhan Omar del Minnesota, Alexandria Ocasio-Cortez di New York, Rashida Tlaib del Michigan e Ayanna Pressley del Massachusetts.

Gli Stati Uniti appaiono come un Paese di grandi scontri, di lotta profonda, di contraddizioni trasversali: la “vera America” è anche quella che vota per Trump in Florida con il voto partecipato dei latinos, che approva con oltre il 60% il salario minimo a 15 dollari. O quella della progressista California dove Uber vince il referendum che stabilisce che i suoi dipendenti non sono tali. A questi scontri, queste passioni, i Democratici hanno risposto con il compitino buono per i giorni di festa, il candidato leccato, tutto apparato e grandi corporation. Angela Davis si chiedeva qualche giorno fa in un dibattito organizzato dalla rivista Jacobin se “il risultato delle elezioni del 2016 avrebbe potuto essere diverso se fosse stata prestata maggiore attenzione a coloro che stanno vivendo l’impatto del capitalismo globale”. Dall’immagine degli Stati uniti fotografata dai colori degli Stati vinti dall’uno o dall’altro candidato, sembra venire fuori che la parte esterna, le due coste, quelle più legate al capitalismo globale, sono colorate di blu, i colori Dem, mentre l’interno, rosso repubblicano, è la parte che si sente minacciata e si nasconde dietro l’omone volgare e prepotente che ha “sconfitto” il Covid e che si presenta, come i migliori populisti, con il linguaggio emotivo del corpo. Gli altri, invece, stanno ancora studiando i sondaggi.

 

Il voto per posta rilancia Biden. Trump grida alla frode elettorale

C’è il macigno delle denunce di brogli e dei ricorsi alla magistratura di Donald Trump sulla strada di Joe Biden verso la Casa Bianca: il candidato democratico ha superato il presidente nel conteggio dei voti in Michigan, dov’è stato proclamato vincitore, e nel Wisconsin; e mantiene un vantaggio, risicato, in Arizona e Nevada. Ma lo staff repubblicano chiede il riconteggio in Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, la strategia del magnate-presidente è quella della battaglia legale. Giuliani, uno degli avvocati del tycoon, è stato spedito a Philadelphia. Biden e il Partito Democratico creano allora un Fight Fund, un fondo per combattere e finanziare le spese legali. “Vogliamo mettere in piedi uno sforzo legale senza precedenti” dopo che il presidente ha “minacciato di andare in tribunale”, conferma Jen O’Manley Dillon, manager della campagna di Biden. Il timore di The Donald è evidente: se quei risultati saranno ufficializzati, Biden sarà sempre più vicino ai 270 Grandi Elettori, la soglia che garantisce il successo.

A quel punto, anche se vincerà in Pennsylvania, North Carolina e Georgia, gli altri Stati ancora non assegnati, Trump non andrebbe oltre i 268 Grandi Elettori. Il distacco minimo è una beffa per il magnate che, alla mezzanotte dell’Election Day, credeva d’avere la vittoria in tasca, con larghi vantaggi nel Wisconsin, nel Michigan e in Pennsylvania, prima che iniziasse lo spoglio dei voti per posta.

Al di là delle contestazioni di Trump, il voto in sé è stato una grande manifestazione di democrazia, con un’affluenza alle urne vicina ai 160 milioni di elettori e con una partecipazione vicina al 70% degli aventi diritto, che a conti fatti potrebbe risultare la più alta di tutti i tempi, meglio del record del 1908. Circa cento milioni di suffragi erano stati espressi in anticipo, di persona o per posta. Con gli oltre 69.590.000 voti già raccolti, Biden è divenuto il candidato più votato nella storia Usa, facendo meglio del suo ex capo Barack Obama, che nel 2008 ne aveva avuti 69.498.516. Trump ha finora incassato circa due milioni di voti in meno del suo rivale, 66.707.000.

I media Usa dimostrano, tuttavia, molta prudenza nel proclamare i vincitori degli Stati in bilico. Trump twitta: “Stanno trovando voti per Biden ovunque, in Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. È male per il Paese!”, cavalcando la teoria di schede spuntate a sorpresa nei vari conteggi, cioè di brogli. “La scorsa notte – afferma il presidente – ero avanti, spesso saldamente, in molti Stati chiave. Poi, a uno a uno, i vantaggi sono magicamente scomparsi… Molto strano”. Trump se la prende pure con i sondaggisti, che lo avevano dato per sconfitto nelle loro previsioni: “Ancora una volta hanno completamente sbagliato!”. La campagna del magnate è meno virulenta, ma si dice fiduciosa sull’esito finale

Certo è che la notte elettorale tra martedì e mercoledì non ha portato il presidente 2021-2025; e neppure la giornata successiva. Come previsto, la partita s’è giocata su quello che era considerato fino al 2016 il ‘muro blu’, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, cuore dell’America manifatturiera, della siderurgia e dell’automobile. Nella notte elettorale negli Stati Uniti, Trump è sempre partito avanti in Florida, North Carolina, Texas, Ohio, Iowa; e poi ha sempre perso. Gli analisti lo spiegano con il fatto che i voti per posta, tendenzialmente favorevoli ai democratici, vengono conteggiati per primi in quegli Stati, mentre vengono scrutinati per ultimi negli Stati che restano da assegnare. L’attesa ora potrebbe protrarsi anche per giorni, perché in Pennsylvania – dove appunto Trump ha annunciato ricorso – i voti per posta possono arrivare fino a venerdì (e nella North Carolina fino alla prossima settimana). Il timore di incidenti, almeno per ora, non s’è concretizzato. La Borsa non ha patito l’incertezza. I Democratici conservano – è certo, anche se i dati sono fluidi – il controllo della Camera, ma non sono riusciti a sottrarre ai Repubblicani la maggioranza al Senato.

Verdini in cella da solo in attesa del tampone

Denis Verdini è detenuto ufficialmente a Rebibbia dalle ore 21.15 di martedì, ora indicata, secondo quanto risulta al Fatto, nel registro del carcere della Capitale, dove l’ex coordinatore di Forza Italia ed ex senatore di Ala si è costituito appena dopo la condanna a 6 anni e mezzo per bancarotta del Credito cooperativo fiorentino e truffa ai danni dello Stato per i fondi all’editoria. Fine pena, si legge nel suo fascicolo, 3 maggio 2027. Verdini si trova nella sezione G9, quella del protocollo anti Covid-19.

Come ogni neo detenuto è in una cella singola in attesa del risultato del tampone. È arrivato a Rebibbia intorno alle 16.30 di martedì, accompagnato dai tre figli, compresa Francesca, la compagna di Matteo Salvini, mai stato così silente. L’ex parlamentare ci aveva sperato fino all’ultimo, quasi si era convinto che non sarebbe finito in carcere. L’illusione, durata lo spazio di 24 ore, l’aveva coltivata per la richiesta della Procura generale: un nuovo processo d’appello anche se solo per una infinitesima parte della mole di imputazioni per cui è stato condannato dal tribunale, dalla Corte d’appello di Firenze e martedì dalla Cassazione.

Verdini e la difesa pensavano che i giudici dessero ragione al pg e che quindi l’appello bis gli avrebbe evitato per sempre il carcere, dato che l’8 maggio compirà 70 anni e potrà chiedere i domiciliari per età. Ma, invece, Verdini dovrà stare in carcere almeno fino al compleanno.

Mentre aspettava di andare in cella ha ricevuto una visita inaspettata: quella di Vittorio Sgarbi, con il quale ai tempi in cui comandava in Forza Italia ha litigato. Tra i due noti fumantini erano volati gli stracci, Sgarbi lo accusava di prepotenza e arroganza nella gestione del partito, di sentirsi un Papa. “Sei il più garantista di tutti, vieni prima che io entri in carcere”, ha detto Verdini a Sgarbi, stringendogli la mano. Ma questa volta Sgarbi non fa uno dei suoi comizi anti giudici che sbattono in galera innocenti. Lo va a trovare perché, non conoscendo le regole di ingresso dei detenuti, si era incuriosito per la lunga attesa dell’ex senatore. I poliziotti penitenziari gli spiegano del necessario ordine di esecuzione pena che un carcere deve ricevere per registrare un detenuto. Viene emesso dalla Procura generale, in questo caso di Firenze, e quindi ci sono dei tempi tecnici da rispettare. Sgarbi ci racconta che ha trovato Verdini “deluso per la sentenza, ma compostamente rassegnato”.

G8, le cartelle “sbagliate” ai poliziotti. Indagano i pm

Omissione di atti d’ufficio. È questo il reato per il quale indaga la Procura di Roma nell’ambito di un’inchiesta – finora inedita – che riguarda alcune cartelle esattoriali emesse nei confronti di alcuni degli alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova. L’indagine è alle battute iniziali: lo scorso 28 luglio la Guardia di Finanza, su delega del pm titolare del fascicolo, Rosalia Affinito, ha bussato agli uffici di Equitalia Giustizia. Quel giorno le Fiamme gialle hanno richiesto la documentazione relativa alle cartelle esattoriali emesse per i crediti di giustizia nei confronti di alcuni dei superpoliziotti. Solo pochi giorni fa Amnesty International aveva espresso “sconcerto” per le recenti promozioni di due funzionari “condannati in via definitiva” per i fatti del G8. Adesso lo scandalo riguarda i risarcimenti, anche se stavolta i fari sono accesi su Equitalia Giustizia. L’obiettivo del pm è capire se vi siano stati ritardi o altri motivi per cui l’ente riscossore in passato non abbia emesso nuove cartelle esattoriali nei confronti dei condannati di Genova, soprattutto alla luce di una imminente prescrizione (nel 2022) dei crediti processuali. Non ci sono indagati.

Per capire la vicenda bisogna tornare al 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone e stabilisce che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella “macelleria messicana” in cui era stata trasformata a furia di manganellate la scuola Diaz. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli.

Come raccontato dal Fatto il 26 maggio, le cartelle sono arrivate, ma i destinatari le hanno contestate lamentando tra le altre cose un “errore di quantificazione”: gli importi richiesti dall’ente sono stati calcolati in via solidale, dicono, quando l’articolo 535 del codice di procedura penale (riformulato dalla legge 69 del 2009) stabilisce che la somma deve essere richiesta “pro quota”. Un esempio: se la pretesa era di 300 mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro (metodo solidale) quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa (pro quota). Le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro nel 2018. “Fino a marzo 2019 c’erano state almeno 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro di credito vantato dallo Stato – spiegava Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia –. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 8 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non quello della Giustizia, ma dell’Interno, a cui Equitalia ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari. “In pratica il 70% dei provvedimenti risultano favorevoli ai ricorrenti – aggiunge il legale – e il 30% dichiara concluso il giudizio per avvenuto pagamento del Viminale”. Eppure il principio era parso chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 da uno dei condannati che aveva presentato ricorso. Il giudice Stefania Salmoria aveva stabilito: “Tale assunto – si legge, in riferimento alla quantificazione che doveva essere fatta pro quota e non in via solidale – trova conferma nella nota ministeriale del 14 luglio 2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”.

Concetto ribadito in una circolare del ministero del luglio 2015 e in una nota del capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova, inviata all’ente il 16 gennaio 2017. “Sarebbe bastato annullarle e ricalcolarle, perché anche secondo i giudici il credito restava valido ed esigibile”, aggiunge Cento. Che ad aprile è stato licenziato da Equitalia e reintegrato al suo posto il 6 ottobre dal Tribunale di Roma. Ora “gli importi sono stati pagati due volte dai due ministeri e gli unici che non hanno pagato al momento sono i condannati”. Che potrebbero non farlo mai: nel luglio 2022 scatta la prescrizione e per restituire le somme già percepite, ricalcolare e riemettere le cartelle servono almeno 15 mesi. Equitalia, il cui Cda è in attesa di nomina, ha tempo fino a dicembre per avviare il procedimento.