Sbirciare i conti, compresi i compensi di tutti i collaboratori. Imporre l’interruzione del rapporto con due consorzi giornalistici investigativi, pure se da premio Pulitzer. Tutto con l’obiettivo di tagliare le unghie alla trasmissione Report, tanto seguita e amata dal pubblico quanto detestata da una lunga serie di potenti e politici. A partire dalla Lega che con l’autore e conduttore del programma Sigfrido Ranucci ce l’ha a morte per via delle inchieste sui commercialisti di Matteo Salvini finiti ai domiciliari, sul contratto per i test sierologici della DiaSorin per cui la Finanza ha bussato alla porta del governatore Attilio Fontana, sugli incarichi all’avvocato Andrea Mascetti, uomo di fiducia di Fontana e di Salvini, che ha supervisionato il programma culturale del Carroccio. Che ora ha fatto partire la controffensiva: Mascetti ha chiesto alla Rai di entrare in possesso di tutti i contatti serviti a Ranucci per ottenere informazioni e documenti utilizzati per l’inchiesta. Poi il membro del cda Rai in quota Lega, Igor De Biasio, si è rivolto all’ad Fabrizio Salini per chiedere conto dei costi della trasmissione. De Biasio non conferma e non smentisce con il Fatto, ma autorevoli fonti aziendali forniscono altri dettagli: il consigliere leghista ha chiesto una due diligence sulle spese per i collaboratori e per quelle legali sostenute da quando Ranucci è al timone della trasmissione. Si vuole impedire a Report di avvalersi della partnership gratuita con i consorzi internazionali di giornalismo investigativo, che al presidente della Rai Marcello Foa (in quota Lega) non sono mai piaciuti: “Siamo sicuri che si tratti di giornalismo?”, si domandava nel 2016 a proposito dell’inchiesta sui Panama Papers condotta dal Consortium of investigative journalists (Icij) che l’anno dopo vinse il Pulitzer. Pure Maurizio Gasparri (FI), promette vendetta per via delle mail pescate da Report nel database dell’altro consorzio giornalistico Organized crime and corruption reporting project che tirano in ballo Mascetti, Armando Siri e il collaboratore della Rai Alessandro Giuli che aveva messo nero su bianco il famoso programma culturale della Lega: Gasparri ha presentato un’interrogazione e spera che il cda Rai tagli ogni contatto tra Occrp e Report accusata di avere violato la privacy.
Arrestato “zio” Fittirillo, ex Banda Magliana. Ora gestiva la piazza di spaccio del Tufello
La banda della Magliana è ormai finita, ma lo “Zio” era ancora il capo del Tufello. Nel quartiere di Roma Nord-Est, partivano fiumi di cocaina destinati a tutta la Capitale. A gestire gli affari era Roberto Fittirillo, detto anche Robertino, già componente della banda criminale di Franco Giuseppucci ed Enrico De Pedis, che tra gli anni 70 e fine anni 80 ha messo a ferro e fuoco la Città eterna. Lo Zio – è il soprannome – finisce sotto inchiesta due volte, nel ’92 e nel ’93, in due operazioni che smantellano ciò che rimane della banda. Sarà la prescrizione a salvarlo nel 2007 e a cancellare con un colpo di spugna i cinque omicidi di cui era accusato. Nella zona romana del Tufello, Fittirillo aveva ripreso a gestire gli affari di un tempo: la vendita all’ingrosso della droga. Con l’ausilio del figlio Massimiliano, aveva formato un nuovo gruppo articolato su tre livelli: chi si occupava della fornitura e l’approvvigionamento, chi individuava gli acquirenti e infine i corrieri, che distribuivano il prodotto. Sono entrambi finiti agli arresti, insieme ad altre 18 persone, con l’accusa di traffico di droga nell’operazione della Dda di Roma e della Guardia di Finanza. Secondo le stime delle fiamme gialle, il gruppo di Fittirillo era riuscito vendere in pochi mesi 120 chilogrammi di cocaina, per un valore stimato “al dettaglio” di oltre 5 milioni di euro. Tra i clienti dello “Zio” c’era anche Fabrizio Fabietti, detenuto per l’inchiesta Grande Raccordo Criminale, e legato al narcotrafficante Fabrizio Piscitelli detto Diabolik, freddato lo scorso agosto a Roma con un colpo di pistola alla testa. Ieri in manette ci è finito anche il pugile dilettantistico Kevin Di Napoli. Una vicenda “delittuosa di assoluta gravità”, la definisce il gip Angela Gerardi, dove “la pericolosità degli indagati si salda con i rispettivi profili personali e criminali”. Per lo Zio Fittirillo è “indiscutibile la sua capacità di rispondere alle incessanti ingenti richieste di stupefacenti e assicurando forniture altrettanto tempestive e consistenti”.
Lupacchini sarà trasferito a Torino, farà il sostituto
Confermato il trasferimento a Torino dell’ex pg di Catanzaro, Otello Lupacchini. Lo hanno stabilito le Sezioni unite della Cassazione che hanno rigettato il ricorso del magistrato e messo il sigillo alla decisione del Csm di trasferirlo come “semplice sostituto procuratore”. A Lupacchini è contestata una “immotivata e ingiustificata denigrazione” del lavoro di altri magistrati e in particolare del procuratore della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri. Una denigrazione che era “palesemente idonea a determinarne il discredito”. L’episodio si è verificato durante un’intervista rilasciata a Tgcom, all’indomani della maxi-operazione “Rinascita-Scott” contro la cosca Mancuso. Oltre a lamentarsi di avere conosciuto i nomi degli arrestati “dalla stampa”, in quell’occasione Lupacchini aveva parlato di “evanescenza come ombra lunatica di molte operazioni della Procura distrettuale di Catanzaro”.
Omotransfobia, il primo sì della Camera
La maggioranza applaude, il centrodestra protesta con bavagli e cartelli contro una norma “liberticida”. La Camera ieri ha approvato il ddl Zan, la legge per contrastare l’omotransfobia, la misoginia e la discriminazione e violenza contro i disabili: il testo è stato approvato a scrutinio segreto con 265 voti favorevoli, 193 contrari e un solo astenuto. Nelle file di Forza Italia 5 deputati hanno votato a favore. Novità dell’ultima ora sono stati due emendamenti contrastati dall’opposizione: l’estensione di iniziative educative contro l’omofobia anche alle elementari e l’istituzione della “Giornata nazionale contro l’omofobia” (il 17 maggio). La legge modifica due articoli del codice penale: chi si rende colpevole di discriminazioni per ragioni fondate su sesso, genere o disabilità viene punito fino a un anno e 6 mesi di reclusione o con la multa fino a 6mila euro. Chi commette violenza o istiga a commetterla rischia da 6 mesi a 4 anni. Ora il testo passa al Senato.
Lazio, il “giallo” dei molecolari: giocatori positivi a giorni alterni
Negativi in Italia, positivi in Europa: il giallo dei tamponi della Lazio continua. Come mercoledì scorso a Bruges, ieri in Champions League la Lazio è scesa in campo a San Pietroburgo senza il suo bomber Ciro Immobile, che però aveva giocato (e segnato) domenica in campionato col Torino.
Nella Lazio, dove sicuramente esiste un piccolo focolaio, c’è un gruppo di giocatori che da una settimana risulta positivo e negativo, indisponibile e disponibile a giorni alterni, alimentando polemiche e sospetti, come quasi sempre quando c’è di mezzo Lotito. Risultati diversi perché diversi sono i laboratori che svolgono i test. Quelli per la Champions sono fatti da Synlab, incaricato dalla Uefa. Per il campionato, invece, ogni club ha un suo centro (purché accreditato): la Lazio ha scelto Futura Diagnostica di Massimiliano Taccone, figlio di Walter ex presidente dell’Avellino, storicamente vicino a Lotito, fatto che ha contribuito ad aumentare i sospetti.
Nel mirino (anche della Figc, che ha aperto un’inchiesta) c’è la partita Torino-Lazio, a cui hanno preso parte 5 titolari che non erano andati in Belgio per la Champions. Da Avellino filtra un dato categorico: chi è sceso in campo a Torino lo ha fatto perché negativo. Evidentemente i test Uefa danno un esito diverso, se per il match con lo Zenit sono stati di nuovo appiedati Immobile, Strakosha e Leiva. Fra questi stavolta anche il laboratorio di Avellino ha trovato un positivo, pare proprio di Immobile, solo al gene N, che appartiene alla famiglia del Coronavirus ma non è specifico del Covid. Possibile che la discrepanza dipenda dall’“amplificazione”: il “cut-off” (il numero di cicli a cui si dà per buona la negatività) del laboratorio di Avellino è 43, comunque in linea con gli standard nazionali, quello della Uefa è più alto, con una sensibilità maggiore. Probabilmente aiuterebbe se Lega e Figc incaricassero un laboratorio indipendente, come in Europa, ma per il campionato è più difficile. Così la polemica continua. Le sanzioni per un’eventuale violazione vanno dalla penalizzazione alla retrocessione. I presidenti della Serie A sono in subbuglio. Lotito, che è convinto del suo operato e non ha per nulla gradito l’ispezione federale a Formello, pure.
Tamponi fasulli e costi gonfiati: indagano i Nas
Laboratori che eludono le convenzioni pubbliche ed eseguono tamponi a prezzi triplicati. Società non autorizzate che effettuano test antigenici senza autorizzazione. Truffatori che vendono in Internet kit anti-Covid, oppure organizzano laboratori clandestini che non hanno valore diagnostico. Da Nord a Sud la corsa al tampone ha scatenato le brame dei soliti lucratori pronti a sfruttare il momento di difficoltà e le ansie della popolazione.
A Roma i carabinieri dei Nucleo Anti-Sofisticazione, in collaborazione con le Asl, da giorni stanno scandagliando le circa 200 autorizzazioni fornite dalla Regione Lazio in favore di altrettante strutture private che stanno eseguendo i test antigenici rapidi a prezzo calmierato di 22 euro. Gli ispettori sanitari, fin qui, hanno pizzicato ben 15 laboratori di analisi che eludevano le indicazioni e facevano pagare ai pazienti anche 70-80 euro per effettuare il tampone. Il costo lievitava grazie all’aggiunta di servizi “obbligatori”, come la sanificazione dei locali, la presenza di un medico al posto dell’infermiere e altre voci che finivano in fattura. Le relazioni sono finite man mano sulla scrivania del direttore dell’Unità di crisi regionale, Alessio D’Amato, che al momento ha informato l’Antitrust e formalizzato la revoca di una autorizzazione. I Nas, dal canto loro, hanno informato la Procura delle indagini, anche se al momento non è chiaro se ci sarà un’informativa: le elusioni riguardano un protocollo sindacale, non una legge dello Stato. Il giro di vite in corso riguarda anche i laboratori non autorizzati: al momento ci sono una decina di strutture su cui si sono accesi i fari delle Asl.
Qualcosa di simile sta accadendo a Palermo, dove il prezzo calmierato imposto dalla Regione Siciliana è di 50 euro. Qui i Nas hanno scoperto un centro diagnostico privato, ad Alcamo (Trapani), dove i tamponi – in questo caso molecolari – venivano effettuati dietro il pagamento di 100 euro. All’interno dello studio non c’era nemmeno la figura del biologo specializzato in microbiologia, virologia o genetica. I titolari sono stati denunciati con l’accusa di falso e frode nell’esecuzione del contratto con l’ente pubblico, avendo eseguito presso il laboratorio in questione, per conto dell’Asp di Trapani, 7.600 tamponi, con la richiesta di pagamento di fatture per complessivi 380.000 euro, dei quali 72.000 già corrisposti.
I vari Nuclei Anti-Sofisticazione dei carabinieri sono impegnati in tuttala penisola a dialogare tra loro anche per verificare le crescenti truffe online. I Nas di Roma, ad esempio, hanno già segnalato una decina di annunci online di strumenti tarocchi, fra cui uno che millanta la diagnosi del Covid-19 solo passando il palmo della mano sullo strumento. A Napoli i tamponi somministrati attraverso un laboratorio del napoletano erano processati su macchinari costruiti per scovare i virus animali della brucellosi, e davano risultati a vanvera, secondo le indagini dei Nas di Napoli coordinati dal pm Mariella Di Mauro e dal procuratore aggiunto Giuseppe Lucantonio. Su questa storia pende un fascicolo che accusa 17 persone di associazione a delinquere finalizzata alla truffa. Sono state perquisite e i loro supporti informatici scandagliati fino in fondo. Al Riesame gli inquirenti hanno depositato conversazioni che renderebbero ancora più chiara la malafede dei faccendieri impegnati a ‘vendere’ un prodotto scadente: “Usiamo striscette usate, e diciamo che è negativo, che importa?”. In questo modo un pizzaiolo, sicuro di star bene, è andato al lavoro col rischio di infettare camerieri e clienti quando era positivo. Il tampone costava 60 euro, prezzo standard a Napoli. Il laboratorio dichiarava di essere convenzionato e sulla regolarità di questa attestazione sono in corso indagini a parte.
Irregolarità vengono registrate anche al Nord. In una farmacia di Pavia, il 2 novembre, i Nas di Cremona hanno sequestrato 251 test sierologici rapidi e 9.500 mascherine Ffp2 non in regola, per un un valore di 15mila euro. Per i carabinieri, il farmacista aveva “posto in commercio i test rapidi per la ricerca degli anticorpi IGG/IGM da Covid-19 senza l’autorizzazione dell’Autorità Sanitaria”. Ma, se per le mascherine ormai si tratta di un mercato dell’illecito fiorente, dove i disonesti sanno la differenza tra un Dpi certificato e una mascherina non a uso medico, per i test “non c’è una volontà truffaldina – spiega il capitano Giuseppe Antonicelli, comandante dei Nas di Cremona – la normativa è ancora molto fumosa”.
L’influenza? Ti vaccini solo se hai i soldi
“Mio fratello, 60 anni con patologia seria pregressa, bypass coronarico triplice per infarti pregressi e disoccupato, non ha la possibilità di ricevere la vaccinazione con il Sistema sanitario nazionale. Stessa cosa per mia madre, 94enne. La cosa che trovo strana è che in diverse strutture di Milano, pagando 60 euro, lo si può fare subito”, a scrivere al Fatto è il professor Maurizio Nava, noto chirurgo. E la sua lettera racconta come in Lombardia “il vaccino non c’è per il SSN, ma a pagamento in compenso lo si trova”. E così il malato cronico, oncologico o immunodepresso per dire, che non trova il vaccino dal suo medico di base, esce dallo studio del medico medesimo, fa due passi, entra nel Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, e il vaccino lo fa. Per la modica cifra di 60 euro. Tanto chiede il gruppo privato Multimedica per un tetravalente. Cinque euro di più del Gruppo San Donato, mentre Auxologico e Humanitas si “accontentano” di 50 euro. Ma c’è anche chi varca il confine e compra la sua dose in Svizzera: una pratica, quella del turismo sanitario nella Confederazione, che sta rifiorendo. Ma, se prima era appannaggio dei “ricchi” che andavano a farsi operare a Chiasso, ora in Svizzera ci va chi può (anche perché lì il vaccino costa anche meno: 53 euro).
È la fotografia di un escamotage che fa fronte a una situazione oggettiva: in Lombardia il vaccino è un miraggio, con buona pace del diritto alla salute. Che non ci sia possibilità di vaccinarsi lo dice chiaro anche il pop-up che appare se un cittadino “non a rischio” prova a prenotarsi dal sito dell’Ats: “I vaccini sono destinati alle categorie a rischio. Per conoscere il calendario vaccinale riservato alle altre categorie o ai pazienti sani visiti il sito www.wikivaccini.regione.lombardia.it”. Tu clicchi, ma la pagina non ti permette di prenotare nulla. E anche le categorie a rischio devono “pazientare”: per i fortunati che riescono a prendere la linea con il numero verde, appuntamento dal 21 novembre in poi. Bastano due conti per comprendere l’insufficienza delle scorte: per il Dg Welfare, Marco Trivelli, la Lombardia ha a disposizione 2,8 milioni di dosi. Ma a quelle vanno sottrarre le 500mila acquistate a ottobre scorso, e cancellate perché non in regola con le autorizzazioni Aifa. Quindi il numero reale di vaccini disponibili è 2,3 milioni. Tuttavia solo gli over 60 qui sono 2.933.000 e i bambini 0-6 anni sono 578.000: totale 3.511.000. A questi vanno poi sommati: cronici, donne incinte, personale sanitario e forze dell’ordine. Tutte categorie che avrebbero diritto al vaccino gratuito.
Che il Pirellone sia in affanno lo dimostra anche l’ultima gara dell’Agenzia degli acquisti: una procedura d’urgenza aperta il 28/10 e chiusa il giorno dopo, con base d’asta da 1.950.000 euro. Alla gara si è presentato un solo concorrente, lo Studio Dr. Mak &Dr. D’Amico Srl, che ha piazzato 120mila dosi di Influvac Tetra a 17,85 euro l’una, più 30 mila dosi di FluQuadri a 18,90 euro. Totale 2.709.000, cioè 759.000 euro in più della base d’asta. “Il sovrapprezzo pagato all’unico fornitore che ha trovato è la dimostrazione che Regione è allo sbando. Che è disposta a pagare qualunque prezzo pur di raccogliere dosi”, dice la consigliera Pd, Carmela Rozza. “Basta pensare che a febbraio fu annullata la prima gara perché ritenne il prezzo di 5,4 euro a vaccino troppo alto. Oggi è costretta a comprarli anche a 29 euro”.
È alle Regioni che spettano le competenze per la determinazione dei fabbisogni dei vaccini influenzali e l’approvvigionamento attraverso gare pubbliche. Non tutte si sono mosse per tempo – come dimostra il caso della Lombardia – per garantirsi la quantità necessaria per vaccinare almeno la totalità della categoria a rischio, e per assicurare una copertura anche alla cosiddetta popolazione attiva. Qualcuno, del resto, aveva già messo le mani avanti. Proprio come Vittorio De Micheli, direttore sanitario dell’Ats di Milano nonché coordinatore del Nitag-National Immunization Technical Advisory Group. “C’è un problema di organizzazione degli spazi e di personale, perché il Covid ha messo in crisi servizi – aveva anticipato De Micheli – ed è probabile che la tanto auspicata partenza in anticipo delle vaccinazioni non si possa fare. In ogni caso, con l’estensione della gratuità a partire dai 60 anni, dosi per tutti non ce ne saranno”. Ora la situazione è critica anche in Piemonte, dove è terminata da parte delle farmacie la distribuzione ai medici di base di 600mila dosi. “Anche con i vaccini per la popolazione a rischio siamo fermi”, dice Marco Cossolo, presidente di Federfarma, la federazione nazionale delle farmacisti. Nella regione guidata da Alberto Cirio è stato infatti affidato a loro il compito di distribuire i vaccini ai medici di base. Solo che le scorte, in tante regioni, siano finite anche nelle farmacie. “Così in Veneto, dove non ci sono per i soggetti non a rischio, che però si muovono, lavorano e sono potenzialmente più esposti al contagio. Così in molte regioni del Sud, a partire dalla Sicilia ”, prosegue Cossolo. “Le cose vanno meglio in Toscana e in Emilia-Romagna”. I vaccini, nelle farmacie, non sono disponibili, ora, nemmeno in Liguria, anche se la Regione ha da poco approvato una delibera che assegna loro una quota del 2%. Questo con la cosiddetta distribuzione per conto, vale a dire in convenzione con il Ssn, per abbattere un prezzo che oscilla dagli 11 ai 22 euro circa. Convenzione che altre Regioni non hanno applicato, con il risultato che le possibilità di accesso alla vaccinazione variano a seconda territori. Solo il Lazio sembra fronteggiare la situazione, sia per quanto riguarda le categorie a rischio sia per la popolazione attiva: le farmacie vengono rifornite con circa 20mila dosi alla settimana. Va ricordato che proprio il Lazio si è visto annullare dal Tar l’ordinanza con la quale aveva imposto l’obbligo della vaccinazione a tutte le persone sopra i 65 anni di età.
Ma come si è arrivati a questo punto? Generalmente i preordini vengono fatti in febbraio. Lo scorso giugno, quando è arrivato il momento della conferma, la scoperta: tutta la produzione interna era stata assorbita dagli ordini delle Regioni. Un balzo del 43% in più. Per un totale di 16,7 milioni di dosi, secondo i dati del ministero della Salute. È stato lo stesso ministro Speranza ad ammettere che la popolazione attiva rischiava di rimanere senza protezione. E ha invitato le Regioni a prevedere una quota di quanto ordinato da destinare alle farmacie. Quota fissata all’1,5% (anche se il fabbisogno era stimato intorno al 7,5). Poi c’è chi ha fatto di più (l’Emilia-Romagna ha stabilito il 3%, il Lazio lo ha portato al 4). Intanto impazzava la ricerca di vaccini all’estero. Stati Uniti, Cina, Svizzera. E all’estero, con importazioni parallele, sono andate a cercarli le strutture private.
Stop scuole, il Cts contro. “Rischi disagio psichico”
Per la scuola poteva andare peggio, la ministra Lucia Azzolina a un certo punto sembrava sola al tavolo del governo, con il pd che chiedeva di chiudere gli istituti di ogni ordine e grado. Poi è finita con le superiori serrate in tutta Italia e nelle zone a “elevata gravità” dette arancioni; didattica a distanza anche per le seconde e terze medie nelle aree di “massima gravità” chiamate rosse. Al Comitato tecnico scientifico, però, non erano convinti neanche di questo. Non tutti almeno. “La scuola dev’essere l’ultima a chiudere”, aveva ripetuto più volte il professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani di Roma. E così anche il professor Franco Locatelli, l’autorevole presidente del Consiglio superiore di Sanità. “I problemi – ha detto – sono il dopo scuola e i trasporti”. Anche Agostino Miozzo, che del Cts è il coordinatore, aveva molte riserve. La riunione di martedì sera, convocata per il parere sul Dpcm poi firmato a tarda ora, è finita con un verbale che manifesta “preoccupazione” per l’ulteriore stretta sulle scuole, sottolinea il “disagio psichico e sociale” per i ragazzi costretti a seguire le riunioni online da casa, almeno quelli che possono, e suggerisce puntuali verifiche della situazione. Per le superiori la didattica a distanza passa dal 75 per cento, già previsto dal Dpcm del 24 ottobre, al 100 per cento. Portoni sbarrati, se non per i laboratori.
Naturalmente nel Cts si rendono tutti conto dell’esigenza di trovare un compromesso, anche con le Regioni che per lo più resistono alle chiusure di attività varie, ma in alcuni casi – Campania, Puglia – erano già intervenute drasticamente sulle scuole. È stato tuttavia sottolineato, al Cts, che i liceali a spasso possono essere anche molto più pericolosi, sul fronte dei contagi, dei liceali seduti ai banchi di scuola, tanto più che nessuno può prevedere quando finiranno le restrizioni. Così Ippolito, Locatelli, ma anche il professor Alberto Villani del Bambin Gesù, presidente dei pediatri e pediatra del Cts, sono tutti dell’idea che le scuole debbano essere “le ultime a chiudere, come in Francia e in Germania”. E ancora Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità, e i professori del Gemelli e della Cattolica di Roma, il direttore delle terapie intensive Massimo Antonelli e lo pneumologo Luca Richeldi. Con loro anche Miozzo, che ha insistito sul tema dei trasporti pubblici – cavallo di battaglia suo e del Cts, che aveva chiesto mesi fa di passare al 50 per cento di capienza massima quando il governo e le Regioni preferivano l’80 – e sulla possibilità di mandare a scuola i ragazzi delle superiori, scaglionando gli orari di ingresso anche di due ore per evitare di concentrare i passeggeri e le auto dei genitori nello stesso momento della giornata. Dall’altra parte, naturalmente, c’erano i dirigenti del ministero della Salute a difendere la decisione del governo: il direttore della Prevenzione, Gianni Rezza, quello della Programmazione, Andrea Urbani, quello dei Dispositivi medici, Achille Iachino. Per loro ci sono “focolai anche in ambito scolastico” e comunque “prima e dopo”. Quanti? Quali? Il problema è proprio questo: al momento dati affidabili non ce ne sono, l’ultimo monitoraggio dava conto di un 3 per cento di contagi legati all’attività scolastica, l’ambito familiare è sopra il 70 per cento, quello lavorativo attorno al 10. Ma tutto questo in un contesto nel quale il ministero della Salute e l’Istituto superiore di Sanità sottolineano, con grande preoccupazione, che per metà dei casi registrati in Italia non è stato possibile ricostruire la catena di trasmissione.
Altri 30 mila casi: “Ma il virus dà segni di stabilità”
La curva epidemiologica – seppur con una lentezza tale da non consentire entusiasmi – continua leggermente a scendere. Una tendenza che – se dovesse proseguire anche nei prossimi giorni – si potrebbe dire consolidata. Le norme previste dai Dpcm di ottobre (confermate e inasprite nel caso di zone “rosse” o “arancioni” dal nuovo testo approvato martedì notte) cominciano, forse, a dare qualche timido risultato: “Il trend – conferma il direttore del dipartimento Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza – sembra mostrare una certa stabilizzazione ma non sappiamo ancora se possiamo vedere gli effetti di alcuni provvedimenti presi, come il Dpcm e alcune ordinanze regionali su uso continuativo delle mascherine di cui dovremmo iniziare a vedere effetti. Abbiamo avuto un forte aumento dei casi e adesso vediamo una stabilizzazione ma su livelli piuttosto elevati”.
Il bollettino del 4 novembre registra 30.550 nuovi casi Covid (in aumento rispetto ai 28.244 di martedì) a fronte di 211.831 tamponi (contro 29.544 delle 24 ore precedenti). Il tasso di positività (rapporto tra casi rilevati e test effettuati) si mantiene stabile, scendendo leggermente dal 15,49% di martedì al 14,41% di ieri. Ancora molto alto il numero dei morti: 352 (uno in meno delle precedenti 24 ore), dato che rende ormai prossima la soglia delle 40 mila vittime da inizio epidemia.
La Regione più colpita è sempre la Lombardia con 7.758 nuovi positivi, ma non è la sola a preoccupare in questi giorni: “Le Regioni più colpite – ha detto ancora Rezza – sono la Lombardia, il Piemonte e la Campania che registrano molti positivi. Sono regioni che hanno un tasso di incidenza piuttosto alto, piu o meno al livello della Lombardia; l’incidenza è elevata anche in Veneto, mentre nel Lazio vediamo un leggero incremento però sembra essere abbastanza graduale. Poi ci sono regioni più piccole come l’Umbria con 500 casi circa, dato in termini di incidenza sulla popolazione piuttosto elevata”. Il virus, tuttavia, circola con più o meno incidenza in tutto il territorio nazionale: ieri il tasso di crescita giornaliero più elevato (8,8%), si è avuto in Basilicata.
Questione ospedali: la situazione resta critica. I pazienti ricoverati con sintomi sono attualmente 22.116 (+1.002 ieri, 1.274 martedì), mentre i malati più gravi in terapia intensiva sono 2.292, ma i nuovi casi nelle ultime ventiquattr’ore scendono sensibilmente dai 203 di martedì ai 67 di ieri. Il picco dei ricoveri raggiunto il 4 aprile (29.010 persone in ospedale) non è lontanissimo, mentre quello dei ricoverati in terapia intensiva (4.068 il 3 aprile), per fortuna, un po’ meno: “Dobbiamo cercare, come Paese, di garantire, dove ci sia un bisogno di ricoveri in degenza ordinaria o in terapia intensiva, che venga garantito – ha detto il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro –. Alcune regioni hanno superato la soglia critica dei posti in terapia intensiva, altre regioni sono vicine. Il significato è che fatto 100 l’offerta di posti letto in degenza ordinaria di area medica, oltre il 40% di occupazione per pazienti Covid vuol dire dover riprogrammare le attività per dare priorità alla clinica dei pazienti con Sars-CoV-2, dilazionando ricoveri per altre patologie. E diverse Regioni – conclude – hanno superato la soglia critica”.
Posti letto, assunti, tamponi: il disastro Regioni continua
Le Regioni che ora si dolgono per un Dpcm che il lombardo Attilio Fontana – uno a caso – definisce “inaccettabile”, sono le stesse dove in questi mesi di inerzia si sono costruite le condizioni del disastro. Un fallimento su tutta la linea: scarse le assunzioni, inconsistenti gli interventi per rafforzare l’assistenza domiciliare, in ritardo clamoroso i piani per adeguare la rete ospedaliera. È mancato praticamente tutto, tranne i fondi: il governo aveva stanziato quasi 8 miliardi di euro.
Le crisi. Uno degli strumenti per evitare l’ospedalizzazione di massa dei malati di Covid (ed evitare il collasso delle strutture) era stato individuato nelle Usca (unità speciali di continuità assistenziali). Pattuglie di medici e infermieri pronti a spostarsi sul territorio per intervenire a domicilio. I fondi stanziati per le Usca sono lì da 8 mesi (decreto del 9 marzo 2020): 660 milioni per attivare 1.200 unità in tutta Italia, una ogni 50mila abitanti. Il risultato è impalpabile. L’intera città di Napoli, per dire, è servita da 20 Usca e da un totale di 40 medici. Per una metropoli da un milione di abitanti.
Le assunzioni sono l’altro aspetto più grave dell’inerzia dei governi regionali. Con l’incalzare dell’emergenza si moltiplicano i bandi-lampo per supplire a una carenza che poteva essere risolta o attenuata nei mesi successivi alla prima ondata. Nei mesi post-lockdown le assunzioni compiute nella Sanità regionale sono poco meno di 34mila, il governo ne aveva stimate 80mila, più del doppio. Di nuovo, non mancano i soldi: le Regioni sull’emergenza Covid avrebbero potuto spendere senza impedimenti immediati, in deroga ai vincoli di bilancio.
La mancanza di personale si riflette anche nell’inconsistente crescita dei reparti di terapia intensiva e sub-intensiva. Mancano all’appello migliaia di posti letto (i primi sono 5.179 invece dei 8.679 programmati, i secondi sono 14mila, erano previsti 4.200 in più). Non c’è carenza di attrezzature (come noto 1.300 ventilatori già acquistati dal commissario Domenico Arcuri giacciono inutilizzati nei magazzini del ministero), ma appunto di personale qualificato.
Per la riorganizzazione della rete ospedaliera erano stati messi a disposizione l miliardo e 650 milioni, ancora largamente inutilizzati: i piani di intervento delle Regioni hanno ritardi inspiegabili.
Zone rosse. Grottesca la situazione della Calabria: martedì sera dal bollettino regionale sono spariti 16 ricoverati in terapia intensiva sul totale di 26 comunicati nel pomeriggio. Non per una guarigione di massa, ma per un escamotage della Regione, che ha cambiato in corsa (anzi in giornata) i criteri per il conteggio, “liberando” magicamente 16 posti letto che in realtà continuavano a essere occupati (ma nel bollettino d’un tratto venivano attribuiti ad altri reparti). Un tentativo disperato di cosmesi dei numeri per evitare la “bocciatura” rossa del Dpcm, che poi è regolarmente arrivata.
In questi mesi la giunta calabrese, malgrado i fondi già stanziati – ha attivato la bellezza di 6 (sei) nuovi posti di terapia intensiva. Ieri una quarantina di esponenti della società civile e dei sindacati hanno firmato una lettera pubblica per denunciare la disastrosa condizione del sistema sanitario regionale e le assunzioni rimaste sulla carta, malgrado le promesse. Un comunicato simile è stato diffuso dalle associazioni dei lavoratori della sanità in Piemonte, che hanno denunciato “una serie di gravi carenze programmatiche da parte della Regione riguardo il contrasto dell’emergenza e la messa in sicurezza di tutto il personale”.
Dalla Lombardia, infine, arriva una notizia inquietante riguardo la capacità della Regione di continuare le operazioni di tracciamento allo stesso regime attuale. L’Ats di Milano ha diffuso infatti una circolare (“nota informativa”) con la quale invita i medici a limitare le visite per i tamponi (“è opportuno sospendere l’esecuzione del tampone per i contatti stretti”): non si riescono più ad accogliere tutte le richieste.