I presidenti in rivolta: “Il governo non ci ha nemmeno chiamati”

Il governo che doveva dare i compiti alle Regioni inciampa e prende tempo. Però alla fine cala le fasce colorate che indicano le zone da chiudere, e i governatori quasi impazziscono: “Non ci hanno neppure sentiti”. È quasi guerra tra Roma e le Regioni, dopo una giornata di rinvii. “Tutte le misure previste dal Dpcm riservate alle aree gialle, arancioni e rosse saranno in vigore da venerdì” avvisa Palazzo Chigi. Poi in serata le fasce colorate arrivano. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte le presenta all’ora di cena in conferenza stampa. E avverte i governatori: “Non è possibile contrattare con le Regioni, non si negozia sulla pelle dei cittadini”. E pare di toccarla con mano la rabbia dei presidenti. Martedì protestavano perché si sentivano “esautorati” dalle chiusure automatiche ideate dall’esecutivo. A zone rosse decise, accusano: “Non ci hanno neppure sentito, eppure il Dpcm prevede che le ordinanze del ministero della Salute sulle chiusure vengano emanate dopo aver sentito i governatori”. Lo dicono in diversi, fuori taccuino, “perché se parlassimo tra virgolette chissà cosa potremmo dire…”. Ma il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, protesta in chiaro: “Speranza ci ha relegati in zona arancione senza alcuna preventiva intesa con la Regione o spiegazione scientifica”.

Uno strappo, insomma. Al termine di un mercoledì infinito, nel quale governatori e sindaci avevano infierito sul governo per il ritardo sulla mappa delle chiusure. Basta citare il tweet al curaro del sindaco dem Beppe Sala: “Caro governo, sono le 6 di sera, un bar milanese sta chiudendo e ancora non sa se alle 6 di domani potrà riaprire. Quando glielo facciamo sapere?”. Una buona sintesi del clima tra gli amministratori. Per tutto il giorno i governatori si sentono loro e chiamano Roma, per avere notizie. “Nessuno sa nulla di preciso, c’è solo una grande confusione” accusa un governatore a metà pomeriggio, mentre i cellulari dei presidenti sono ingolfati dalle chiamate di sindaci e associazioni di categoria. Poi, di sera, la conferenza di Conte.

Già stamattina i governatori si rivedranno tra loro per una Conferenza che all’ordine del giorno ha altri temi, ma dove la questione delle chiusure, inevitabilmente, traboccherà. Senza dimenticare che nel pomeriggio è fissata una conferenza Stato Regioni, ovviamente con il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia. Però ormai è andata così. E chissà cosa farà ora il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. Prima che Conte prendesse la parola, era pronto alle barricate: “Il governo sta decidendo in quale fascia inserire la Lombardia, ma purtroppo lo sta facendo con dati vecchi di oltre dieci giorni. Oggi i dati ci sono, ed è sulla base di questi che dovrà essere presa ogni decisione”. Era e forse resterà la linea di molti presidenti, spiegano: contestare i dati usati da Speranza come vecchi e non attendibili.

Non a caso, a zone rosse stabilite, il governatore ligure Giovanni Toti alza l’asticella: “Se non fosse drammatica la situazione inizierebbe a diventare grottesca, ci aspettiamo un confronto tecnico con il governo sulla qualificazione tecnica del dato”. L’ennesimo siluro, dal vicepresidente della Conferenza Stato regioni.

Ma Conte tira dritto. “Il contraddittorio ci sarà – assicura – perché le ordinanze del ministro della Salute vengono fatte sentito ogni presidente, ma non negoziate con il governatore”. Niente “trattative”, ringhia. Anche perché, fa notare, “il sistema di monitoraggio dei dati è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni”. Gli chiedono di Fontana che contesta i dati, e il premier non si sposta: “Le ordinanze del ministro della Salute non saranno arbitrarie o discrezionali perché recepiranno l’esito del monitoraggio periodico effettuato con i rappresentanti delle Regioni”. Di più non concede, il presidente del Consiglio. Perché non vuole proprio farlo.

Il giro di vite slitta a domani: 4 Regioni rosse e 2 arancioni

Un giorno in più, come se la corsa del virus potesse prendersi una pausa, in attesa che prendano forma i criteri con cui stabilire se una Regione è gialla, arancione o rossa: le misure che dovevano intervenire con urgenza, entro in vigore domani. Il motivo è tanto banale quanto prevedibile: scrivere le ordinanze che aggiungono restrizioni nelle zone a rischio molto alto è stato più complicato del previsto. E di certo non si poteva pensare di dire a presidenti e sindaci, ma soprattutto a commercianti, lavoratori e studenti, che da stamattina tutto cambiava senza il minimo preavviso. “Abbiamo dovuto dare il tempo alle persone di organizzare la propria vita”, spiegano da Palazzo Chigi. Ma la verità è che se lo sono dovuto prendere soprattutto loro. Al punto che il Nazareno non gradisce e “condivide” la linea della sindaca di Empoli, Brenda Barnini (che siede nella segreteria Pd), secondo la quale serve “fermezza, serietà e indirizzi chiari”. Tutto tranne che “far passare l’idea che misure come il coprifuoco possano scattare un giorno prima o un giorno dopo, senza che faccia differenza”.

Così Giuseppe Conte decide di scendere in conferenza stampa alle 20.20, dopo aver corretto la data di entrata in vigore del decreto che aveva già firmato e che era sul sito del governo, da dove è rapidamente sparito per permettere la correzione.

Spiega come prima cosa che non esistono “zone verdi”, che nessuno quindi può sentirsi al sicuro. Una precisazione necessaria, che raccoglie un preciso appello arrivato proprio dal Pd, secondo cui c’era il rischio che gli abitanti delle Regioni rimaste senza restrizioni speciali, prendessero troppo sotto gamba la situazione. Che tanto tranquilla non è: quattro Regioni da oggi vanno in lockdown (Lombardia, Piemonte, Calabria e Val d’Aosta), altre due diventano arancioni, Puglia e Sicilia.

Ieri per diverse ore si è riunita al ministero della Salute la cabina di regia guidata dal direttore della prevenzione Giovanni Rezza e dal presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. Gli aggiornamenti completi arrivano di ora in ora. Gli ultimi dati complessivi sull’andamento dell’epidemia in Italia sono su 26 slide preparate da Brusaferro ma si basano sui dati fino al 25 ottobre, l’ultimo monitoraggio. Un po’ vecchi e soprattutto incompleti. Proprio l’incompletezza preoccupa: conferma infatti che le aziende sanitarie territoriali, travolte dai contagi, non riescono a inseguire il virus. L’ultima slide contiene una tabella di sintesi. Per cinque Regioni la classificazione di rischio è indicata come “alta con probabilità alta di progressione” e con “molteplici allerte di resilienza”, che si riferiscono alle difficoltà del sistema sanitario: sono appunto la Calabria, la Lombardia, il Piemonte, la Puglia e la Sicilia in base alla complessa combinazione di vari criteri che vanno dai nuovi casi registrati alle condizioni degli ospedali alla capacità di svolgere indagini epidemiologiche sul territorio. Sono i criteri definiti inizialmente ad aprile, al momento delle riaperture e dell’avvio del monitoraggio settimanale.

La Toscana ha classificazione di rischio “alto” ma “progressione non valutabile” perché appunto mancano alcuni dati, in particolare c’è un ritardo nella notifica dei casi o manca, troppo spesso, la data di insorgenza dei sintomi. Questo significa, tra le altre cose, che il calcolo del tasso di riproduzione del virus Rt è particolarmente difficile. Altre sette Regioni sono in questa condizione: Abruzzo, Basilicata, Campania, Liguria, Marche, Veneto e Valle d’Aosta. Quest’ultima, però, finisce in zona rossa perché, oltre alle gravi difficoltà degli ospedali che pure hanno creato posti letto supplementari, ha la più alta incidenza di casi nei 14 giorni fino al 1° novembre: 1.246 ogni 100 mila abitanti. Nessuno ne ha di più: la Lombardia è a 768, il Piemonte a 660; la Calabria si ferma a 132 e la Sicilia a 213 ma appunto i. dati non sono ritenuti convincenti. La stessa Toscana risulta però aver già superato la soglia di allerta nelle terapie intensive, fissata al 30 per cento: è infatti al 36 per cento, mentre i reparti dell’area medica sono “solo” al 31 ma lì il limite fissato è il 40 per cento. Tre Regioni e una Provincia autonoma le hanno superate entrambe: Piemonte (34 per cento nelle terapie intensive e 54 per cento in area medica), Bolzano (35% e 52%), Umbria (46% e 47%) e ancora la Val d’Aosta (40% e addirittura 103 per cento nell’area medica). La Lombardia è al 40 per cento nelle terapie intensive e al 37 in area medica, l’Emilia-Romagna è al 33 e al 28, la Liguria al 27 per cento nelle terapia intensive ma al 60 per cento in area medica.

Le prime zone rosse e arancioni sono state definite ieri sera in tutta fretta, senza neppure acquisire il parere del Comitato tecnico scientifico. Il Dpcm fissa una durata di 15 giorni, ma le cose potranno cambiare a seconda dei dati che arriveranno.

Denis santo subito

Non sappiamo chi è il nuovo presidente Usa perché aspettiamo i postini. Non sappiamo quali sono le zone rosse, arancioni e gialle, perché aspettiamo il ministero, l’Iss, il Cts, gli sgovernatori, i sindaci e il divino Otelma. Ma una certezza l’abbiamo: Verdini martire. Condannato in Cassazione a 6 anni e 6 mesi per la bancarotta fraudolenta del Credito cooperativo fiorentino (32 “distrazioni”, cioè 32 furti ai risparmiatori per favorire gli amichetti suoi) e prescritto in extremis per truffa allo Stato sui i fondi pubblici all’editoria, era uno dei pochi berlusconiani rimasti a piede libero. Ma ha provveduto lui stesso a colmare l’inspiegabile ritardo, consegnandosi a Rebibbia prima che i carabinieri andassero a prenderlo. E l’ha fatto senza un lamento, perché non è un piagnucolone e perché, conoscendosi, sapeva benissimo che sarebbe finito lì (anche la scelta dei portafortuna, dal Caimano all’Innominabile al Cazzaro, non ha giovato). Ma a lacrimare al suo posto ci pensano i giornalisti increduli per lo scandalo di un pregiudicato in galera. Il suo amico Giuliano Ferrara, del cui Foglio Verdini fu editore coi soldi di B. e soprattutto nostri, strilla contro “la logica delle manette”, senza spiegare in quale Paese un condannato a 78 mesi resta a piede libero. Ma da lui c’era poco da attendersi: il suo bacio è un apostrofo rosa tra le parole “ti” e “arresto” (Craxi ad Hammamet, B. a Cesano Boscone, Dell’Utri, Previti e Verdini a Rebibbia).

Strepitoso invece Mattia Feltri, quello che aspetta sempre la Cassazione e poi, quando arriva la Cassazione, non gli va bene lo stesso. Premette: “Non so nulla del processo”, anche se “Ferrara lo definisce brutale e spicciativo” senza saper nulla del processo. Ma proprio perché non sa nulla del processo, e se ne vanta, Feltri jr. rimpiange gli abbracci di Denis che “spalancava le tanaglie e mi rinserrava dentro”. E “prova un dolore intenso”: non per le vittime del crac Ccf finite sul lastrico, ma per il bancarottiere-truffatore a cui “voglio molto bene” perché prima della Stampa lavorava al Foglio gestito da Verdini a spese dei contribuenti (prima di passare all’edizione toscana del Giornale e infine al gruppo Libero-Il Tempo del sen. Angelucci). Roba che può accadere solo in Italia: all’estero è conflitto d’interessi. Ma ora, proprio grazie al conflitto d’interessi, mezza stampa lo beatifica. Il Giornale arriva a scrivere che, al suo arrivo a Rebibbia, i giudici dovevano “respingerlo” per evitare che sconti la pena “a contatto col carcere e col virus” (notoriamente circoscritto alle patrie galere), come peraltro fanno 60mila detenuti che non sono mai stati senatori, banchieri ed editori. Diceva Trilussa: “La serva è ladra e la padrona è cleptomane”.

“Io, Gassman e Bene eravamo una setta dedita alle libagioni”

Secondo e ultimo viaggio tra le parole di Gigi Proietti e le interviste rilasciate al Fatto.

Cosa ci ha lasciato Shakespeare?

Si può trascorrere la vita intera a cercare di capirlo. Shakespeare è un pozzo senza fondo e non ti puoi limitare alla lettura del testo: ogni volta che ci rimetti mano scopri che certe cose non le avevi viste e altre ancora non le avevi proprio comprese… Al ginnasio, con un improbabile tutù, avevamo portato in scena Il lago dei cigni.

In tutù?

Cortissimo, legato con uno spago, una cosa tremenda. Frequentavo il liceo Augusto, sulla Tuscolana e vivevo in periferia, al Tufello. Quando a mio padre assegnarono il lotto delle case popolari, improvvisò una danza. Sembrava avessimo vinto al Totocalcio.

L’avrebbe voluta laureato.

Una bandiera sul percorso della realizzazione sociale. Mi sognava sistemato, con un compenso sicuro… Poi andavo a cantare e in una sera, esibendomi, guadagnavo più di quanto papà non riuscisse a mettere insieme in un mese.

E il resto è storia.

Mi sembra di aver fatto di tutto. ’Na specie de ’ndo cojo, cojo… Persino un Sandokan televisivo con quel fenomeno di Gregoretti. Mi sono divertito molto. Can can degli italiani, lo spettacolo con il quale debuttai, era raffinatissimo: i testi di Vollaro, Arbasino e Flaiano. Vi ricordate la sua battuta sul Louvre? Gli chiedono quale opera salverebbe se il museo bruciasse e lui: ‘Quella più vicina all’uscita’.

Compagni di strada indimenticabili?

Certi fratelli illegittimi purtroppo se ne sono andati. Con Gassman e Bene passammo serate memorabili. Ci ritrovammo a L’Aquila. Eravamo una setta dedita alle libagioni. Dopo una settimana non si trovava più un goccio di vino.

Bene era straordinario.

Sì, assolutamente. In molti si rifanno a lui, ma non lo conoscono. Se osavi parlargli di sperimentazione, non discuteva. Ti dava direttamente una bastonata. Esagerare era parte della sua cultura barocca, del suo poetico girovagare. Mi ricordo che voleva mettere in scena una pièce su San Giuseppe da Copertino… Una volta, a cena, all’ennesima citazione da Schopenhauer gli chiesi: ‘Ma a che pagina lo dice?’. Ridemmo. Spesso quelle ‘citazioni’ non erano che sue intuizioni forti e sublimi.

Si è piaciuto.

Più dopo che prima. Sono stato di una precisione ossessiva. Gassman mi prendeva in giro: ‘Sei maniacale’. Riascoltandomi, mi sono stato antipatico.

Il tempo comico è tutto?

Quando lavorai col grande Peppino De Filippo ne La bottega del caffè, mi accorsi per la prima volta che la risata non è solo improvvisazione. È un sistema: i tempi dello sketch erano studiati sacralmente.

Come andò?

Peppino, durante le prove, prima di pronunciare una battuta, toccò un balconcino con un bastone. Poi venne avanti in silenzio verso la platea e la declamò. Tutti i presenti, attori e tecnici, risero. Lui chiese una pausa: io lo spiai e mi accorsi che, nel percorso dal balconcino al centro della scena, aveva contato mentalmente fino a otto.

Aveva studiato i tempi?

Aveva ‘fissato’ la battuta, trattandola alla stregua di un tempo musicale.

Che altro le insegnò De Filippo?

Non dimenticare chi è venuto prima di noi è essenziale: ricordatevelo, giovinetti. Peppino poi era adorabile. Osservare lui e Fabrizi è stato un privilegio. Un giorno sul set di Tosca Gigi Magni si appropinqua complice e mi fa: ‘Oggi Aldo ce regala la botta’.

Cos’era la botta?

Spiegarlo è dura. Lui faceva un’espressione con la faccia che ti commuoveva. Strabuzzava gli occhi, muoveva il volto, torceva i lineamenti. Si dirigeva da solo: ‘Silenzio, motore, ciak, azione’. Faceva girare un certo numero di scene e poi al direttore della fotografia, prima di smettere, faceva un cenno: ‘Stampi la quarta e la sesta’. E sicuramente quelle scelte da Fabrizi facevano piagne.

E Fellini?

Imprevedibile. Veniva a vedermi, guardava un pezzo di spettacolo, magari tornava il giorno dopo. Se non avesse trovato i fondi per La città delle donne, lo avremmo fatto al Teatro Tenda.

Al Teatro Tenda c’era A me gli occhi, please: migliaia di persone in fila. Era teatro popolare?

Me volete provoca’? Quello sì, lo era, ma non abbiamo ancora capito come accadde il miracolo… Il Tenda poteva contenere quasi 3.000 persone, io sarei stato contento di 500. La sera della prima, mentre mi preoccupavo dei possibili vuoti, vennero da me increduli mia moglie Sagitta e Roberto Lerici: ‘La fila è lunga chilometri’. Li mandai a fare in culo, poi mi affacciai. Era vero. Dopo qualche settimana, un massaggiatore che mi manipolava tutte le sere, mi disse la cosa più bella.

Cosa, Proietti?

A Gi’, me levi ’na curiosità? Ma che vuor di’ pleaaaase?

(2. Fine)

Omero intrattiene Pavese. Annoiato al confino, traduce

“È bene rifarsi a Omero”. Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908-Torino 1950), il 17 febbraio 1936, lo scriveva nel diario, noto poi come Il mestiere di vivere. Da qualche mese, dal 3 agosto 1935, era a Brancaleone Calabro, sul mare Ionio, dove il regime mussoliniano lo aveva confinato. Il giovane intellettuale, in quelle settimane, ripensa a una donna amata, Tina Pizzardo, e scrive di quella “atroce questa sofferenza”. Nel ripercorrere la vicenda, s’innesta un altro tema: “La considerazione della poesia”.

Nel 1934 ha consegnato allo scrittore Alberto Carocci, fondatore della rivista Solaria, la raccolta Lavorare stanca, che uscirà nel 1936. Intanto medita su ciò che ha fatto e vagheggia una nuova poesia, che però “comincerà soltanto alla fine del dolore” e per cui non può che “almanaccare estetica, il problema dell’unità, e studiare domande per finire il dolore”. Pavese, a Brancaleone, si fa mandare dalla sorella Maria le Odi di Orazio e il dizionario di greco classico: si rivolge sempre di più ai grandi autori latini e greci, soprattutto a Omero. Sono quei libri, dirà nei Dialoghi con Leucò, “che legge ogni giorno, gli unici libri che legge”. A Carocci, il 27 dicembre 1935, scrive: “Io mi annoio molto e ritorno al greco, traducendo tutto il giorno Omero e Platone”. Quella ai classici, come alla mitologia, sarà una lunga fedeltà che culminerà nel 1947 con i Dialoghi con Leucò (da poco ristampato da Einaudi, a cura di Nicola Gardini) e nel contributo rilevante, alla fine degli anni Quaranta, dato alla traduzione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti.

La natura del paesaggio “mitico” di Brancaleone giocò la sua parte, come accadrà per le Langhe dei Dialoghi: “I colori della campagna sono Greci”. Così, nel piccolo borgo della Calabria, Pavese decide di mettersi a tradurre “il primo Greco”, cioè Omero. Affronta l’Iliade, si dedica al primo canto, inizia in questo modo: “L’ira canta, o dea, del Pelide Achille/ rovinosa, che miriadi agli Achei mali pose/ e molte generose anime all’Ade inviò di eroi, ed essi preda fece ai cani/ e agli uccelli pasto, e di Giove si compiva il volere/ da quando appena prima s’inimicarono altercati/ l’Atride re di uomini e il divo Achille./ E quale dunque essi degli dei in alterco aizzò a combattere?”.

Quattro quaderni dell’epoca testimoniano le traduzioni di Omero, “a cui Pavese si è dedicato tra la fine dell’estate del 1935 e l’inizio della primavera del 1936”, nota oggi lo studioso Alessio Trevisan. Si va dal terzo libro dell’Iliade e dal decimo dell’Odissea “a Odissea VIII, Iliade XXIII, Iliade II, Odissea V”, fino a “Iliade XXIV, Odissea XI e Iliade II nel terzo quaderno e Odissea VI, Odissea XXIII, Iliade I nel quarto”.

Conservate tra le carte dello scrittore di Santo Stefano Belbo presso il Centro studi Gozzano-Pavese di Torino, guidato da Mariarosa Masoero, le traduzioni pavesiane di Omero sono in gran parte inedite. Il Pavese grecista, ma anche latinista, è al centro del convegno in corso fino a oggi (in videoconferenza su Webex) intitolato Cesare Pavese. Dialogo con i classici. Promosse per il settantennale della sua morte dall’Università degli Studi di Torino e dal Centro studi, le due giornate, spiega la professoressa Masoero, sono caratterizzate dalla “presenza di grecisti, di giovanissimi studiosi di Pavese e dei Dialoghi in particolare, di ‘pavesiani doc’ come Venturi, Guidorizzi, Trevisan, Tassi, Capasa, Catalfamo, Sichera, Cavallini, Lanzillotta, Giovanni Bàrberi Squarotti, Vitagliano, Valsania”.

L’incontro fra Pavese e Omero, afferma Alessio Trevisan nella sua relazione, “avviene certamente sui banchi di scuola, dove Iliade e Odissea resistevano come exempla letterari, come fonti e modelli; tuttavia, senza conoscerne la lingua e approfondendone soltanto la cultura. Saranno l’università e, in seguito, l’esperienza del confino, l’occasione di incontro con Omero, come testimoniano le traduzioni presenti nei quattro quaderni calabresi, per un totale di 438 carte non numerate, descritte a suo tempo da Attilio Dughera nel 1992”. In quegli stessi quaderni, prosegue lo studioso, “oltre al nucleo dei poemi omerici, sono contenute le traduzioni parziali di tragedie greche (le Coefore, l’Edipo re e l’inizio del Filottete), del Fedone di Platone e di dialoghi lucianei, nonché traduzioni da Pindaro e dai lirici greci”. Tutto ciò, nel Pavese della maturità, sarà la linfa dei Dialoghi con Leucò: “Quel che è stato, è per sempre”.

Ammorbidente Toti, il “giovane” di Silvio ha lasciato il vecchio

Considerandosi indispensabile allo sforzo produttivo del Paese, Giovanni Toti, in arte governatore della Regione Liguria, è cresciuto spensierato e vincente fino alla giovane età degli attuali asintomatici in carriera, 52 anni tondi. Lo ha fatto grazie alla benevolenza del più vecchio di tutti i viandanti incontrati salendo la sua scala sociale, Silvio B., che un giorno di venticinque anni fa lo ha assunto in Mediaset, gli ha messo in mano una tastiera da giornalista, che lui rese così ergonomica e accogliente da guadagnarsi in fretta i galloni di caporedattore, poi vicedirettore, infine doppio direttore. Prima di Studio Aperto, poi di Rete4, dove sgomberò l’anzianissimo e non indispensabile Emilio Fede con il suo bagaglio di Meteorine. Infine, gli concesse di maneggiare – da un balcone di Villa Paradiso, clinica dove si fabbricano lattughe per la dieta – lo scettro politico di Forza Italia, quando Forza Italia ancora esisteva, sebbene già gracile per la bancarotta del 2011 e il malanno perpetuo degli scandali. Erano tempi bui e a tutti sembrava una buona idea sostituire le fiamme peccaminose che Ruby ancora emanava, con la nuvola di borotalco dalla quale usciva ogni mattina Giovanni Toti, detto l’Ammorbidente.

Non funzionò. Per la semplice ragione che quel suo sorriso educato dai paesaggi in fiore della Versilia, la sua rotondità di carattere, era solo apparenza e l’angioletto uscito dall’addestramento di Mauro Crippa, il super direttore delle News Mediaset, di formazione turbo leninista, era in realtà un satanasso nel prendere la palla al balzo. O come scrissero i suoi compari del Foglio “un delfino che si è fatto piranha”.

Perciò nel torrido luglio del 2019, quando si accertò che Silvio B. giaceva ormai stordito dall’afa e dal suo raffinatissimo gineceo – Francesca Pascale, Mariarosaria Rossi, Deborah Bergamini, tutte oggi ripudiate – radunò la diaspora al teatro Brancaccio di Roma per dire addio a Forza Italia, “macchina gloriosa, ma vecchia” (ci risiamo) ed estrarre il punto esclamativo della sua nuova formazione “Cambiamo!” da lanciare in soccorso del vincitore Matteo-49-milioni-Salvini, che purtroppo per lui – e forse anche per qualche sergente del Cremlino addetto alle periferie dell’impero – stava per suicidarsi dentro ai Mojito del Papeete.

Toti non è un refuso e non ha mai giocato al calcio. Nasce a Viareggio nell’anno formidabile del 1968, padre albergatore, madre casalinga. Infanzia e adolescenza attutite dalla sabbia del litorale. Studia poco, ma sempre il giusto. Si iscrive a Scienze Politiche alla Statale di Milano dove fa tutti gli esami meno uno. Gli piace viaggiare, bere, mangiare, scegliere le cravatte, fumare col filtro. Cresce contento degli anni 80. Dice: “Io credo che il riflusso, l’individualismo e il disimpegno siano stati fattori positivi”. Per questo diventa craxiano, “anche se moderatamente”. E siccome gli piacciono “la competitività aziendale e il merito”, nel 1996 entra in Mediaset raccomandato dal padre della fidanzata e si arruola nella battaglia anti giudici condotta da Paolo Liguori, garanzia di temperanza. Virtù che Toti pratica fino all’apoteosi giornalistica de “La guerra dei vent’anni”, anno 2013, uno speciale tv in difesa di Silvio B. e delle sue cene eleganti che andrebbe proiettato e studiato in ogni scuola di giornalismo, come modello esemplare di disinformazione pop.

Come nell’invidiabile Corea del Nord, dopo l’omaggio al Capo, il Gabibbo bianco, come lo chiama Striscia la Notizia, riceve il titolo di “consigliere politico” e l’incarico di compiere l’impresa più ardua, conquistare la rossa Liguria che dai tempi del Boom mastica cemento, devasta le sue coste, i suoi torrenti, i suoi borghi, nel cupio dissolvi del progresso esentasse. La solita sinistra divisa in tre liste, compie il miracolo di farlo vincere. Esulta Toti che festeggia a Portofino, mangiando pansotti al sugo di noci con gli alleati: “La destra unita vince. Oggi la Liguria diventa una regione normale. Siamo il laboratorio nazionale dei moderati”.

Nei suoi primi cinque anni il laboratorio si inceppa. Sul modello lombardo, Toti taglia la sanità pubblica in favore di quella privata. L’economia rallenta, il disavanzo della Regione cresce, i giovani non fanno figli e quando possono, emigrano. Le panchine davanti al mare si riempiono di concittadini “non indispensabili allo sforzo produttivo”. Ogni tanto arriva la frana, l’incendio, l’alluvione a rallentare il bed & breakfast collettivo. Poi passa.

Probabile che la sua avventura di governatore sarebbe finita lì se l’immensa tragedia del Ponte Morandi, 14 agosto 2018, 43 morti, non avesse redistribuito le carte prima dello spavento, della rabbia. Poi dell’idem sentire per la rinascita di Genova, della Liguria, in nome dell’orgoglio nazionale.

Per 24 mesi il cantiere della Salini fila senza intoppi e senza Tar, fino alle fanfare dell’inaugurazione. Il rammendo disegnato da Renzo Piano, diventa così il modello della ripresa, la prova provata del laboratorio Liguria, grazie alla quale anche Giovanni Toti trova il modo di ancorare la sua seconda candidatura vincente.

Stavolta la musica della “destra unita che vince” cambia un po’. Le poltrone della nuova giunta le spartisce con la Lega e i fratellini di Giorgia Meloni. Agli ex amici di Forza Italia nulla, archiviati. In compagnia degli occhioni di Mara Carfagna progetta di diventare “l’area moderata dell’alleanza, non succube del sovranismo populista”. Che poi sarebbe l’eterna moneta di conio democristiano. Chi se ne frega se intanto ha fatto venire l’emicrania a Silvio B. che adesso strilla: “L’ho nominato io e neanche mi risponde al telefono!”.

Peccato che quando ha avuto il Ponte e i voti sia arrivato il Covid. Con le spiagge e le discoteche troppo piene questa estate, quando diceva: “È ragionevole confidare in un miglioramento progressivo”. E gli ospedali troppo intasati oggi per occuparsi delle sue nuove architetture trasformiste che rischiano di lasciarlo appeso senza rete. E troppi nemici intorno ad aspettare il botto.

 

C’è musica in questi sponsor? Lo spot occulto resta online

Tutto è perdonato, basta che non si ripeta più: è la sintesi brutale della decisione dell’Antitrust italiana (Agcm) che ha chiuso due provvedimenti nei confronti di alcuni cantautori e di tre marchi. I tormentoni dell’estate 2019 dei Boombdabash (con Alessandra Amoroso) e di Fabio Rovazzi (insieme a Loredana Bertè e J-Ax) erano finiti nel mirino dell’authority per pubblicità occulta nei video: birre Peroni in Mambo salentino, LG e Wind3 in Senza pensieri. Nessuna allusione, ma vero e proprio product placement. La presenza di prodotti a scopi commerciali era stata segnalata solo nella descrizione del video di Youtube e questo, aveva concluso l’Agcm, non bastava. Si decide quindi di aprire un’istruttoria: viene notificata a tutti e si ascoltano le parti che, ovviamente, propongono soluzioni. La chiusura dei due procedimenti viene infine, dopo mesi, vincolata all’accettazione di alcuni impegni che costringeranno Rovazzi e i componenti del gruppo Boomdabash, Angelo Rogoli, Paolo Pagano e Fabio Clemente, a modificare alcune informazioni sui video nonché i comportamenti futuri. Pena, in caso di inottemperanza, una sanzione tra i 10 mila e i 5 milioni di euro.

In pratica, gli impegni presi sono i seguenti: l’inserimento di avvisi sulla presenza di prodotti a fini commerciali in un annuncio che appare sulla barra di scorrimento del video per 16 secondi; l’inserimento della stessa frase in cima alla descrizione del contenuto su Youtube, l’eventuale introduzione nei titoli di coda dell’indicazione dei marchi e del contenuto sponsorizzato nonché l’avviso in sovrimpressione. Tutto al futuro visto che il video così com’è non può essere modificato: al presente si applicano correttivi esterni concessi come se finora gli artisti avessero solo peccato di ingenuità nel violare il Codice del consumo. I video, intanto, hanno avuto diffusione enorme, sopra i canoni della pubblicità “tradizionale”.

Quello di Rovazzi oggi conta 25 milioni di visualizzazioni e continua a farne, generando – oltre a quelli degli sponsor – anche altri guadagni. “Nel corso del procedimento – si legge infatti nel bollettino dell’Antitrust – è emerso che una modifica del video volta a inserire nuove scritte e avvertenze all’interno del medesimo richiederebbe l’eliminazione del video stesso dal canale Youtube dell’artista per caricarne una nuova versione. Ciò comporterebbe la perdita di tutte le visualizzazioni conteggiate, con conseguente ingente danno economico per il professionista”. Stessa storia per la canzone dei Boomdabash: il video ha poco più di 100 milioni di visualizzazioni e il contatore non è stato mai azzerato (nell’ultima hit estiva almeno hanno inserito il riferimento dei fini commerciali in sovrimpressione). Qual è allora il senso di rilevare la violazione se poi nessuno paga?

“Tali misure – rileva l’Antitrust – data la rilevanza complessiva per il settore delle parti coinvolte nel procedimento, potrebbero generare effetti emulativi virtuosi negli altri operatori della stessa categoria”. Una mezza vittoria. Forse meno. L’Unione nazionale consumatori che ha segnalato le violazioni si dice contenta visto che tutte le parti in causa – incluse le case di produzione – si sono impegnate a introdurre clausole e linee guida per il futuro. Resta il passato, per cui nessuno ha pagato e forse continuerà a non farlo.

Abbiamo già raccontato, ad esempio, di un tormentone di quest’estate su cui, a rigor di logica, l’Antitrust dovrebbe accendere un faro e che nell’attesa ha già 52 milioni di visualizzazioni su Youtube: riguarda una famosa cantante (Baby K) con la collaborazione di una famosissima influencer(Chiara Ferragni) e uno dei marchi di prodotti per capelli (Pantene) che spende più soldi in assoluto per la pubblicità online tra le influencer di cui non solo compare un set completo all’inizio del video ma il cui nome è inserito addirittura nel testo del brano. È probabile a questo punto che semplicemente le si chiederà di evitare di rifarlo. Per dirlo con un commentatore su Youtube (tal Yousra): “C’è anche della musica in questi sponsor”? .

Titolo V, lo stupore diventa un déjà-vu

Dovessimo giudicare dal titolo, Titolo V parte bene, con un’idea forte e incandescente, il rapporto tra lo Stato centrale e i poteri locali, la mai sopita Italia dei vicereami, tornata alla carica con il favore della pandemia. Interessante l’impaginazione del talk di Rai3, Napoli e Milano che si passano la palla, Francesca Romana Elisei e Roberto Vicaretti che non se la tirano da conduttori, ma da giornalisti (è già qualcosa). Quando Maurizio De Giovanni parla dell’irrealtà della sua città, “una Napoli che non ho mai visto e credevo di non vedere mai”, lo spettatore ha un momento di stupore, allora forse non ci sono solo gli chef e i virologi, esistono anche gli scrittori. Ma presto lo stupore si trasforma in déjà-vu. I vicerè si moltiplicano, il neoborbonico, il neoasburgico, i lombardo-veneti, avanti Savoia! Arriva il rinforzo degli opinionisti e dei collegamenti ansiogeni, le stesse domande, le stesse impossibili risposte, gli stessi se e gli stessi ma – senza se e senza ma il talk show non si fa –, e qui si paga caro essere in fondo alla settimana. Ma come, pensa il già provato telespettatore, mi tocca De Magistris pure di venerdì? Eppure ci sarebbero altri modi per restituire questo momento senza precedenti senza arroventare l’attualità. Non tutto il male viene per nuocere, non tutte le narrazioni vengono per angosciare.

Sempre venerdì, Rai Documentari ha portato su Rai2 La prima battaglia del Covid di Sasha Joelle Achilli. La storia di Mattia, il più giovane paziente finito in terapia intensiva a Cremona, è il filo rosso per rivivere la prima ondata. L’angoscia, la frenesia, certo; ma anche l’amore che sta sempre dietro le quinte del dolore. La battaglia si combatte con i monoclonali e l’interferone, ma anche con l’attenzione, la dedizione di tanti medici, infermieri, volontari capaci di restare umani. Anzi, capaci di esserlo di più. E se l’arma segreta fosse il fattore umano? Passate parola ai virologi che scazzano in diretta.

Nevrosi Alto Adige: l’autonomia non giustifica tutto

Ai nostri concittadini (la cittadinanza è italiana per tutti) dell’Alto Adige va la nostra più sentita solidarietà: devono sentirsi particolarmente disorientati in questo periodo. Un giorno il Covid è sotto controllo e le attività produttive sono aperte, anzi spalancate. Il giorno dopo gli dicono che non è proprio così, ma forse sì e si cambia di nuovo. Se non altro non si annoiano. A metà ottobre la Giunta provinciale Svp-Lega non aveva recepito il primo Dpcm del governo, poi ci aveva ripensato introducendo le stesse misure ma con un’ordinanza propria. Dopo la seconda stretta decisa a Roma, il presidente della giunta provinciale Arno Kompatscher ha statuito che no, lì bar e ristoranti restavano accessibili al pubblico anche alla sera, cinema e teatri restavano aperti. La settimana scorsa, altro giro, altra stretta: chiusura totale nel weekend; nei giorni feriali bar, gelaterie e pasticcerie potevano restare aperti fino alle 18, con un limite di 4 persone per tavolo. Lunedì, todo cambia di nuovo. A sorpresa, è stato annunciato un lockdown soft, in vigore dalla mezzanotte di oggi fino al 22 novembre: coprifuoco dalle 20 alle 5, si potrà uscire di casa solo per ragioni di lavoro, salute e urgenze. Tutti i locali devono chiudere: consentito solo l’asporto fino alle 20 e il servizio a domicilio fino alle 22. Saracinesche abbassate anche per i negozi, eccetto alimentari farmacie, tabaccherie, edicole. Alberghi chiusi, annullate le manifestazione aperte al pubblico, vietate riunioni e feste, anche private. Cos’è successo? I numeri dei contagi sono aumentati parecchio anche nelle bellissime valli dolomitiche, con un’incidenza nelle ultime due settimane di 537 positivi per 100mila abitanti, una delle più alte in Italia. Ma non c’è solo questo: se fossero rimaste le deroghe, le imprese altoatesine non avrebbero potuto accedere ai ristori. E, si sa, Pecunia non olet, ancorché italica.

Voi direte: che c’è di strano? Le frizioni tra il governo centrale e le Regioni sono all’ordine del giorno. Però qui ci sono altre tensioni, più profonde e radicate, che le forze politiche al governo del territorio non fanno che alimentare. Basta pensare all’assurda decisione presa l’anno scorso di far sparire la dicitura Alto Adige (ma non Südtirol) dai documenti europei della provincia autonoma. Per non dire di come l’autonomia è stata esercitata in questi mesi, cercando esclusivamente di affermare l’autogoverno assoluto del territorio. Tanto che i provvedimenti, anche quando sono identici a quelli di Roma, vengono presi in proprio: siamo noi a decidere. “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria”, ha precisato il presidente Kompatscher la settimana scorsa commentando la nuova ordinanza. Con l’Italia non siamo nemmeno parenti. Eppure è stando in Italia che “grazie all’autonomia una terra povera come l’Alto Adige ora è un esempio di benessere e pacifica convivenza” (sempre Kompatscher, nel discorso d’insediamento della nuova giunta con la Lega, dopo vent’anni di governo con il centrosinistra). Il 10 ottobre sulle montagne gli Schützen (erano i bersaglieri tirolesi, oggi riuniti in associazione “culturale”) hanno acceso diversi roghi raffiguranti la scritta “100”, per “celebrare” i cent’anni dell’annessione al Regno d’ltalia. “Sappiamo di non poter spostare il confine di un’ingiustizia con la violenza, ma non si può pretendere di definire giusta un’ingiustizia e continueremo a impegnarci per i diritti dell’antico Tirolo” ha detto il comandante di quello che si vuol far passare per un gruppo folkloristico. Per la “pacifica convivenza” bisogna ancora lavorare parecchio, e bisogna farlo gestendo l’autonomia con intelligenza, nell’interesse di tutti e non contro qualcuno. Le articolazioni territoriali hanno rilevanza e dignità costituzionale, ma lo Stato non è un nemico e nemmeno un bancomat.

 

Tracciamenti. Le vie dello screening sono infinite, dai tamponi ai sierologici

Il paziente indichi i contatti degli ultimi giorni. C’è un momento Ddr che prima o poi si presenterà a molti, ed è quando devi mettere giù una lista, cioè denunciare in qualche modo che hai rischiato di contagiare qualcuno. Piccolo tremore: con la sola imposizione della penna su un foglio puoi chiudere in casa per diversi giorni molta gente. La famiglia, ovvio. I colleghi di lavoro. Eventuali amici e/o fidanzati e/o amanti. Le frequentazioni casuali di conoscenti, varie ed eventuali.

Poi comincia il gioco dell’oca: attesa del tampone, fermo due turni, attesa dei risultati del tampone, fermo un turno, quarantena precauzionale, vai indietro di due caselle, volontaria, obbligatoria. Domande banali che diventano dilemmi etici (aspetto esito tampone, posso andare a prendere il pane?). Telefonate allarmate (quasi sempre allarmate di finire nella lista). Telefonate interessate, che partono per chiedere “come stai?” e invece vogliono sapere i dettagli, le pratiche, i tempi, se esistono scorciatoie, con tutte le varianti regionali (pubblico? Privato? Dove? Quanto costa?).

Se il tampone è negativo (wow!) si riparte dal via, nella speranza di non finire nella lista di qualcuno e di ricominciare il gioco da capo. Sarà così per mesi, se va bene. Una lotta inesausta e quotidiana con la nostra nuova inedita precarietà totale, la buroktatsija bislacca, la ruvida poesia dei tracciamenti, ognuno col suo percorso.

Già bruciata l’escalation dello screening: erano una sciccheria per pochi i sierologici pungidito, quasi subito diventati di massa; così che era quasi un upgrade sociale fare il tampone, quello veloce, otto minuti di attesa nervosa. Molto complicate le istruzioni del gioco, perché le vie dello screening sono infinite. Ci pensa l’azienda, con dei suoi misteriosi canali privati, no, ci pensa il dottore, no ci pensa il farmacista, che ti rimanda dal dottore, che ti rimbalza, no, ti fa una richiesta, informa la Ast, o Asl, o come si chiama la sanità nel posto dove vivi. Ed eccoti nel tunnel, benvenuto. Devi aspettare. Non uscire. Fai la tua lista. Calcola i giorni. E tutto questo se insieme all’attesa, alle telefonate, alle mail, al controllo compulsivo di fascicoli sanitari, siti, password, codici fiscali, non si aggiungono febbre, o tosse, o sa dio cosa, cioè si parla qui del migliore dei casi: l’asintomatico che incappa nella rete, seduto sulla lama che separa seccatura e fifa vera.

Dopo una vita a sentire il ritornello padronale per cui bisognava diventare flessibili, più flessibili, non basta!, più flessibili ancora, eccoci tutti elastici e modulabili dai protocolli sanitari, la vita governata dal virus, dalla paura e dal caso, ma sì, il famoso “destino” dei romanzi: “Egli parlò per dieci minuti con l’elettrauto e rimase confinato per due settimane”. “Ella prese l’ascensore con il ragioniere dell’ufficio sinistri e ora cucina torte da quindici giorni”. La sfiga.

Nessuno scenario sul “dopo” è seriamente prevedibile, ma certo di questo nostro vivere sospesi senza calendario, senza scadenze definitive – tutto può slittare, saltare, annullarsi da un momento all’altro – porteremo alla fine qualche traccia. Forse sarà il caro vecchio memento mori che rende tutto più relativo e induce a una certa indulgenza zen, o forse (più probabile) una nuova modalità di intermittenza, nel lavoro, nel tempo libero, negli affetti e insomma nella vita, che potrebbe essere un prezioso e involontario (e odioso) allenamento per le precarietà che verranno, che saranno feroci.