Di notte, le nostre città stanno per spegnersi. A separare il giorno e la notte c’è ora un decreto del governo che cancella gli altri confini ai quali eravamo abituati: il tramonto, del tempo meteorologico, o i riti di un tempo libero, affollato di aperitivi e cene. Alle 21 scatta quello che chiamano coprifuoco, un termine che richiama esplicitamente l’esperienza della Seconda guerra mondiale.
Allora, tra il 1943 e il 1945, nell’Italia del Nord occupata dai tedeschi, il coprifuoco fu infatti una realtà drammaticamente concreta, modellando ritmi e abitudini della nostra esistenza collettiva intorno al fatidico termine delle “ore 20”. Era un’imposizione violenta: gli occupanti esercitavano il loro potere sottraendo ai nemici il controllo del proprio tempo, da sempre considerato uno degli aspetti fondamentali delle libertà individuali. Il tempo della normalità nelle nostre città era stato già attraversato da mille tensioni; quello della normalità produttiva, ad esempio, quantitativo, misurato dagli sbuffi delle sirene, coordinava e scandiva tutte le attività sociali e private, strettamente compenetrato con il tempo politico e come tale caratterizzato da un conflitto mai del tutto risolto con il tempo libero da un lato e con il tempo qualitativo (psicologico e individuale) dall’altro. Con la guerra queste tensioni erano precipitate tutte in un “tempo di guerra” impositivo e soffocante. Nel 1940, nella Parigi dominata dai nazisti, l’ora legale era stata fatta coincidere con quella di Berlino: i vinti non avevano più diritto al loro tempo, che diventava quello dei vincitori.
Immediatamente prima del coprifuoco, ad alimentare l’angoscia di vedere il proprio tempo violentato e represso, c’erano state le sirene degli allarmi aerei; arrivavano anche di giorno e ti costringevano a precipitose fughe nel rifugio più vicino, dando vita a comunità sotterranee, segregate, tenute insieme da sentimenti quasi primordiali, la paura, l’affidamento al divino (alla Madonna soprattutto), la solidarietà del condominio, la chiusura aggressiva verso l’esterno. L’arrivo dei bombardieri nemici sfuggiva anche a quei meccanismi abitudinari che rendevano accettabili gli orari della fabbrica o dell’ufficio: si era costretti a sospendere ogni attività nel nome di un potere esterno e lontano. Ma si trattava pur sempre di un esperienza condivisa, di una dimensione vissuta collettivamente in una comunità che si riconosceva unita nel disagio e nella sofferenza: c’era chi imprecava contro gli angloamericani, chi si lamentava per l’inefficienza della contraerea fascista, ma per tutti era comunque “tempo di guerra”, appunto, un tempo definito dalla ciclica ripetizione di comportamenti coatti, dall’annullamento della individualità dei singoli giorni in un’ossessiva ripetitività al cui interno tutti i giorni erano uguali e tutti erano ugualmente appiattiti su un presente carico di angoscia; la Torino di Cesare Pavese e del suo romanzo La casa in collina ce ne regala un’immagine simbolica: “Nessuno faceva più i conti col tempo. Nemmeno la vecchia. Dicevano ‘un altr’anno’ o l’‘estate ventura’ come se nulla fosse stato, come se ormai la fuga, il sangue, la morte in agguato fosse il vivere normale”.
Il coprifuoco invece spezzava la profondità dei legami sociali; la città del giorno era diversa e ostile rispetto a quella della notte. Ed è proprio in questa separatezza che si annida la differenza più vistosa con quello che stiamo vivendo oggi. Allora, di notte, le vie e le piazze svuotate erano abitate da gente che spariva alla luce del giorno (squadristi, gappisti, borsari neri, ronde naziste). Niente a che vedere con i nottambuli della nostra normalità. Per la mia generazione quelli erano gli “uomini in frac” della canzone di Domenico Modugno; animali notturni che si aggiravano in un mondo di night, amori facili e avventure romantiche. Guardati con sospetto (o con invidia) da quelli che all’alba li incrociavano: loro che andavano al lavoro, gli altri che si lasciavano alle spalle la dimensione ludica della notte, figure solitarie, fuori posto nel mondo del fordismo e delle ciminiere fumanti. In guerra, il popolo della notte era invece armato, usciva pronto a sparare: chiunque si incontrasse poteva essere un nemico e non bastava a salvarlo un documento di autocertificazione. I tram che portavano al lavoro gli operai del primo turno, fiancheggiavano quel che restava della notte: non solitari uomini in frac, ma cadaveri sul ciglio della strada.
Le nostre notti, per fortuna, non sono ancora queste. La mia città, Torino, di notte è deserta, spettrale come si dice. Un vuoto assoluto, una solitudine straniante. Niente da spartire con chi – in tempo di guerra – usava la notte solo per uccidere o farsi uccidere. Teniamola presente, questa differenza; poi, se si vuole, chiamiamolo pure coprifuoco.