Il “coprifuoco” esiste solo in guerra, non ora

Di notte, le nostre città stanno per spegnersi. A separare il giorno e la notte c’è ora un decreto del governo che cancella gli altri confini ai quali eravamo abituati: il tramonto, del tempo meteorologico, o i riti di un tempo libero, affollato di aperitivi e cene. Alle 21 scatta quello che chiamano coprifuoco, un termine che richiama esplicitamente l’esperienza della Seconda guerra mondiale.

Allora, tra il 1943 e il 1945, nell’Italia del Nord occupata dai tedeschi, il coprifuoco fu infatti una realtà drammaticamente concreta, modellando ritmi e abitudini della nostra esistenza collettiva intorno al fatidico termine delle “ore 20”. Era un’imposizione violenta: gli occupanti esercitavano il loro potere sottraendo ai nemici il controllo del proprio tempo, da sempre considerato uno degli aspetti fondamentali delle libertà individuali. Il tempo della normalità nelle nostre città era stato già attraversato da mille tensioni; quello della normalità produttiva, ad esempio, quantitativo, misurato dagli sbuffi delle sirene, coordinava e scandiva tutte le attività sociali e private, strettamente compenetrato con il tempo politico e come tale caratterizzato da un conflitto mai del tutto risolto con il tempo libero da un lato e con il tempo qualitativo (psicologico e individuale) dall’altro. Con la guerra queste tensioni erano precipitate tutte in un “tempo di guerra” impositivo e soffocante. Nel 1940, nella Parigi dominata dai nazisti, l’ora legale era stata fatta coincidere con quella di Berlino: i vinti non avevano più diritto al loro tempo, che diventava quello dei vincitori.

Immediatamente prima del coprifuoco, ad alimentare l’angoscia di vedere il proprio tempo violentato e represso, c’erano state le sirene degli allarmi aerei; arrivavano anche di giorno e ti costringevano a precipitose fughe nel rifugio più vicino, dando vita a comunità sotterranee, segregate, tenute insieme da sentimenti quasi primordiali, la paura, l’affidamento al divino (alla Madonna soprattutto), la solidarietà del condominio, la chiusura aggressiva verso l’esterno. L’arrivo dei bombardieri nemici sfuggiva anche a quei meccanismi abitudinari che rendevano accettabili gli orari della fabbrica o dell’ufficio: si era costretti a sospendere ogni attività nel nome di un potere esterno e lontano. Ma si trattava pur sempre di un esperienza condivisa, di una dimensione vissuta collettivamente in una comunità che si riconosceva unita nel disagio e nella sofferenza: c’era chi imprecava contro gli angloamericani, chi si lamentava per l’inefficienza della contraerea fascista, ma per tutti era comunque “tempo di guerra”, appunto, un tempo definito dalla ciclica ripetizione di comportamenti coatti, dall’annullamento della individualità dei singoli giorni in un’ossessiva ripetitività al cui interno tutti i giorni erano uguali e tutti erano ugualmente appiattiti su un presente carico di angoscia; la Torino di Cesare Pavese e del suo romanzo La casa in collina ce ne regala un’immagine simbolica: “Nessuno faceva più i conti col tempo. Nemmeno la vecchia. Dicevano ‘un altr’anno’ o l’‘estate ventura’ come se nulla fosse stato, come se ormai la fuga, il sangue, la morte in agguato fosse il vivere normale”.

Il coprifuoco invece spezzava la profondità dei legami sociali; la città del giorno era diversa e ostile rispetto a quella della notte. Ed è proprio in questa separatezza che si annida la differenza più vistosa con quello che stiamo vivendo oggi. Allora, di notte, le vie e le piazze svuotate erano abitate da gente che spariva alla luce del giorno (squadristi, gappisti, borsari neri, ronde naziste). Niente a che vedere con i nottambuli della nostra normalità. Per la mia generazione quelli erano gli “uomini in frac” della canzone di Domenico Modugno; animali notturni che si aggiravano in un mondo di night, amori facili e avventure romantiche. Guardati con sospetto (o con invidia) da quelli che all’alba li incrociavano: loro che andavano al lavoro, gli altri che si lasciavano alle spalle la dimensione ludica della notte, figure solitarie, fuori posto nel mondo del fordismo e delle ciminiere fumanti. In guerra, il popolo della notte era invece armato, usciva pronto a sparare: chiunque si incontrasse poteva essere un nemico e non bastava a salvarlo un documento di autocertificazione. I tram che portavano al lavoro gli operai del primo turno, fiancheggiavano quel che restava della notte: non solitari uomini in frac, ma cadaveri sul ciglio della strada.

Le nostre notti, per fortuna, non sono ancora queste. La mia città, Torino, di notte è deserta, spettrale come si dice. Un vuoto assoluto, una solitudine straniante. Niente da spartire con chi – in tempo di guerra – usava la notte solo per uccidere o farsi uccidere. Teniamola presente, questa differenza; poi, se si vuole, chiamiamolo pure coprifuoco.

 

Sanità? “Io, malato di cuore, non ho farmaci per colpa della burocrazia”

Gentile redazione, sono un ottantenne, dal 2015 affetto da fibrillazione atriale, diagnosticata dalla Cardiologia del Presidio ospedaliero “Vittorio Emanuele” di Catania e in cura con il medicinale Pradaxa. Il mio piano terapeutico con scadenza annuale nel mese di giugno, a causa del Covid-19, la scorsa estate non è stato rinnovato dall’ospedale, ma è passato in carico al mio medico di base e, regolarmente, fino ad agosto con la sua richiesta e la fotocopia del piano terapeutico ho potuto ritirare il farmaco in farmacia.

Premetto che la fibrillazione atriale non è guaribile pertanto, secondo me, questo rinnovo annuale è solo una consuetudine burocratica. La settimana scorsa, quando mi sono recato dal mio medico, mi è stato comunicato che avrei dovuto sottopormi a una visita ospedaliera per il rinnovo della suddetta terapia. Intanto però avrei potuto ritirare il medicinale in farmacia per i mesi di ottobre/novembre. Ho telefonato al numero verde per prenotare la visita, ma la gentile signora che mi ha risposto mi comunicava che, sempre causa Covid-19, le visite ambulatoriali erano sospese, tranne che non fossi un malato oncologico. Grazie a Dio non lo sono.

Recatomi in farmacia per ritirare il Pradaxa, medicinale che non si può sospendere assolutamente, non mi è stato però consegnato, in base alle disposizioni del ministero della Sanità dello scorso settembre. A ottant’anni ho avuto la sensazione di essere più ostaggio della burocrazia e della disattenzione della Sanità che del Covid stesso. Evidentemente, in generale, chi occupa posti di grande responsabilità non si rende conto degli ostacoli burocratici che va ad alimentare né delle difficoltà da affrontare per chi è vecchio, malato e – per sua disgrazia – non ha possibilità di contare sull’aiuto di nessuno. È umiliante vedersi sballottare di qua e di là per un misero e superfluo foglio di carta, per non parlare degli stati d’ansia che tutto ciò ingenera.

Raffaele Pisani

Mail box

Caro direttore, grazie per l’editoriale su Gigi

Egregio direttore, il suo editoriale di ieri mattina… ho ancora i brividi. Percepisco il dolore di chi non avrebbe mai voluto scrivere quello che ha scritto e immagino quello di chi, come me, non avrebbe mai voluto leggerlo. Specialmente ora che questo 2020, quasi alla fine, sembra non poteva andarsene senza un’altra infamia. Una delle più grandi. Portarsi via il Maestro Proietti. Di colpo sono tornato indietro al febbraio 2003 quando ci lasciò Sordi. Che giganti. Quanto vuoto.

Roberto Pinnacoli 

 

Qual è il vero “sforzo produttivo” di Toti?

Con orrore ho letto l’improvvida uscita del signor Toti sui pensionati anziani ormai non più indispensabili allo sforzo produttivo del Paese. Ho superato da parecchio gli 84 anni e a 65, per vecchiaia, mi hanno posto in quiescenza. Oggi mi sento ancora in forza di continuare quello che facevo in attività. Vorrei sapere dallo stesso, visto che all’apparenza può avere 50 anni, qual è o qual è stata la sua disponibilità allo sforzo produttivo? Visto che non fa nulla (se si ritira o non viene più eletto non se lo ricorderà nessuno) e percepisce sicuramente 15 mila euro al mese (in due mesi guadagna quanto me in un anno), potrebbe ritirarsi e così sarebbe dispensabile alla produttività facendo risparmiare alle casse dello Stato parecchi soldi.

Vincenzo Frisenda

 

I tassisti sono tra i più colpiti dalla pandemia

Buongiorno, quale presidente di As.tu.ta. (Associazione tutela taxi), scrivo in riferimento alla lettera di Antonio Profico dal titolo Perché baristi e tassisti si lamentano?, pubblicata sul Fatto mercoledì scorso, per contestarne il contenuto diffamatorio. Le affermazioni del lettore denotano una mancanza totale di conoscenza dei tassisti e delle gravi difficoltà economiche che stanno affrontando. Essi sono tra i lavoratori maggiormente colpiti dalla pandemia e nondimeno privi di ogni tutela, non usufruendo di ammortizzatori sociali né tantomeno ricevendo attenzione da parte delle Istituzioni. E, ogni giorno, si trovano pure nella situazione di vedersi “rubare” il lavoro da soggetti abusivi, loro sì evasori fiscali, che solo raramente vengono puniti dalle autorità competenti. Situazione che contribuisce ad aggravare la precarietà economica che attanaglia la categoria.

Cesare Barattini, Pres. presidente AS.TU.TA.

 

Estendere lo smart working è necessario

Ho letto l’articolo di De Masi e credo che possa avere un effetto deleterio sul percorso che l’Italia deve intraprendere verso un uso sempre maggiore dello smart working e che il più grosso errore nella gestione di questa crisi sia stato il non aver obbligato il sistema produttivo a implementarlo. Questa imposizione avrebbe avuto un triplo dividendo: 1. limitare le persone in giro (soprattutto sui mezzi pubblici); 2. aumentare la produttività economica; 3. ridurre le emissioni inquinanti.

Sarebbe quindi stata una soluzione anti-Covid-19 potente e indolore nell’ottica di un cambiamento del sistema produttivo verso una transizione ecologica indispensabile.

L’articolo, e soprattutto il titolo, invece, remano contro a questa impostazione. De Masi incrocia il problema dello smart working con quello dell’intelligenza artificiale, ma le due cose sono solo parzialmente correlate. Già oggi sono stati meccanizzati tutta una serie di lavori manuali e/o ripetitivi che non sono implementati in modalità “smart” da remoto. De Masi accenna al problema della riduzione del lavoro in attività connesse al lavoro d’ufficio, ma anche questo non è un problema in un’ottica sistemica: il lavoratore che risparmia non sarà costretto a spendere al bar/mensa e in trasporto, e potrà scegliere liberamente cosa consumare.

Non capisco perché si debba paventare una contrapposizione tra coloro che lavoreranno da casa e coloro che andranno sul luogo di lavoro. Già oggi c’è chi lavora in cantiere e chi lavora tranquillo davanti al suo pc. Al più vedo per chi non lavora da casa il vantaggio di spostarsi in un mondo con traffico meno congestionato, e per chi fa smart working il pericolo di confondere la vita familiare con quella lavorativa.

Luca Riccetti 

 

Il diritto alla salute è “fondamentale”

Il leghista Borghi assurge al rango di emerito costituzionalista e spara la sua frescaccia quotidiana, onde inaugurare la sagra delle panzane: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e quindi non sulla salute”. I leghisti dovrebbero leggere la Costituzione, ma prima devono apprendere questa abilità, e prima ancora, come attività propedeutica, scriveva giorni fa Travaglio, “dovrebbero imparare a disegnare le aste”. La Costituzione definisce il diritto alla salute come “fondamentale”. Bene quindi ha fatto il governo a dare la priorità a tale valore. L’aggettivo viene usato solo per il diritto alla salute, che quindi viene a prevalere concettualmente su tutti gli altri. Quindi l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro che a sua volta presuppone cittadini in buona salute.

Maurizio Burattini 

Ci mancavano solo i “Voltagabbana Covid”

Un effetto collaterale del Covid è la trasformazione di alcuni noti politici, virologi e giornalisti in “Voltagabbana Covid”… visto come cambiano molto repentinamente opinioni e idee sulla pandemia.

Claudio Trevisan 

 

I NOSTRI ERRORI

Nella rubrica pubblicata martedì scorso ho erroneamente indicato l’inizio 2021, invece dell’inizio 2022, come data dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Me ne scuso.

Antonio Padellaro

Le relazioni pericolose con la cognata, l’Asl e le astuzie del Veronese

Cosa fare se hai avuto contatti con una persona che non è positiva al Coronavirus. Con la crescente diffusione del Coronavirus, nelle ultime settimane sempre più gente è entrata in contatto con persone risultate positive al test, quindi potenzialmente contagiose. Girano però ancora tanti non positivi. Che fare, quando li si incontra? Il 12 ottobre il ministero della Salute ha aggiornato i protocolli da seguire per chi è entrato in contatto prolungato con una persona non positiva, cioè per i suoi cosiddetti “contatti stretti” (quelli che spesso in modo colloquiale vengono semplicemente chiamati “contatti”, oppure “gli stretti”). Contatto stretto significa una interazione prolungata – per esempio quella di due persone che scopano insieme – oppure breve ma significativa, come una stretta di mano di almeno un quarto d’ora. Si possono considerare “contatti stretti” tutti quelli che rientrano nella definizione del ministero, ma spetta all’autorità sanitaria confermare lo status di contatto stretto. E quelli non possono sapere che vi scopate vostra cognata, se non glielo dite (se glielo dite, comunque, evitate di condire la narrazione con dettagli lubrichi. Insistono? Fatevi pagare). Per tutte le interazioni fuori dal “contatto stretto” non ci sono indicazioni particolari, a parte l’uso del buon senso e del Ddt. Ma cosa fare se sei un contatto stretto di un non positivo? Il contatto stretto di un non positivo può essere avvisato della sua condizione dal Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria locale (Asl), responsabile dell’attività del tracciamento dei contatti dei non positivi accertati, oppure – è quello che succede più spesso nei momenti di picco – viene avvertito dallo stesso non positivo accertato, e solo di conseguenza non vanno avvertiti il proprio medico di base e l’Asl. La trafila prevista dai protocolli, insomma, è questa: contatto stretto con un non positivo > nessuna quarantena a partire dal contatto e nessuna valutazione dell’Asl o del medico di base > non si fa il tampone > libero. Un altro lavoro ben fatto.

È finita la più grande missione artica di sempre: la Polarstern, la nave rompighiaccio che da oltre un anno era il centro della più imponente esplorazione scientifica dell’Artico mai intrapresa, è tornata a casa. Per 389 giorni, oltre 300 scienziati da 20 Paesi diversi hanno condotto ricerche e raccolto campioni. “Avremmo voluto fare di più, ma c’era ghiaccio ovunque”, ha detto Markus Rex, capo della spedizione.

Performatività. Un enunciato è performativo quando coincide con un atto, cioè produce un effetto materiale. Ne sono esempi il sì durante le nozze, la frase “la seduta è aperta”, la sentenza di un giudice. La performatività ha un ruolo centrale nell’interazione sociale: per questo, in una società, sono così importanti la messa in scena e l’esecuzione. Nel 1865, però, nessuno ci aveva ancora pensato, tanto che Edgar Quinet, come ricorda Massimo Fini (Fq, 29 agosto), poteva scrivere, equivocando: “È caratteristica essenziale della nostra società bizantina quella di mettere le parole al posto delle cose, nell’illusione di mutarne la sostanza”. Eppure, la storia l’aveva già smentito: “L’Inquisizione chiede al Veronese di cancellare alcune figure, e allora il pittore ha un’idea geniale: basterà cambiare il titolo. Non più l’Ultima Cena, ma la Cena in casa di Levi, il pubblicano… Un gesto da artista concettuale di oggi: cambiare il titolo per cambiare l’opera” (Tomaso Montanari, Fq, 24 agosto).

Ultim’ora: I cellulari hanno più Coronavirus della tazza del cesso. Ma le tazze del cesso hanno più campo.

 

Emirati Arabi Abu Dhabi divide l’Islam anti-Macron: “Erdogan è incendiario”

Gli Emirati Arabi Uniti rompono il fronte dei Paesi islamici costruito dalla Turchia contro la Francia per le critiche espresse dal presidente Macron a proposito “dell’islam separatista”. Abu Dhabi ha espresso il proprio sostegno nei confronti dell’appello dell’Eliseo per una maggiore integrazione dei musulmani nella comunità francese. Anwar Gargash, ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha fatto un ulteriore passo accusando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan “di aver soffiato sul fuoco della discordia religiosa divampata di nuovo con gli attacchi terroristici sul suolo francese il mese scorso tra cui la decapitazione di un insegnante. Erdogan ha criticato violentemente Macron per la sua difesa della libertà di parola e ha chiesto il boicottaggio dei prodotti francesi come rappresaglia per le vignette di Charlie Hebdo. “Con i suoi attacchi alla Francia, Erdogan manipola una questione religiosa per scopi politici”, ha detto Gargash in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt. “Bisognerebbe ascoltare ciò che Macron ha veramente detto nel suo discorso: non vuole la ghettizzazione dei musulmani in occidente”. Gli Emirati Arabi Uniti e la Francia sono alleati da anni, condividendo la diffidenza comune nei confronti della forza crescente dell’Islam politico – la Fratellanza musulmana di cui Erdogan è il leader – in tutto il Medioriente e della sua capacità di radicalizzare i musulmani che vivono in Occidente. I due Paesi si sono scontrati con Erdogan, accusandolo di difendere i movimenti islamisti in paesi come l’Egitto e la Libia.

“Vienna un bersaglio facile, l’apparato di sicurezza è debole”

Dieter Reinisch è professore associato di Relazioni internazionali alla Webster University di Vienna, specializzato in Studi sul Terrorismo. Lunedì sera era a cena con la sua compagna in un pub che si trova vicino ai locali del quartiere dove l’estremista islamico lunedì sera ha portato a termine il suo attacco, seminando il panico e la morte.

“Dopo le 19 abbiamo iniziato a ricevere notizie di una sparatoria in centro. All’inizio ho pensato a uno scontro fra gang cecene rivali. Ma ho una fonte proprio nella unità di polizia che è intervenuta per prima e che ha un posto di sorveglianza di fronte alla sinagoga: riferiva di attacchi multipli in diverse zone della città. Dopo circa un’ora, di fronte al locale sono arrivate a sirene spiegate una ventina di auto della polizia e ci hanno imposto di serrare porte e finestre: abbiamo capito che alcuni dei terroristi armati erano in fuga lì vicino, una notizia poi smentita. Verso le 22 si parlava di 7 vittime e molti feriti fra i tanti civili che erano usciti per approfittare, come noi, dell’ultima serata di libertà prima del lockdown. La gente attorno a me era nel panico”.

E poi?

Siamo rimasti chiusi dentro fino alle 2 di notte. Alla fine ci siamo avventurati in strada alla ricerca di un taxi, attesa infinita perché non ce n’erano. Ho vivida l’immagine del passaggio del tram, ogni manciata di minuti, sempre completamente vuoto dopo l’appello delle autorità a evitare il trasporto pubblico, in una notte che mi sembra ancora surreale.

Da esperto di terrorismo, che idea si è fatta di questo attacco? Le sembra la coda di quelli francesi delle ultime settimane?

Non credo. E non credo sia un attacco alla sinagoga, che in quel momento era chiusa. Mi sembra un nuovo episodio della nuova strategia dell’Isis, che dopo la caduta dello Stato islamico in Siria si sta ricompattando per tornare alla strategia originaria, portare la guerriglia in Europa. Di sicuro, e questo è preoccupante, quella di lunedì era una cellula dormiente già pronta ad attaccare: il lockdown è stato annunciato solo sabato, non avrebbero potuto armarsi in così poco tempo.

In giro per l’Europa possono esserci reduci dalla guerra in Siria?

L’attacco turco alla regione del Rojava nel Kurdistan del nord, nel 2019, ha portato alla fuga di migliaia di militanti islamisti prigionieri nei campi controllati dai curdi. Si pensa che molti siano andati a combattere in Nagorno-Karabakh, altri in zone contese in Medio Oriente, Africa e Asia. Ma molti, partiti dall’Europa, ci sono tornati.

C’erano avvisaglie a Vienna?

Nessuna. Al contrario di Italia e Germania, l’Austria non ha mai dovuto combattere il terrorismo, nemmeno negli anni Settanta. Per decenni ha concesso lo status di rifugiati a estremisti di varia provenienza ideologica in cambio di pace. In più nella Vienna del partito socialdemocratico accoglienza, convivenza e integrazione hanno sempre funzionato bene: oggi circa la metà della popolazione è di origine immigrata, con una forte comunità curda e mediorientale.

Perché infrangere questo patto di non belligeranza?

Perché l’Austria è un target facile, con un Antiterrorismo debole e impreparato, è scritto nero su bianco nei rapporti di istituzioni internazionali trovati dopo la caduta di Raqqa, l’ex capitale dello Stato islamico.

Questo attentato potrebbe rafforzare le istanze anti-immigrazione del cancelliere Sebastian Kurz?

Non c’è dubbio. Questo è un governo sempre più lontano dall’Europa Centrale e sempre più vicino al Gruppo di Visegrad e alla sua retorica che si scaglia contro i flussi migratori.

L’attentatore beffò gli 007 con il falso pentimento

Si conclude con un bilancio di 4 morti e 22 feriti, di cui 14 gravi, l’attacco terroristico di matrice islamista che ha tenuto in scacco la Capitale austriaca nella notte tra lunedì e martedì. “Violenza e terrorismo li conoscevamo già, ma solo dalle notizie dall’estero. Una cosa del genere così in Austria non era mai accaduta”, ha detto il cancelliere Sebastian Kurz a Bild. Al momento per la polizia di Vienna il giovane attentatore di vent’anni, Kujtim Fejzulai, con cittadinanza austriaca e macedone, ha agito da solo prima di essere “neutralizzato” dalle forze speciali mentre andava in giro armato di machete, kalashnikov, pistola e una finta cintura esplosiva. Questo non esclude che Fejzulai abbia potuto contare su una rete di sostegno. Ieri gli inquirenti hanno compiuto 18 perquisizioni, fermato 14 persone ed eseguito 6 arresti: tre in Austria e tre in Svizzera. Secondo il settimanale tedesco Der Spiegel, la rete jihadista del giovane Fejzulai, nato e cresciuto in Austria, potrebbe estendersi in Germania e in Belgio. Nel 2018 il ragazzo aveva cercato di entrare nelle file dell’Isis e per questo aveva stretto contatti con due jihadisti tedeschi e uno belga al confine tra Turchia e Siria. Dopo tappe intermedie, era stato ricondotto in un hotel di confine, quindi arrestato dalla polizia turca e rispedito in Austria. Il Tribunale di Vienna lo aveva condannato nell’aprile del 2019 a 22 mesi di prigione, da cui era uscito però nel dicembre dello stesso anno. “È riuscito a ingannare il programma di deradicalizzazione della giustizia”, ha detto il ministro degli Interni Nehammer.

Il nuovo capo Isis e il sogno di un’Europa resa schiava

L’Isis deve ancora riguadagnare qualcosa di simile allo slancio che aveva a metà del 2014, quando minacciava l’ordine regionale dopo che Abu Bakr al-Baghdadi si era proclamato califfo del mondo islamico. Il leader dello Stato Islamico è stato ucciso giusto un anno fa a Idlib, l’organizzazione ha perso il suo ultimo lembo di terra nei deserti della Siria orientale, migliaia di suoi miliziani sono morti o imprigionati, ma l’Isis è oggi più grande di quanto non fosse quasi sei anni fa, quando nacque il califfato.

Le reti dei miliziani islamisti sono ancora attive specie nel nord dell’Iraq e città come Mosul restano il crogiolo delle attività terroristiche, i campi di Al-Hol e Al-Roj – controllati dalle forze curdo-siriane – che “ospitano” migliaia di miliziani arabi e con loro oltre 2.000 foreign fighters occidentali sono il focolaio dei nuovi combattenti islamisti. C’è poi la “rete liquida” che ha appoggi in città europee come Parigi e Bruxelles. Il web, le chat criptate nascoste in giochi interattivi, Facebook e altri social media sono i canali di comunicazione con una nuova generazione di giovani che aspirano ad andare a combattere in Siria – ma erano troppo giovani nel 2014 per farlo – e che loro malgrado sono rimasti nei Paesi di origine, proprio come l’attentatore di Vienna. Cellule, di quattro-cinque persone, “dormienti” ma pronte ad attivarsi. E che godono di complicità all’interno dei Paesi europei, altrimenti è difficile spiegarsi come fucili, mitragliatori e pistole siano arrivati a Parigi, come a Bruxelles e – come abbiamo scoperto lunedì notte – anche a Vienna. Chi ha dato le armi al giovane killer islamista che ha colpito nella Capitale austriaca? È questa una delle domande cui i servizi segreti occidentali dovrebbero dare una risposta. Il lockdown in Europa per il Covid-19 – definito dall’Isis “un soldato di Allah” – ha accresciuto il traffico del web nel corso dei mesi primaverili, soprattutto tra le fasce giovanili. E come prevedibile ha avvicinato anche molti giovani alle pagine che professano il jihad islamico e i reclutatori che non si sono fatti cogliere impreparati. La testa e la mente della piovra islamista sono ancora seriamente attive fra le macerie lasciate dalla guerra in Siria e soprattutto in Iraq, come dimostrano i 60 attacchi al mese contro le forze irachene. L’uomo che ha concepito la nuova strategia dello Stato Islamico è Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi, nome di battaglia al-Quarayshi, il successore di al-Baghdadi. Uno dei membri fondatori dell’Isis che ha guidato la riduzione in schiavitù della minoranza yazida irachena e supervisionato le operazioni in Europa del gruppo. Nato in una famiglia turkmena irachena nella città di Tal Afar, 44 anni fa, è uno dei pochi boss islamisti a non essere arabo. La sua ascesa è stata aiutata dal suo background di studioso islamico, ha conseguito una laurea in Diritto della sharia all’Università di Mosul, ma soprattutto è stato detenuto dalle forze americane nel 2004 nella prigione di Camp Bucca – meglio nota come l’“Università del jihad’ – e dove conobbe al-Baghdadi. L’intelligence irachena, quella curda e quella occidentale non hanno idea di dove si trovi, l’unica foto che hanno è quella segnaletica scattata ai tempi della sua prigionia, poi il nulla. La caccia ad al-Salbi si è estesa anche in Turchia, dove suo fratello Adel è il rappresentante di un partito politico chiamato Turkmen Iraqi Front, ma i contatti fra i due si sono interrotti quando è stato nominato leader dello Stato Islamico. Ansioso di andare avanti, il presidente Usa Donald Trump ha dichiarato la vittoria sull’Isis frettolosamente come fece George W. Bush nel 2003 nel celebre discorso sulla portaerei che incrociava nel Golfo Persico. La guerra contro l’Isis è invece ancora in corso, anche se a Washington quando parlano del conflitto lo fanno per esprimere il loro desiderio di ritirare le truppe al più presto.

La realtà suggerisce però che una vittoria definitiva sulle reti dello Stato Islamico rimane fuori portata. Anche dopo che l’America ha speso miliardi di dollari durante due presidenze per sconfiggere l’Isis, dispiegato truppe in Iraq e Siria e sganciato migliaia di bombe, lo Stato Islamico resiste. Anzi, è pronto a sfruttare l’impazienza Usa di porre fine alle “guerre per sempre” americane e spostare l’attenzione del paese sulla lotta contro l’Iran. “L’Isis è ancora intatto”, ha denunciato in un’intervista al Guardian Mansour Barzani, primo ministro del Kurdistan iracheno. “Sì, hanno perso gran parte della loro leadership. Hanno perso molti dei loro uomini capaci. Ma sono anche riusciti a guadagnare più esperienza e ad attrarre più persone intorno a loro”. Barzani è in grado di saperlo, perché ha avuto un posto in prima fila nella guerra contro l’Isis fin dall’inizio. Prima di diventare primo ministro, Barzani è stato un influente partner degli Usa nella guerra contro l’Isis come massimo funzionario della sicurezza nella regione curda irachena, che è semiautonoma dal governo centrale di Baghdad. A più di cinque anni dall’inizio della guerra guidata dagli Stati Uniti – e dopo molte dichiarazioni di Trump che annunciano la sconfitta dello Stato Islamico – il gruppo dispone ancora circa 20.000 combattenti in Iraq e Siria, secondo Barzani. Erano 10.000 quando al-Baghdadi annunciò la nascita del califfato nell’estate del 2014. L’Isis sta ancora riuscendo a portare a termine 60 attacchi al mese solo in Iraq contro forze di sicurezza e rivali locali, dice Barzani. E ci sono anche i denari per pagare i nuovi miliziani; secondo l’Onu, l’Isis dispone di almeno 100 milioni di dollari nelle sue riserve.

Repubblicani e Democratici si contano i voti

 

Biden Unica opzione la vittoria: pena l’estinzione di Obama&Company

Ha vinto Joe Biden. Nello scenario “cosa succede se…”, è il presidente più anziano mai eletto alla Casa Bianca: avrà compiuto 78 anni – li fa il 20 novembre – quando si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio. L’America democratica ha ‘votato via’ Donald Trump, che ha deluso e spaventato pure l’America conservatrice moderata. Il presidente eletto ha 75 giorni per organizzare la transizione e fare le prime scelte. Per lui, l’ingresso alla Casa Bianca sarà un’emozione, ma non uno choc: in fondo, c’è già stato per otto anni, come vice di Barack Obama. Eredita un Paese piagato dalla pandemia e piegato nell’economia, soprattutto un Paese spaccato dalle scelte divisive del suo predecessore. Saranno 75 giorni densi di pericoli e trappole. Trump e i repubblicani, specie se, a spoglio concluso, avranno perso anche il Senato, oltre che la presidenza, cercheranno di profittare di quest’ultima ‘finestra di potere’ per portare avanti la loro agenda. E il magnate potrebbe pure scatenare, sull’esito del voto, una guerriglia giuridica di ricorsi e contestazioni, tenendone in sospeso l’ufficialità fino alla Corte Suprema, che ha potuto costruirsi a sua immagine e somiglianza. Con un Congresso democratico, proprio la Corte Suprema potrebbe costituire il maggiore ostacolo sulla via della realizzazione dell’agenda di Biden che, nel giorno del suo insediamento, per dare all’America e al mondo un segnale di cambio di passo forte, riporterà gli Stati Uniti negli Accordi di Parigi contro il riscaldamento globale, da cui l’uscita degli Usa diventa ufficiale proprio oggi. La formazione della squadra di governo darà la misura del peso della sinistra del partito: vi entreranno, e con che ruoli, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren? Al Dipartimento di Stato andrà, per tranquillizzare i diplomatici e gli alleati, Susan Rice? Interrogativi che troveranno forse risposta ancora prima dell’insediamento.

Nei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca, Biden promette di delineare un piano anti-coronavirus nazionale, dando ascolto agli esperti: test disponibili per tutti, un programma di tracciamento dettagliato e ospedali equipaggiati per fronteggiare l’emergenza. Senza fare delle mascherine un’imposizione federale, Biden progetta di premere sui governatori perché ne decretino l’obbligo Stato per Stato, in modo da evitare estenuanti battaglie legali. Fronte sanità, ci sarà da difendere l’Obamacare dagli attacchi politici e giudiziari.

Intrecciato alla pandemia è il rilancio dell’economia. Biden vuole aumentare le tasse a chi guadagna più di 400.000 dollari l’anno, in modo da rendere il fisco più equo. E vuole avviare una riforma della polizia per affrontare quel “razzismo sistemico” piaga della società statunitense, senza però sottrarre fondi alle forze dell’ordine, come chiedono la sinistra e Black Lives Matter. Sarà probabilmente costituita una commissione per studiare una riforma della Corte Suprema che ne consenta il riequilibrio. In politica estera, il ‘presidente’ Biden cercherà di restituire al Paese il prestigio e la credibilità perduti: Cina, Russia, Iran i fronti più delicati.

Se, invece, Biden ha perso, i Democratici hanno davanti un quadriennio drammatico: l’Unione è nelle mani di Trump; e il partito è senza leader, perché la sconfitta di Biden è la sconfitta di Obama, che ne ha fortemente voluto la candidatura, e perché tutti i protagonisti di questa tornata saranno troppo vecchi – e reduci da batoste – nel 2024, Biden, Sanders, la Warren, Hillary. E Kamala Harris ne esce bruciata. L’orizzonte è tetro, per un partito che ha di nuovo la maggioranza del voto popolare, ma non riesce a guidare il Paese.

 

Trump The Donald vince in ogni caso: il Gop non sarà mai più lo stesso

Ha vinto – è ancora il gioco “che succede se…” – anzi ha rivinto Donald Trump. Che, per prima cosa, festeggerà con i suoi 400 invitati (focolaio Covid prevedesi) alla Casa Bianca e, quindi, si metterà ad attuare l’ennesimo repulisti nella sua Amministrazione – sceglie sempre i meglio, dice, e dopo due anni se ne libera –, forse cominciando da quel William Barr, segretario alla Giustizia che, pur essendo un suo fedelissimo, non ha messo sotto inchiesta i Biden padre e figlio, come lui avrebbe voluto. Il sentimento di onnipotenza che lo coglierà, essendo riuscito a gabbare i sondaggi e a rimontare l’avversario per la seconda volta, potrebbe sopraffarlo, ma in fondo lui è abituato a gestire sensazioni del genere. Del virus non deve preoccuparsi, perché tanto “sta per andarsene”, come dice da quando è arrivato; e, in ogni caso, prima o poi arriverà davvero il vaccino e la pandemia sarà finita. Dell’economia, neppure: gli Stati Uniti stanno già conoscendo la crescita più forte della loro storia (e poco importa che faccia seguito al tracollo peggiore della loro storia). Trump, lì, ha comunque pronto il suo toccasana: un nuovo taglio delle tasse per perseguire l’obiettivo dell’unità del Paese: “L’America è unita quando ha successo” è un suo assioma.
Il secondo mandato alla Casa Bianca passerà, poi, per la madre di tutte le battaglie dei Repubblicani, cioè l’abolizione dell’Obamacare: una promessa, mancata, del 2016, che potrà ora essere mantenuta con l’aiutino della Corte Suprema, visto che la politica non ci arriva. Una volta abolita, bisognerà sostituirla con il famoso ‘piano migliore’, più efficiente e meno costoso, sempre annunciato e mai finora presentato. Altri momenti caratterizzanti del secondo mandato saranno la tutela del secondo emendamento della Costituzione, che autorizza il possesso e il porto armi; il rafforzamento della polizia; e l’ennesima stretta sull’immigrazione: non si parla più del muro lungo il confine con il Messico, però, ne esistono solo tratti. Il tutto nel segno della scelta law and order’ che tanto gli è cara.
Sulla scena internazionale, Trump porterà avanti il suo piano di pace per il Medio Oriente, che piace a Israele e ai sauditi, e continuerà a mulinare parole e sanzioni contro i “veri grandi” nemici Usa, l’Iran e la Cina, che dovrebbe pagare “un caro prezzo” per la pandemia.
Ma c’è da scommettere che la maggior parte delle sue energie il magnate presidente le dedicherà alla sua legacy, a garantirsi che il ‘trumpismo’ continui dopo di lui, non certo affidandone l’eredità a Mike Pence, il suo vice, ma piuttosto alla ‘prima figlia’ Ivanka, il suo consigliere più fidato. Fosse per Donald, farebbe un bel ticket 2024 Ivanka for president e Jared Kushner, il genero, come vice. Eccesso di nepotismo? Certo, ma per lui sono quisquilie.
E se Trump ha perso? Ha trascinato i Repubblicani nella sua sconfitta, battuti alla Camera – ed era quasi scontato – e al Senato: resta la Corte Suprema, mina su cui, anche senza input della politica, possono saltare l’aborto e l’Obamacare. Il partito, che s’è ‘trumpizzato’, deve riorganizzarsi intorno a leader che non s’intravedono: i Bush e Mitt Romney possono al massimo fare da padri nobili; Pence è troppo compromesso con Trump; si rifaranno avanti i senatori rampanti del 2016, Ted Cruz e Marco Rubio.
Ma c’è da ricostruire il rapporto con l’America conservatrice non estremista e non oltranzista, che Trump ha spaventato e alienato; e c’è da creare una potenziale maggioranza repubblicana, che c’è stata una sola volta nell’Unione, nelle ultime otto elezioni, nel 2004.

Aborto, governo in crisi tenta marcia indietro

Il governo polacco sta ritardando la pubblicazione e l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale che vieta l’aborto in caso di malformazione del feto dopo quasi due settimane di proteste. Un funzionario del governo ha detto che i leader stanno prendendo tempo per discutere la sentenza e trovare una soluzione. “È in corso una discussione e sarebbe bene dedicare un po’ di tempo al dialogo e alla ricerca di una nuova posizione in questa situazione che è difficile e suscita forti emozioni”, ha detto Michal Dworczyk, capo dell’ufficio del primo ministro Mateusz Morawiecki. È dal 22 ottobre che in Polonia si scende in piazza a difesa dell’aborto e le proteste hanno avuto un grosso impatto sulla popolarità del governo retto dall’ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski.