Terapie intensive: 9 regioni oltre i limiti. Chi deve chiudere

Molti ospedali sono al limite o l’hanno superato. Si richiamano medici e infermieri pensionati. Il sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed annuncia diffide contro gli “spostamenti tappabuchi” nei reparti Covid di ortopedici, chirurghi estetici, urologi e altri specialisti. E molti medici di famiglia, chiamati a fare i tamponi rapidi che le Asl non sono in grado di fare, non aderiscono all’accordo firmato dalle loro associazioni: non li faranno perché non hanno spazi sufficienti. Al ministero della Salute ipotizzano sanzioni per chi rifiuterà di esercitare nei locali messi a disposizione da Asl, Croce rossa e altri. Il presidente della Federazione degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, teme “uno tsunami che potrebbe travolgere il sistema sanitario” .

Non siamo a marzo, certo, ma la situazione è drammatica e con il nuovo Dpcm si prova a correre ai ripari. Nella zona cosiddetta rossa, con restrizioni simili a quelle del lockdown, dovrebbero essere collocate Lombardia, Piemonte, Calabria e forse Valle d’Aosta e Alto Adige. Sono quelle messe peggio, nello scenario 4 dell’ormai noto documento dell’Istituto superiore di Sanità (“Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale”), fatto approvare alle Regioni dal ministro della Salute, Roberto Speranza, secondo la complessa combinazione di criteri indicata per il monitoraggio del ministero e dell’Iss: il tasso di riproduzione del virus Rt, l’andamento dei contagi, la capacità di test and tracing, il tempo medio che intercorre tra sintomi e diagnosi e soprattutto l’occupazione dei posti letto negli ospedali. C’è poi la fascia detta arancione, con restrizioni minori: toccherebbe a Liguria, Puglia, Sicilia, forse a Sicilia, Veneto e Campania. Ma ci sono diverse Regioni in ballo, come Lazio e Toscana.

L’allarme viene dalle Rianimazioni che ieri contavano 2.225 pazienti su un totale di oltre 8.000 posti secondo il governo, mentre secondo le associazioni degli anestesisti rianimatori non c’è modo di farne funzionare più di 7.000 per mancanza di personale, specialisti che nel nostro Paese non ci sono. Il governo aveva fissato al 30% del totale i posti in terapia intensiva che possono essere destinati ai malati Covid senza far saltare l’attività ordinaria degli ospedali e il principio per cui il 70-80% dei letti di rianimazione dev’essere destinato alle urgenze chirurgiche e traumatologiche. È stata superata. Siamo al 31%. Lo dice la Protezione civile che ha rielaborato i dati dell’Agenas, l’agenzia che dovrebbe coordinare Stato e Regioni in materia sanitaria, clamorosamente assente nella prima fase della pandemia e tornata a nuova vita sotto la guida dell’ex direttore della Sanità del Veneto, Domenico Mantoan. Nove regioni superano la soglia: Campania (44%), Liguria (31%, ultima ad aggiungersi alla lista), Lombardia (45%), Marche e Piemonte (37%), Bolzano (51%), Toscana (41%), Umbria (49%) e Valle d’Aosta (65%). Vicine al 30% Emilia Romagna (27%), Abruzzo e Puglia (entrambe al 26%). A preoccupare è anche la velocità con cui si riempiono i reparti di pneumologia, medicina generale e malattie infettive, per i quali la soglia è al 40%. Sono occupati da pazienti Covid il 39% dei posti letto, con 8 regioni (lunedì erano 6) che superano il 40%: Abruzzo (42%), Lazio (43%), Liguria (61%), Lombardia (46%); Piemonte (67%), Bolzano (56%), Umbria (46%), Valle d’Aosta (147%). Subito sotto soglia Marche (39%), Campania (37%) e Toscana (36%).

 

Lombardia Si conferma fallimentare 
la gestione Fontana & Gallera E Milano sta perdendo la battaglia

Nuovi casi 6.804; totali 216.433
Decessi 117 ieri; totali 17.752
In terapia intensiva +40 (475 totali)
Ricoverati + 334 (4.740)
Indice rt 2.09
Rapporto positivi/testati 38,7%

L’annunciata battaglia per Milano è già scoppiata. E il Covid per ora sta vincendo: 20.689 nuovi positivi solo negli ultimi tre giorni. È una guerra che solo nel capoluogo ieri ha colpito 2.829 persone, ma che miete contagi in quasi tutte le province: Varese (1192), Monza-Brianza (838), Como (459). Solo Bergamo e Brescia sembrano resistere. A oggi sono 17.635 i deceduti totali, ma il numero cresce. Ieri hanno perso la vita in 117, l’altro ieri erano stati 46, quello prima ancora 54. In 40 sono finiti invece in terapia intensiva, un numero che porta i letti occupati negli ospedali regionali a 470, cifra molto vicina a quella quota 500 ritenuta dal Cts il punto del non ritorno. “Il sistema non regge”, è tornato a ripetere il presidente dell’Ordine dei Medici milanese, Roberto Carlo Rossi. Il sistema cede sotto il peso di 4.780 ricoverati nei reparti ordinari, che tenta di resistere tra pronto soccorso paralizzati e attività elettive sospese, azzoppato da un fattore Rt che da giorni veleggia tra 2 e 1,6. E le armi a disposizione – chiusure a parte – sono poche: l’Ospedale in Fiera è rimasto al palo, azzoppato dalla carenza di personale. Il contact tracing è saltato. Si aspettano anche 10 giorni per l’esito di tamponi (ieri fatti 39.658) che il sistema non riesce più a processare. Ieri Gallera ha annunciato che, grazie all’esercito, ci saranno test per tutti i bimbi. Con un tempismo curioso, visto che il Dpcm chiuderà anche le scuole medie. Una sola cosa è chiara: la Lombardia è in zona rossa da settimane, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo.
Andrea Sparaciari

 

Piemonte (e Valle D’Aosta) il picco:
oltre 3mila nuovi casi in 24 ore, collasso ospedaliero in un mese 

Nuovi casi 3.169 ieri; totali 77.832
Decessi 29 ieri ; totali 4.444
In terapia intensiva +17 (213 totali)
Ricoverati +288 (3.379)
Indice rt 2.16
Rapporto positivi/testati26,4%

oltre tremila contagiati in 24 ore, 29 morti in un giorno. Il Piemonte è sotto scacco del Covid – già da mesi – ma da una settimana, almeno, si ha la sensazione che sia vicino il momento del tracollo. I numeri dell’ultimo bollettino dell’Unità di crisi confermano un quadro clinico fosco. Il disperato appello al lockdown dell’Ordine dei medici è arrivato lunedì: “Se l’aumento dei contagi e dei ricoveri dovesse continuare secondo il trend attuale – avevano detto – gli ospedali potranno reggere ancora per pochi giorni, poi inizieranno a mancare posti letto a disposizione e personale sanitario sufficiente”. Una previsione sempre più vicina alla realtà. I numeri spaventano: i casi di persone finora risultate positive al Covid sono 77mila e 832 (più 3.169 rispetto a ieri, a fronte dei 2003 di 24 ore fa) di cui 1.303 (41%) asintomatici. I decessi sono saliti a 4.444, di cui 29 nelle ultime ore. I ricoverati di ieri erano 271 più rispetto al giorno precedente, per un totale di 3.379. Salgono anche i ricoveri nelle terapie intensive: più 17 in 24 ore, 213 in totale. E la previsione da qui a un mese, con questo ritmo, è che si arrivi alla saturazione sia delle Ti sia dei reparti Covid. Il Piemonte è in allerta rossa da tre settimane: lo scenario con l’indice Rt superiore a 1,5 in modo costante è segnalato da giorni: venerdì scorso era già a 2,16. Anche in Valle d’Aosta l’indice era schizzato a 1,89 il 25 ottobre: qui (per cui peraltro Roma segnala una comunicazione dei dati non completa), secondo l’ultimo rapporto Iss, ogni due tamponi eseguiti si trova un contagiato.
Elisa Sola

 

Calabria Più che la forza del virus
si paga il disastro delle strutture e la malapolitica: in più solo 6 posti in “ti”

nuovi casi 266 ieri; totali 3.640
Decessi 3 ieri ; totali 121
In terapia intensiva +7 (26 totali)
Ricoverati +20 (184)
Indice rt 1.84 (non aggiornato)
Rapporto positivi/testati 9,2%

Nella prima ondata, tutto sommato aveva retto. Ma per la Calabria il passo a “regione rossa” è stato breve. I numeri sono impietosi, ma se ci si limita a leggere quelli dei nuovi positivi (266 in più rispetto al giorno precedente) o quelli relativi ai posti occupati in terapia intensiva (26 in totale) non si comprende appieno il perché anche la Calabria sia finita tra le aree ad “alto rischio”. I dati dei nuovi contagi riportati dal bollettino regionale vanno incrociati con i problemi strutturali legati alle condizioni precarie del sistema sanitario calabrese: e il collasso degli ospedali – come dimostra anche lo studio sugli scenari sulla tenuta del sistema sanitario pubblicato ieri dal Fatto – fra meno di un mese è realtà. Le assunzioni previste di operatori sanitari sono rimaste sulla carta. Così come i posti letto da implementare: la Regione in un recente documento di “riordino della rete ospedaliera in emergenza Covid” parla di 146 posti di rianimazione (circa 40 in più dall’inizio della pandemia). La realtà è diversa: in 9 mesi sono stati realizzati solo 6 nuovi posti di terapia intensiva. Tutti gli altri sono posti “volanti”, cioè non reali, che si recuperano chiudendo le sale operatorie o individuando dei luoghi talvolta non a norma. Il tutto con buona pace dei 213 posti promessi dalla Regione oggi, dopo la morte di Jole Santelli, guidata dal suo vice leghista Nino Spirlì che pensa di contenere il contagio a colpi di ordinanze schizofreniche, per cui si decretano “zone rosse” comuni come Sant’Eufemia d’Aspromonte e Sinopoli (dove i casi sono ormai una ventina), ma non la vicina Palmi, dove invece ci sono oltre 50 positivi.
Lucio Musolino

Polizia, controlli difficili “Saranno a campione”

Per le forze di polizia sarà molto più complicato del lockdown di marzo-aprile. Un conto, spiegano al Viminale, è chiudere tutto riducendo in maniera drastica il traffico su strade, autostrade e treni; tutt’altra cosa saranno le chiusure su base locale, settoriale e oraria che si preparano con il nuovo Dpcm e le ordinanze del ministro della Salute, Roberto Speranza. Per quanto si possa incentivare lo smart working, molti andranno a lavorare, perfino nelle zone cosiddette rosse resteranno aperte le fabbriche e altre attività, in quelle arancioni o verdi, anche una parte delle scuole. Basta pensare alle stazioni: le maggiori hanno un traffico giornaliero medio di centinaia di migliaia di passeggeri che durante il lockdown si era ridotto a poche migliaia e quindi era possibile controllare le autocertificazioni quasi per tutti e fare le multe a chi non l’aveva o aveva scritto cose campate per aria, tipo “devo vedere la fidanzata” o “non posso fare a meno di comprare droga”. Ora invece ce ne saranno decine di migliaia: “Non si potrà nemmeno pensare di chiudere tutti gli accessi in stazioni come Roma Termini, Milano o Napoli Centrale senza creare code. Lo stesso vale per le strade, urbane e non. “Immagini tra il Lodigiano, chiuso, e il Piacentino, che invece dovrebbe rimanere aperto”, spiega un questore con una certa esperienza. A ogni modo si torna all’autocertificazione, di notte e anche di giorno a seconda delle Regioni, per giustificare spostamenti consentiti solo per motivi di lavoro, salute o assoluta necessità. Dal Viminale suggeriscono di compilarla a casa, metterla in tasca, nella borsa o nel portafoglio e poi firmarla.

Ovviamente nessuno immagina di cinturare le zone “rosse” con i carabinieri o anche i soldati dell’Esercito come se si trattasse di Codogno (Lodi) o Vo’ Euganeo (Padova) nel febbraio scorso. I posti di blocco ci saranno, ma “i controlli potranno essere solo a campione”, spiegano al ministero dell’Interno. Le modalità, non appena saranno emanati i provvedimenti, le stabilirà una circolare del capo di gabinetto, prefetto Bruno Frattasi, d’intesa con la ministra Luciana Lamorgese. Poi il capo della polizia Franco Gabrielli le tradurrà in indicazioni operative per le questure.

Peraltro, le forze di polizia sono alle prese con diverse emergenze: dal terrorismo islamista che è tornato a colpire in due Paesi che confinano con il nostro come la Francia e l’Austria ai barchini carichi di migranti che continuano a sbarcare sulle coste della Sicilia e a Lampedusa, soprattutto dalla Tunisia. Per non dire delle manifestazioni di piazza che si susseguono in varie realtà italiane, nei giorni scorsi anche con incidenti non drammatici e tuttavia impegnativi: il Viminale è già stato costretto a rifiutare ai sindaci di Firenze e Genova l’impiego dei reparti mobili (ex Celere) per controllare le zone cittadine chiuse con provvedimenti locali secondo il Dpcm che già lo prevede dalle ore 21 per evitare assembramenti. E naturalmente i reati ordinari sono tornati ai ritmi normali, non è come ai tempi del lockdown. Ieri si è riunito il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dalla ministra Lamorgese, sono stati potenziati i controlli alle frontiere e sulle realtà da cui è possibile che un pazzoide esaltato o peggio una cellula decida di colpire nel nostro Paese. Le forze di polizia non hanno organici infiniti e il Covid-19 colpisce anche poliziotti, carabinieri, finanzieri e vigili urbani – circa 280 mila persone in tutto, più i circa 50 mila delle polizie locali – che sono a contatto con la popolazione. Si ipotizza di coinvolgere anche l’Esercito, che tuttavia non dispone di grandi risorse: 8.000 uomini e donne sono già impegnati nell’operazione Strade sicure; se anche ne fossero disponibili altrettanti non risolverebbero il problema.

Passa la linea Conte Le Regioni vogliono il “contraddittorio”

Voleva una strategia “modulare” con chiusure “differenziate”, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, pensata con Roberto Speranza e costruita con Dario Franceschini: e così andrà. Il premier spingeva per il coprifuoco nazionale il più tardi possibile, ed è passata la sua linea anche su quello, con il tutti a casa fissato per le 22. Anche se le Regioni restano in trincea. “Così veniamo commissariati, dal governo e dal Cts” sibilano i governatori, che volevano “norme univoche in tutta Italia” per non decidere, ma non i parametri di Speranza e degli esperti. Così dopo ore di conclave sfornano un documento in cui esprimono “perplessità e preoccupazione per le misure che ci esautorano”, a loro avviso basate su procedure “non chiare”. Per questo chiedono “un contraddittorio per l’esame dei dati con i dipartimenti di prevenzione sanitari regionali, prima dell’adozione degli elenchi delle Regioni”, quelli contenuti nell’ordinanza con cui il ministero della Salute stabilirà dove e come chiudere.

Invocano “indennizzi contestuali all’adozione del Dpcm”. E l’esenzione dalle tasse per tutto il 2021. “Ma i soldi per i ristori ci sono, siamo pronti” assicurano dal governo. E il Dpcm sarà quello. Bisogna intervenire rapidamente, ripetono da palazzo Chigi. Ma se alla fine tutto andrà in porto per Conte lo si dovrà anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quello della Camera Roberto Fico. È stato il Quirinale a dettare a Conte la linea dell’apertura, innanzitutto a quel centrodestra con cui lui d’istinto parlerebbe il meno possibile, e poi al Parlamento, troppo spesso ignorato dal premier e della sua maggioranza. Mentre Fico è stato il mediatore, con le opposizioni ma anche con vari pezzi dei giallorosa, che con il grillino “rosso” parlano più agevolmente che con l’avvocato che sta a palazzo Chigi. Un lavoro diplomatico partito venerdì scorso, quando Conte, d’intesa con il Colle, ha chiamato Fico chiedendo supporto per gestire l’apertura alle opposizioni, sulle risoluzioni e sulla cabina di regia.

Invece la discussione “finale” dentro la maggioranza si è tenuta sul coprifuoco nazionale, con il premier che è riuscito a portarlo fino alle 22, mentre Dario Franceschini, con tutto il Pd, e Roberto Speranza lo avrebbero voluto non più tardi della 20. Ma un importante tema di discussione è stato la scuola. Salva la prima media in presenza nelle zone rosse, nonostante le perplessità del capo delegazione dem. “Non è più semplice da spiegare se diciamo che le elementari sono in presenza e le medie in Dad?”, ha detto il ministro della Cultura. Alfonso Bonafede, capodelegazione dei Cinque Stelle, ha citato la risoluzione di maggioranza di ieri, nella quale si parlava esplicitamente della necessità di garantire la didattica in presenza anche “alla scuola primaria e secondaria di primo grado”.

La riunione dei capi delegazione, comunque, è andata piuttosto liscia. Adesso inizia un’altra partita: Mattarella ieri ha convocato i presidenti di Camera e Senato, Fico e Maria Elisabetta Casellati, per spingere il Parlamento a ritrovare la sua centralità, e significa anche individuare dei luoghi fisici per il dibattito. L’idea di partenza è quella di una conferenza congiunta dei capigruppo, mentre pare più complicato costruire una commissione speciale. Di certo per il Colle è essenziale che le Camere tornino centrali, perché il governo e Conte non devono agire da soli.

 

L’Italia divisa in tre: per 16 milioni è già tornato il lockdown

Per 16 milioni di italiani il lockdown ricomincia domani. Usciranno di casa solo per andare al lavoro – a meno che non siano commercianti, parrucchieri o estetiste – e per accompagnare a scuola i figli, se hanno meno di 12 anni. Rappresentano più di un quarto della popolazione nazionale, ma non è escluso che resteranno soli. Altri 16 milioni ci sono molto vicini e l’altra metà del Paese è solo in stand-by. Perché il meccanismo messo a punto per far scattare in automatico la classificazione delle regioni in zona verde, arancione o rossa prevede verifiche settimanali, alle quali seguiranno ordinanze del ministero della Salute valide per 15 giorni. E se oggi l’allarme è scattato per Lombardia, Piemonte, Calabria, Val d’Aosta e Alto Adige presto potrebbe accendersi anche per le Regioni che al momento sono nella terra di mezzo (Puglia e Liguria, in forse Veneto e Campania) o addirittura “salve”, come il resto d’Italia. Vivremo così, come minimo per il prossimo mese, sull’altalena che si muove tra restrizioni che vanno e vengono. E che potranno riguardare anche territori più ristretti, ovvero Comuni e province.

La “nuova strategia” è piuttosto complessa e non piace ai governatori che si sentono “esautorati” e pretendono un non meglio precisato “contraddittorio” tra le Asl regionali e il Comitato tecnico scientifico prima di finire in una o nell’altra fascia. Ma il governo ritiene necessario questo cambio di passo, non solo perché la concorrenza nella gestione dell’epidemia non ha dato buoni frutti, ma anche perché le chiusure nazionali non sono più sostenibili da un punto di vista economico (un nuovo decreto “ristori” da 1,5 miliardi di euro dovrebbe essere in arrivo) e bisogna quindi procedere con lockdown mirati.

Ecco allora – stando al testo disponibile ieri sera – come sarà divisa l’Italia da domani. Con la precisazione che tutte le Regioni, come detto, potranno entrare o uscire dai tre stadi, a seconda dell’andamento della curva epidemiologica e della capacità di gestione da parte del sistema sanitario locale.

Zone verdi coprifuoco alle 22, dad agli over14

Sono quelle a rischio “moderato”, ma anche qui vengono introdotte nuove limitazioni, oltre a quelle già in vigore. La principale novità è il coprifuoco notturno anticipato alle 22: dopo quell’ora – e fino alle 5 del mattino – si potrà uscire solo muniti di autocertificazione che attesti ragioni di urgenza, salute o lavoro. Resta comunque “fortemente raccomandato” evitare di muoversi anche per il resto della giornata, se non per necessità. In queste regioni saranno chiusi i centri commerciali nel weekend (escluse le attività essenziali: farmacie, alimentari, tabacchi, edicole), stop a mostre e musei, al bando slot e soprattutto didattica a distanza per le scuole superiori, a meno che non si tratti di laboratori e di alunni con bisogni educativi speciali. Le Regioni vorrebbero intervenire anche su primarie e medie. Di certo, la chiusura di licei e istituti aiuterà a mantenere la nuova soglia di capienza dei mezzi pubblici al 50 per cento.

Zone arancioni Chiusi i locali, stop spostamenti

Qui il rischio è considerato alto, per questo – oltre alle misure già in vigore per le “verdi” – si limitano altre attività e spostamenti. Non si potrà infatti uscire dal proprio Comune di residenza, né come ovvio dalla Regione. Chiudono tutte le attività di ristorazione, escluse le mense. Dunque niente bar, gelaterie, ristoranti o pizzerie.

Le zone rosse Fuori solo per lavoro e scuola

Sono le Regioni dove si verifica uno “scenario di massima gravità e un livello di rischio alto”. Anche qui come per le “arancioni” chiudono tutte le attività di ristorazione, ma anche i servizi alla persona come barbieri, parrucchieri e centri estetici, e pure i negozi e i mercati che non vendono generi alimentari o altri beni di prima necessità (sono salve librerie, cartolerie, fioristi). Inoltre, in questi territori – che, ricordiamo, potrebbero anche non interessare l’intera Regione ma limitarsi ad alcuni Comuni o Province – la didattica a distanza già prevista per le superiori viene estesa anche alla seconda e terza media. L’altro grosso limite riguarda gli spostamenti: si potrà uscire solo per andare al lavoro o per portare i bambini a scuola. Non ci si può muovere, quindi, nemmeno all’interno del Comune (e, ovviamente, è vietato entrare o uscire dalla Regione). È l’ultimo dei problemi, ma a conferma che è davvero lockdown tornano anche le corsette di primaverile memoria: “L’attività motoria” si può svolgere sì, ma “in prossimità della propria abitazione”.

Il sonno della Regione

Ricordate i referendum di Maroni&Zaia per l’autonomia del Lombardo-Veneto? E le intemerate dei “governatori” del Pd a rimorchio, da Bonaccini a De Luca, per ottenere lo stesso risultato al tavolo col governo? “Padroni a casa nostra”, che bello! Basta centralismo, viva il federalismo, anzi l’autonomia, e mica un’autonomia qualunque: “dif-fe-ren-zia-ta”! Anni di propaganda si sono liquefatti nelle ultime riunioni degli sgovernatori con Mattarella, Conte e Speranza. Che non chiedevano la luna: solo il minimo sindacale di “leale collaborazione istituzionale” per condividere le nuove misure, differenziate (come l’autonomia) in base alle situazioni dei singoli territori. Anzi, di più: parametri da fissare insieme per far scattare in automatico le zone rosse o arancioni nelle aree che di volta in volta li superino. La risposta dei 21 presidenti è unanime: non vedo, non sento, non parlo. E sediziosa: noi non chiudiamo niente, se vuole lo faccia il governo, ma noi ci riserviamo il diritto di veto a furor di piazza.

E pazienza se la sanità è affare delle Regioni. E se l’art. 32 della legge 833/1978 (“Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale”) prevede espressamente che, in caso di emergenza sanitaria, “sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”, mentre quel tipo di ordinanze spettano al ministro della Salute se investono “l’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni”. Il sindaco Sala legge i numeri dei contagi e dei ricoveri a Milano? Fontana, Gallera, Toti, Cirio, De Luca e il reggente calabrese Spirlì hanno idea di quel che accade nelle loro Regioni? Anziché straparlare sui social e imbrodarsi in tv e sui giornali, che aspettano ad ascoltare i medici e a fare ciò che la legge impone? E con che faccia chiedono nuovi poteri, se non esercitano neppure quelli che già hanno? La vulgata paracula dei media è che governo e Regioni giocano allo “scaricabarile”. Ma qui governo e Quirinale fanno il proprio dovere, chiamando ciascuno a rispettare la legge e ad assumersi le proprie responsabilità. Sono sgovernatori e sindaci che scaricano barile e poi chiamano “scaricabarile” il loro amato federalismo, per continuare a fare gli autonomisti col culo degli altri. Però non tutti i mali vengono per nuocere: la gente ne ha piene le scatole di questi conigli in fuga che autonomizzano i meriti e centralizzano le responsabilità. Se un domani qualche mente saggia proponesse di abolire le Regioni, farebbe il pieno di voti. Compresi i nostri.

“C’è scritto sopra er Time americano quanto fa schifo Roma Capitale”: gli stornelli d’autore

Pubblichiamo due stornelli di Gigi Proietti, che spesso si firmava Agro Romano, scritti per “Il Fatto Quotidiano” tra il 2015 e il 2020.

 

Forse me sbajerò, caro Torquato,

Ma qui ’gni giorno c’è ’na converzione

De quarche peccatore concallato,

Che se pente e se mette a pecorone.

Nun è che se converte da privato:

Pe’ convertisse va in televisione,

Piagne e fa piagne tutto l’apparato;

Chiede consenso e tanta comprensione.

“Credevo solo ar bene materiale,

Nun meditavo su la trascendenza,

Oziavo dentro ar monno intellettuale.

Poi l’ho capito che nun c’era succo,

Materia secca senza quintessenza…

Ah, ’n momento, che m’arifaccio er trucco”.

C’è scritto sopra er Time americano quanto fa schifo Roma Capitale.

E questo ce dispiace.

Però è strano che mo’ tutta la Stampa Nazionale

da nord a sud pe’ tutto lo stivale

tutt’a’n botto, come ’na bomb’ a mano

esplode. E tutto er Popolo Romano

se ne vergogna, ce rimane male.

Se sente in còrpa e dice “ch’è successo?

So’ anni che parlamo de monnezza

E er Time se n’accorge solo adesso?

Pe’ccarità, la cosa ch’amo letta

è vera, ma quarcuno ci ha scommesso

che st’accellerazione è mpò sospetta”.

Nun è troppo improvviso er temporale?

Qui vonno fa’ cascà tutto er Cibborio!

Dicono “Mo’, de tutto quanto er Male,

bisognerà trovà er capro spiatorio”…

“Andai a vederlo quattro volte per imparare il mestiere”

Gigi Proietti secondo Carlo Verdone: “Con gli anni, specialmente nella risata, sembrava una delle maschere tipiche che trovi accanto a un capitello e all’ingresso di un anfiteatro”.

Come Proietti ha sviluppato la sua arte più sul palco che al cinema?

Il suo volto era più teatrale, molto forte, molto marcato: per questo ha funzionato maggiormente a teatro, ma sul grande schermo è stato comunque bravo.

Però…

Lo penso più su un palco; ricordo un discorso con Alberto Sordi, forse era il 1998, durante una cena a casa di mio padre: secondo lui Gigi, a teatro, non aveva alcun rivale, “per me ha una potenza scenica invidiabile. È il migliore di tutti”, sosteneva.

Negli anni Settanta andò a vederlo in A me gli occhi, please?

Per ben quattro volte, ero incantato dai suoi monologhi, in particolare nella scena della cornetta del telefono dimostrava dei tempi recitativi incredibili. Pazzeschi. (Ci pensa) Quando hai davanti un attore del genere puoi solo restare a bocca aperta e imparare.

Qualcuno, come con Alberto Sordi, lo inquadra solo come romano…

È vero, ma per me non è riduttivo: aveva la faccia da attore d’antico teatro romano, in particolare con il passare degli anni.

La sua ispirazione è stata Petrolini. Lo ha mai superato?

Con il personaggio di Gastone è una bella gara tra i due, però alcune volte è riuscito ad andare oltre, ha portato in scena spettacoli di rara bellezza. E poi non dimentichiamo che Gigi era anche un bravissimo regista ed educatore di giovani attori: con la sua scuola, la sua bottega del Brancaccio, ha creato molto.

Era casa sua. Poi gli è stata tolta.

E non sarebbe male intitolargli quel teatro.

Nel suo Pantheon di risate, cosa piazza in cima?

Come dicevo prima, “la telefonata”, dove in realtà non diceva nulla, solo mezze frasi, versi, risate, eppure immaginavi tutto: solo un genio è in grado di portare in scena un passaggio del genere. Difficilissimo. Certi tempi comici li aveva solo lui.

Vi frequentavate?

Ogni tanto a casa di amici.

L’ultima volta?

(Sorride) C’erano Gigi, Francesco Totti, Walter Veltroni e Giuseppe Tornatore. Una serata bella. Dove lui, alla fine, si è esibito con le sue barzellette. E di solito le odio, e se qualcuno le vuole raccontare, mi girano le scatole.

E invece?

Come le recitava lui erano un piccolo atto unico. Fantastico.

Proietti come uomo.

Dotato di grande umiltà. Uno semplice; (cambia tono) invece ci sono giovani attori che per un nonnulla si sentono ’sto cavolo, complicati anche per un semplice appuntamento; (ci pensa) Gigi era un uomo superiore.

Quando lo ha conosciuto di persona?

Lo incontrai in piazza del Pantheon: lui stava girando, io passavo di lì; a un certo punto venne da me: “Finalmente ti vedo”. E io: “Finalmente ti vedo io, sono un tuo fan”. E da lì ci siamo ogni tanto frequentati. (resta zitto).

Che pensa?

All’ultima volta insieme; mi disse: “Devi dedicarti al teatro”. “Gigi, non ho la mentalità: non posso ripetere tutte le sere sempre le stesse cose”; ma a quel punto mi stupì: “No, ho in mente un’idea veramente bella, e per noi due. Ti chiamo e ne parliamo”. Poi niente. Peccato.

Il suo film preferito con lui.

Casotto di Citti, quello è da vedere e rivedere.

Che guitto il “nostro” Proietti

Con il Fatto aveva un rapporto particolare, Gigi Proietti. Si divertiva. Rifletteva. Partecipava. Ogni tanto ci spediva un sonetto firmato “Agro Romano” (in basso alcuni dei suoi). Più e più volte gli abbiamo chiesto interventi e interviste, e sempre ci regalava dei gioielli. Di seguito alcune delle risposte raccolte in questi anni, le prime durante il lockdown, quando aveva acquistato tre galline per mangiare l’uovo fresco.

Guai al brodo.

Un anno andiamo in vacanza, e dopo qualche giorno, a Ferragosto, mi chiama il signore che ogni tanto andava a controllare casa e giardino.

E insomma…

Alzo la cornetta: “Signor Proietti è successa una disgrazia”. “Cosa?”. “Ha presente quella gallina bella grossa, nera”. “Embè?”. “Ha inciampato. È morta”.

Morta, così?

“Ha inciampato, è morta” è una delle battute più belle, da teatro dell’assurdo, una fake news esilarante. Poi il signore aggiunse: “Che ce devo fa?”.

Risposta?

A Roma il piatto di Ferragosto è il pollo con i peperoni. “Che ce deve fa? Se la porti via”.

A Roma con “Cavalli di Battaglia” siamo a oltre le 90mila presenze e 30 repliche. Il pubblico ride prima delle battute…

(Le risposte sono prima della pandemia) Non ho mai puntato a un teatro di intrattenimento basato sull’attualità, quasi mai satira politica, qualcosa di costume, e forse questo ha reso alcune maschere così longeve.

“Toto” ha il coro…

Guai se non lo porto in scena.

Quando le chiedono da chi “discende” spesso utilizza una risposta di Petrolini.

Sì, ‘dalle scale di casa mia…’. Non amo le fratture con la tradizione, amo continuare, non è possibile smettere e riprendere con modalità diverse.

In tv “Febbre da cavallo” continua a colpire per gli ascolti.

Quando è uscito il successo fu limitato, i produttori recuperarono giusto i soldi; poi dopo 15 anni le tv locali iniziarono a trasmetterlo, e piano piano si è guadagnato le prime serate.

Steno regista e i figli Carlo ed Enrico nella troupe.

Come diceva Sergio Citti, “io non ho fatto del cinema, ma dei film”, tra i quali delle pellicole di intrattenimento insieme a Carlo ed Enrico, con i quali sono stato bene. Carlo è bravissimo, sa girare e conosce il gusto dell’ironia, come il padre.

Un padre-maestro…

Un intellettuale vero, aveva capito che se uno dirige Totò, non gli può dire cosa fare, basta una traccia e poi devi lasciare andare. Esattamente come con Aldo Fabrizi, mentre spesso i registi ci tengono a mostrare presunte capacità.

Fabrizi in platea, per lei.

Agli applausi finali salì sul palco, e per mezz’ora intrattenne un pubblico estasiato. Mentre parlava mi asciugava pure il sudore.

I suoi inizi, gli anni 60.

All’epoca, a iniziare da Celentano, cantavamo tutti senza sapere le parole delle canzoni. Era tutto un suono, e all’epoca facevamo dei grammelot ante litteram. Francese, inglese, spagnolo maccheronico. Potevamo cantà in tutte le lingue del mondo.

Trasformò “Ne me quitte Pas” di Jacques Brel in “Nun me rompe er ca”.

Nonostante mi abbiano dato del cinico, Nun me rompe er ca non era la parodia di Brel. Prendevo in giro un certo tipo di cantante romanesco alle prese con il francese e in fondo, come sempre, prendevo in giro me stesso. Per stare su un palco l’autoironia è fondamentale.

Si definisce intellettuale?

Mai stato, men che mai intellettuale avanguardista. L’avanguardia era tremenda. C’erano piccoli tribunali che decidevano quanto si dovesse studiare o documentarsi per poter essere considerati attori a tutto tondo.

Non ubbidiva alle regole?

Molti anni fa avevo un po’ di puzza sotto il naso: “Io faccio lo spettacolo, poi se non piace al pubblico chi se ne frega”. Un atteggiamento sbagliato, abbandonato in fretta, poi molto diffuso. Ho fatto sempre spettacoli per coinvolgere, per portare in sala chi fino al giorno prima davanti alla sola ipotesi sarebbe fuggito.

Quanto diffuso?

Diffuso nella vasta schiera degli artisti ministeriali, degli artisti per decreto legge. Quando l’avanguardia si trasformò in conformismo, quelli veramente spiritosi seppero come rispondere. Uno che sapeva infilzare come nessuno la sicumera e il trombonismo era Gassman.

Cosa diceva Gassman?

Ascoltava paziente i verbosi discorsi sulla necessità del teatro di ricerca, annuiva e poi finiti gli slogan diceva soltanto: “Non vi affannate troppo, almeno per oggi sospendete le ricerche”.

Aveva ragione lui?

Assolutamente. Per me il teatro ha rappresentato uno spazio per coinvolgere e avvicinare persone che del teatro diffidavano, nulla sapevano e neanche avrebbero voluto saperne.

In cosa consiste secondo lei il compito del teatro?

Nella sua ritualità laica. Nella sua capacità di riunire le persone intorno a un palco. Nel suo essere un collante. Il teatro sarà anche la Cenerentola delle arti espressive, ma questa unicità quasi miracolosa, tramandata da secoli, ancora la possiede.

(1 continua)

Ciao Gigi, ultimo Re di Roma. Il Mandrake dei mattatori

È morto ieri, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, Gigi Proietti: compatibilmente con il nuovo Dpcm, i funerali pubblici saranno giovedì in Piazza del Popolo a Roma, con lutto cittadino.

 

Chiudono i teatri e Gigi Proietti se ne va a tenere banco altrove, come dargli torto? Quanto a noi, avevamo appena finito di celebrare i suoi primi ottant’anni e ci ritroviamo a piangerne la scomparsa, ci ritroviamo a trasformare la celebrazione in compianto, e a sospettare che non ci sia differenza. L’ultima mandrakata.

Come spesso capita ai numeri uno, Proietti è stato il primo, ma anche l’ultimo in molte cose, e per molte ragioni. L’imprinting del talento gli arriva dal mito del mattatore, oggi in via di estinzione come troppi altri miti del secolo scorso, ma stella polare quando negli anni Sessanta il giovane attore dal Tufello muove i primi passi nell’avanspettacolo e nei teatrini romani. Il mattatore è quello che ti inchioda appena apre bocca e non ti molla più; è quello che impalla gli altri e non sarà mai impallato da nessuno qualunque palcoscenico gli capiti di calcare, dalla cantina d’avanguardia al Globe Theatre.

Certo, per sfondare ci vuole l’occasione giusta e per Proietti arriva nel 1970, quando gli viene offerto di sostituire Domenico Modugno, accanto a Renato Rascel nel musical Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini, cui seguirà La cena delle beffe riletta da Carmelo Bene (come dire l’alfa e l’omega della scena italiana). L’altro anno di grazia è il 1976, quando debutta A me gli occhi, please, one-man-show scritto insieme a Roberto Lerici dove prende forma l’impasto straordinario di miseria e nobiltà, arena e arcadia, improvvisazione e repertorio del perfetto mattatore postmoderno.

Proietti aveva qualcosa di Gassman ma anche di Silvan, o meglio, di Mandrake. I suoi cavalli di battaglia sembrano numeri di prestidigitazione, li segui in silenzio, col naso all’insù, letteralmente ipnotizzato tra una risata e l’altra, fino all’applauso liberatorio. Proietti è stato l’ultimo dei mattatori a tenere scuola di teatro, altra tradizione dei maestri che sanno che bisogna avere degli allievi perché non si possono avere eredi.

Nel 1978 assume la direzione artistica del Teatro Brancaccio dove crea il Laboratorio scenico da cui usciranno tra gli altri Flavio Insinna, Chiara Noschese, Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano, Francesca Reggiani. Qualcosa che assomiglia a un marchio di fabbrica.

Nel cinema sarà soprattutto commedia ma non solo, nella sua composita filmografia si vira qua e là dal dramma d’autore con Elio Petri (La proprietà non è più un furto), Mauro Bolognini (L’eredità Ferramonti), Luigi Magni (La Tosca) fino al Pinocchio di Matteo Garrone. Ma era scritto che, come Sean Connery è rimasto James Bond (perché un po’ era James Bond), Gigi Proietti restasse il Mandrake di Febbre da cavallo, “un misto, un cocktail, un frullato de robba… un dritto e un fregnone, uno che sta sotto a tutto e sta sopra a tutto”… Uno che sotto i riflettori è davvero capace di tutto.

Giunto al culmine della grande popolarità, Proietti ha lasciato la televisione quale ultima tappa della sua carriera, punto di arrivo; un tempo regola fissa dei grandi veri, mentre adesso funziona regolarmente al contrario (anche perché nell’era in cui il talento è diventato un format i grandi si fatica ad avvistarli). Nel 1996 arriva il primo impegno da protagonista sul piccolo schermo, ed è subito mandrakata. L’istrione impenitente, il cinico pasquino si trasforma d’incanto nel paterno maresciallo Rocca, la divisa più amata dagli italiani in questa serie simbolo del passaggio dall’impertinenza della commedia all’italiana al timorato buonismo della fiction tv.

Ma se si è grandi, si è grandi sempre; e tre anni fa proprio in tv Mandrake Proietti ha avuto il suo passo d’addio con Cavalli di battaglia, ennesima rivisitazione di A me gli occhi, please in quel parco archeologico che è divenuto il varietà televisivo. Solo un pazzo poteva portare un varietà del sabato sera al sabato sera. Un pazzo, o un genio. Gigi Proietti lo ha fatto, riproponendo il repertorio di 50 anni di scena (perché una volta c’erano i mattatori, e i mattatori avevano il repertorio), da Petrolini a Nun me rumpe er ca.

L’ultimo mattatore non ci era mai sembrato tanto grande, e tanto solo. Con lui sono sfilati i monologhi, le canzoni, i pezzi di bravura che il pubblico conosceva a memoria, e proprio per questo non vedeva l’ora di riascoltare; i cavalli di battaglia che a citarli per iscritto – senza il timbro, la prossemica, le magie di Mandrake – si fa la figura dei sordomuti. In groppa a quei cavalli, Proietti ha risalito al galoppo la china del tempo e ha sfogliato ridendo l’album dei ricordi, qualcosa che rallegra la memoria e intenerisce le battute. A me gli occhi, please, e non solo gli occhi. Per un genio del comico non c’è maggior lusso del concedersi un velo di malinconia.

Covid, il terzo incomodo che ha cambiato la sfida

In uno dei suoi ultimi tweet, il presidente Donald Trump ha accusato il rivale Joe Biden di volere “il LOCKDOWN del Paese forse per anni! Non ci sarà alcun LOCKDOWN. Il grande ritorno dell’America è in corso”. Biden ha risposto che ascolterà i virologi per gestire l’epidemia in caso di vittoria e rilancia: “Ieri sera Trump ha detto che licenzierà il dottor Fauci. Ho un’idea migliore: teniamo il dottor Fauci al suo posto licenziamo Donald Trump”..

Un approccio quello del candidato democratico applaudito dallo “scienziato in chief” Anthony Fauci, che ha ribadito la gravità della pandemia negli Stati Uniti: “Non potrebbero essere in una posizione peggiore”, ha detto in un’intervista al Washington Post. Secondo Fauci, Biden guarda alla pandemia “seriamente, dalla prospettiva sanitaria”, mentre Trump lo fa “da una prospettiva diversa, quella dell’economia e della riapertura”. Nonostante il giudizio del dottor Fauci non sia altro che una sintesi del comportamento del presidente, la Casa Bianca sì è inalberata definendo le affermazioni di Fauci come “inaccettabili” e durante un comizio in Florida, The Donald ha risposto alla folla che chiedeva il licenziamento del virologo dicendo che “ci penserà subito dopo” il voto. Il Covid e le sue ricadute economiche sono stati fin dall’inizio al centro della campagna elettorale e il contagio della coppia presidenziale ci ha messo un ulteriore carico. La pronta guarigione dal Covid del presidente Donald Trump aveva riportato il mese scorso la speranza tra i manager della campagna elettorale di una sua riconferma alla Casa Bianca, seppur di misura. Uscito senza mascherina sul balcone della Casa Bianca subito dopo le dimissioni dall’ospedale, The Donald aveva detto di “sentirsi ancora più forte” e che “ci sono le cure per sconfiggere il virus”. Peccato che le cure somministrate al presidente non siano disponibili per i comuni “mortali” e, di conseguenza, la sua dichiarazione ha fatto infuriare milioni di americani, forse anche quelli che avrebbero votato per lui perché repubblicani.

Che molti elettori non credano a Trump e, anzi, lo ritengano un impostore lo mostrano i sondaggi. Se dunque il corpaccione di Trump è sopravvissuto al morbo, forse potrebbe essere proprio questo a decretarne la fine politica. La pandemia, da mesi fuori controllo a causa della decisione del presidente di evitare i lockdown per tentare di salvare l’economia sempre più traballante, ha cambiato tutto: dal modo in cui sono state condotte le campagne di Trump e del suo avversario Joe Biden al modo in cui si sta votando, fino a ciò che viene apprezzato o meno. Ed è per questo che Biden ha incentrato gli ultimi due mesi di comizi, da remoto e dal vivo, sulla critica alla gestione del Covid da parte dell’Amministrazione Trump. Come Biden buona parte degli statunitensi oggi indossa la mascherina ovunque, al contrario del magnate del Queens. Inoltre Biden non ha mai cercato di scaricare le responsabilità della diffusione del virus fuori dagli States, ovvero sulla Cina, come ha fatto Trump che continua a chiamare il Covid “piaga cinese”. Né tantomeno Biden ha fatto allusioni alla creazione del virus in un laboratorio cinese per infettare i nemici, mentre Trump sì. La pandemia ha anche cambiato la modalità di voto: milioni di elettori hanno già votato via posta per evitare di trovarsi a stretto contatto con molte persone, dimostrando di non essere caduti nel tranello di Trump.