L’opposizione senza decenza invoca le urne

Funziona così: la peggiore opposizione d’Europa dice al governo ammalato di Covid, ok ti diamo una mano a gestire sia la crisi sanitaria (soprattutto nelle Regioni guidate dalla destra) sia le tensioni sociali, ma in cambio vogliamo le elezioni anticipate nella primavera prossima. Giorgia Meloni aveva detto qualcosa di molto simile una settimana fa e dunque questa dovrebbe essere la reale posta in gioco, che tuttavia pone alcuni interrogativi di elementare decenza. Dice la Costituzione che le Camere possono essere sciolte anticipatamente su iniziativa dal capo dello Stato, e non da questo o da quel partito in un mercato delle vacche. Decisione che Sergio Mattarella sarebbe costretto a prendere solo se messo di fronte a una paralisi istituzionale senza soluzione, e con l’assenso della grande maggioranza dei partiti presenti in Parlamento. Se anche Conte e il Pd si piegassero al diktat, cosa tutta da dimostrare, non si vede per quale motivo dovrebbero farlo i 5stelle, la cui maggioranza relativa di oggi nessun sondaggio conferma che ci sarà anche domani. Per non parlare dell’Italia Viva di Matteo Renzi, partitino di palazzo destinato a defungere in “Italia Morta”, anche qui sondaggi alla mano. Per non parlare della pletora di ex grillini, ed ex tutto, barricati nel Gruppo misto che al prossimo giro torneranno alle consuete occupazioni (qualcuno dovrà addirittura trovarsi un lavoro) visto che difficilmente saranno ricandidati. Per quale cervellotica ragione, infine, l’attuale maggioranza dovrebbe tagliarsi gli attributi: 1) rinunciando a eleggere il presidente della Repubblica all’inizio del 2021; 2) spianando la strada a un nuovo Parlamento dove la destra avrebbe probabilmente un peso maggiore rispetto a oggi; 3) consentendo così a un fronte di stampo sovranista di mandare al Quirinale il proprio uomo di fiducia? Se così stanno le cose, sembra evidente che quello avanzato dall’opposizione (ma Forza Italia, destinata all’estinzione se si tornasse al voto, che ne pensa?) sia un negoziato impossibile, utile solo a dire a Mattarella ‘noi ci abbiamo provato sono quelli là che si arroccano’. E in modo da lasciare sulle spalle del premier Conte e del governo l’intero carico delle misure gravose e impopolari imposte dalla pandemia. Insomma, più che una soluzione per affrontare l’emergenza, ha l’aria di una partita di poker giocata sulla salute degli italiani.

“Conti a posto” e nulla in ordine: al Pil 2021 serve più spesa statale

Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha qualche ragione quando si vanta che “i conti del 2020 sono a posto” anche con la prossima ondata di chiusure e il rallentamento causato dall’epidemia: le previsioni alla base della NaDef pubblicata a ottobre (Pil -9%, deficit al 10,8%) potrebbero reggere a un trimestre in rosso anche grazie al +16,1% registrato nei tre mesi estivi. Il punto, però, non sono certo i numeri scritti nel bilancio pubblico, ma riuscire a capire la portata di questa vicenda: nove punti in meno di Pil sono un baratro che vale quasi 170 miliardi di minor ricchezza prodotta rispetto al 2019 ed è il percorso di rientro – il famoso “rimbalzo” – che adesso è in questione.

Oltre al disastro che già c’è, i problemi veri a questo punto arriveranno nel 2021 per l’effetto trascinamento della minore crescita di questi mesi e per quelli di una seconda ondata – di coronavirus e di crisi – che eroderà ancor più base produttiva, posti di lavoro, risparmio e vite rispetto a quanto fatto finora. Questo sfacelo investirà il settore bancario (più sofferenze): l’eventuale credit crunch (meno prestiti) aggraverà la recessione. Per questo, e per le prossime chiusure che comporteranno nuovi ristori, il ddl Bilancio sembra già vecchio nonostante non sia ancora in Gazzetta.

Ad oggi, ad esempio, la stima del governo è che nel prossimo biennio il Pil crescerà del 6% e del 3,8% in un contesto macro che vede l’arretramento dell’intervento pubblico col deficit stimato al 7% nel 2021 e al 4,7% nel 2022, cioè solo l’1,3% e lo 0,6% del Pil in più rispetto allo scenario senza alcun intervento. Questo a non dire che l’effetto espansivo della manovra è basato in larga parte su 15 miliardi di fondi Ue che non sono alle viste e, in ogni caso, arriveranno nella seconda metà dell’anno. Come ha scritto ieri sul Financial Times la capo economista del Fmi, Gita Gopinath, le Banche centrali hanno fatto quel che dovevano, ora tocca alla politica fiscale: gli Stati “possono supportare attivamente la domanda via trasferimenti di denaro per sostenere i consumi e investimenti su larga scala”, tanto più che “il costo del debito continua a essere in calo”. Viva il Sussidistan finché serve, viva i Btp: prima lo capiscono al Tesoro meglio è.

Il covid spinge un nuovo welfare universale

Chi ha inventato il motto “tu ci chiudi, tu ci paghi”, usato nelle manifestazioni della scorsa settimana a Napoli e a Roma, forse non era un fine economista, ma ha riassunto in sei parole il senso di una profonda rivendicazione. La stessa di cui da anni è promotore Philippe van Parijs, filosofo, economista e giurista belga, 67 anni, tra i principali sostenitori e ideologi del reddito di base universale e incondizionato per tutti (ha pubblicato “Il reddito di base” con Yannick Vanderborght, Il Mulino). Se lo Stato non è solo un apparato coercitivo e regolatore, allora ha una responsabilità verso i cittadini: in una situazione grave come una pandemia, diventa necessario un reddito di quarantena. Ma se accettiamo il reddito universale “emergenziale”, perché non sdoganarlo tout court? D’altronde, sono un’emergenza pure la povertà e le difficoltà economiche in cui versa – anche in tempi ordinari – una larga fetta della popolazione.

In Italia ci sono state proteste e manifestazioni per ottenere un “reddito di quarantena”, dopo la riduzione forzata degli orari di apertura di molte attività economiche per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Questa pandemia può essere l’opportunità per sperimentare un reddito universale di base?

In Italia, come altrove, questo “reddito universale d’emergenza” dovrebbe essere finanziato dallo Stato con una spesa in deficit. Va bene per un breve periodo, ma non per sempre. Tuttavia, questa crisi sta diffondendo la consapevolezza che le nostre società e le nostre economie sarebbero state meglio equipaggiate di fronte a questa situazione e a ogni altro problema improvviso che sarebbe potuto nascere se avessero avuto in funzione un reddito universale di base. Un reddito che fornisse a tutti una sicurezza economica di base finanziata in modo sostenibile senza condizionalità di reddito oppure vincoli.

Perché il reddito universale dovrebbe essere migliore di altre soluzioni, compreso un piano di lavoro garantito come quello che ora si vuole sperimentare in alcuni Paesi come l’Austria?

Come misura di emergenza, un reddito universale è ovviamente migliore di un piano di lavoro garantito, che sarebbe semplicemente impossibile da implementare su vasta scala. Se un piano di lavoro garantito ha l’obiettivo di fornire una sicurezza economica di base a tutti, si scontrerebbe rapidamente con un dilemma: o fornire lavori senza senso e senza utilità a molte persone o affrontare enormi costi di formazione, supervisione, equipaggiamento e burocrazia. Infatti, non c’è nessun miracolo che possa garantire la presenza di lavori utili nei luoghi e per le qualifiche per cui sono necessari al fine di fornire sicurezza economica.

Quali sono i pro e i contro del reddito di cittadinanza italiano?

Il grande pro è che contribuisce molto alla riduzione della povertà, compresa quella infantile. Perciò, è sicuramente un progresso rispetto a quello che esisteva prima. Ma ci sono due grandi problemi. Primo, è difficile implementare le sue condizionalità in un modo che non sia molto arbitrario o anche molto costoso. Secondo, crea, sicuramente in alcune aree del Paese, una significativa “trappola di povertà”. Cioè rischia di uccidere ogni attività remunerata (e legale) che non paga in modo sicuro più del livello del reddito di cittadinanza, come lavori part-time o lavoro autonomo precario.

Il reddito universale è sufficiente o abbiamo bisogno di un vero welfare universale?

Un reddito di base incondizionato può fornire solo un modesto livello minimo universale di welfare. A esso devono essere aggiunti in primis sussidi di assistenza sociale supplementari e means-tested (ossia condizionati, ndr) diretti alle persone con bisogni speciali: ad esempio i disabili o chi vive da solo in città. Inoltre, bisognerebbe certamente introdurre coperture assicurative legate ai guadagni, come sussidi di disoccupazione temporanei e pensioni di vecchiaia adeguati. Inutile dire che, in aggiunta a queste indennità in denaro, i nostri sistemi di welfare devono includere anche educazione gratuita e universale e la protezione sanitaria per tutti.

Come interagisce il reddito universale con l’incentivo a lavorare?

In confronto alle misure di assistenza sociale means-tested, come il reddito di cittadinanza, il reddito universale migliora gli incentivi per le persone con minore possibilità di guadagno. Infatti, a differenza del reddito di cittadinanza, un reddito universale può essere combinato interamente con un reddito da lavoro. Inoltre, dà al potenziale lavoratore la possibilità di distinguere fra le attività poco pagate: da una parte i lavori più schifosi e soggetti allo sfruttamento, dall’altra quelli che vale la pena accettare per la formazione che danno, i contatti che offrono o per il puro piacere di fare qualcosa di utile con le persone con cui uno ama lavorare.

Berlino, Vienna e gli altri: quelli che ci provano

La pandemia ha fatto diventare realtà la garanzia di lavoro universale a Gramatneusiedl, un Comune di 3mila abitanti 30 chilometri a sudest di Vienna. Il primo esperimento mondiale di questa forma di reddito universale, ideato dagli economisti dell’Università di Oxford e pagato dall’Ente austriaco per l’occupazione, coinvolgerà 150 disoccupati di lungo periodo ai quali offrirà un impiego triennale nell’assistenza, giardinaggio, edilizia pubblica. Dopo un corso preparatorio di due mesi, i partecipanti potranno scegliere un lavoro sovvenzionato nel settore privato o crearne uno basato sulle loro competenze. Il progetto costerà 7,4 milioni, per un assegno annuo di 29.841 euro in linea con i 30mila di quello di disoccupazione. Gramatneusiedl non è stata scelta a caso: negli anni 30 del secolo scorso la chiusura dell’unica fabbrica tessile sprofondò il locale quartiere operaio di Marienthal nella disoccupazione.

Anche la Germania lancerà a giorni il proprio esperimento di reddito di base. Per tre anni 120 persone, scelte tra un milione e mezzo di volontari, riceveranno 1.200 euro al mese esentasse. Il loro unico obbligo sarà rispondere a questionari periodici dell’Istituto tedesco di ricerca economica (Diw). Ogni partecipante riceverà 43.200 euro, per un investimento di 5,2 milioni offerti da 150mila donatori dell’associazione Mein Grundeinkommen (Il mio reddito di base).

I due test arrivano mentre aumentano i timori per le ricadute occupazionali della pandemia. Secondo l’I stat in Italia a settembre c’erano 2,44 milioni di disoccupati (il 9,6% della forza lavoro) e 13,56 milioni di inattivi (35,5%, in aumento di 333mila). Nello stesso mese nell’Unione europea 15,99 milioni di persone erano senza lavoro, tra i quali 3 milioni di giovani. Nel mondo a gennaio i disoccupati erano 188 milioni ma nel terzo trimestre l’Organizzazione internazionale del lavoro prevede un calo di ore lavorate pari a 245 milioni di occupati.

Con la recessione aumenta la richiesta di aiuto. Il 31 ottobre 5mila persone hanno sfilato a Roma per chiedere un reddito universale e una patrimoniale per i redditi milionari. I partecipanti non hanno negato la pandemia ma con lo slogan “Tu ci chiudi, tu ci paghi” hanno reclamato misure per chi è colpito dalle chiusure. Nei giorni scorsi anche Fabrizio Barca, coordinatore del Forum disuguaglianze e diversità (Fdd), Enrico Giovannini e Cristiano Gori, docente di Politica sociale all’Università di Trento, hanno chiesto al governo di modificare i criteri di accesso al reddito di emergenza nel decreto ristori per renderlo davvero universale. La misura, condizionata, è stata ottenuta solo dal 35% degli aventi diritto, metà delle domande è stata rifiutata ed è mancato un coordinamento con il reddito di cittadinanza.

Il primo a proporre un reddito universale di base fu nel 1796 l’illuminista angloamericano Thomas Paine, ma per decenni l’idea è stata ostracizzata come “incentivo alla pigrizia”. Il sostegno pubblico all’occupazione fu introdotto negli Stati Uniti dopo la Grande Recessione, coinvolgendo 8,5 milioni di persone tra il 1935 e il 1943. Programmi simili sono stati testati in Brasile, Canada, Kenya e Svizzera. In Finlandia un esperimento sul reddito di base ha coinvolto 2mila disoccupati tra il 2017 e il 2018 ma si è chiuso con risultati discordanti. In Argentina, dopo il default il 2 aprile 2002 fu lanciato il Piano per i capifamiglia disoccupati: garantiva 150 pesos al mese per almeno 4 ore di lavoro giornaliero. Il programma fu un successo: sino al 2006 fornì lavoro a due milioni di persone, il 5% della popolazione. Nel 2005 l’India ha approvato una legge che garantisce salario minimo in progetti di lavoro pubblico a qualsiasi adulto che vive in zone rurali. Negli Usa due programmi federali permanenti ma volontari garantiscono lavoro e salari tra 24.600 e 32.500 dollari l’anno per impieghi da 20 a 40 ore settimanali. In Francia il progetto quinquennale Territori senza disoccupazione di lunga durata dal 2017 offre a disoccupati di lungo periodo il ricollocamento nel settore privato in 10 città.

Padre Sorge, il teologo guida della primavera di Palermo

Quando Palermo era percossa dalla mafia, come una schiena esposta alla fune bagnata, mangiata dalle connessioni criminali, squartata nella sua anima dalle stragi, un prete capitanò la resistenza civile, e poi plasmò quella che ricorderemo come la primavera siciliana. Il suo lessico era lama affilata e colta, figlia dell’applicazione alla teologia, della passione verso la politica, della voglia di far testimoniare la Chiesa contro la mafia. Padre Bartolomeo Sorge era un politico raffinato, teologo coltissimo, direttore de La Civiltà cattolica, ideologo della trasformazione della Democrazia cristiana da caravanserraglio di ogni tipo di umanità a esperimento di frontiera, movimento progressista, partito di governo e finalmente anche di lotta.

Padre Sorge è stato l’Aldo Moro del Vaticano, il pensatore e costruttore – nella terra in cui il partito di riferimento della Chiesa era cogestito dai poteri mafiosi – di una rivolta, di una vera e propria ribellione che avrebbe condotto al Municipio Leoluca Orlando.

Palermo deve a Bartolomeo Sorge il senso della sua rinascita e la speciale occasione di divenire città modello nella quale i preti, finora finiti come il Vangelo negli arredi dei capi delle cosche, non solo dicevano la loro, ma organizzavano la città. Spiegavano all’Italia il corso del sommovimento, della rivoluzione pacifica, della protesta permanente contro uno Stato che non vedeva e faceva crepare la Sicilia sotto le bombe stragiste.

Il caposcorta di Padre Sorge (7 anni è stato affidato alla sorveglianza armata) finirà poi trucidato nell’attentato a Paolo Borsellino. Ecco il ruolo attivo, da protagonista della lotta, politica e quindi giudiziaria, alla mafia. Padre Sorge era un leader e con Ennio Pintacuda guidò l’istituto di formazione politica Pedro Arrupe, e non ha smesso, neanche quando si è trasferito a Milano, di destinare al Palazzo i suoi giudizi. Da ultimo su Matteo Salvini, “ministro della paura”.

Just Eat mette anche il “bavaglio” ai rider: vietato criticare azienda e nuovo contratto

Vuoi continuare a lavorare come rider per Just Eat? Allora non devi mai criticare l’azienda né il gruppo a cui appartiene, i contratti che applica, i suoi servizi di consegna e nemmeno i ristoranti partner. In buona sostanza, è meglio evitare proprio di parlare e di scrivere post. La clausola “bavaglio” è scritta nero su bianco tra le pagine dell’accordo quadro che in questi giorni la piattaforma ha inviato a tutti i suoi fattorini. Si tratta del documento con cui Just Eat recepisce il contratto collettivo firmato il 15 settembre dall’Assodelivery, che rappresenta le multinazionali delle consegne a domicilio, e l’Ugl, sindacato che ha accettato tutte le condizioni imposte dalle imprese. Nelle ultime settimane, le app hanno comunicato a tutti i rider che chi non accetterà il nuovo accordo collettivo – che mantiene le paghe a cottimo e non riconosce diritti – sarà “licenziato”. Nel frattempo, Just Eat si è spinta anche oltre, obbligando i suoi fattorini a cucirsi anche la bocca. Niente post su Facebook né dichiarazioni alla stampa che siano anche solo “potenzialmente idonee a intaccare la reputazione della società, del gruppo di appartenenza, di ristoranti o clienti”, si legge. In questo modo l’azienda potrà tenere al lavoro con sé solo i fedelissimi e mettere alla porta i sindacalisti più attivi che, in questi anni, hanno utilizzato proprio i social network come principale veicolo di protesta. A denunciare l’ultima trovata di Just Eat è stato proprio Yiftalem Parigi, eletto due settimane fa a Firenze come rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, un ruolo che la piattaforma danese ha più volte detto di non voler riconoscere. Ora si va incontro all’ennesima causa per discriminazione che la Cgil sta valutando di aggiungere alla raffica di ricorsi annunciati ieri dalla segretaria Tania Scacchetti e portati avanti in diverse città italiane. In quest’ultimo caso, sullo sfondo c’è un precedente simile in cui il sindacato rosso ha sconfitto in tribunale la compagnia aerea Ryanair. Secondo l’organizzazione, quel “divieto di denigrare” stabilito da Just Eat ha l’obiettivo di limitare l’attività sindacale, che per sua natura è fatta proprio attraverso contestazioni pubbliche, manifestazioni e interviste. Accettare quel comma, invece, significherà essere autorizzati solo a esprimere opinioni positive. Di fatto, quindi, è quella che in gergo viene chiamata “clausola del collarino”, nata negli Stati Uniti verso la fine del Diciannovesimo secolo.

Stamina, Tomino assolto in Appello. È il quinto caso

La Corte d’appello di Torino ha assolto (perché il fatto non sussiste) Carlo Tomino, imputato per somministrazione di farmaci imperfetti, accusato dalla procura di Torino di essere stato uno dei fautori dell’introduzione del metodo Stamina negli Spedali civili di Brescia. Tomino, ex dirigente dell’Aifa, difeso da Mario Casellato e Alberto Mittone, era stato condannato in Appello. La Cassazione aveva annullato la condanna rinviando gli atti a Torino. Ieri si è chiuso il processo d’Appello bis, con l’accoglimento del principio già dettato dalla Suprema corte: non ci sarebbe il “fondamento della colpa”. Nel 2019 erano stati assolti in secondo grado altri 4 imputati – dirigenti e medici degli Spedali civili – coinvolti nel processo e accusati di avere tentato di curare (senza autorizzazioni) con le cellule staminali bambini e adulti affetti da malattie rare, sconosciute o incurabili. Davide Vannoni, considerato l’ideatore del metodo Stamina, aveva patteggiato – prima di morire nel dicembre del 2019 – una pena di un anno e 10 mesi. Anche dopo, Vannoni aveva tentato di lavorare con le staminali all’estero, coinvolgendo pazienti italiani. Tomino, per l’accusa, avrebbe fornito il “lasciapassare” all’ospedale bresciano per l’avvio delle terapie di Vannoni, scrivendo ad alcuni dirigenti che non vi sarebbero state “ragioni ostative” per “il trattamento indicato”. Al processo avevano testimoniato sostenitori e nemici di Vannoni: malati che avrebbero tratto beneficio dalle “cure” e pazienti “truffati” e drasticamente peggiorati.

Napoli, Migliore (Iv) alla festa a Napoli. Ma De Luca lo vieta

Tra gli invitati alla festa di compleanno del giornalista napoletano Lorenzo Crea, figlio della coordinatrice di Italia Viva a Napoli, Graziella Pagano, un pranzo avvenuto sabato in un ristorante del lungomare, c’era anche il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore. “Per la prima volta ho festeggiato il compleanno senza mia madre”, scrive Crea su Facebook sottolineando il dispiacere per l’assenza. La signora Pagano, debilitata per le terapie in corso, gli ha rivolto gli auguri attraverso un affettuoso post. Ma a far discutere è la foto del brindisi pubblicata da Crea e rilanciata dal sito Stylo24: si vedono quindici persone, in piedi o sedute, tutte a distanza abbastanza ravvicinata. Alcuni hanno le mascherine abbassate. Migliore non ce l’ha proprio, l’avrà sicuramente in tasca. Sui tavolini tartine e bevande.

È una festa, insomma. Sobria, come impongono i tempi che viviamo. Peccato però che l’ordinanza antiCovid numero 81 del governatore della Campania Vincenzo De Luca vieti senza se e senza ma le feste, di ogni tipo, sia al chiuso che all’aperto, indipendentemente dal numero delle persone invitate e dell’appartenenza o meno ad un unico nucleo familiare. Se applicata alla lettera – spesso hanno richiesto chiarimenti e interpretazioni – l’ordinanza di De Luca catalogherebbe ciò che si vede nella foto come ‘fuorilegge’ e da sanzionare.

Crea la pensa diversamente: “Era un pranzo, gli ospiti erano seduti a gruppi di quattro sui divani”. Sostenuto dalla madre che commenta così l’articolo su Stylo24: “Un attacco ridicolo”. Il pensiero corre al precedente di fine luglio, quando sempre Crea pubblicò e poi tolse la foto di una gita in barca a Ischia coi parlamentari Iv Maria Elena Boschi, Luciano Nobili e il solito Migliore (c’era anche l’europarlamentare Pd Giosi Ferrandino), assembrati in meno di un paio di metri quadri. Erano i giorni del voto per la proroga allo stato d’emergenza e la foto a molti sembrò uno schiaffo alla miseria post virus.

Bonus bici, oggi il click day per richiedere fino a 500 euro. Il primo passo è lo Spid

Il click day che scatta oggi alle 9 per accedere al bonus bicicletta (60% fino a un massimo di 500 euro) andrà bene, fino a prova contraria. Il ministero dell’Ambiente ha dato rassicurazioni sulla procedura per accedere alla piattaforma (www.buonomobilita.it) dove vanno registrati la fattura o lo scontrino parlante di bici, segway, hoverboard o monopattini acquistati dal 4 maggio al 31 dicembre. Per farlo è obbligatorio avere l’identità digitale Spid. Ci sono però timori per la possibilità che i troppi accessi in simultanea mandino in tilt il sito. Del resto si tratta di una corsa obbligata: gli importi vengono erogati sulla base dell’inserimento dei dati. Secondo il ministro Sergio Costa i fondi possano bastare per soddisfare tutti i richiedenti. E, comunque, “sono state appostate altre risorse nella legge di Bilancio 2021”. Al momento sono stati stanziati 210 milioni di euro. Sulla base di una media di 350 euro a persona si arriva a coprire 600 mila richieste. Ma già a giugno, aveva spiegato la Confindustria dei motocicli (Anacma), le bici acquistate erano già 540mila.

Verdini, oggi arriva la sentenza: ecco perché può salvarsi ancora

Oggi sapremo se Denis Verdini andrà in carcere per bancarotta o se, invece, buon per lui, la prigione sarà solo un brutto incubo che si dissolve. La sentenza in Cassazione per il crac del Credito cooperativo fiorentino è attesa in tarda mattinata. L’ex senatore di Ala, supporter vitale del governo Renzi e oggi pure suocero di Matteo Salvini, di certo in cuor suo spera persino che i giudici diano ragione alla Procura generale della Cassazione, che ieri ha chiesto l’annullamento con rinvio del processo d’appello a Firenze per il quale è stato condannato a 6 anni e 10 mesi. Come mai, assoluzione a parte, si può ben accontentare pure di un nuovo appello? È questione di età: l’8 maggio 2021, infatti, Verdini compie 70 anni e quindi può chiedere, nel caso di una condanna bis, di scontarla agli arresti domiciliari. Tutta un’altra storia se, invece, i giudici della Quinta sezione penale (presidente Paolo Bruno, relatrice Rosa Pezzullo) dovessero confermare la condanna di appello. Verdini finirebbe in prigione almeno fino al settantesimo compleanno, a meno che non ci siano altre ragioni motivate (questioni di salute, per esempio) che consentano il differimento della pena.

Sempre in astratto, i giudici oggi possono assolverlo o potrebbero ordinare un appello bis ma solo ai fini di rideterminare la pena dato che per il 90 per cento delle imputazioni Verdini è colpevole anche per la procura generale della Cassazione così come per i giudici fiorentini d’appello e di primo grado, che lo avevano condannato a 9 anni. Oppure, il collegio della Suprema Corte potrebbe, di suo, rideterminare la pena che, se fosse sotto i 4 anni, da codice, esclude il carcere.

Il sostituto pg Pasquale Fimiani, infatti, ieri ha chiesto un nuovo processo d’appello non perché sia tutto da buttare ma solo perché ha ritenuto che per 9 distrazioni su 32 ci sia, semplificando, un difetto di motivazione. Ergo, per il pg la bancarotta per distrazione è largamente provata in punto di diritto. Di più: per Fimiani è stata provata completamente la bancarotta per falso in bilancio. Quindi, secondo la procura generale, i giudici dell’eventuale appello bis dovrebbero pronunciarsi limitatamente ai casi indicati dalla Cassazione. Inoltre, Fimiani ha chiesto che venga dichiarata la prescrizione per due capi di imputazione che riguardano la truffa ai danni dello Stato per il tentativo di ottenere fondi per l’editoria nel periodo 2010-2011. La prescrizione è scattata subito dopo la condanna in appello del 3 luglio 2018, mentre è stata dichiarata già al processo per i finanziamenti, in quel caso incassati, del periodo 2005-2009. Già prescritto pure il reato di ostacolo alla vigilanza ma, se Verdini sarà riconosciuto colpevole di questa imputazione, anche se non più perseguibile, Bankitalia, che si è costituita parte civile, avrà diritto a un risarcimento.

L’udienza di ieri era stata fissata a marzo scorso e poi rinviata al 17 luglio per la pandemia. E da luglio è stata aggiornata al 2 novembre. In apertura, i giudici hanno stralciato la posizione dell’imprenditore Riccardo Fusi, per il legittimo impedimento del suo avvocato, presentato per casi di Covid tra i suoi collaboratori.

Non è la prima volta che l’ex senatore indossa la veste di imputato. In altri processi ne è uscito a volte assolto (come nel caso dell’inchiesta romana sulla compravendita del palazzo di via della Stamperia, inizialmente era accusato di finanziamento illecito), a volte si è salvato grazie alla prescrizione. È il caso del processo denominato “Scuola dei marescialli”, un filone dell’indagine “Grandi eventi” della Procura di Firenze.

L’ex senatore era accusato di concorso in corruzione per il suo interessamento per la nomina a provveditore interregionale per le opere pubbliche di Toscana, Marche e Umbria di un ex dirigente del ministero delle Infrastrutture. In quel caso una mano gli è stata data dai suoi ex colleghi: la giunta per le autorizzazioni a procedere ci ha messo quasi un anno per autorizzare l’uso di 31 conversazioni registrate tra aprile 2008 e luglio 2009. Alla fine, a marzo 2016, Verdini viene condannato in primo grado a due anni di reclusione, pena sospesa. Il 20 luglio di quell’anno, però, scatta la prescrizione in base ai calcoli della legge ex Cirielli (voluta da Berlusconi). E così viene dichiarato il proscioglimento.

In passato, l’ex senatore è finito sotto processo anche per la cosiddetta P3, ritenuta dai pm romani un’organizzazione segreta in grado di condizionare il funzionamento degli organi costituzionali. Dall’accusa di far parte di questa organizzazione, a marzo 2018, Verdini è stato assolto per non aver commesso il fatto. In quel processo era, però, accusato anche di finanziamento illecito, reato per il quale in primo grado è stato condannato a un anno e tre mesi di reclusione. Ma solo per una parte del denaro incassato. Il restante è stato dichiarato prescritto, come pure l’abuso d’ufficio. Il processo è in corso in Appello, ma anche l’unica ipotesi di reato rimasta in piedi è ormai prescritta.