Milano, i medici: “Chiudete la città”. Fontana non sente

“È necessario intervenire con un lockdown immediato ed efficace”, perché “la situazione sia nelle strutture sanitarie ospedaliere che anche nella medicina del territorio è diventata insostenibile”. Sono le parole inequivocabili pronunciate ieri dal presidente dell’Ordine dei Medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, che si aggiungono agli allarmi già lanciati nei giorni scorsi da diversi scienziati (dal prof. Massimo Galli a Walter Ricciardi, a Fabrizio Pregliasco, solo per citarne alcuni). Un appello chiarissimo – perché “la situazione non può che peggiorare”, ha aggiunto Rossi – che i camici bianchi hanno lanciato proprio mentre il presidente Attilio Fontana e i sindaci della Lombardia erano rinchiusi a discutere del nuovo Dpcm in arrivo e di eventuali ulteriori modifiche alla vigente delibera regionale.

Un appello caduto nel vuoto, non raccolto da una politica che vuole continuare a non decidere. E infatti dall’incontro di ieri al Pirellone non è uscito nulla di nuovo. “Ad oggi, lato Regione Lombardia, non si ipotizza nemmeno lontanamente di andare verso un lockdown stile marzo e aprile e io lo condivido”, ha riferito il sindaco Giuseppe Sala in Consiglio comunale. “Fontana ha sottolineato, e di questo ne abbiamo parlato anche durante il fine settimana, che a nuove restrizioni deve corrispondere ristoro da parte del governo, indicando quanto e quando rispetto a chi viene chiuso”. Tradotto: noi non muoveremo un dito, anche perché, ha aggiunto il sindaco, “dal punto di vista sanitario quello che viene fuori è che la situazione lascia ancora margine di osservazione in questo giorno”. Aggiungendo: “Ricordo che si era detto quando ci siamo riuniti con Fontana e i sindaci due settimane fa che l’ipotesi era che per fine ottobre si arrivasse ad avere, come posti letto Covid in intensiva, da un minimo di 435 a 800 al massimo. Sembra essere un po’ meglio…”.

Da dove gli amministratori lombardi traggano tutta questa fiducia (da recuperare, per chi se lo fosse perso, l’assessore Giulio Gallera ieri sera da Fabio Fazio in tv) non è dato sapere. Niente tabelle di progressione dei contagi, niente curve, niente proiezioni. Solo i numeri degli ultimi giorni, che dimostrano una leggerissima frenata dei casi. E sarà solo un caso ma dall’assise che doveva decidere le misure per salvare la Lombardia è stato escluso il Cts regionale: l’ultima riunione generale a cui gli scienziati sono stati invitati risale a venerdì 16 ottobre, un’era geologica fa in tempo di pandemia. “Nell’ultima riunione – ha spiegato un membro del Cts al Fatto – ci eravamo espressi per misure rigide, in particolare per il coprifuoco. In prospettiva, il lockdown è inevitabile. Resta da capire se solo nell’area metropolitana di Milano o per l’intera regione”. Il messaggio ribadito è: le misure prese fino a oggi sono insufficienti. “Ma nessuno sembra avere il coraggio di prendere decisioni”, aggiunge un altro medico del Cts regionale.

Non la pensa così Fontana, che durante l’incontro di ieri al Pirellone ha rimarcato come la Lombardia abbia fatto da apripista al governo e alle altre Regioni: “Abbiamo preso misure più restrittive per primi, e ora il governo ci sta copiando”, ha dichiarato. E così, né lui né Sala chiederanno nulla a Conte. “Aspettiamo di vedere cosa conterrà il Dpcm, poi, eventualmente, faremo delle proposte”, ha deciso Fontana, sempre con l’avallo del sindaco di Milano. E l’asse Fontana-Sala è rimasto saldo anche sugli altri punti in discussione: nessuna chiusura differenziata per città; niente divieto di spostamento tra Regioni e, soprattutto, in caso di nuove strette al commercio, Roma dovrà dire prima quanti soldi andranno agli eventuali danneggiati.

Né Fontana né il sindaco Sala devono aver colto il “suggerimento” del sindaco Francesco Passerini (del Carroccio anche lui) che amministra Codogno, la prima cittadina in Italia ad andare in lockdown. “Milano era da chiudere prima”, ha detto Passerini sulle pagine locali del Corriere. “A nessuno piace prendere decisioni forti e impopolari, ma se necessario bisogna farlo”. Già.

SarsCov2 rallenta un po’ ma muoiono altri 233

Piccoli segnali di ottimismo dai numeri del “bollettino coronavirus” di ieri, perché seppur su valori purtroppo ancora altissimi, sembra cominciare a intravedersi una stabilizzazione della crescita dell’epidemia in Italia. Sono 22.253 i nuovi casi (-7.654 rispetto a domenica) a fronte di 135.731 tamponi (-47.726 rispetto a domenica). Il numero più triste, quello dei morti, è ancora altissimo: 233 (208 il giorno prima).

È il fisico Alessandro Amici a rilevare il rallentamento nella diffusione di SarsCov2: “La distanza dalla stima esponenziale, calcolata a 34 mila nuovi contagi su ieri, nel dato ufficiale è diventata un abisso e la media a sette giorni si è piegata in maniera seria. Contemporaneamente anche la media della percentuale di tamponi positivi sta rallentando la corsa delle ultime settimane, cosa che non dovrebbe fare se ci fosse un problema di testing. Lo so che è il dato di lunedì, e che il 1° novembre era una domenica festiva, e che di conseguenza sono pochi tamponi ma 22.253 nuovi casi sono davvero tanto, tanto pochi. E ricordo che il numero sempre crescente di tamponi rapidi non è incluso nel denominatore di questa percentuale”. Pare “un rallentamento importante e si vede in un po’ tutte le regioni, soprattutto quelle più colpite del nord”. Ma adesso “calma e sangue freddo e aspettiamo i dati di oggi e domani che dovrebbero assorbire l’anomalia della domenica di festa e ci diranno con relativa certezza come siamo messi”. Anche perché l’altro dato da tenere sempre sott’occhio è quello dei ricoveri e ieri sono entrate in terapia intensiva altre 83 persone, per un totale di 2.022: siamo al 49,7% del picco massimo del 3 aprile quando erano 4.068. In reparto ordinario sono arrivate ieri 938 persone, per un totale di 19.840: siamo al 68,4% del picco massimo del 4 aprile quando erano 29.010.

È sempre la Lombardia a confermarsi la più colpita con 5.278 nuovi casi ieri (8.607 domenica), poi Campania 2.861 (3.860), Toscana 2.009 (2.379), Piemonte 2.003 (2.024), Lazio 1.859 (2.351), Emilia Romagna 1.652 (1.758) e Veneto 1.544 (2.300). Sull’origine della seconda ondata in Europa ha indagato una squadra internazionale di scienziati svizzeri e spagnoli per il Cold Spring Harbor Laboratory e l’università americana di Yale: hanno individuato nei lavoratori agricoli del nord-est della Spagna a giugno il primo focolaio diffuso dai turisti nei propri paesi al rientro dalle ferie estive. Sarebbe una variante dell’originario SarsCov2 cinese chiamata 20a.Eu1 e che rappresenta l’80 per cento dei nuovi casi anche in Gran Bretagna. Lo studio, citato dal Financial Times, verrà pubblicato dopodomani. Scrivono i ricercatori: “Questa variante di SarsCov2 è stata esportata più volte dalla Spagna in altri paesi europei. Al momento non è chiaro se questa variante si stia diffondendo perché più contagiosa o se l’alta incidenza in Spagna, seguita dalla diffusione dei turisti ritornati a casa, sia sufficiente per spiegare il rapido aumento in più Paesi”.

Ecco le previsioni sugli ospedali che spingono ai lockdown locali

C’è una tabella, nel penultimo monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità consegnato il 31 ottobre, che ancor più dell’aumento dei casi e del tasso di riproduzione del virus Rt (fino a 1,7 con punte oltre 2 in Lombardia e in Piemonte) ha convinto il ministro della Salute Roberto Speranza dell’urgenza di procedere con misure più drastiche. È una tabella di quadratini grigi, gialli e rossi. Dice che il 26 novembre prossimo ben 14 regioni hanno oltre il 50 per cento di probabilità di superare le soglie fissato per l’allerta negli ospedali, cioè l’occupazione del 30% dei posti nelle terapie intensive e del 40% dei letti nei reparti ordinari dell’area medica.

Sono previsioni basate sui dati fino al 25 ottobre, che ovviamente non tengono conto dei provvedimenti che saranno emanati tra oggi domani ma appunto li giustificano. Lombardia e Piemonte ma anche Emilia-Romagna, Liguria, Molise, Trentino-Alto Adige e Puglia nella peggiore delle ipotesi possono arrivare a riempire tutti i posti letto; l’Abruzzo rischia di arrivare al 90% e al 55 nelle terapie intensive, la Calabria al 100% per cento nell’area medica e al 50 elle terapie intensive, la Campania al 40 e al 25, il Friuli-Venezia Giulia al 40% in area medica e all’85 nelle terapie intensive, il Lazio al 90 e al 55, la Sicilia al 70 e al 60, l’Umbria al 30 e al 25. Come ribadito ieri anche dal presidente del Consiglio, il governo è più preoccupato per i reparti ordinari, specie quelli degli ospedali più attrezzati, che per le terapie intensive. Per queste infatti il commissario Domenico Arcuri ha acquistato migliaia di ventilatori che consentirebbero, secondo il governo, di attivarne fino a 10 mila nel Paese. Erano poco più di cinquemila prima dell’inizio della pandemia e, sempre secondo il governo, sono oltre 8.000 adesso, ma occorre ricordare che le organizzazioni degli anestesisti-rianimatori affermano che non ci sono abbastanza specialisti per farne funzionare più di 7.000. I reparti ordinari però sono presi d’assalto, secondo il governo anche da pazienti che non sono così gravi e potrebbero essere ospitati anche nei Covid hospital e nei Covid residence che alcune Regioni (non tutte) stanno aprendo o attrezzando, sia pure in ritardo. Si moltiplicano anche le tende davanti agli ospedali.

La decisione sulle regioni per cui predisporre oggi o domani misure più severe, secondo le due fasce di rischio altissimo (scenario 4 dei 4 elaborati dall’Iss) e alto (scenario 3 tendente al 4), dipendono da 21 criteri, tra cui l’aumento dei casi, la percentuale di tamponi positivi, l’indice di riproduzione del virus Rt, il numero di focolai e il tempo medio che intercorre tra sintomi e diagnosi. Oggi il nuovo monitoraggio dell’Iss sarà discusso anche dal Comitato tecnico scientifico (Cts), poi toccherà a Speranza emanare le ordinanze che completeranno il dispositivo previsto dal nuovo Dpcm atteso entro domani. Lombardia, Piemonte e Calabria, le prime due per i contagi fuori controllo e la terza soprattutto per i gravi limiti del servizio sanitario, sarebbero nella prima fascia per la quale si prepara un quasi lockdown. Puglia e Sicilia nella seconda fascia, forse con la Liguria. Secondo l’Iss lo scenario 4 si apre per le regioni in cui il tasso di riproduzione del virus supera 1,5. Quelle ritenute “a rischio alto di una trasmissione non controllata” nel penultimo monitoraggio erano 11: Lombardia, Piemonte, Calabria, Puglia, Sicilia e Toscana, più Liguria, Val d’Aosta, Veneto, Abruzzo, Basilicata per l’incompletezza dei dati trasmessi.

Scuola e spostamenti: a rischio Lombardia, Piemonte e Calabria

Da domani, o al massimo da giovedì, l’Italia sarà divisa in tre. Un pezzo di Paese in cui la situazione può ancora definirsi sotto controllo, un altro in fase critica e un terzo dove invece il Covid ha preso troppa forza per non provare ad arginarlo con misure più drastiche. Così da due giorni il premier Giuseppe Conte lavora alla stesura di un Dpcm che di fatto supera la rivalità Stato-Regioni e impone restrizioni ad hoc per i territori a rischio. La definizione degli “automatismi” che faranno scattare l’allarme è ancora allo studio – ne parliamo a pag. 4 – e molto dipenderà dal report che sarà oggi sul tavolo del Comitato tecnico scientifico. Al momento sono tre le Regioni nel mirino: Lombardia, Piemonte e Calabria. Altre tre, Puglia, Liguria e Sicilia, sarebbero nella fascia di mezzo. Palazzo Chigi si è preso ancora qualche ora per chiudere il testo definitivo. Ecco, tra punti fermi e soluzioni al vaglio, cosa prevederà.

 

Attività Centri commerciali, slot e musei

Sono le chiusure già annunciate ieri dal premier in Parlamento e riguarderanno tutto il territorio nazionale, a prescindere dal livello di allerta calcolato. Sabato e domenica saranno off limits i centri commerciali, luoghi di particolare assembramento nel weekend. Al loro interno, però, resteranno aperte le attività considerate essenziali (farmacie, generi alimentari, tabacchi, edicole). Al bando anche tutte le attività di scommesse e le videolottery “ovunque siano collocate”. Chiudono anche i musei. Per quanto riguarda il capitolo delle Regioni che invece si collocano in fascia 1 o 2, si sta ragionando sulla chiusura di altre attività: i ristoranti (anche qui si valuta il fattore weekend), ma si discute anche di servizi alla persona come parrucchieri e centri estetici.

 

Trasporti Spostamenti tra Comuni e Regioni

Scende al 50 per cento la capienza consentita per i mezzi del trasporto pubblico locale, che finora potevano occupare due terzi dei posti disponibili. Un tentativo di arginare il sovraffollamento di autobus, tram e metropolitane, in particolare nelle ore di punta. Ma allo studio del governo ci sono anche limitazioni agli spostamenti tra Regioni. Secondo quanto spiegato da Conte ieri alle Camere, si tratterà di uno stop nazionale solo “da e verso le Regioni che presentano elevati coefficienti di rischio” (ovviamente esclusi i motivi di studio, lavoro e salute). Nel caso delle Regioni “rosse”, però, si valutano anche limitazioni tra Comuni: si vuole evitare che lo stop – per esempio – dei ristoranti in un determinato luogo porti le persone a spostarsi dove invece le attività sono aperte.

 

Coprifuoco Divieto di uscita contro le cene a casa di amici e parenti

Conte si rifiuta di usare questa parola – “coprifuoco” – che tanto evoca il lockdown, ma è lui stesso a parlare di “limiti alla circolazione delle persone nella fascia serale più tarda”. Ora su quanto “tarda” possa essere, la discussione è ancora aperta e piuttosto accesa. Il compromesso sembra attestarsi alle 21 – anche se Palazzo Chigi ancora spinge per portarlo alle 22 – e ha una ragione ben precisa: bisogna evitare che, con i ristoranti chiusi, le persone si ritrovino a cena nelle case di amici e parenti. Il contagio domiciliare, come noto, è al momento la forma più frequente di diffusione del virus e vanno messe al bando tutte quelle situazioni di socialità in cui la mascherina scende e il distanziamento pure.

 

Scuola A casa gli over 14

È il vero buco nero e nessuno è disposto a scommettere su come andrà a finire. Per gli studenti di licei, istituti tecnici e professionali, a dire il vero, già si sa: tutti a casa fino a nuove disposizioni. La didattica a distanza sale infatti al 100 per cento in tutta Italia per l’istruzione superiore. Il primo ciclo per il momento è salvo, ma è una delle variabili che interesserà le Regioni a rischio. La fascia 2 potrebbe veder saltare le medie, la 1 addirittura le elementari. Da precisare che ci sono già due regioni (Campania e Puglia) che hanno chiuso tutto in autonomia. Il ministero guidato da Lucia Azzolina si è già premurato di dire che, anche per le superiori, andranno garantite le lezioni in presenza almeno per gli alunni che hanno difficoltà di apprendimento e difficoltà di accesso alla didattica digitale, per evitare – come accaduto in primavera – che ci siano studenti completamente tagliati fuori dalla vita di classe.

Collaboriamo, anzi no. La destra continua a giocare allo sfascio

All’improvviso collaborazione fu, più o meno. Sulla carta. Giusto alcune ore, prima che Matteo Salvini ricominciasse a caricare a testa bassa.

Ieri la risoluzione presentata dal centrodestra al termine delle comunicazioni di Giuseppe Conte sull’emergenza Covid è stata approvata in una manciata di punti da tutti i gruppi parlamentari sia alla Camera che al Senato. Sono passate alcune delle 20 proposte firmate dal trio Salvini-Meloni-Berlusconi prima del dibattito in aula. Impegni per lo più generici e non vincolanti, ma presentati con molta enfasi: “Se l’appello alla collaborazione è reale, lo vedremo da come Pd e M5S voteranno sulle proposte di buonsenso che il centrodestra ha messo nero su bianco”, aveva detto Meloni. Presto fatto: dem e grillini hanno scelto alcuni dei venti consigli recapitati da destra – 4 alla Camera e 6 al Senato – e hanno detto sì.

Nessuna misura rivoluzionaria, ma una serie di ottimi propositi sui quali è davvero difficile non essere d’accordo. Il governo, accogliendo il documento delle destre, si impegna a dare attenzione ai pazienti cronici e oncologici anche se non hanno il Covid, a tutelare i lavoratori fragili, a “ non isolare ulteriormente bambini, ragazzi e persone con disabilità”, a disporre termoscanner all’ingresso delle scuole. Buone intenzioni. Una mossa.

Dura poco. Come prevedibile il voto comune sulla risoluzione non cambia affatto la stucchevole dinamica tra opposizione e maggioranza. Sempre la stessa: la destra si agita, protesta, va in piazza, poi a intervalli regolari si lamenta di non essere interpellata. Cinque Stelle e Pd per una volta vanno a vedere le carte – e infatti Zingaretti esulta per gli “importanti segnali di collaborazione” – ma quando la palla torna nel campo di Salvini niente è cambiato.

Il segretario leghista commenta così: “Sono contento se ci ascoltano, però non cambio giudizio sul governo. Domani (oggi, ndr) votano il ddl Zan alla Camera, mentre il mondo parla di altro. Continuano a vivere su Marte, però se riusciamo a limitare i danni sono contento”. Durante il dibattito i toni sono i soliti. Il leghista Claudio Borghi è il più aggressivo: “Presidente, lei ha preannunciato la disponibilità ad accogliere i rilievi delle risoluzioni; no, la informo che lei deve accogliere i rilievi delle risoluzioni!”. Poi un’ardita arringa sui principi costituzionali: “Lei ha detto che il diritto alla salute è preliminare su tutti gli altri diritti costituzionali. Ma come si permette di fare una scaletta dei valori costituzionali? Le ricordo l’articolo 1, dice che l’Italia è una Repubblica democratica, quindi si decide tutti assieme non decide lei, fondata sul lavoro quindi non fondata sulla salute o i Dpcm!”. Una chiara manifestazione di spirito collaborativo.

In serata è di nuovo Salvini-show. Il leader della Lega indica il Parlamento come unico luogo del confronto sulla gestione della crisi (“Basta cabine di regia!”), poi usa il suo scranno come uno studio televisivo. L’intervento è adrenalinico, strillato: “Errare è umano e tutti sbagliano, chiedono scusa. Perseverare sulla pelle degli italiani sarebbe diabolico. Cosa avete fatto per sei mesi per evitare questo scempio? Cosa avete fatto quest’estate?”. Mentre lui girava senza mascherina. E ancora: “Alle ore 21 del lunedì sera, poco prima dell’eventuale chiusura di scuole, negozi, fabbriche, città o regioni, nessuno sa niente perché lei non si è degnato di dire niente a nessuno. Questa non è condivisione”.

La stagione dell’armonia è durata un paio d’ore. Stamattina Salvini presenta le “sue” proposte per la gestione dell’emergenza. E riparte la giostra.

Conte alla fine imbriglia le Regioni: “Si chiudono le aree con più contagi”

Giuseppe Conte ha un nemico che si chiama Covid, un incubo che porta il nome di lockdown nazionale e referenti che spesso sono avversari, i governatori. Così dentro il Parlamento a cui chiede e promette unità, il presidente del Consiglio (ri)gioca la sua carta per fermare il virus e nel contempo snidare le Regioni che non vogliono decidere: quella di “una strategia da modulare in base alle criticità dei territori”, fatta di misure più restrittive dove i contagi corrono più veloci. Ergo, si dividerà l’Italia in tre aree a seconda del rischio (alto, medio e restanti Regioni). E in base a precisi parametri scatteranno le chiusure dove il virus è più forte, senza margini di discrezionalità. “Un regime differenziato in base a diversi scenari regionali” come lo definisce Conte nel suo intervento alla Camera. Elastico, assicura però, cioè “fatto di restrizioni e allentamenti” da aggiornare periodicamente.

È questo il cuore del quarto Dpcm in tre settimane, che dovrebbe essere varato stasera, ma che potrebbe slittare a domani. Perché arriverà solo oggi il nuovo rapporto del Cts, fondamentale per costruire i parametri entro cui scatteranno le zone rosse, assieme ai dati dell’Istituto superiore di sanità sulla curva della pandemia. E perché con governatori e sindaci c’è ancora distanza sulle altre misure: a cominciare da un coprifuoco nazionale, che le Regioni vorrebbero per le 18 o non molto più tardi, mentre Conte lo vuole al massimo per le 21. Ma non gli dispiacerebbe scivolare un’ora più tardi: alla Camera parla genericamente di “tarda serata”. Confermando quanto voglia schivare la percezione di un nuovo lockdown. Ma la partita politica del virus resta complicata, e lo dice anche il fatto che il premier si presenta in aula con la trattativa ancora aperta. Nell’ennesima riunione di ieri mattina, governatori e sindaci tornano a invocare norme uniformi per tutto il territorio, “altrimenti la gente non capirebbe”. Non vogliono il cerino, e allora fanno muro soprattutto il campano Vincenzo De Luca, che chiede “misure più incisive” e teme per la tenuta dell’ordine pubblico, e il lombardo Attilio Fontana, “perché lui sente il fiato sul collo di Confindustria” accusa un grillino di governo. Ma spinge per norme centralizzate anche il veneto Luca Zaia, solitamente apostolo dell’autonomia. Mentre il pugliese Michele Emiliano invoca “norme congrue”. Non è facile il quadro, mentre Conte a Montecitorio ricorda che “esiste un’alta probabilità che 15 regioni superino le soglie critiche nelle terapie intensive e nelle aree mediche nel prossimo mese”.

Per questo torna a tendere la mano alle opposizioni, come consigliato dal Quirinale: “Preannuncio la mia disponibilità ad accogliere i rilievi delle risoluzioni che saranno approvate oggi” scandisce, rilanciando l’idea di una cabina di regia con il centrodestra (“la proposta è ancora sul tavolo”). Non basta. Così deve intervenire il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella chiama il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini e il suo vice Giovanni Toti, raccomandando concordia e collaborazione. Oggi riceverà i presidenti delle Camera, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati. Cerca di favorire un clima di unità nazionale, come fa dall’inizio della pandemia. Ma dal ministero della Salute trapela ottimismo sulla possibilità di trovare la quadra. Il meccanismo delle chiusure automatiche, fanno notare, nasce da un documento di Roberto Speranza. A spingere per farlo passare è stato il capodelegazione dem, Dario Franceschini, che lo ha fatto inserire anche nella risoluzione di maggioranza di ieri. E Conte è stato d’accordo da subito.

Nella risoluzione i dem hanno voluto aggiungere anche la questione del Mes. Ma la formula di compromesso con i 5Stelle prevede la necessità di decidere sul fondo salva Stati “solo a seguito di un preventivo e apposito dibattito parlamentare” e dopo “un’analisi dei fabbisogni”.

Nell’attesa, ieri a Palazzo Madama il governo ha respinto la risoluzione pro Mes di Emma Bonino e di altri senatori. Mentre dal Pd rivendicano il lavoro di Zingaretti per la distensione tra maggioranza e opposizione, ieri manifestatasi con favori incrociati sulle rispettive mozioni. Nel frattempo si diffonde la voce di un vertice con i leader di maggioranza nel fine settimana, quello che Matteo Renzi invocava da tempo. Ma tutti dicono di non saperne niente.

Il cavaliere nostro

“Me so’ fatto fa’ ’na piscinetta… ’st’estate ce devi venì! Io me ne sto bono bono in auto-clausura e aspetto… Ci ho pure tre galline che me fanno l’ovetto fresco…”. Quando chiamava Gigi – e capitava spesso, specie durante il lockdown per ridere un po’ dei virologi da divano che dicevano tutto e il contrario di tutto nella stesso programma, spesso nella stessa frase (“Ma come fanno? Boh”) – stentavi a credere che fosse proprio lui: il più grande mattatore vivente. Ora che questo 2020 di merda ci ha portato via anche lui, proprio mentre un inutile cinquantenne twittava sull’inutilità degli ottantenni, si affollano i ricordi di un’amicizia nata grazie al Fatto. Proietti ci leggeva per primi, poi telefonava per commentare, suggerire, soprattutto sghignazzare (“Chi non sa ridere mi insospettisce”). Ogni tanto ci mandava uno stornello, un sonetto in romanesco (“Se pubblichi, non mi firmare: metti ‘Agro Romano’…”). Una volta, alla nostra festa all’isola Tiberina, doveva essere un’intervista e invece portò il suo pianista Mario e fece uno spettacolo intero col meglio del suo repertorio (“aggràtise”): da Nun me rompe er ca’ a Pietro Ammicca, dal Cavaliere nero a Toto nella saùna (con l’accento sulla u), dal vecchietto delle favole sconce all’addetto culturale pieno di tic al prof che declama La pioggia nel pineto in barese. Il meglio di A me gli occhi please, poi travasato in Cavalli di battaglia, che doveva andare una sera sola all’Auditorium e diventò un tour infinito, sempre sold out.

Frammenti di memoria e lampi di genio si mischiano alle lacrime. Il nasone fin sopra la fila di denti bianchi. Gli occhi che roteano. Il vocione cavernoso da fumatore. La risata aperta e la gioia di strapparne agli altri. Sempre in scena, anche per strada e in trattoria. L’opposto del cliché del grande comico, allegro sul palco e sul set, cupo e depresso in privato: a lui ridere piaceva un sacco, almeno quanto far ridere. Lui nel camerino del Globe Theatre a villa Borghese, qualche estate fa, esausto e zuppo di sudore dopo due ore di Edmund Keane con 30 e passa gradi: “Che fate, annate a cena da Dante? Io nun so se me la sento, stasera avrò perso cinque chili…”. Poi si presenta al ristorante e ci ammazza di barzellette e aneddoti su Gassman, Bene, Fabrizi e Stoppa fino alle tre di notte, lui fresco come una rosa, noi tramortiti. “Questa la sapete senz’altro…”. “Questa è troppo feroce… che faccio, la racconto?”. “Marché, famme fa’ ’n tiro de sigaretta, mentre Sagitta nun guarda. E dammene ’n’artra de frodo, che me la fumo quanno tutti dormono…”. Ancora domenica mattina, in rianimazione, con la compagna di sempre Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna, il manager Alessandro Fioroni, parlava di lavoro.
Del film in uscita su Babbo Natale con Giallini. Della stagione appena chiusa al Globe, unico grande teatro aperto in Italia (“Chissenefrega dei soldi, io i fondi del Fus non me li intasco, facciamo lavorare ’sti ragazzi prima che richiudano tutto”). Dei progetti futuri: rivoleva un teatro tutto per sé, dopo lo scippo del Brancaccio a opera di Costanzo&C., progettava con Renato Zero un nuovo teatro tenda come quello degli anni 70-80 (“Renato fa i concerti e io metto in scena tutto Molière, sto convincendo Corrado Guzzanti e Verdone ad alternarsi con me, tu mi fai il teatro-giornale e magari rimetto su la scuola di teatro che la Regione mi ha chiuso”; seguiva imitazione irresistibile del funzionario dell’assessorato che gli comunica, a gesti e a grugniti, le ragioni dello stop). Un anno fa viene a vedere Ball Fiction e alla fine, in camerino, si accorge di aver perso il portafogli. La nostra Amanda si precipita in sala e lo trova sulla sua poltrona. “Vedi, Gigi, i nostri amici sono tutti onesti!”. “Ma va, penzano che nun ci ho ’na lira!”.
All’ultima festa del Fatto, in streaming dal giardino della redazione, doveva venire alla serata di apertura: “Magari chiacchieriamo di come nascono le barzellette, che molti considerano umorismo di serie B perché non le sanno raccontare, non hanno i tempi, la faccia. Il mistero umano di come scocca la scintilla della risata è un tema affascinante. Potrebbe nascerne uno spettacolo, ho letto anche dei saggi molto pensosi…”. Perché era coltissimo, come lo sono quelli che lo dissimulano e si fanno beffe dei colleghi engagé (“Natale in casa Latella”) o “di ricerca (“‘Sospendete immediatamente le ricerche!’, diceva Gassman quando li vedeva”). Ma stava già male (“Famo ’st’altr’anno”). Un paio di mesi fa feci una battuta in un pezzo sugli orrori di stampa: “Se tornasse Il Male con un falso giornalone dal titolo ‘Arrestato Gigi Proietti: è il capo dell’Isis’, tutti commenterebbero: embè?”. Ed ecco puntuale il suo sms: “Salam da Rebibbia! Speravo di passare inosservato, poi invece arriva Travaglio. E scusa: il turbante non lo trovo, acc…”. Lo inseguivamo da due settimane per l’intervista degli 80 anni. Silenzio. Poi, sabato sera, l’sms: “Caro Marco, purtroppo al momento non sono in grande forma e l’intervista temo non si possa fare, poi ti racconterò. Ci sentiamo con calma. Ti abbraccio”. Solo a lui poteva venire in mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre. Che per un comico non è niente male. Anche Shakespeare ci era riuscito, ma il 23 aprile, non il giorno dei morti. Si dice che far ridere sia impresa molto più difficile che far piangere. E Gigi ne era la prova vivente. Ma ieri, con quell’uscita di scena, è riuscito nelle due imprese insieme.

Terzani e la lentezza. Le notizie “bollite” sono le più vere: vince il giornalista che arriva ultimo

Ma la verità esiste? Non lo so. Le notizie strisciano su un sentiero spesso non chiaro. Il segreto di chi scrive, è quello di aspirare alla verità, a cui dovrebbero tendere tutti gli uomini di buona volontà, ma la verità si svela nel tempo, e non sempre.

Tra le mani ho l’ultimo libro di Tiziano Terzani: Un indovino mi disse. L’antefatto è miracoloso. Nella sua professione di corrispondente dall’Oriente, nel 1963, Terzani incontra un veggente a Hong Kong che gli dice che trent’anni dopo avrebbe dovuto evitare gli aerei. Allo scoccare del 1993 Terzani decide di non volare per un anno. Difficile per un cronista che racconta dall’Asia. Fatto sta che una troupe di giornalisti, di cui avrebbe dovuto far parte, muore in una trasferta in elicottero. L’indovino gli disse il giusto. Ma il miracolo non è questo.

Terzani si accorge che nel giungere sul luogo di una guerra, un colpo di stato, una rivolta, un attentato, giorni, settimane dopo il fatto accaduto, le notizie si possono rivelare piene di memorie, di storie vissute e meditate, di effetti, che, e questo è il vero miracolo, si avvicinano alla verità molto più che la testimonianza immediata, o allo stare sulla notizia nel momento in cui avviene.

Le istantanee scattate sul luogo del disastro hanno un effetto irrinunciabile, ma la descrizione dei fatti, della cronaca, ha bisogno di tempo e fatica, di cura, e di ripensamenti. Terzani, viaggiando su treni, traghetti, muli e lambrette, si dà il tempo di vivere per raccontare e non collezionare racconti per vivere.

S’accorge che arriva per ultimo, quando tutto è finito, ma s’avvicina per primo alla verità di un evento; non solo, si immunizza dal contagio delle opinioni, dall’approssimazione, perché tutto è falsificabile. Bel mestiere, difficile, quello del giornalista.

 

Moravia va in America. Quell’aura imbronciata e tagliente (come una star) che ammutoliva tutti

Mi è capitato abbastanza spesso, durante il mio periodo di vita americana, di essere con Moravia (e, a quel tempo sempre con Dacia Maraini, che cominciava a essere conosciuta come “la più giovane scrittrice italiana tradotta a New York”).

Ricordo tre occasioni tipiche, tutte quasi inevitabili, ogni volta che si sapeva della presenza negli Usa dello scrittore italiano più noto nel mondo. La prima era la lezione universitaria nell’area di New York, quasi sempre alla Columbia University, ma con insistenti inviti anche da Princeton o Yale. La seconda era l’invito in case private, di solito aperte alle grande occasioni politiche, ma decise ad avere Moravia per il loro pubblico di amici e frequentatori (Bernstein, Jean Stein). La terza era intorno a una tavola di gruppi più limitati (professionali e competenti).

Il pubblico dello scrittore aumentava di anno in anno, e nelle università diventava un evento. Cresceva l’attenzione su Moravia, proprio mentre compariva in luoghi particolarmente orgogliosi di se stessi e dei propri simboli. Le visite di Moravia avrebbero dovuto essere un fatto interessante ma non straordinario: lui, però, portava come un’uniforme, un’autorevolezza, sentita e riconosciuta come un titolo che non aveva. Ricordo, al suo ingresso, l’abbassarsi delle voci, che diventavano brusio. Incuriosiva questa forma di conoscenza-riconoscenza; perché a New York Moravia era tradotto, bene e sempre, ma non era una star. Eppure aveva quell’aura, percepita dagli intenditori sociali del riunirsi per uno scrittore, che non derivava solo dal trionfo letterario: il suo valore di scrittore era fermamente riconosciuto dalle fonti che contano (che contavano allora) ma importava molto più quel che aveva da dire su America e Italia un uomo imbronciato e deciso come Moravia (frasi brevi, prive di sfumature) che parla mentre sta attraversando la Storia.

Ciò che scrivo si deve solo in parte alla mia esperienza di testimone presente. Molto di più è frutto della lettura di un libro curato da Alessandra Grandelis, esploratrice della vita e delle opere di Alberto Moravia, dotata di una scrittura che trattiene il lettore (L’America degli estremi, un reportage lungo trent’anni, 1936-1969). In questo volume c’è tutto il Moravia che ho conosciuto negli anni ’50-’60, e mi rendo conto che la curatrice gli restituisce alcuni tratti che in librerie e archivi erano andati perduti.

Per esempio il suo rapporto con le immagini: come critico cinematografico era tra i più acuti; il legame con la pittura italiana della scuola romana (Mafai, Raphael, Scipione, Trombadori); ovvero un andare al punto (un cielo è un cielo, un tetto è un tetto) senza allargare il senso delle cose e senza il bello non necessario. La frase di Moravia utilizzata nel libro come sigla di riconoscimento è di gran lunga la più limpida, la più adatta a identificare e ritrovare il suo autore: “L’aspetto più importante dell’America è il suo futuro”.

 

Visco contro Patuelli ma a perderci siamo tutti noi

Agli storici che vorranno studiare l’inadeguatezza della classe dirigente italiana consigliamo di ripercorre il dibattito alla Giornata Mondiale del Risparmio 2020 tenutasi qualche giorno fa. La pandemia avanza, ma le banche smaniano per ricominciare a distribuire i dividendi bloccati dalla Bce. Alle doglianze del presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, il governatore Ignazio Visco ha replicato che “al termine dell’emergenza le banche dovranno farsi trovare preparate per finanziare la ripresa; va quindi mantenuta particolare attenzione tanto alla loro capacità patrimoniale quanto alla qualità del credito erogato”. Tradotto: niente dividendi e iniziate la pulizia dei bilanci. L’equazione nasconde lo scontro tra due visioni miopi che costeranno care a milioni di clienti-debitori.

Le banche italiane ed europee vogliono la fine del blocco imposto dalla vigilanza guidata dall’italiano Andrea Enria, che ha negato agli azionisti qualcosa come 35 miliardi, con l’obiettivo di convogliare risorse in prestiti all’economia. Al contempo, però, la vigilanza non ha intenzione di rinviare le nuove, rigide, regole sui crediti deteriorati (Npl): il cosiddetto “calendar provisioning”, che impone alle banche di svalutarli a tappe forzate. L’ad di Mediobanca, Alberto Nagel, l’ha definito “una bomba a orologeria”.

Visco ha risposto a Patuelli che un rinvio è impensabile. È lo stesso Visco che, ad aprile 2018, si scagliava contro le regole, che oggi difende, volute dal predecessore di Enria, la francese Daniele Nouy: “Costringere gli intermediari a cedere queste attività troppo in fretta e a prezzi troppo bassi – spiegò in una lectio magistralis a Tor Vergata – potrebbe rappresentare una fonte di instabilità e darebbe luogo a un indesiderato trasferimento di valore dalle banche agli acquirenti”. Se le banche si dissanguano, i prestiti all’economia non cresceranno e un esercito di debitori viene gettato in pasto ai fondi specializzati, ma per loro Visco non spende mai una parola. Dopo la crisi del 2008, le banche restarono a galla solo piazzando obbligazioni alle famiglie clienti (Etruria insegna), nella disattenzione di Visco. Quando arriverà il nuovo disastro dirà che lui l’aveva detto.