Interrogazione bendata e cinema chiusi: pazze cronache di tempi virali

 

BOCCIATI

Per niente Scafata. Al liceo classico Renato Caccioppoli di Scafati, in provincia di Salerno, dove la didattica si svolge a distanza come in tutte le scuole della Campania, una prof di latino e greco ha invitato (da remoto) la prima della classe a bendarsi prima di iniziare l’interrogazione. Voleva farle provare un’esperienza omerica? No, voleva dimostrare alla classe che anche senza sbirciare gli appunti si può prendere un voto alto. La foto della bendata con mascherina ha fatto il giro dei social network (com’era ovvio). Ma benedetta professoressa, non lo sa che da che esiste la scuola, esiste l’arte di arrangiarsi? Vabbè che secondo Eschilo s’impara soffrendo, ma così un po’ troppo…

Non sono tempo libero. I lavoratori dello spettacolo, al grido di “Non siamo tempo libero, siamo lavoro” protestano contro la decisione del governo di chiudere teatri e cinema in questa fase, per il contenimento dell’epidemia. E hanno ragione. Le sale cinematografiche e i teatri hanno scrupolosamente applicato protocolli severi con distanziamenti e obbligo di mascherine durante la permanenza in sala. L’Agis ha commissionato un’indagine che dimostra la sicurezza di teatri e cinema. Sono stati monitorati 347.262 spettatori che hanno preso parte a spettacoli di lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze ad evento, dal giorno della riapertura dopo il lockdown (il 15 giugno) fino al 3 ottobre. Il risultato? Un solo caso di contagio segnalato dalle Aziende sanitarie territoriali. Ripensateci: per i lavoratori di un settore già in ginocchio e anche per noi, che mai come ora abbiamo bisogno di nutrire lo spirito in questi tempi allarmanti e virali.

 

PROMOSSI

Tu essenzialmente tu, Rino. Giovedì Rino Gaetano, scomparso nell’81 in un incidente stradale, avrebbe compiuto settant’anni. Per l’occasione debutta sulle piattaforme digitali il Q Concert realizzato assieme a Riccardo Cocciante e ai New Perigeo. Su Amazon Music poi è disponibile l’intero catalogo musicale di Rino Gaetano, che non ci stanchiamo mai di ascoltare dall’inizio alla fine: non smette mai di dire cose nuove.

Fatti non pizzette. Leonardo Bocci, attore che durante il primo lockdown ci aveva tenuto compagnia con divertenti video da quarantena (Roma nord vs Roma sud), ha avuto una bella idea per aiutare i ristoratori, improvvisandosi ragazzo delle consegne: i clienti chiamano il locale, ordinano e alla porta arriva lui. “Ho deciso di mettere in atto qualcosa di concreto per aiutare chi è in difficoltà. A partire dai ristoratori”. Al mattino posta una storia su Instagram per promuovere il ristorante per cui la sera effettuerà le consegne. “Ho iniziato da quelli che conosco meglio ma vorrei arrivare anche ad altre realtà, magari più piccole e periferiche. I locali di quartiere hanno bisogno del supporto di tutti”. L’hastag è molto eloquente: #tantoconpoco. Però bisognava pensarci.

 

NON CLASSIFICATI

Sanremo non sarà Sanremo. “Noi adesso non pensiamo al pubblico, ma pensiamo di fare il Festival di Sanremo dal 2 al 6 marzo. A gennaio capiremo in che condizioni siamo e valuteremo in quel momento la situazione reale e definitiva per la presenza del pubblico. Questo deve essere il Sanremo della rinascita”. Così dice Amadeus, direttore artistico del Festival, spiegando come prosegue il lavoro in vista dell’edizione 2021. Parliamoci chiaro: Sanremo senza assembramenti è un controsenso. E all’Ariston non si può fare. Dal pubblico in teatro passando per le strade intasate e le due sale stampa dove si sta come sardine, il Festival “è” la folla che si accalca per cinque giorni.

 

Angela Merkel fa il patto col virus, e Cr7 scende in campo con i virologi

Goal. Nello spettacolo d’arte varia a cui ci siamo abituati nel corso di questa lunga pandemia, in cui ognuno è autorizzato a dire qualsiasi cosa gli passi per la testa (con la pretesa spesso di avere ragione), non desta particolare scalpore l’ultima uscita di Cristiano Ronaldo, che definisce il tampone una cazzata. A difesa del campione c’è da dire che l’impossibilità di giocare il big match di Champions contro il Barcellona a causa di una carica virale bassa, ma rilevabile, avrebbe fatto imprecare chiunque, soprattutto se, come ha tenuto a specificare lui stesso nel post, ci si sente bene e in salute. Oltretutto il corpo di Ronaldo è un’impresa che fattura milioni di euro e il titolare ha tutto l’interesse a mostrare come “l’azienda” sia in perfetta salute. Stupisce, invece, come alcuni esperti che con le loro parole hanno già contribuito a creare un clima di leggerezza generale (trovandosi poi costretti a rettificare), abbiano immediatamente dato manforte al calciatore e insistano nel rilasciare dichiarazioni che strizzano l’occhio a coloro che desiderano mettere in discussione le indicazioni del governo. Il commento più spiritoso ed efficace allo stesso tempo è di Roberto Burioni su Twitter: “Do il benvenuto nella nutrita schiera dei virologi al collega Cristiano Ronaldo. Sarà utilissimo nella prossima partitella contro gli oculisti”. Amen.

Voto 5

 

La responsabilità del compromesso. “La situazione è molto seria. Dobbiamo agire subito per prevenire un’emergenza nazionale. Le aziende verranno sostenute con misure straordinarie perché una delle nostre priorità è che l’economia tenga”: Angela Merkel ha annunciato così il lockdown “light” che inizierà in Germania il 2 novembre. Mentre molti Paesi europei, compreso il nostro, stanno approvando misure più o meno drastiche per arginare la diffusione dei contagi (con le polemiche che inevitabilmente ne conseguono), la Cancelliera parte da una considerazione fondamentale per motivare ai cittadini tedeschi il perché di determinate decisioni: “Abbiamo fatto delle scelte politiche”. Ecco il punto. In Germania da lunedì prossimo chiuderanno ristoranti, birrerie, bar (potranno offrire soltanto piatti da asporto), discoteche, locali notturni, teatri, cinema, sale concerti, piscine e palestre. L’obiettivo? Mantenere aperte le scuole e gli asili e preservare il più possibile l’economia del Paese. Le spasmodiche discussioni su cosa sia più sicuro o più auspicabile fare e cosa vada inevitabilmente sacrificato, si fermano davanti alla determinazione della politica di privilegiare una strada rispetto all’altra. Quello che abbiamo imparato in questi mesi è che la convivenza col virus consiste in un compromesso, più o meno vantaggioso a seconda della curva dei contagi: la scienza può fornire indicazioni, può mettere in guardia sulle attività a rischio, può fare da notaio all’operazione, ma la stipula del contratto e i termini dell’accordo spettano interamente alla politica. Se si sfugge da questa premessa, ogni spiegazione risulta inevitabilmente irrazionale e priva di senso.

Voto 8

 

Davide e Golia Pirlo, Stroppa, Juric: la sfida impari tra gli chef della Serie A

Immaginate di essere a Masterchef dove hanno organizzato una sfida tra tre aspiranti cuochi per vedere chi metterà in tavola, dall’antipasto al dessert, la cena migliore. Con la differenza che al cuoco A, per fare spesa, viene data una somma di 1.000 euro, al cuoco B una somma di 50 euro (venti volte più bassa) e al cuoco C una cifra di 20 euro (cinquanta volte più bassa). E adesso immaginate che a fine tenzone il verdetto di Cannavacciuolo & company sia di parità: nel senso che una cena valeva l’altra, livello identico, nessuna sostanziale differenza di qualità tra i piatti assaporati. Domanda: a dispetto della parità, qual è il cuoco che ai vostri occhi uscirebbe dal confronto con le ossa rotte? Elementare Watson: il cuoco A, quello che con 1.000 euro da spendere, contro i 50 e i 20 dei colleghi, non è riuscito a preparare piatti degni di tanto ricco appannaggio.

Vi starete dicendo: che ci azzecca Masterchef col pallone? C’entra. Perchè il Cies, l’osservatorio del calcio europeo con sede a Neuchatel (Svizzera) ha appena reso noto uno studio sui soldi spesi dai club dei 5 maggiori campionati europei per acquistare i giocatori attualmente in organico.

Ebbene, detto che a vestire i panni del ricco Epulone d’Europa è il Manchester City che ha in rosa giocatori costati 1.036 milioni, seguito da Paris SG (888), Manchester United (844), Barcellona (826) e Chelsea (763), mentre il primo club italiano è la Juventus, ottava con 594 milioni, la prima cosa che balza agli occhi – venendo a noi – è l’incredibile dislivello tra le dotazioni dei 20 club di serie A: dove si va dai 594 milioni spesi per la sua rosa dalla Juventus, che precede il Napoli (467 milioni) e poi Inter (439), Roma (303), Milan (255) e Lazio (160), con l’Atalanta nona con 136 milioni, ai miseri 12 milioni spesi dal Crotone passando per i 26 del Verona quart’ultimo. Già: il Crotone e l’Hellas Verona. Alzi la mano chi non ricorda le loro partite, recentissime, giocate contro la Juventus.

Due settimane fa si giocò Crotone-Juventus e il risultato fu di 1-1. E una settimana fa fu il turno di Juventus-Verona: e il risultato, ancora, fu di 1-1. Direte: okay, ma nel calcio a volte capita, pali, traverse e la piccola squadra che in modo rocambolesco salva la ghirba. E invece no. Crotone-Juventus è ancora negli occhi di tutti e tutti ricordano il Crotone giocare meglio della Juve per buona parte del match, con Messias (brasiliano costato 100 mila euro) a dettar legge ovunque; e ancor più fresco è il ricordo di Juventus-Verona, con il Verona in grado per un’ora di annichilire la Juve andando in sofferenza solo nel finale dopo l’infortunio di Favilli fresco di gol dell’1-0. Insomma: anche se lo chef Pirlo aveva in mano un organico di giocatori costati 594 milioni, lo chef Stroppa, con soli 12 milioni (50 volte meno) ha saputo scodellare un piatto sopraffino del tutto all’altezza di quello di Madama; e lo stesso dicasi per lo chef Juric, che con giocatori costati in tutto 26 milioni (23 volte meno degli juventini) è riuscito a imbandire una tavola da mille e una notte.

Dimenticavamo: in Spezia-Juventus, giocatasi ieri, è andato in scena lo scontro tra i quasi 600 milioni di Andrea Pirlo e i 12 (esattamente come il Crotone) di Vincenzo Italiano, allenatore dei liguri: ancora l’eterna sfida di Davide contro Golia. Forse, il risultato andrebbe letto inforcando queste lenti. Siete d’accordo?

 

’Ndrangheta. Il boato italiano per la cronista coraggiosa: “Il suono della paura è il silenzio”

Il video che arriva da un amico sembra uno dei tanti che girano in rete. Di quelli che chiedono attenzione per questo o quel tema civile mentre il Covid ci divora la testa. Lo apro e c’è come sfondo un grande murale che mi ricorda qualcuno. Persone disposte davanti a semicerchio applaudono. E una giovane donna, forse una ragazza, parla in piedi. Sola, un microfono in mano, davanti a tutti. Mi cattura il suo tono. Semplice, serio e leggero mentre dice cose drammatiche. Racconta e denuncia la ’ndrangheta di Buccinasco, la Platì del Nord nell’hinterland sudovest di Milano. Un’infilata di clan calabresi, i Papalia, i Sergi, i Barbaro e altri ancora, spesso ben trattati dai magistrati giudicanti, specie a Roma. Non capisco se sta facendo nomi e raccontando misfatti in un luogo neutro, lontano dalle famiglie che chiama in causa. Scruto e ascolto meglio. Sta parlando proprio a Buccinasco, davanti a un murale dedicato a Giancarlo Siani, uno dei grandi simboli del giornalismo antimafia. Senza saperlo tiene una splendida lezione di vita quotidiana, diffonde una brezza di libertà. Per quanto partecipi a questo genere di manifestazioni da decenni difficilmente ho sentito altrettanta forza di spirito. Le parole procedono. Si capisce che vive in quelle vie, è nata nelle case popolari.

Racconta delle minacce ricevute da Rocco Papalia, che ci ha tenuto a dirle personalmente che sa dove abita, gliel’ha pure mostrato con il dito. O della signora intrisa di clan che le ha detto che se si toglieva gli occhiali le sputava in un occhio. Dipinge con naturalezza il potere ’ndranghetista stupito e infuriato che qualcuno ne ricordi gli scempi e la prepotenza, come se su quel territorio non si fosse commerciata droga a quintali, non si fossero fatti sequestri di persona in serie, non si fosse riempita la terra di rifiuti indicibili.

Mentre la ragazza parla e spiega, la voce si increspa pochissime volte. Forse per vincere l’emozione si concede due invocazioni romanesche verso l’immagine di Giancarlo. Chi, come me, non la conosce impara che si tratta di una giornalista della generazione pagata 5-10 euro al pezzo, che – per riprendere la famosa differenza del film Fortapàsc – vuole fare la giornalista-giornalista e non la giornalista-impiegata. Alla fine chiede al pubblico radunato a semicerchio se davvero voglia sapere quale è “il rumore della paura”. “Il rumore della paura è il silenzio”, conclude amara. Nessun silenzio, dunque. I luoghi come Buccinasco cambiano grazie a questi giovani che non si piegano. Che non conoscono la ricchezza dei trafficanti, se è vero, come vengo poi a sapere, che questa giovane coraggiosa ha fatto l’università (storia dell’arte) adattandosi già dai 16 anni ai lavori più umili. Giovani che dei boss hanno più schifo che paura, e per questo non tacciono.

Come le mie laureande (quante donne ribelli…) che fanno le tesi sulla mafia a Buccinasco, a Fino Mornasco, a Cantù, a Sedriano. Giovani donne che valgono cento volte le matrone abituate a fare le mogli e le figlie dei boss. E che hanno il diritto di sentirsi dietro non il silenzio ma l’Italia, a partire dalla stampa, come è stato per questa giornalista, di nome Francesca Grillo e collaboratrice precaria del Giorno. Cesare Giuzzi, il presidente del Gruppo cronisti lombardi, l’ha difesa con una fermezza (e anche un disprezzo verso i mafiosi) che in altri contesti è mancato.

Ora ho solo una preghiera: mi è talmente piaciuta la freschezza combattiva di Francesca che non vorrei mai sentirla definire come la giornalista minacciata da Rocco Papalia. Diciamo invece che è una brava giornalista, che è il più bel complimento. E che noi vogliamo garantirle di essere sempre più brava, che è l’aiuto maggiore che le possiamo dare. Con i “rischi” e con le “scorte” abbiamo già guastato troppe persone. Lei no, per favore.

 

Ritmo lento. “Emilia Romagna, altro che sanità efficiente: aspetto ancora l’esito del tampone”

 

“Ho un bar in un liceo: chiuso 6 mesi, ristori solo per 120 giorni”

Ciao Selvaggia. Sono il gestore di un bar all’interno di un liceo. Puoi immaginare la situazione? Sei mesi di chiusura con gli stessi aiuti di chi ne ha chiusi solo due. Ripartenza con regole che, di fatto, non ti fanno lavorare e ora la didattica a distanza per tutti. Stiamo provando a bussare a tutte le porte ma non ci ascolta nessuno. Ieri abbiamo mandato una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a nome di molti gestori, ma dubito che possa servire. Adesso parlano di ristori ma noi, come codice Ateco, siamo nella categoria “bar” e ci daranno una miseria, a fronte di un incasso pari a zero dopo sei mesi di chiusura totale. Un’odissea iniziata il 20 febbraio, il giorno di chiusura delle scuole. So che tuo figlio frequenta un istituto superiore e se c’è un bar interno, chiedi a lui, ti confermerà che sono chiusi. Noi siamo disperati.

Poma Taizia

Cara Taizia, purtroppo siamo su una nave che imbarca acqua, e ogni volta che tappi un buco se ne crea un altro. Le categorie a cui pensare sono infinite e alla fine, come con il virus, anche all’economia sfugge sempre qualcosa.

 

“Risultati dei test in ritardo. Ma in tv va sempre tutto bene”

Ciao Selvaggia, ti scrivo per illustrarti la situazione qui in provincia di Modena. Noi dell’Emilia Romagna dovremmo avere uno dei sistemi sanitari più efficiente d’Italia. Mio padre (65 anni, in ottima salute) mostra sintomi influenzali sabato sera. Quando peggiora, il medico di base chiede il tampone: è martedì 20 ottobre. Ma mio padre continua ad aggravarsi. Giovedì mattina l’unità speciale viene a visitarlo a casa, ma non sappiamo ancora l’esito del tampone. Le dottoresse dell’unità speciale, gentili e premurose, devono fare almeno 4 telefonate per sapere l’esito di questo benedetto test: positivo, nonostante segua ogni precauzione. Ricoverato in giornata, arriva al policlinico di Modena e trova la disorganizzazione totale. Mi chiede persino di portargli delle bottiglie d’acqua, perché “è come oro”. Questo non per colpa di medici o infermieri, che si fanno un mazzo enorme. Conosco papà: ogni problema di salute lo affronta col coraggio del leone del mago di Oz, cioè poco. Penso quindi che abbia esagerato, nel descrivere l’ospedale. Ma proseguiamo con la storia. Mentre è attaccato all’ossigeno, per due giorni non abbiamo notizie da nessuno, e noi passiamo 48 ore d’inferno. Il sabato ci chiama il medico e da quel momento, è vero, riceviamo aggiornamenti quotidiani sulle condizioni di mio padre. Lui migliora di giorno in giorno, e sembra verrà dimesso presto. Tutto ok quindi?! Invece no.

Sempre Sabato, il 24 ottobre, mi telefona l’Asl comunicando che il tampone fatto da mio padre 4 giorni prima è risultato positivo. E grazie al… è ricoverato in ospedale da 2 giorni. Giustamente, da quel momento anche noi conviventi asintomatici siamo in quarantena obbligatoria. L’Asl ci dice che dovremo fare 2 tamponi (il lunedì successivo, il 26 ottobre, e un altro forse il 2 novembre) e che ci chiamerà al massimo ogni 48 ore per verificare la presenza dei sintomi Covid. Ribadisco: tutti gli operatori con cui ho parlato sono sempre stati gentili e comprensivi, e non era scontato.

Per evitare la fila, mi presento al “drive through” per il tampone alle 6 del mattino. Test eseguito senza problemi. Benissimo fino a qui. Problema: ad oggi non è mai arrivato l’esito del tampone e nessuno ha chiamato per sapere dei sintomi. Abbiamo telefonato a tutti i contatti indicati, ma sono irraggiungibili e nessuno sa niente. Neppure il medico di base, che non sa nemmeno quando potremmo fare il secondo tampone per uscire dalla quarantena. Di questo passo, la settimana prima di Natale l’Asl mi manderà un’email per consentirmi di tornare in ufficio in tempo per gli auguri. Mi chiedo: chissà quante altre persone attendono ancora l’esito del test, dopo 4-5 giorni o anche da più tempo.

Quindi, i numeri che sbandierano in televisione li sorteggiano? Ho visto una conferenza dove un commissario annunciava fino a 300 mila tamponi al giorno: ma non sarebbe meglio dare anche i risultati? Con tutta l’efficienza che millantano sui i mezzi di comunicazione, perché sono così lenti? La cosa più importante è tutelare la salute e per far tornare alla svelta mio padre a casa, farei 100 anni di quarantena. Ma dover stare ai domiciliari e sentirmi come Provenzano, quando usciva dalla sua tana solo per andare a buttare il pattume, perché nessuno si è fatto vivo è una situazione surreale. Soprattutto perché ad ascoltare i telegiornali (e le dichiarazioni del governo), sembra che nessuno abbia sbagliato nulla, e che i risultati dei tamponi siano sempre pronti in 24 ore.

Ringrazio ancora tutti i medici e gli infermieri perché nonostante la fatica e il lavoro estenuante continuano a essere di una disponibilità e di una pazienza infinita. E meno male che siamo in Emilia che è una Regione con un sistema sanitario tra i più efficienti.

Federico

Con tutte le storie che ho sentito sulla Lombardia la tua, Federico, sembra acqua fresca al confronto. E questo, considerando che stiamo parlando di una famiglia abbandonata a se stessa, è inquietante.

 

Bergoglio. La Chiesa corrotta è “Casta meretrix”? Ma Sant’Ambrogio intendeva dire il contrario

Spicca nella settimana che si chiude una lunga intervista a papa Francesco. Sorprendente non tanto per i contenuti quanto per la scelta dell’agenzia di stampa cui affidare le proprie considerazioni: l’Adnkronos di Pippo Marra vicina ai clericali di destra che contestano il riformismo francescano. In ogni caso il colpo giornalistico c’è e a farlo è stato il direttore dell’agenzia Gian Marco Chiocci, già Giornale e Tempo.

Tra i temi affrontati anche quello della lotta alla corruzione in Vaticano, uno dei punti cardine del programma del pontefice e frenato in questi anni da nuovi scandali, come il Vatileaks 2 e il più recente affaire Becciu. Per spiegare il senso anche teologico del male affaristico tra cardinali e monsignori, Francesco ricorre a una celebre definizione di Sant’Ambrogio, Padre della Chiesa e vescovo di Milano nel quarto secolo: “La Chiesa è stata sempre una casta meretrix, una peccatrice. Diciamo meglio, una parte di essa, perché la stragrande maggioranza va in senso contrario, persegue la giusta via. Però è innegabile che personaggi di vario tipo e spessore, ecclesiastici e tanti finti amici laici della Chiesa, hanno contribuito a dissipare il patrimonio mobile e immobile non del Vaticano ma dei fedeli”.

Casta meretrix, dunque. Ma senza la “e” congiunzione come invece fa intendere il papa. In questa chiave: Chiesa casta e meretrice, quindi peccatrice. In realtà la definizione ambrosiana, contenuta nel Commento al Vangelo di San Luca, escluderebbe la possibilità di una Chiesa peccatrice. Una della spiegazioni più chiare e complete la espose un decennio fa il teologo Inos Biffi sull’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede: “L’espressione casta meretrix – osserva ancora Giacomo Biffi, al quale dobbiamo finalmente l’esegesi esatta del testo di Sant’Ambrogio – lungi dall’alludere a qualche cosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare – non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo – la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze a Cristo suo sposo (casta) quanto nella volontà di raggiungere tutti per portare tutti a salvezza (meretrix)”.

In sintesi: “Della meretrice la Chiesa imita, quindi, non il peccato, ma la disponibilità, solo che è una ‘casta’ disponibilità, cioè una larghezza di grazia”. L’esegesi citata del cardinale Giacomo Biffi risale al 1996 e servì soprattutto a confutare l’interpretazione progressista della definizione di Sant’Ambrogio che sembra alla base delle ultime parole di Francesco. Quella che fece scrivere nel 1969 ad Hans Küng – il teologo condannato dal Vaticano nell’era di Giovanni Paolo II – che la Chiesa è “allo stesso tempo santa e peccatrice”.

A ispirare Sant’Ambrogio fu la figura biblica di Rahab, la prostituta di Gerico che nel libro di Giosuè accolse in casa due esploratori israeliti salvando loro la vita: “Lei (Rahab, ndr) che è vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, amante pubblica, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda… Meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per le attrattive dell’amore senza la contaminazione della colpa”. Il contrario di una peccatrice.

 

Toti, i vecchietti “improduttivi” e quel qualcosa di tagliato male

“Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”.

Ha scritto così, ieri, su Twitter il “governatore” della Liguria Giovanni Toti. Giusto il tempo di essere insultato da tutta la parte produttiva e improduttiva del Paese, per poi tentare di riparare come segue: “La frase è stata estrapolata da un concetto più ampio e mal interpretata a causa del taglio erroneo su Twitter di un mio post”.

Che il tweet di Giovanni Toti fosse l’inevitabile conseguenza di un qualcosa tagliato male, in effetti, era un sospetto che avevamo in tanti. Ma anche leggendo il testo integrale su Facebook il concetto non cambia molto e gli anziani sono definiti “persone spesso in pensione, che non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. Ora, ci sarebbero molte cose da dire a Toti. La prima è che potrebbe fare lo sforzo di ricordarsi che governa la Liguria, seconda regione più anziana d’Europa. Ergo, l’ha senz’altro recentemente ri-votato una larga fetta di inutili che fino a un mese fa erano utili al voto. Potrebbe poi rammentare che un inutile vecchietto di 84 anni, per giunta sopravvissuto al Covid, è non solo colui che l’ha creato professionalmente in Mediaset e politicamente in Forza Italia, ma anche chi paga lo stipendio a sua moglie, direttore di Video News. Infine, fossi in Toti, io in Liguria mi preoccuperei dei più giovani. Penserei per esempio a isolare domiciliarmente il cinquantenne Matteo Bassetti, così da impedirgli di dire di nuovo: “Questo è un paese di catastrofisti ma i numeri parlano chiaro: l’emergenza ospedaliera è finita” e di farsi selfie in ospedale con la mascherina al contrario. Intanto, nella Rsa Santa Caterina di Varazze, in provincia di Savona, sono stati individuati 81 ospiti positivi sui 100. Tutti, per fortuna, improduttivi. Curioso, infine, che un mese fa Toti avesse firmato il manifesto Pro-vita assieme all’Associazione Nonni 2.0 per il diritto alla morte naturale. Nonni che ora, immagino, si staranno produttivamente grattando.

Omosessuali si nasce: lo dice una ricerca sul cervello

Le regole dell’attrazione seguono ragioni biologiche. Vale per le relazioni etero-affettive come per quelle omo-affettive. Se ne convinca finalmente chi per decenni si è nutrito e ha nutrito i vari pregiudizi: padri assenti, madri iperprotettive; teorie che tuttavia hanno fatto la fortuna di menti brillanti come Freud (in Tre saggi sulla teoria sessuale l’orientamento sessuale è un tratto psichico indipendente dalla volontà, ma aggiunge che una relazione squilibrata con i genitori produce la non eterosessualità), di cantanti trascurabili come Povia (autore della dimenticabilissima Luca era gay) o di politici mediocri che pastrocchiano tra Dio e natura. Ebbene, a porre una parola scientifica sulla questione giunge il neuroendocrinologo Jacques Balthazart nel denso ed esauriente Biologia dell’omosessualità (Bollati Boringhieri, traduzione di Giuliana Olivero, pp. 336, euro 26). Giunta alla fine di un lungo studio, la mirabile sintesi del professore dell’Università di Liegi indaga sull’origine biologica dell’attrazione tra persone dello stesso sesso. Del resto, identità e orientamento sessuale sono incisi nel cervello dalla nascita. Da cosa dipenderebbero? Di certo dai geni, ma “ciò non basta”, scrive Balthazart, che aggiunge l’esposizione prenatale al testosterone, per citarne una, responsabile dello sviluppo di un nucleo nell’area preottica del cervello, l’Inah3, che determina la risposta sessuale dell’uomo e della donna… e dei montoni (già, nei montoni è presente l’orientamento omosessuale). Dunque, la tesi di Balthazart dei fenotipi sessuali innati è scientificamente la più plausibile. In sintesi: omosessuali si nasce e non si diventa. Un’ulteriore prova: se i gay non si “estinguono” solo perché non procreano e anzi sopravvivono, è evidente che non sono un “difetto” della natura ma sono naturalmente e altrimenti utili alla sopravvivenza della specie.

Alla scoperta dell’altro: Giovanna, canto e politica

Il contatto. Quello che non ti dà neanche il tempo di pensare. La stretta dell’altro, l’immersione nel suo mondo fatto di occhi e rughe, di corpi potenti e solidi che sono casse di risonanza, di spicchi d’ombra sulla terra rossa, tra gli ulivi. Quel contatto che per noi, obbligati come siamo a salvarci esercitando la distanza, è solo sapore amaro sul palato, Giovanna Marini se l’è preso tutto: quando era ancora salvezza e non contagio. La musicista, che ha svolto un lavoro da antropologa ed etnomusicologa, ha portato avanti una ricerca indefessa sul campo. Sapeva che solo da quella vicinanza avrebbe preso corpo la sua testimonianza. E non è carattere che si potesse accontentare delle cose riferite, perché un conto è il sentito dire, un altro la tradizione orale. Accettò un consiglio, questo sì: Giovanni Bosio le indicò il Salento come terra dove avrebbe potuto trovare ancora intatto e fulgido quel patrimonio di canti contadini che avrebbe potuto studiare e rielaborare. E così fece.

Su quel rapporto struggente con la Puglia si concentra il documentario di Giandomenico Curi A sud della musica – La voce libera di Giovanna Marini (Meditfilm, proiettato in alcune sale prima del lockdown, riprogrammato per questi giorni e poi nuovamente costretto alla sospensione). A partire dalla scelta di salire su un’auto che le sembrava fin troppo grande e andare, tra il 1969 e il 1971 a scoprire le voci di quella “cultura che è sempre stata diseredata”. Da quel viaggio meridionale tornò scrivendo “prima cercavo i suoni, adesso cerco le persone”. Quanto quelle persone fossero l’unica fonte tangibile di realtà, tanto da rendere il registratore mero strumento da promemoria, lo spiega perfettamente una delle molte voci del documentario, Ignazio Macchiarella (autore de Il canto necessario). Importava solo esserci: “Quello che conta è il contatto, quello è il gesto sonoro che lei impara dalle sorelle Chiriacò. Nella tradizione orale il suono non è scindibile da chi lo esegue”. Avere a che fare con chi emette quel suono non è solo vibrazione: è un fatto tremendamente politico. E così politico diventa il modo di cantare di Mariuccia e Rosina Chiriacò, di Cesarino e Stella De Santis di Sternatia, e di tutte quelle voci che cantavano le “fimmene fimmene” che andavano ai campi di tabacco e le strazianti note di Ntonuccio, svoli funebri, di morte. Sottolineare la diversità di quei modi di cantare, di quei timbri, di quel modo di tenere le note, sono tratti differenziali che rapiscono l’animo d’artista di Giovanna Marini, tanto quanto quello politico.

E che il canto sociale e la tradizione orale avessero questa matrice fortissima, fu un concetto che accarezzato già con l’incontro di molti intellettuali all’inizio degli anni Sessanta. Primo tra tutti, Pier Paolo Pasolini. Per lui Marini scrisse un Lamento di morte e sempre lui che, dieci giorni prima di essere ucciso, era a Calimera (Lecce), ad ascoltare i canti in lingua grika. La musicista, nel documentario, ricorda la sua lezione: “La tonalità è una specie di gabbia che ci costringe musicalmente. Il contadino è molto più libero, alza il tono di poco per far cambiare il tono a tutti gli altri piano piano, in una progressione di suoni rivoluzionari che arriva all’accordo finale, come quelli sardi e i siciliani”. Per tutta l’Italia Giovanna Marini – fondatrice non solo del Quartetto Vocale, ma anche, nel 1974, della Scuola Popolare di Testaccio a Roma – è andata in cerca dei suoni che rompevano le regole, dell’emotività assoluta. Esasperando gli incisi e alcune tonalità, per rompere con ciò a cui siamo abituati e rimettere l’accento sull’alterità.

Vita, amore ed eros: il giovane Pasolini nel Friuli scomparso

“Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni, dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia. Più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe, soprattutto la parte concava interna al ginocchio, dove piegandosi, correndo, si tendevano i nervi con un gesto elegante e violento. Io ne ero soggiogato, vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevano ancora raggiungere. Mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovinetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. Se lo ricordo, sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio”.

Morto il 2 novembre di quarantacinque anni fa, Pier Paolo Pasolini va ricordato vivo, anima e corpo desiderante. Va riscoperto In un futuro aprile – Il giovane Pasolini, quello frainteso, trascurato, occultato: il documentario profondo e affascinante di Francesco Costabile e Federico Savonitto lo attendevamo in sala, lo troviamo oggi online con Tucker Film su iorestoinsala.it, il circuito digitale dei cinema di qualità. È un ritorno al futuro di PPP, friulano tra temporali, primule e l’Academiuta, friulano nelle memoria vivida e lirica del cugino Nico Naldini, friulano nell’epifania contadina, linguistica e sensuale. Traguardo estetico, coscienza eretica e avventura erotica, l’invito è al riesame del PPP per come lo conosciamo, anzi, per come ce l’hanno voluto far conoscere: “Troppo spesso – osserva acutamente Costabile – si è parlato di Pasolini omettendo la sua visione erotica e panica della realtà, la borghesia italiana ha preferito invece scavare nelle zone d’ombra per trasformarlo nel poeta dello scandalo”. Lo scandalo è qui il ragazzo che ama, il letterato che riversa in Amado Mio e Atti Impuri l’amore per i corpi dei contadini di Casarsa e dintorni. Pagine involontarie, licenza e licenziosità poetica, “era il senso dell’irraggiungibile, del carnale, un senso per cui non è stato ancora inventato un nome, io lo inventai allora, e fu tetla veta. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco, mi dissi che provavo tetla veta, qualcosa come un solletico, una seduzione, una umiliazione”.

L’incanto e il disvelamento, una fertile dialettica che In un futuro aprile, prodotto da Altreforme in associazione con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini (Angela Felice, indimenticata direttrice, è scomparsa ormai più di due anni fa), Cinemazero, AAMOD, Kublai Film, affida a una sinfonia audiovisiva, a una topografia friulana che è sismografia pasoliniana, risonanza di testi (Amado Mio e Atti Impuri, pubblicati postumi; Quaderni rossi, ovvero Pagine involontarie; Il sogno di una cosa), consonanza di repertorio (un documentario di Carlo Di Carlo; Gli ultimi di Vito Pandolfi e Padre David Maria Turoldo; riprese del fotografo Elio Ciol e del pittore Giuseppe Zigaina; vecchi documentari in Friuli e Super 8 amatoriali girati a Casarsa; tagli inediti di Medea), assonanza di ricostruzione ed evocazione ex novo “senza scadere nel tipico linguaggio di docu-fiction”. La parafrasi, insomma, non abita qui, e Naldini, scrittore e poeta alla sua ultima intervista, aiuta: “L’arrivo dei Pasolini a Casarsa all’inizio dell’estate, dopo un soggiorno al mare, era per me il momento più felice dell’anno. Andavo alla stazione a prenderli, ad accoglierli e poi li accompagnavo a casa”. La residenza di Pier Paolo era nella possibilità, la bicicletta a battere i paesini, il greto del Tagliamento per destino, i campi di granturco per panismo, e a ruota c’era Nico, diverso: “La politica a me non mi ha mai interessato” e gemello: “Da piccolo borghese quale sono, amavo molto i giovani contadini, se erano belli e atletici. Mi interessava meno il mondo della povertà”.

Con la bella voce di Daniele Fior, Pasolini consustanzia sessuale e intellettuale: “Cercavo, ripeto, l’amore, anche la libidine. Con l’ingenuità di un ragazzo cresciuto in città, cercavo le mie divine presenze di ragazzi disposti a peccare. Proprio là dove non li avrei mai trovati”. Sarebbe, forse, rimasto a Casarsa per sempre, avvinto alla madre Susanna (“Tu sei la sola al mondo che sa del mio cuore ciò che è sempre stato prima di ogni altro amore”), invece venne la cacciata dal Partito Comunista e dal Friuli per lo scandalo omoerotico, sostiene Naldini, “montato dai cattolici” nel 1950: a Casarsa tornò nella bara, venticinque anni più tardi. Stimolo, suo, e risposta, del Paese, eros e thanatos, desiderio e repressione, vitalità poetica e assassinio prosa(st)ico: l’autopsia di Francesco Costabile e Federico Savonitto è antropologica, il referto culturale, “testimonianza di ciò che resta e di ciò che è andato irrimediabilmente perduto” di quel Friuli, e dell’Italia tutta. Un passaggio di stato che interpella le nostre coscienze, che riverbera “la pura luce” disperata che furono i Pasolini: il fratello Guido, che partì con “la pistola in un libro” per i monti e la Resistenza, e non tornò; Pier Paolo, massacrato all’Idroscalo il 2 novembre del 1975; la madre Susanna, che sul giornale trovò raccontato per filo e per segno lo scempio del cadavere di PPP, lesse “con un assorbimento totale, poi disse ‘quanto mi dispiace, questo bel giovanotto è morto’, era suo figlio, e io ero lì, ormai impedito a toglierle il giornale”. Rammenta ancora Naldini, Susanna “è morta in modo tremendo, tenendo gli occhi chiusi, non li ha più aperti dopo quella volta lì. E noi abbiamo avuto questo nuovo lutto, della madre di Pasolini, che in qualche modo chiudeva la tragica loro storia, che assomigliava un po’ a una tragedia greca”.

In ossequio, chissà, al nemo propheta in patria, In un futuro aprile – Il giovane Pasolini ha avuto la sua anteprima al Minsk International Film Festival “Listapad” nell’autunno del 2019, quindi lo scorso giugno è stato presentato al Biografilm di Bologna, dove ha ricevuto una menzione: Venezia, Roma e Torino, le nostre maggiori manifestazioni cinematografiche, non pervenute. Non fate lo stesso errore.