Conti correnti. L’assalto (interessato) dei giornali agli italiani “ignoranti” che lasciano i soldi in banca

Molti italiani tengono soldi fermi sui loro conti, in banca o alla Posta. Se poi un titolo scade, non lo reinvestono. È un comportamento diffuso anche in altri Paesi, soprattutto dopo l’arrivo del coronavirus. Ma in Italia chi fa così è bersaglio di giornalisti economici e presunti esperti che lo accusano di ignoranza e incompetenza, di essere privo di educazione finanziaria o, meglio, di financial literacy, che fa molto più fine. Tutto falso. La verità è che a costoro dà fastidio che i risparmiatori oppongano resistenza a banche, assicuratori e cosiddetti consulenti che vogliono rifilargli opachi fondi comuni, polizze e fondi pensione trappola, certificati rischiosi e compagnia brutta. Stando agli ultimi dati, famiglie e imprese a settmebre avevano depositati in banca 1.682 miliardi

Tenere liquidità sul conto – e anche parecchia – è soprattutto ora un comportamento prudente che tutela dai rischi di perdite, possibili, probabili o addirittura sicure, cui va incontro chi dà retta ai consigli di banche o venditori porta a porta. Ciò vale soprattutto ora che il rendimento di mercato del denaro è vicino a zero e, per fortuna, anche l’inflazione, per cui i soldi non si deprezzano. Rendimenti nulli e prezzi fermi, non è il paradiso ma neppure l’inferno.

Per spaventare i risparmiatori circolano sulla stampa e in Rete dati e discorsi manipolatori. Uno è la perdita del 28% in potere d’acquisto che avrebbe subito chi ha tenuto risparmi non investiti per vent’anni. Ma nel 2000 non veniva in mente a nessuno di tenere a lungo soldi infruttiferi. Già solo coi buoni postali si poteva ottenere il 5,05% annuo netto composto; e trovarsi ora con un capitale più che raddoppiato in termini reali. Altroché perdita del 28%!

È nell’attuale contesto, diversissimo, che molti sono tentati dal lasciare i soldi sul conto. E fanno bene a cedere a tale tentazione. Ma mica s’impegnano per vent’anni. Tenere i soldi liquidi, significa anche poterne cambiare la destinazione ogni momento.

Attualmente è poi bassissimo il pericolo che la banca fallisca, anche a prescindere dal fondo di autotutela dei depositi. Volendo una sicurezza ancora maggiore ci sono i contanti, costantemente consigliati dalla banca centrale tedesca (Bundesbank). Poi, più comodi, i buoni fruttiferi postali con cui uno si riprende integralmente quanto ha versato, anche quando i bolli superano gli interessi.

Non parliamo poi dell’indicazione, spesso ammantata di scientificità, di tenere in liquidità solo l’equivalente delle spese di 2-3 mesi. E uno dopo come tirerà avanti, trovandosi senza introiti per la perdita del lavoro o della clientela, in particolare dopo l’arrivo del coronavirus?

Infine si legge che bisogna investire i propri soldi, affinché l’economia giri. Ma allora va bene anche farseli rubare, perché i ladri normalmente spendono subito il maltolto e perciò fanno girare l’economia come una trottola.

 

Politica è mediare gli interessi. I 5Stelle quali rappresentano?

Un minimo di teoria economica forse è utile per capire il problema, e quella conosciuta come “Teoria delle scelte pubbliche” (“Public Choice”) sembra poter davvero aiutare. Recita, in estrema sintesi, che nei sistemi capitalistici avanzati, la dimensione economica dominante del consenso è basata sulla reale o attesa ridistribuzione del reddito tra gruppi di interessi ben connotati e coesi, che si mobilitano a votare solo in base a concrete prospettive a loro favorevoli. La conferma di questo tipo di analisi per quanto riguarda i 5S è riscontrabile nello scarso riscontro elettorale su alcuni temi generali in cui il Movimento ha prevalso, relativi alla giustizia, o a forme di tutela del lavoro, e persino nella riduzione dei parlamentari. Per continuare l’analisi, dobbiamo subito osservare che la maggiore, più innovativa e coraggiosa azione redistributiva del Movimento, quella del Reddito di Cittadinanza, grazie paradossalmente proprio al suo carattere diffuso, non ha coagulato un gruppo di interessi coeso e mobilitabile. I percettori non hanno spazi per dialogare o farsi rappresentare.

Sembrerebbe che il Movimento abbia iniziato a cogliere il problema, ma forse non nel migliore dei modi. Ha cambiato posizione su alcuni temi, alleandosi nei contenuti ad altri partiti, anche di destra. Si pensi per esempio alle Grandi Opere che precedentemente osteggiavano (il “partito del cemento”, molto forte in Italia) e ora no, o alla difesa di alcuni gruppi coesi (i titolari degli stabilimenti balneari, con un assurdo prolungamento delle loro rendite, gli addetti ai servizi pubblici inefficienti cui vengono risparmiate le gare). Ma senza risultati: è d’altronde frequente che agli imitatori si preferiscono gli “originali”, consolidati da anni di clientelismo.

E i temi programmatici originali, le “cinque stelle”, (acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività), non sembrano avere più mordente, probabilmente in parte per la loro impossibilità tecnica a legarsi a gruppi di interesse connotati, e in parte per scarsa efficienza politica dei promotori. Le “stelle” peccano anche di genericità, e molti dei loro elettori nemmeno più le ricordano.

Un tema che non sembra connotabile direttamente in termini economici è il favore per la democrazia diretta. Ma in realtà può avere anche una lettura economica. L’elettorato ne ha constatato il fallimento tecnico (la piattaforma Rousseau): il movimento oggi si muove pienamente all’interno di una logica parlamentare. Anche in una ipotesi di successo, un modello di democrazia diretta non consentirebbe per definizione l’aggregazione e la mediazione di interessi, che abbiamo visto essere alla base dell’organizzazione del consenso.

E proprio in termini di consenso, vediamo ora la madre di tutti i fattori che ne impediscono lo strutturarsi: la dichiarazione di essere post-ideologici, né di destra né di sinistra. Questo atteggiamento impedisce l’identificazione di gruppi di interessi, e la sua dichiarata variabilità nel tempo e nelle circostanze.

Infine c’è la dimensione internazionale: verso l’Unione europea alcune componenti del movimento hanno avuto atteggiamenti molto ostili, accusandola di essere contraria a politiche redistributive. Questo atteggiamento ha forse spaventato gruppi della classe media (e non si intende Confindustria, ma i numerosi lavoratori autonomi e professionali), senza nel contempo che il Movimento si dichiarasse esplicitamente su posizioni vicine a una sinistra tradizionale e operaia.

Ora l’atteggiamento della maggioranza del movimento, anche grazie all’azione di Giuseppe Conte, sembra cambiato ma non è forse ancora favorevole ad una immagine di affidabilità. E sul Mes, strumento economicamente di utilità discutibile, l’opposizione è riuscita a dipingere la posizione del movimento come anti-europeista, recuperando strumentalmente atteggiamenti passati.

In estrema sintesi: la non-scelta programmatica di una linea di politica economica identificabile e stabile, ha determinato l’impossibilità di identificazione con il Movimento di specifici gruppi socio-economici, che costituiscono gli elementi costitutivi dei moderni sistemi di organizzazione e conquista del consenso. E se il Movimento si decidesse a darsi un vero programma economico non ondivago, dovrebbe lasciar perdere scelte sterili (l’esempio delle Grandi Opere) e puntare su settori e gruppi concentrati sull’innovazione.

Certo, molto più pericoloso in termini di consenso sarebbe combattere le rendite e promuovere la concorrenza, nonostante questi fattori siano la sola legittimazione del capitalismo.

Giungla rimborsi. Voucher per teatri e piscine, soldi per voli cancellati

Dai lavoratori dello spettacolo ai proprietari di ristoranti e bar passando per i gestori di discoteche, sale giochi e palestre, con il dl Ristori sono stati previsti bonus e indennizzi veloci alle attività colpite da chiusure e limitazioni di orario decise dall’ultimo Dpcm. Ma i clienti di alcune di queste attività che hanno già pagato biglietti, abbonamenti e servizi, ora impossibili da sfruttare per almeno un mese, hanno il diritto al rimborso? E cosa deve fare chi si trova costretto a disdire viaggi in aereo o in treno? Tra sentenze Ue, richieste di rimborso previste e altre scadute, facciamo il punto.

Teatri. È previsto un voucher solo per gli spettacoli dal vivo previsti dal 24 ottobre al 31 gennaio 2021 e saltati per le nuove restrizioni. La misura vale anche per i biglietti acquistati dal 1° al 24 ottobre non fruiti e non fruibili fino a fine gennaio 2021. Insomma, c’è la garanzia che lo spettacolo prima o poi si vedrà, ma non si riavranno i soldi anche se si sarà impossibilitati ad andare a vedere lo spettacolo.

Palestre e piscine. I centri sportivi non rimborseranno nulla e non sono previsti voucher, così come invece è stato deciso durante il lockdown. Di fatto piscine e palestre stanno congelando gli abbonamenti, allungando la naturale scadenza di un mese. Sono migliaia le strutture che hanno già riattivato le lezioni in streaming live. Anche in questo caso si rischia di perdere i soldi se alla riapertura non si potranno più seguire i corsi.

Aerei e treni. La Farnesina ha sconsigliato i viaggi all’estero e, con l’aumento dei contagi in Europa, in questi giorni si sta registrando un elevato numero di voli cancellati. I nuovi dati di Assaeroporti confermano una crisi senza precedenti per il trasporto aereo. Gli scali italiani hanno perso a settembre circa il 70% dei passeggeri rispetto al 2019. Per contenere i danni da pandemia, il decreto Cura Italia ha consentito alle compagnie di non rimborsare subito i biglietti, offrendo ai passeggeri un voucher da utilizzare in futuro. Ma quando a giugno la circolazione è ripresa, le compagnie hanno continuato a cancellare voli e ad emettere voucher. È così intervenuto l’Antitrust che ha imposte ai gestori di offrire anche il rimborso dei biglietti in caso di cancellazione dei voli. Sono i consumatori a scegliere tra soldi e voucher. Ma questa possibilità di è esclusa ai passeggeri dei treni che hanno ottenuto solo un voucher.

 

Pubblica, poi forse controlli. Ritirati 39 studi sul Covid

Almeno 37 articoli scientifici sul Covid-19 che dall’inizio dell’anno sono stati ritirati per i motivi più vari: plagi, errori, finanche scherzi. A tenerne traccia è il sito Retraction Watch: uno studio che fino a poco prima era considerato attendibile perché pubblicato su riviste più o meno prestigiose, un attimo dopo non c’è più spesso senza che si sappia neanche il perché. Alcuni esempi per tutti: “Mortalità di una paziente incinta con diagnosi di COVID-19: un caso clinico con risultati clinici, radiologici e istopatologici”, pubblicato su Travel Medicine and Infectious Disease; “Efficacia delle maschere chirurgiche e di cotone nel blocco della SARS-CoV-2: un confronto controllato in 4 pazienti”, pubblicato negli Annals of Internal Medicine. Era circolato – poi ritirato – finanche uno studio che collegava il 5G e il coronavirus. Il più recente, un articolo ritirato il 23 ottobre, riguardava i disturbi e la salute mentale in Cina durante la pandemia: è stato ritirato perché pubblicato più volte su diverse riviste.

Nei mesi scorsi, poi, due neolaureati hanno utilizzato un articolo sul coronavirus come cavallo di Troia in una rivista che ha poi messo in dubbio la validità di un altro articolo sullo stesso tema. L’articolo, dal titolo “SARS-CoV-2 è stato inaspettatamente più letale degli scooter a spinta: l’idrossiclorochina potrebbe essere la soluzione unica?” e firmato dal neolaureato Mathieu Rebeaud, alias “Willard Oodendijk” e Florian Cova (provenienti dal finto “Istituto per la scienza rapida e sporca” in Svizzera) è stato pubblicato senza grossi problemi sull’Asian Journal of Medicine and Health, sospettato di essere una pubblicazione predatoria e che si fregia di attuare la fatidica “peer review”, la revisione tra pari. Con grande ilarità del mondo accademico.

“Uno degli elementi entrati nel dibattito pubblico con il Covid-19 è il lei non sa quante citazioni ho io” spiega Alberto Baccini, ordinario all’università di Siena e autore insieme a Eugenio Petrovich e Giuseppe De Nicolao di un paper che ha mostrato la propensione italiana all’autocitazione e alla citazione reciproca, indotta dal sistema di reclutamento nell’accademia. Ebbene, il problema dell’assenza di controllo con la pandemia è ancora più accentuato. “La necessità di pubblicare in fretta perché spinti dall’emergenza fa venire meno quasi completamente ogni seria peer review perché richiederebbe tempo e attenzione”. Certo, un conto è la ritrattazione per errori genuini, “che sta nel processo scientifico”, un conto sono manipolazione e cattiva scienza. “In questi casi bisognerebbe accorgersene prima”. Anche perché l’effetto cascata è in agguato.

Il caso estremo è quello dello studio fantasma citato almeno 400 volte (attualmente oltre mille su Google Scholar) ma mai davvero esistito. A raccontarlo è stata la professoressa di gestione internazionale della Middlesex University di Londra, Anne-Wil Harzing, che aveva ricostruito tutto l’iter. L’articolo, che si intitolava “L’arte di scrivere un articolo scientifico” era un modello per la redazione degli atti di un convegno, a loro volta pubblicati da una importante rivista scientifica olandese. Ebbene: i redattori semplicemente si erano dimenticati di cancellare il modello nei loro atti e questo era finito come riferimento bibliografico in centinaia di pubblicazioni. Nessuno se n’era accorto. “Sebbene divertente e inquietante allo stesso tempo, il fenomeno del riferimento fantasma sembra essere un caso estremo – spiega al Fatto la professoressa Harzing – ma porta a domande sulla qualità della ‘revisione tra pari’”. I revisori, dice, sono anche accademici impegnati e non ci si può aspettare che verifichino ogni singolo riferimento. “In alcuni mesi ricevo più di una dozzina di articoli da recensire che, se fatto con diligenza, occuperebbero metà del mio orario di lavoro”.

Il tempo può poi non bastare. “Dobbiamo valutare non solo sulla base delle loro citazioni, ma anche sul loro impatto sulla società – spiega -. Certo, le pubblicazioni rimarranno fondamentali, ma ogni sistema di valutazione include individui che valutano altri individui, quindi soggettività e pregiudizi sono sempre presenti. Le metriche possono essere più oggettive della revisione tra pari, ma anche le citazioni possono essere distorte in molti modi. Ecco perché serve un intero portafoglio di valutazione”.

Diverso il punto di vista di Baccini: “La società ha bisogno di scienza solida. Il sistema novecentesco della peer review per certificare la bontà di una articolo non regge le dimensioni attuali delle pubblicazioni. I meccanismi ex-post di valutazione basati sulla bibliometria sono facilmente manipolabili”. La valutazione dell’impatto sociale, spiega Baccini, è molto criticata nel paese che l’ha introdotta per prima, l’Uk. “Alcuni sostengono sia un mostro Frankestein. Da noi è arrivata grazie ad Anvur. E non tarderanno i danni”. Serve invece una “buona scienza”, non più il potere a ‘esperti’ coperti dall’anonimato di conferire legittimità a un documento accademico o di bloccare la diffusione di una ricerca per anni perché deve comparire su una rivista. “La proposta è liberarsi delle riviste come unico mezzo per diffondere la scienza. Tutto dovrebbe essere pubblicato ‘quando serve’ in forma di preprint lasciando ai lettori (i pari, cioè gli altri scienziati) la possibilità di fare davvero peer review pubbliche e aperte”.

Nuove assunzioni, meno outsourcing: iniziative dal basso

Cè un mondo, fuori dal ministero, che da marzo in poi si è organizzato e ha costruito proposte per uscire dalla crisi. Si sono creati nuovi gruppi, come “Attrici e Attori Uniti”, “Art Workers Italia “o “Professione: Educatore Museale”, che nati nelle settimane del lockdown, chiedono sostegno economico e dignità per le rispettive professioni e comparti. Da settimane, sempre più realtà analizzano e suggeriscono come poter spendere i fondi per risolvere i problemi alla radice, con interventi che siano strutturali e non una tantum.

“Ci hanno sempre raccontato, fin da bambini, che i soldi non ci sono. Ora ci sono, e sembra che i problemi di precariato con cui ci scontriamo ogni giorno non esistano, che la priorità sia spendere per treni e piattaforme online”. A parlare è Rosanna Carrieri, una giovane storica dell’arte che ha lanciato una petizione online, già firmata da oltre 26 mila persone, per chiedere al governo di investire nel settore culturale in senso stretto. “La verità è che il problema dell’assenza e dello spreco di risorse è molto sentito, ed è evidente a molti che i soldi del Recovery Fund siano un’opportunità straordinaria per costruire un sistema culturale che funzioni meglio e offra di più, in termini di servizi e sana occupazione”.

Carrieri è attivista dell’associazione “Mi Riconosci”, che da anni opera sui temi riguardanti la gestione del patrimonio culturale. L’associazione ha proposto al governo di utilizzare 7 miliardi di euro per un piano diffuso di assunzioni mirate e per rivedere in meglio il sistema delle esternalizzazioni, puntando su regolamenti e investimenti che tutelino anzitutto il lavoro. “Se non c’è un cambio netto di approccio, tutte le cooperative come la nostra dovranno chiudere. Non è una condizione nuova, ma il lockdown ha fatto arrivare tutti i nodi al pettine” spiega Virginia Galli del gruppo “Professione: Educatore Museale”.

Tante altre sono le proposte arrivate al ministero in queste settimane. Il presidente di Assomusica Vincenzo Spera chiede di investire almeno il 2 per cento del Recovery Fund nei settori culturali e creativi perché “250mila famiglie sono senza lavoro; il circuito ha perso 650 milioni di euro tra febbraio e settembre e oltre 1,5 miliardi di euro di indotto. Sono stati registrati cali di fatturato vicini al 100% rispetto all’anno scorso. Sono danni che non hanno precedenti”.

Dalla Confederazione Archeologi Italiani è arrivata invece la proposta di utilizzare i fondi del Recovery per redigere carte del rischio archeologico per tutto il territorio nazionale, riducendo le spese per cantieri che si scoprirebbero essere progettati su rimanenze archeologiche e al contempo creando occupazione per il settore. E ancora, la commissione Cultura della Camera ha sottolineato che i fondi andrebbero usati per un “piano di azione che possa tutelare e sviluppare tutto il capitale umano del settore culturale, dal momento che il valore del nostro patrimonio artistico e culturale è strettamente connesso alle condizioni di lavoro di chi vi opera” e poi ancora sottolinea che i fondi dovranno essere inseriti “in un circuito di produzione di valori economici e sociali e di moltiplicazione delle filiere territoriali, al fine di assicurare continuità e stabilità agli interventi di prevenzione e tutela”.

Il ministero ha tanti consigli e tante proposte sul tavolo. I lavoratori del settore in cassa integrazione da mesi, gli istituti costretti a chiudere o a ridurre i servizi, gli utenti messi alla porta, e i tanti che hanno perso lavoro e reddito si attendono risposte. La chiusura di cinema e teatri e il lockdown che sembra avvicinarsi non potranno che aggravare una situazione già drammatica.

Musei e biblioteche, la cultura che rischia di restare indietro

Il 10 settembre, parlando del Recovery Fund alla Scuola di Politiche di Enrico Letta, il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini si diceva “abbastanza sicuro che ci saranno molte strategie importanti di sviluppo sul turismo e la cultura”. In quel momento, sul tavolo del ministero erano già ammucchiati centinaia di progetti preliminari: poco dopo, ne sono stati scelti dieci, per un valore totale di 6 miliardi, di cui è stata diffusa nelle scorse settimane una prima versione: “una fase istruttoria”, dicono dal ministero, cui seguiranno le trattative con Bruxelles.

Ci sono 2,5 miliardi per un “piano di digitalizzazione del patrimonio culturale pubblico”, 1,7 miliardi per la “riqualificazione dei centri storici e dei borghi”; 1 miliardo per la messa in sicurezza degli edifici di culto; 500 milioni per gli studios e l’audiovisivo; 500 per l’efficientamento energetico di musei e luoghi della cultura; 100 milioni per l’ammodernamento dei tour operator; 100 per sostenere i privati nel restauro dei beni culturali di loro proprietà; 10 milioni per monitoraggio e prevenzione dei rischi dei luoghi della cultura.

La “digitalizzazione” riguarda più del 30% dei fondi richiesti. Il Mibact, però, finora “ha esternalizzato questi processi, con costi notevoli e limiti nel portare avanti progetti continuativi e strutturali, sia a livello di pubblico sia per i servizi interni al ministero – spiega Carola Gatto, che si occupa di media digitali nei musei all’Università del Salento – Sarebbe necessaria una progettualità di lungo termine, con personale interno strutturato e formato, per far fronte alla trasformazione che stiamo vivendo”. Dal Mibact spiegano che si avvarranno di competenze “solo in parte soddisfatte dal personale interno”. I fondi, infatti, non potranno essere utilizzati per assunzioni a tempo indeterminato.

Poi c’è la riqualificazione dei borghi. “Sarebbe interessante farli diventare hub per centri di ricerca per grandi aziende internazionali, magari un borgo oggi disabitato”, ha detto Franceschini in un’intervista. Non esiste oggi un piano pubblico a riguardo, ma alle nostre domande il Mibact ha risposto che non si parla di borghi “da proporre per essere ‘colonizzati’, quanto piuttosto di un loro rilancio anche in termini di ripopolamento. La formula vincente dell’attrattività di questi luoghi è nella compresenza di tanti elementi: la qualità della vita, la cura dello spazio pubblico, il cibo, il paesaggio, le relazioni umane, la cultura, che si realizzano solo se questi centri vengono abitati e vissuti”. Vissuti da chi e perché non è ancora chiaro. La soluzione dei problemi dei luoghi della cultura, sia a livello di infrastrutture sia a livello di risorse umane, sembra assente: musei e biblioteche compaiono, almeno in questa fase, solo con riferimento all’efficientamento energetico e alla rete 5G. E mentre dal ministero assicurano che “si lavorerà per migliorare l’accessibilità a un pubblico più ampio e la partecipazione culturale”, non se la passano benissimo.

A lanciare l’allarme sulla situazione era stata già a luglio la Consulta Universitaria per la Storia dell’Arte che chiedeva la riapertura di biblioteche e archivi: “Il timore – presagivano – è che questo settore venga lasciato indietro perché non direttamente connesso alle strutture del commercio e della produzione industriale”. Da parte sua, la direzione generale Musei già nelle linee guida diffuse ai musei statali il 17 maggio spiegava che “qualora un museo non potesse aprire per lavori in corso o per la gravissima carenza organica attuale ovvero per altre ragioni va comunicato che esso è chiuso per riorganizzazione/ristrutturazione”. E da allora, moltissimi istituti non sono stati riaperti a pieno regime o addirittura sono ancora chiusi. “Una situazione drammatica per tutta l’utenza, da chi, come noi, in quei luoghi deve lavorare ai cittadini che dovrebbero fruirne”, spiega Virginia Galli, responsabile dei servizi educativi alle fortezze di Sarzana (La Spezia). Virginia lavora con una cooperativa a cui è affidata la gestione dei siti: “Di mese in mese decidiamo quanto e quando aprire: il crollo dei visitatori, che per noi è del 60%, ci costringe a ridurre il servizio in assenza di sostegno pubblico. Siamo esternalizzati, io ho una base fissa dello stipendio, ma senza extra legati alle visite faccio fatica ad andare avanti. Ci sono tanti miei colleghi a collaborazione occasionale che da marzo hanno perso tutto”.

Eppure i luoghi della cultura sono servizi pubblici essenziali: a stabilirlo è il decreto legge 219 del 20 settembre 2015 voluto allora proprio dal ministro Franceschini per limitare le chiusure legate agli scioperi e alle assemblee sindacali. Ma da marzo il grosso degli stanziamenti è stato volto solo a coprire le perdite: sono stati stanziati 165 milioni per ristorare i mancati incassi dei musei, in buona parte destinati alle aziende concessionarie dei servizi di biglietteria, a cui si aggiungono 50 milioni per i musei non statali, oltre alla cassa integrazione per i dipendenti delle stesse aziende, che ha peraltro ridotto l’orario di lavoro per molti lavoratori. Nel decreto Rilancio non un solo euro era stanziato per archivi e biblioteche e, di fatto, nulla è arrivato ai musei minori. Nelle ultime settimane il ministro ha ripreso a parlare di turismo e treni ad alta velocità, ma se il turismo oggi vale il 13% del Pil, molto è legato all’attrattiva che la cultura italiana esercita all’estero. Per il World Economic Forum (Travel and Tourism Competitiveness Report 2019) il gap più forte rispetto agli altri paesi turistici europei non è infrastrutturale, ma legato alle risorse umane e al mercato del lavoro, dunque dell’offerta garantita.

La distribuzione dei fondi è però stata spesso disomogenea. Nel marzo del 2020, ad esempio, sono stati stanziati fondi per 103 milioni per 11 progetti nell’ambito del “piano strategico Grandi Progetti Beni Culturali”, avviato con un decreto legge nel 2014 e che fino al 2019 aveva già distribuito 285 milioni di euro, di cui il 90% nelle regioni del centro-nord. Quest’anno, nonostante i 103 milioni rispetto ai 70 del 2019, solo 3 sono andati a Sud di Roma (nel sito archeologico di Sibari),l’83% tra Firenze, Roma e Venezia. Gli 11 progetti riguardano situazioni straordinarie: nuovi musei, restauri, rinnovamenti radicali degli ambienti. Venti milioni per consentire alla Biennale di Venezia, una fondazione privata spesso beneficiaria di fondi pubblici, di ampliare i propri spazi; 35 milioni per restaurare Palazzo Silvestri Rivaldi a Roma, e farne la sede della Fondazione Scuola dei Beni Culturali (creata nel 2016, costa 3 milioni l’anno ed elargisce titoli di studio post-dottorali), 12 milioni per completare la Loggia Isozaki, la nuova uscita delle Gallerie degli Uffizi; e 16 milioni per trasformare gli ex magazzini dell’Aeronautica Militare nei nuovi depositi dell’Archivio di Stato di Roma.

Eppure, per il 2020 l’intero settore musei avrà in dotazione solo 8 milioni di euro, meno dei 12 stanziati per la sola Loggia Isozaki; l’intero settore archivi riceverà 1,3 milioni, meno di un decimo di quanto investito per i soli depositi dell’Archivio di Roma per il quale è previsto anche “un utilizzo differenziato dell’edificio che sarà dotato di sale lettura, aule studio, spazi espositivi ma anche di attività ricreative”. Ma nel frattempo la situazione è quella che racconta Nicoletta Baldini, presidente dell’associazione Utenti dell’Archivio di Stato di Firenze e ricercatrice universitaria: “Continua a essere drammatica. Da qualche giorno nella sala lettura entrano 14 utenti alla volta su 72 postazioni, prenotandosi online: entra chi clicca più velocemente, ma essendo uno degli archivi più importanti d’Italia, le richieste sono centinaia, anche dall’estero. E nel caso in cui si riesca a entrare sono consultabili solo 4 documenti al mattino e solo 1 al pomeriggio”. C’è poco personale, pochi fondi e un impianto di condizionamento non adeguato: e si tratta, dice Baldini, di uno dei pochi Archivio di Stato inaugurati in anni recenti, nel 1988, “in molti altri casi la situazione è ancor più difficile”.

Emirati Arabi. Come colpire i dissidenti grazie all’Interpol

Il nome Interpol ha un suono rassicurante. Il detective di Agatha Christie, Hercule Poirot, consultava i suoi amici dell’Interpol per aiutarlo a rintracciare i cattivi e tenerci tutti al sicuro. In questi tempi però, l’Interpol non si limita a inseguire i cattivi, ma li aiuta e li incoraggia. Il suo ex presidente, Jackie Selebi, è stato riconosciuto colpevole di aver preso tangenti da un trafficante di droga nel 2010. Un altro ex presidente, Meng Hongwei, è scomparso nel settembre 2018 prima di ricomparire nella sua nativa Cina, dove è stato infine condannato a 13 anni per aver accettato tangenti. La cosa più preoccupante, tuttavia, è la crescente evidenza che i canali dell’Interpol aiutano alcuni dei regimi più feroci del mondo a prendere di mira i dissidenti interni. L’Interpol, che ha sede a Lione, in Francia, è nata nel 1923 con l’obiettivo di far collaborare le polizie nazionali per localizzare e arrestare criminali, o presunti tali, in giro per il mondo. Non è però l’Interpol, cui aderiscono 195 Paesi, a emanare mandati di arresto internazionale ma le polizie degli Stati membri e in alcuni casi – l’Onu o un tribunale internazionale – che segnalano all’Interpol un individuo condannato o sospettato di avere compiuto un crimine.

Lo strumento più noto usato dall’Interpol è la “red notice”, cioè la richiesta di localizzare, arrestare ed estradare un criminale o sospetto tale. Ci sono però molti esempi strazianti di un uso improprio dell’avviso rosso. Decine di oppositori egiziani, russi o arabi del Golfo sono caduti vittime di questo sistema.

Quindi ci sono diversi motivi per essere preoccupati dai rapporti secondo cui Nasser Ahmed al-Raisi, un generale della polizia degli Emirati Arabi Uniti, è candidato a diventare il prossimo capo dell’Interpol, nonostante le accuse di gravi violazioni dei diritti umani. La decisione dovrebbe essere annunciata all’assemblea generale dell’Interpol in dicembre, che si terrà negli EAU, Paese accusato di crimini di guerra in Yemen e coinvolto nella guerra civile in Libia. Il pericolo fondato è che l’Interpol diventi sempre di più uno strumento dei regimi autoritari per colpire, senza troppe difficoltà, la libertà degli avversari politici anche fuori dei confini nazionali.

 

Crimini di genere in Nordafrica. Femminicidi e infanticidi: strage impunita nel Maghreb

Si chiamava Chaïma Sadou e aveva 19 anni. È stata trovata morta il 3 ottobre scorso vicino a Boumerdes, in Algeria, in una stazione di servizio abbandonata. È stata picchiata, violentata e bruciata viva da un uomo contro il quale aveva già sporto denuncia. Rahma Lahmar, 29 anni, è stata trovata morta il 25 settembre in un fossato nella periferia nord di Tunisi. Rientrando a casa dal lavoro ha incrociato un uomo già condannato due volte per tentato omicidio e furto. Infine, Adnane Bouchouf, è stato trovato morto l’11 settembre, sepolto sotto un albero poco lontano da casa sua, in un quartiere popolare di Tangeri, in Marocco. Aveva solo 9 anni ed è stato violentato e ucciso da un vicino.

La violenza contro le donne e i bambini è una piaga profonda in Maghreb. Come già successo in passato, anche dopo questi tre crimini, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, si è acceso il dibattito sulla pena di morte. In Marocco la pena capitale è ancora in vigore, ma non è applicata dal 1993. La sua abolizione non fa l’unanimità e il re Mohammed VI evita di prendere posizione. Da parte sua, il presidente tunisino, Kaïs Saïed, non ha mai nascosto di sostenere la pena di morte e si è detto favorevole a ricorrervi nei casi di femminicidio, sollevando l’indignazione dei difensori dei diritti umani. In Tunisia non ci sono esecuzioni dalla moratoria decisa nel 1991 dal defunto dittatore Ben Ali. In Algeria, la pena di morte, che non è applicata dal 1993, è ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica. In un video diventato virale, la madre di Chaïma Sadou implora il presidente Tebboune di far giustiziare l’assassino di sua figlia applicando “el Qissas”, la legge del taglione prevista dal diritto musulmano. “La pena capitale non impedirà ai criminali di agire”, osserva l’avvocato Nadia Aït Zaï, nota figura del femminismo in Maghreb, che si batte da decenni scontrandosi con una potente corrente patriarcale e conservatrice e con l’apatia della classe politica.

Secondo la docente di diritto della famiglia all’Università di Algeri, la legislazione in vigore oggi è troppo debole, malgrado dei passi siano stati fatti con l’articolo 40 della nuova Costituzione, che garantisce maggiore protezione delle donne contro la violenza. Nadia Aït Zaï chiede condanne più dure, fino all’ergastolo, e la creazione di un tribunale speciale: “Le donne non denunciano in modo sistematico per paura di ritrovarsi per strada. Se l’assassino di Chaïma Sadou fosse stato posto sotto sorveglianza dopo la prima denuncia, il crimine si sarebbe potuta evitare”. “Non è chiedendo la pena di morte che renderemo giustizia a Chaïma Sadou. Sono le leggi che devono essere cambiate e applicate”, si legge sul sito Féminicides Algérie che, in assenza di statistiche ufficiali, si occupa di censire i femminicidi in Algeria.

All’origine del sito, due giovani femministe, Narimene Mouaci Bahi e Wiame Awres: “Le donne assassinate non sono solo numeri, avevano un nome, delle vite, a volte dei bambini – osservano le due giovani –. Non le dimentichiamo”. Il sito ha contato almeno 41 femminicidi nel 2020, una sessantina nel 2019, ma i numeri sono di molto inferiori alla realtà. In un clima di repressione, ma sulla scia del #MeToo e della rivolta popolare del movimento Hirak, l’8 ottobre due manifestazioni femministe senza precedenti in omaggio a Chaïma Sadou si sono tenute a Algeri e Orano.

“In Marocco, Tunisia e Algeria, la donna è stata confinata nello spazio privato. In questo modo è stata ostacolata la sua piena partecipazione alla vita pubblica e sono stati limitati i suoi diritti. In questi paesi è la legge musulmana a decidere il posto che le donne devono occupare”, spiega ancora l’attivista Nadia Aït Zaï. “Dietro un discorso protettivo, che nasconde l’ipocrisia collettiva, la donna è stata considerata sempre solo come sorella, figlia o moglie, raramente come una persona a pieno titolo – scrive in un editoriale il caporedattore di Liberté Algérie, Hassan Ouali –. Dietro parole affettuose, si cela un desiderio di sottomissione e dominio”. Anche la Tunisia, presentata come “laboratorio della democrazia” nel mondo arabo dalla caduta di Ben Ali nel 2011, non è immune a forme estreme di conservatorismo.

Il presidente Kaïs Saïed ha firmato il 13 agosto un grande passo indietro seppellendo l’uguaglianza tra uomo e donna in caso di eredità, riforma portata avanti dal suo predecessore sotto la pressione dei movimenti femministi, e reintroducendo la lettura letterale del Corano. “La questione dell’eredità è centrale perché tocca il potere materiale degli uomini, sottolinea la teologa marocchina Asma Lamrabet, figura di spicco del femminismo musulmano. Mettere in discussione questo principio religioso significa scalfire i fondamenti del patriarcato arabo-musulmano, dunque l’autorità assoluta degli uomini sulle donne”.

In Tunisia la morte di Rahma Lahmar ha rimesso sul tavolo la questione della pena capitale, in un contesto di crescente insicurezza. Nel 2018 il tasso di criminalità è aumentato del 13% rispetto al 2017. Secondo il sito Inkyfada, nel 2019 sono state registrate quasi 3.000 denunce per violenza sessuale e 13.679 per violenza verbale. Durante il lockdown di marzo, sono stati segnalati quasi 4.000 casi di violenze sulle donne, secondo il ministero tunisino della Giustizia. “L’emozione popolare dopo la morte di Rahma Lahmar è stata alimentata dal sostegno del presidente Saïed alla pena di morte e il dibattito ha preso una dimensione a e politica”, ha spiegato il sociologo Zouheir Ben Jeannet, docente all’Università di Sfax.

Pochi giorni dopo l’omicidio della giovane donna, il 9 ottobre, il tribunale di Tunisi ha condannato a morte un uomo che nel 2018 aveva accoltellato la madre e le sorelle. “La ripresa delle esecuzioni sarebbe un duro colpo per i progressi fatti nel campo dei diritti umani in Tunisia”, ha osservato Amna Guellali di Amnesty International. Molti attivisti temono che il dibattito sulla pena di morte offuschi le vere problematiche sociali, tra cui l’impunità di stupratori e assassini. Nel 2016 quasi 34 femminicidi sono stati censiti dal ministero tunisino della Salute, una cifra molto inferiore alla realtà. In Marocco è lo stupro e omicidio del piccolo Adnane Bouchouf, in un quartiere operaio di Tangeri, a riaprire i dibattiti sulle violenze.

“Queste atrocità non sono fatti di cronaca, ma sintomi delle nostre società maghrebine dove la violenza inflitta a donne e bambini non si riesce a contenere”, osserva Houria, attivista femminista di Tangeri. In una lettera aperta, Abdellah Taïa, primo scrittore musulmano marocchino ad assumere pubblicamente la propria omosessualità, punita nel paese dove l’Islam è la religione di Stato, sottolinea l’incapacità collettiva ad affrontare il problema in profondità: “Si denuncia, ma non si fanno azioni serie per spalancare il vaso di Pandora. Tutti i marocchini che conosco hanno subito violenze sessuali da bambini. Ogni giorno ci sono decine di piccoli Adnane”. In un’intervista a Jeune Afrique, lo scrittore, che nei sui libri ha raccontato le ripetute violenze da lui stesso subite durante l’infanzia, denuncia le leggi liberticide e retrograde vigenti: “Finché esisteranno leggi ipocrite che proibiscono il sesso al di fuori del matrimonio, punendolo con la prigione, esisteranno violenza e omicidio”.

La violenza contro le donne è radicata nelle mentalità, legittimata e socialmente accettata. Da dati ufficiali, i due terzi delle violenze sessuali avvengono nello spazio pubblico in Marocco. In oltre il 90% dei casi si tratta di stupro o tentativi di stupro e le vittime sono principalmente donne di età inferiore ai 30 anni. Fino al gennaio 2014 lo stupratore poteva sfuggire alla prigione sposando la sua vittima se minorenne. La pedofilia è un flagello e un tabù in Marocco. Ong, come la Amdh, l’Associazione marocchina per i diritti umani, denunciano da anni condanne troppo clementi nei confronti dei predatori sessuali. L’associazione Touche pas à mon enfant stima a quasi 30.000 i bambini violentati ogni anno.

 

“Se vincerà Biden, sarà perché è diventato più simile a Trump”

Attento osservatore del populismo e degli sviluppi politici fra le due sponde dell’Atlantico, Matthew Goodwin è un politologo e accademico britannico. È salito agli onori delle cronache nel mondo anglosassone con il suo libro National populism del 2018. Le sue analisi, spesso pungenti e controcorrente, lo rendono uno dei giovani intellettuali europei più interessanti.

Quali sono i fattori trainanti delle elezioni americane?

Le elezioni ci offrono la possibilità di vedere se il liberalismo ha una risposta significativa al populismo. Donald Trump ha vinto nel 2016 perché ha preso in contropiede i democratici nel desiderio di protezione economica e di protezione culturale. Quest’anno, però, Joe Biden si è spinto più oltre di Hillary Clinton nel protezionismo, nella tassazione, nel supporto al “Made in America”. Se riesce a sconfiggere Trump, penso che sarà per questi motivi.

Sono più importanti i temi culturali o quelli economici?

Per la maggior parte degli americani l’economia è la questione principale: su questo Trump ha ancora un vantaggio. Ma sappiamo anche che gli americani sono preoccupati per il coronavirus e, in misura minore, per la sanità. E le questioni culturali come immigrazione e terrorismo sono scese nella lista. Questo rende ancora più difficili le cose per Trump.

Trump ha mantenuto le sue promesse agli emarginati che lo hanno votato nel 2016?

In alcuni settori chiave sì: Cina, tasse, costruzione di una parte del muro e in generale reazione contro il “consenso liberale”. Non tutte queste politiche hanno portato benefici agli elettori “emarginati”, ma alcune sì. Con la crisi, però, Trump ha perso slancio.

Quali sono le principali differenze tra Boris Johnson e Donald Trump?

Anche se gioca su temi populisti, Johnson è istintivamente un liberale sociale ed economico. Trump invece è un “populista puro”, che si colloca nella tradizione nazional-populista americana.

Come giudica la strategia del governo britannico nella crisi?

Mediocre. Anche ora che passiamo a misure più localizzate, continuiamo a non avere una strategia seria. Johnson ha sempre immaginato che la sua premiership avrebbe riguardato la Brexit, la costruzione di una “Gran Bretagna globale” e il miglioramento delle condizioni delle regioni emarginate dell’Inghilterra. In realtà, si è trasformata nella gestione di una crisi. E ora sappiamo che non è molto bravo in questo.

Qual è il ruolo del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak in questa fase?

È diventato molto popolare, ed è facile esserlo quando si dà denaro. Ma non abbiamo ancora una strategia economica chiara per il futuro.

I Tories stanno adottando un approccio keynesiano in economia?

I Tories sono economicamente conservatori e si troveranno a disagio con il livello del debito pubblico. La crisi è costata circa 2 trilioni di sterline ed è chiaro che le tasse devono aumentare. Johnson ha vinto le elezioni perché ha promesso di fare di più per la parte emarginata della Gran Bretagna. Perciò, in teoria, le corporation e chi ha un reddito più alto dovrebbero pagare di più, ma non è chiaro se questo approccio genererà ricavi sufficienti. È dunque probabile che vedremo aumenti più generalizzati della tassazione.

Il partito laburista ha qualche possibilità di riconquistare gli elettori del red wall?

L’unico modo per farlo è affrontare le questioni culturali che interessano a quegli elettori. In tutti i partiti di centrosinistra in Europa c’è un problema fondamentale: i leader vengono dalla classe media, sono professionisti e liberali. Hanno valori e punti di vista in contrasto con quelli dei loro elettori della classe operaia, più conservatori sui temi sociali. Ecco perché le questioni della Brexit e dell’immigrazione sono penetrate nel cuore delle regioni laburiste come un coltello caldo nel burro. I lavoratori erano d’accordo con Johnson sui temi culturali, anche se la pensavano come Corbyn sull’economia. Perciò, i laburisti devono mostrare a quegli elettori che possono trovarsi in sintonia con loro sulla cultura e sull’identità. Di solito, le persone di sinistra derubricano ciò a “razzismo”, il che è ridicolo. Patriottismo e nazionalismo non sono la stessa cosa.

Qual è oggi la strategia vincente in politica?

La nuova formula vincente è tendere un po’ a sinistra sull’economia e un po’ a destra sulla cultura: fare di più sulla ridistribuzione e sulle disuguaglianze e rafforzare allo stesso tempo lo Stato nazione. È una risposta naturale a decenni di globalizzazione basata sul mercato, che ha mostrato poco rispetto per le cose a cui gli elettori comuni tengono di più: famiglia, tradizione, cultura e comunità. Non basta tornare al liberalismo sociale ed economico degli anni 90, quando le élite si erano illuse nel pensare: “è l’economia, stupido” (slogan della prima campagna di Bill Clinton, ndr). Se c’è uno slogan per il nostro tempo, è qualcosa di diverso: “è anche la cultura, stupido”.

Questa strategia può essere integrata in una nuova forma di populismo meno reazionario?

Penso di sì. Ma è possibile per i partiti mainstream affrontare queste problematiche anche senza ricorrere al populismo. Decenni fa lo facevano: tra il 1945 e il 1970 la maggior parte dei politici laburisti in Gran Bretagna era apertamente patriottica e si preoccupava con passione di quello che succedeva ai lavoratori. L’inizio della “politica dell’identità”, invece, ha posto un grande dilemma per la sinistra. Vista con gli occhi della maggior parte degli elettori, si sta allontanando dalle sue origini per focalizzarsi molto di più sull’etnia che sulla classe sociale.

A Bruxelles protestano per lo stop alla diaria

C’è il negazionista croato Mislav Kolakusic che scrive un’accorata mail accusando il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli di “voler chiudere le porte per la paura di una possibile febbre (il covid, ndr)”. Ma anche il “frugale” finlandese Nils Torvalds, del gruppo liberale “Renew”, che non vuole rinunciare alla sua diaria perché “molti di noi hanno preso casa a Bruxelles con un contratto di uno o tre anni”. E infine il falco tedesco del Ppe, Markus Ferber, che proprio non ci sta a vedersi cancellato il rimborso giornaliero: l’esponente della Csu se la prende con la decisione di Sassoli di far svolgere i lavori dell’Europarlamento in via telematica accusandolo di voler “ostacolare” gli europarlamentari e di aver fatto perdere la “legittimità” all’istituzione.

Queste sono solo alcune delle lamentele, giunte via mail all’ufficio di Sassoli dopo la decisione del Presidente di chiudere l’Ufficio centrale registri di Bruxelles dove ogni giorno i componenti del Parlamento Ue devono registrarsi per ottenere la diaria giornaliera da 323 euro. Il Belgio infatti è uno degli Stati europei più colpiti dal covid con oltre 25mila casi giornalieri e da oggi è in lockdown. Se i lavori del Parlamento Ue si tengono online da marzo, gli uffici degli europarlamentari e dei loro staff sono sempre rimasti aperti, ma per evitare nuovi contagi anche nel Palazzo, giovedì scorso l’ufficio di Presidenza ha inviato una nota a tutti gli europarlamentari, che il Fatto ha potuto leggere, secondo cui per “ridurre al minimo i rischi per la salute dei membri, del personale e di altre persone che lavorano nel Parlamento” l’Ufficio centrale registri rimarrà chiuso temporaneamente dal 2 al 30 novembre. Ergo: basta diaria per almeno un mese. Bum. Nelle ultime settimane infatti più di 200 europarlamentari si sono registrati come presenti prima di partecipare ai lavori dal proprio ufficio solo per intascare la diaria giornaliera. Ma da oggi Sassoli ha deciso di eliminare questa prassi provocando la rivolta di molti che, nonostante i 6.600 euro di indennità più rimborsi, non vogliono rinunciare anche ai 323 euro giornalieri, in spregio alla crisi di mezza Europa. Tra i rivoltosi c’è anche l’europarlamentare tedesco di estrema destra (Alternative Fur Deutschland), iscritto al gruppo della Lega “Identità e Democrazia”, Maximilian Krah che accusa Sassoli di agire “contro le regole e contro i trattati”, mentre il greco dei neo nazisti di Alba Dorata Ioannis Lagos (condannato a metà ottobre a 13 anni perché a capo di “un’organizzazione criminale”) invece si ingegna per “firmare la presenza in modo elettronico” perché “non è giusto essere privati delle diarie di cui abbiamo diritto”.

Gli europarlamentari italiani condividono la decisione di Sassoli e nessuno di loro ha risposto alla comunicazione con una lamentela. Solo la dem Alessandra Moretti, pur rispettando la scelta di eliminare la diaria, parla di “danno” per chi come lei “vive a Bruxelles” e va “tutti i giorni in ufficio”. Ma, in tempi di crisi economica, anche in Italia non va meglio. A luglio era scoppiato il caso dei consigli regionali in cui gli eletti avevano intascato il “bonus trasferta” nonostante fossero collegati da casa: per questo la Corte dei Conti di Toscana e Veneto avevano aperto due inchieste e i presidenti Eugenio Giani e Luca Zaia avevano promesso di modificare la legge sui rimborsi. Così non è stato. In Veneto la nuova legge non è in cantiere mentre in Toscana la toppa è stata peggiore del buco. Il consiglio regionale ha modificato la legge prevedendo che una volta “disposta la chiusura del Consiglio per oltre 15 giorni” non venga corrisposta la quota variabile del rimborso. Peccato che l’articolo dopo ha svelato l’inganno: in caso di consiglio “ibrido” – metà in presenza e metà collegati online – il rimborso spetterà anche a coloro che lavorano da remoto.