Si chiamava Chaïma Sadou e aveva 19 anni. È stata trovata morta il 3 ottobre scorso vicino a Boumerdes, in Algeria, in una stazione di servizio abbandonata. È stata picchiata, violentata e bruciata viva da un uomo contro il quale aveva già sporto denuncia. Rahma Lahmar, 29 anni, è stata trovata morta il 25 settembre in un fossato nella periferia nord di Tunisi. Rientrando a casa dal lavoro ha incrociato un uomo già condannato due volte per tentato omicidio e furto. Infine, Adnane Bouchouf, è stato trovato morto l’11 settembre, sepolto sotto un albero poco lontano da casa sua, in un quartiere popolare di Tangeri, in Marocco. Aveva solo 9 anni ed è stato violentato e ucciso da un vicino.
La violenza contro le donne e i bambini è una piaga profonda in Maghreb. Come già successo in passato, anche dopo questi tre crimini, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, si è acceso il dibattito sulla pena di morte. In Marocco la pena capitale è ancora in vigore, ma non è applicata dal 1993. La sua abolizione non fa l’unanimità e il re Mohammed VI evita di prendere posizione. Da parte sua, il presidente tunisino, Kaïs Saïed, non ha mai nascosto di sostenere la pena di morte e si è detto favorevole a ricorrervi nei casi di femminicidio, sollevando l’indignazione dei difensori dei diritti umani. In Tunisia non ci sono esecuzioni dalla moratoria decisa nel 1991 dal defunto dittatore Ben Ali. In Algeria, la pena di morte, che non è applicata dal 1993, è ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica. In un video diventato virale, la madre di Chaïma Sadou implora il presidente Tebboune di far giustiziare l’assassino di sua figlia applicando “el Qissas”, la legge del taglione prevista dal diritto musulmano. “La pena capitale non impedirà ai criminali di agire”, osserva l’avvocato Nadia Aït Zaï, nota figura del femminismo in Maghreb, che si batte da decenni scontrandosi con una potente corrente patriarcale e conservatrice e con l’apatia della classe politica.
Secondo la docente di diritto della famiglia all’Università di Algeri, la legislazione in vigore oggi è troppo debole, malgrado dei passi siano stati fatti con l’articolo 40 della nuova Costituzione, che garantisce maggiore protezione delle donne contro la violenza. Nadia Aït Zaï chiede condanne più dure, fino all’ergastolo, e la creazione di un tribunale speciale: “Le donne non denunciano in modo sistematico per paura di ritrovarsi per strada. Se l’assassino di Chaïma Sadou fosse stato posto sotto sorveglianza dopo la prima denuncia, il crimine si sarebbe potuta evitare”. “Non è chiedendo la pena di morte che renderemo giustizia a Chaïma Sadou. Sono le leggi che devono essere cambiate e applicate”, si legge sul sito Féminicides Algérie che, in assenza di statistiche ufficiali, si occupa di censire i femminicidi in Algeria.
All’origine del sito, due giovani femministe, Narimene Mouaci Bahi e Wiame Awres: “Le donne assassinate non sono solo numeri, avevano un nome, delle vite, a volte dei bambini – osservano le due giovani –. Non le dimentichiamo”. Il sito ha contato almeno 41 femminicidi nel 2020, una sessantina nel 2019, ma i numeri sono di molto inferiori alla realtà. In un clima di repressione, ma sulla scia del #MeToo e della rivolta popolare del movimento Hirak, l’8 ottobre due manifestazioni femministe senza precedenti in omaggio a Chaïma Sadou si sono tenute a Algeri e Orano.
“In Marocco, Tunisia e Algeria, la donna è stata confinata nello spazio privato. In questo modo è stata ostacolata la sua piena partecipazione alla vita pubblica e sono stati limitati i suoi diritti. In questi paesi è la legge musulmana a decidere il posto che le donne devono occupare”, spiega ancora l’attivista Nadia Aït Zaï. “Dietro un discorso protettivo, che nasconde l’ipocrisia collettiva, la donna è stata considerata sempre solo come sorella, figlia o moglie, raramente come una persona a pieno titolo – scrive in un editoriale il caporedattore di Liberté Algérie, Hassan Ouali –. Dietro parole affettuose, si cela un desiderio di sottomissione e dominio”. Anche la Tunisia, presentata come “laboratorio della democrazia” nel mondo arabo dalla caduta di Ben Ali nel 2011, non è immune a forme estreme di conservatorismo.
Il presidente Kaïs Saïed ha firmato il 13 agosto un grande passo indietro seppellendo l’uguaglianza tra uomo e donna in caso di eredità, riforma portata avanti dal suo predecessore sotto la pressione dei movimenti femministi, e reintroducendo la lettura letterale del Corano. “La questione dell’eredità è centrale perché tocca il potere materiale degli uomini, sottolinea la teologa marocchina Asma Lamrabet, figura di spicco del femminismo musulmano. Mettere in discussione questo principio religioso significa scalfire i fondamenti del patriarcato arabo-musulmano, dunque l’autorità assoluta degli uomini sulle donne”.
In Tunisia la morte di Rahma Lahmar ha rimesso sul tavolo la questione della pena capitale, in un contesto di crescente insicurezza. Nel 2018 il tasso di criminalità è aumentato del 13% rispetto al 2017. Secondo il sito Inkyfada, nel 2019 sono state registrate quasi 3.000 denunce per violenza sessuale e 13.679 per violenza verbale. Durante il lockdown di marzo, sono stati segnalati quasi 4.000 casi di violenze sulle donne, secondo il ministero tunisino della Giustizia. “L’emozione popolare dopo la morte di Rahma Lahmar è stata alimentata dal sostegno del presidente Saïed alla pena di morte e il dibattito ha preso una dimensione a e politica”, ha spiegato il sociologo Zouheir Ben Jeannet, docente all’Università di Sfax.
Pochi giorni dopo l’omicidio della giovane donna, il 9 ottobre, il tribunale di Tunisi ha condannato a morte un uomo che nel 2018 aveva accoltellato la madre e le sorelle. “La ripresa delle esecuzioni sarebbe un duro colpo per i progressi fatti nel campo dei diritti umani in Tunisia”, ha osservato Amna Guellali di Amnesty International. Molti attivisti temono che il dibattito sulla pena di morte offuschi le vere problematiche sociali, tra cui l’impunità di stupratori e assassini. Nel 2016 quasi 34 femminicidi sono stati censiti dal ministero tunisino della Salute, una cifra molto inferiore alla realtà. In Marocco è lo stupro e omicidio del piccolo Adnane Bouchouf, in un quartiere operaio di Tangeri, a riaprire i dibattiti sulle violenze.
“Queste atrocità non sono fatti di cronaca, ma sintomi delle nostre società maghrebine dove la violenza inflitta a donne e bambini non si riesce a contenere”, osserva Houria, attivista femminista di Tangeri. In una lettera aperta, Abdellah Taïa, primo scrittore musulmano marocchino ad assumere pubblicamente la propria omosessualità, punita nel paese dove l’Islam è la religione di Stato, sottolinea l’incapacità collettiva ad affrontare il problema in profondità: “Si denuncia, ma non si fanno azioni serie per spalancare il vaso di Pandora. Tutti i marocchini che conosco hanno subito violenze sessuali da bambini. Ogni giorno ci sono decine di piccoli Adnane”. In un’intervista a Jeune Afrique, lo scrittore, che nei sui libri ha raccontato le ripetute violenze da lui stesso subite durante l’infanzia, denuncia le leggi liberticide e retrograde vigenti: “Finché esisteranno leggi ipocrite che proibiscono il sesso al di fuori del matrimonio, punendolo con la prigione, esisteranno violenza e omicidio”.
La violenza contro le donne è radicata nelle mentalità, legittimata e socialmente accettata. Da dati ufficiali, i due terzi delle violenze sessuali avvengono nello spazio pubblico in Marocco. In oltre il 90% dei casi si tratta di stupro o tentativi di stupro e le vittime sono principalmente donne di età inferiore ai 30 anni. Fino al gennaio 2014 lo stupratore poteva sfuggire alla prigione sposando la sua vittima se minorenne. La pedofilia è un flagello e un tabù in Marocco. Ong, come la Amdh, l’Associazione marocchina per i diritti umani, denunciano da anni condanne troppo clementi nei confronti dei predatori sessuali. L’associazione Touche pas à mon enfant stima a quasi 30.000 i bambini violentati ogni anno.