Gag in musica: quando le parodie te le suonano

 

IL COMICO IN MUSICA COMICA

Come tutte le gag, anche quelle in musica sono parodie (Qc #67); riguardano la partitura e/o l’esecuzione; e possono essere innocenti (sono mero intrattenimento) oppure ostili (criticano altra musica). Le gag comiche giocano e basta: ne sono esempi il “Duetto dei gatti” di Rossini, dove il canto imita i miagolii (bit.ly/3ukBWgW); e Cab Calloway che canta “Minnie the Moocher” coinvolgendo il pubblico in un gioco vorticoso di risposte imitative (bit.ly/3u8KOq9). Le gag spiritose esprimono idee polemiche: “Il cavaliere della rosa” di Richard Strauss sbeffeggia alcuni cliché della musica del XVII secolo (bit.ly/34i0iNx). Le gag umoristiche sono ciniche: Ruben & the Jets, l’album di Frank Zappa, fa il verso al romantico doo-wop (bit.ly/ 3AIzLVP). Spiritosi e umoristici sono gli “Embrioni secchi” con cui Erik Satie sfotte Debussy, Chopin e Beethoven (bit.ly/3Hf6JPT). Mentre le gag comiche generano un divertimento immediato, in quanto facilmente comprensibili, le citazioni melodiche, armoniche e stilistiche delle parodie musicali spiritose o umoristiche richiedono cultura per poter essere comprese e apprezzate: sono metalinguaggio (Stefani, 1977). Le citazioni musicali, ovviamente, non sempre sono una gag: i jazzisti, per esempio, se ne servono come omaggio ai maestri. Lo stesso fa l’Ave Maria di Gounod con il Preludio n. 1 in do maggiore di Bach (bit.ly/35DFbpF). Si usano citazioni anche per evocare un’epoca o un’atmosfera (Stravinskij, Bartók e Copland riutilizzano melodie folk, gli EELST pescano da tutto il retaggio pop); per commentare uno stile o un autore: è il modo di Kurt Weill, il cui Mahagonny fu una berta spaccablocchi contro l’opera ottocentesca (bit.ly/3od1sRE); e per comporre con materiali pre-esistenti, come fanno i rapper. I materiali musicali diventano gag quando operazioni metaboliche di aggiunzione, sottrazione, sostituzione, permutazione (Qc # 46) ne trasformano i pattern (melodici, armonici, ritmici, timbrici, di orchestrazione, di esecuzione, di registrazione) rendendoli non pertinenti al contesto (Qc # 67) e alla sua sceneggiatura (frame, Qc #50): è il motivo per cui ogni novità musicale, come ogni novità artistica, ha sempre qualcosa della gag (Qc # 86).

La gag in musica può agire sul piano del contenuto (il bersaglio è un brano noto) e/o su quello dell’espressione (il bersaglio è un sound, un cliché, un modo di cantare suonare arrangiare &c.). Prato (1991) distingue cinque livelli di complessità crescente, dalla gag puramente musicale a quella ibridata con altri codici (verbali, teatrali): Livello sintattico. La gag agisce sulle regole stabilite della composizione musicale, cioè sulle attese indotte dal sistema tonale: cantare fuori chiave (alla Cathy Berberian), sbagliare apposta una nota (bit.ly/341MeYE, a 0.43″), rifare in minore un noto motivo in maggiore (bit.ly/3Gdu7My), convertire una canzone triste in un samba allegro (bit.ly/ 35Kc2Jt, a 5′ 33″), &c. Negli anni 10 del secolo scorso, Marinetti proponeva di “eseguire una sinfonia di Beethoven a rovescio, cominciando dall’ultima nota”.

Livello intertestuale. La gag parodia i materiali musicali:
a) rinviando a un contenuto noto: Frank Zappa imita la voce di Bob Dylan in Flakes (bit.ly/3IMthbe a 1’23”); Beethoven fa la caricatura del Leporello di Notte e giorno faticar (bit.ly/3ALlYhb) nella Variazione Diabelli n.12 (bit.ly/3oddFFT); i Flying Lizards perculano James Brown con la loro versione di Sex Machine (bit.ly/ 3IJV0cy); Erik Satie compone la Sonatine bureaucratique (bit.ly/3g7CcYH) facendo il verso alla celeberrima Sonatina di Clementi (bit.ly/3IQ83Jz); la Temple City Kazoo Orchestra rifà coi kazoo Whole Lotta Love dei Led Zeppelin (bit.ly/ 3o7R7Gn);
b) rinviando a un’espressione nota (modalità esecutiva, stile, genere &c.): la Anachronic Jazz Band riarrangia Giant Steps di Coltrane nello stile tradizionale di King Oliver (bit.ly/3ud4t8r); Ann Bancroft e Mel Brooks cantano Sweet Georgia Brown in polacco nel film Essere o non essere (bit.ly/3INJeOh); Gefilte Joe & the Fish traducono Walk on the Wild Side in yiddish (Walk on the Kosher Side: bit.ly/3rdSRQE); Celentano inventa un grammelot inglese in Prinsencolinensinaiciusol; gli EELST usano la tradizione del prog in Plafone (bit.ly/3GdPTj9);
c) giustapponendo mondi musicali diversi: in Restless Night, la Incredible String Band contrasta un arrangiamento cool jazz con melismi mediorientali (bit.ly/34nStFW); i Dead Kennedys interrompono il punk hardcore di Chemical Warfare con un valzer viennese suonato alla chitarra elettrica (bit.ly/3odfBhD); Spike Jones esegue una versione da banda circense della suite da Lo schiaccianoci di Ciaikovskij (bit.ly/32KnvaT); Berio arrangia in stile barocco i Beatles (bit.ly/3KYIsQH). C’è anche la gag involontaria del kitsch alla James Last: arrangiare melodie pop come fossero sinfonie di Mahler (bit.ly/3GeO7hC). All’estremo opposto, l’anti-kitsch di Third Reich’n’Roll dei Residents, un lungo collage di motivi di successo (da Land of 1000 Dances a Hey Jude, da Light My Fire a Sunshine of Your Love), miniaturizzati a pochi secondi l’uno (bit.ly/ 3Gej4CH).

Livello extra-testuale. L’aggiunzione al brano di elementi extra-musicali: urla, risate, gemiti orgasmici, sussurri, lallazioni, rumori. Due esempi pop sono Revolution 9 (bit.ly/32MGlOA) e Je T’aime… Moi non plus (bit.ly/ 3AHZygI); ma anche la musica colta vi ricorre, come fa Berio con la voce femminile registrata in Visage (bit.ly/ 3rfCtiB).

Livello verbale. È quello dei testi di opere buffe, operette, musical e canzoni comico/satiriche (Qc #58). La lista sarebbe infinita. Mi limito a Leo Chiosso, paroliere per Buscaglione, Lelio Luttazzi (Legata ad uno scoglio), Gaber (Torpedo Blu), e co-autore della Canzonissima di Dario Fo.

Livello teatrale. I testi comici e satirici vengono infine interpretati in modo divertente: esagerazioni mimiche e gestuali, difetti di pronuncia, aberrazioni stilistiche. Ogni elenco è incompleto e fa torto agli esclusi. Fra i nostri: Petrolini (bit.ly/3scgZSJ), Rascel (bit.ly/3oiemh6), Buscaglione (bit.ly/3gjE5RS), Carosone (bit.ly/34sixjB), il Quartetto Cetra (bit.ly/ 3s6ti2Y), Fo e Jannacci (bit.ly/35XpBW5), Cochi & Renato (bit.ly/3Lu6mDZ), Gaber (bit.ly/3JdUeEP), Teocoli (bit.ly/3B4BzIK), Proietti (bit.ly/35PMTNr), gli Squallor (bit.ly/3rkYr3J), gli Skiantos (bit.ly/3HnLgEI), gli EELST (bit.ly/3sciSPj), Corrado Guzzanti (bit.ly/ 3APDP6G), Checco Zalone (bit.ly/34suSnC). Qui Victor Borge sabota il frame del concerto (Qc #50) agendo su ognuno dei 5 livelli (vbit.ly/3GhGKpM); lo stesso fa PDQ Bach trattando l’esecuzione della 5ª di Beethoven come un evento sportivo (bit.ly/341MeYE). Lascio il finale al Beethoven di John Belushi che diventa Ray Charles: bit.ly/3IJuno6.

93. Continua

La flebo dei sussidi non salverà l’auto

Può capitare solo in Italia. Che, per quasi tre anni, il governo, la politica e le parti sociali (con pochissime eccezioni, come quella della Fiom-Cgil), ignorino come la famiglia Agnelli (oggi, la famiglia Elkann) abbia ceduto di fatto la Fiat e la sua alleanza strategica con la statunitense Chrysler (riunite da Sergio Marchionne nella multinazionale Fca), grazie a un palese meccanismo legato al concambio azionario, alla transalpina Psa, partecipata dalla famiglia Peugeot e, in particolare, dallo Stato francese.

E che, solo nella settimana che si sta concludendo, tocchi invece in maniera quasi surreale al Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, di solito preposto a controllare fatti e misfatti dei nostri spioni), dichiarare che il “re è nudo”, e cioè che Stellantis, il quarto-quinto gruppo mondiale dell’auto nato da quella compravendita, è sotto il dominio di Parigi, nella salda alleanza tra privati e capitale pubblico (lo Stato francese ne possiede il 6,1%). D’altra parte, ormai solo l’informazione controllata da John Elkann si rifiuta di ammettere che è così: come dimostra l’epifania di un Cda a maggioranza francese, la gestione totale delle strategie affidata all’ad Carlos Tavares, già leader di Peugeot, e un prospetto di quotazione consegnato un anno fa ai mercati nel quale si parlava, senza reticenza alcuna, di “acquisizione” da parte di Psa.

Non contento di questa strana (eppur preziosa) divagazione contenuta nella sua relazione annuale, però, il Copasir si spinge addirittura a fare una proposta: per bilanciare il peso pubblico di Parigi, Roma dovrebbe entrare nella proprietà del gruppo automobilistico utilizzando Cassa Depositi e Prestiti. Qualcosa che avrebbe potuto e dovuto interrogare la politica italiana e il governo (sia il Conte 2 che l’esecutivo Draghi) almeno un anno fa e che adesso, invece, appare come il simbolo di una resa incondizionata.

Nonostante ciò, la strampalata provocazione del Copasir ha almeno un merito: delineare, cioè, i contorni della battaglia che si sta conducendo in questi giorni in Italia attorno al tema degli incentivi per l’auto, il crollo del mercato dell’automotive (-20% cento a gennaio), i rincari dell’energia e la scarsità di microchip per gli allestimenti delle vetture, la transizione ecologica europea verso l’abbandono dei motori termici entro il 2035, le difficoltà della componentistica e le decisioni che da Parigi, guardando in primis agli interessi francesi, Tavares dovrà adottare per un’Italia dove Stellantis ha ancora sette stabilimenti. È il numero nazionale più alto dei suoi siti produttivi dislocati in Francia, Germania, Spagna e Italia, a cominciare dalla storica e mastodontica (oltre 3 milioni di mq) Fiat Mirafiori.

Quella Mirafiori nella quale, durante una trattativa sindacale del 2008, fu proprio Marchionne a spiegare a Giorgio Airaudo, allora segretario della Fiom Piemonte e oggi neo segretario della Cgil regionale – che lo sollecitava a fare di Torino il cuore della ricerca e della futura produzione dell’auto elettrica – come fossero proprio “gli azionisti a non voler investire soldi in quel progetto”. Così, il manager italo-canadese dirottò tutti gli interessi della Fiat verso l’alleanza negli Usa. “Di fatto – rievoca ancora Airaudo – bloccando qualsiasi innovazione della produzione italiana. Marchionne da quel momento cominciò a dire che l’elettrico non era il futuro, anche se negli Usa fu realizzata la versione elettrica della 500, una delle garanzie chieste da Obama per il prestito a favore di Chrysler. Ma le conseguenze di quella strategia, più degli azionisti che del manager, furono evidenti: straordinari affari per la proprietà, come dimostra l’accordo con i francesi, ma un’arretratezza assoluta dell’Italia sul fronte dell’innovazione dell’automotive”.

E sono dunque questi gli interessi spesso non dichiarati, le cattive eredità e i segnali negativi con i quali devono fare i conti adesso Draghi e i suoi ministri attorno alle richieste sempre più urgenti che, riguardo agli incentivi pubblici (e non solo per il motore elettrico o le auto ibride, ma ancora e con più fretta per le vetture a motore termico), giungono da Stellantis. Nei giorni scorsi, una prima discussione interministeriale, sollecitata da un’inedita alleanza tra sindacati e Federmeccanica, ha già cominciato ad affrontare il tema e una seconda riunione è prevista per questa settimana. Ma c’è un convitato di pietra sino ad oggi assente: Carlos Tavares, appunto. Colui con il quale nessun governante italiano, sia centrale che delle amministrazioni locali interessate agli insediamenti della ex Fiat, è mai riuscito a parlare, ricevendo invece, e solo per via mediatica, le sue continue sollecitazioni per la concessione degli incentivi. In un Paese dove la produzione, che è solo quella di Stellantis, è crollata a poco più di 500 mila vetture e 200 mila veicoli commerciali e rispetto alla quale l’ad di Parigi ha già lasciato intendere più volte che, se i numeri del 2022 saranno inferiori a quelli del 2019, sarà necessario, anche se “malvolentieri”, intervenire. In quell’Italia “vaso di coccio” predestinato, stretta com’è tra la supremazia transalpina e il peso di rappresentare la realtà con più siti produttivi del gruppo e in una situazione nella quale i soli incentivi significherebbero assicurare nulla di più di una breve sopravvivenza, sottoposta sempre alla possibile “ghigliottina” francese.

Esiste un modo diverso per affrontare tutto questo? Gettata al vento quasi tre anni fa l’opportunità di un ingresso dello Stato italiano nella proprietà, oggi evocata dal Copasir, la strada giusta non può nemmeno essere quella dei confronti interministeriali, peraltro sollecitati dalle parti sociali e non dal gruppo.

Per stanare davvero Stellantis, per pretendere che Tavares venga davvero in Italia a discuterne, serve dunque l’intervento diretto di Mario Draghi: per mettere sul tavolo gli incentivi, ma ottenendo chiarezza sul futuro degli stabilimenti italiani, garanzie rispetto a una possibile cannibalizzazione transalpina, partecipazione a una transizione ecologica che trovi i tempi e i modi per assicurare conservazione di posti di lavoro, riconversioni tecnologiche e aziendali, interazione tra le innovazioni e gli ammortizzatori sociali. Il tutto da condividere anche con i sindacati e le amministrazioni locali. Un Draghi che, senza una partecipazione pubblica, ha certo meno poteri e meno possibilità persuasive di Macron, ma che pure a Tavares potrebbe ricordare che “un lavoro me lo posso trovare anche da solo”. Senza riguardi o sudditanze rispetto all’ex impero della galassia Agnelli che fu.

 

L’appello Ferfa a Cingolani: “Ridateci il Corpo forestale”

 

“Ripristinate il Corpo dei Forestali”. L’appello è firmato Ezio Di Cintio, segretario nazionale della Federazione rinascita forestale e ambientale. Ed è arrivata direttamente sulla scrivania del ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani. In vista dell’estate e, probabilmente, di una nuova stagione degli incendi, arriva la richiesta: “L’Italia avrebbe dovuto investire sul potenziamento della sua unica forza di polizia a ordinamento civile deputata alla tutela ambientale invece, inspiegabilmente, ha preferito disfarsene e consegnare le funzioni a un corpo militare”.

Confindustria, il beato Fontana finisce nella tela della Cattedrale

Non c’è più religione nell’alto dei cieli se è vero – e sembra così – che i santi Sabino e Benedetto si sono ritrovati in quello che doveva essere un loro serrato faccia a faccia, stretti ai fianchi da due sconosciuti: don Felice Bruno e Sergio Fontana. Il primo parroco della Basilica di Canosa, il luogo della devozione, il secondo presidente della fondazione nonché presidente di Confindustria Puglia che ha omaggiato i fedeli con il ritratto dell’incontro tra santi. Incredibilmente però il pittore incaricato di inquadrare la scena, Antonio Lomuscio, ha imposto la presenza, oltre ai santi, dei due committenti. “A loro insaputa”, ha spiegato. Il quadro è giunto in cattedrale, i fedeli hanno però iniziato a mugugnare. Il parroco è sembrato ritrarsi mentre il presidente confindustriale s’è assai mortificato, colpito da tanta inconsueta verve antagonistica. Il pittore, umiliandosi davvero, ha confermato: ho fatto tutto io, loro non hanno colpa.

Piegato dalle polemiche politiche (20 mila euro è costato il ritratto), il quadro è rimasto sospeso, come un’opera incompiuta. Il pittore ha provveduto a coprire il volto degli usurpatori di fede. Una mascherina su quello del presidente della fondazione canosina e un crocifisso sull’altro, quello del parroco. Polemica conclusa? Macché? Il nascondimento non ha sortito l’effetto sperato, tanto che il sindaco della città ha fatto lievitare il senso dello scontro: “No alle autocelebrazioni con i soldi pubblici”.

In effetti il bilancio della Fondazione si tiene in pari con i soldi del municipio, e il ritratto era appunto nel segno di un memorial di santità. Giunti al punto di non ritorno il pittore, vieppiù mortificato, si è dichiarato pronto a eliminare i corpi dei due e lasciare che il popolo di Dio, di Canosa e dintorni, elevi d’ora in avanti la preghiera ai santi senza contrarre nessun debito di fede per Confindustria.

Maturità, la seconda prova “non si tocca”. Bianchi tira dritto. Studenti presto in piazza

“Deludente”. Usa una sola parola Tommaso Biancuzzi, il coordinatore della Rete degli studenti medi per definire l’incontro con il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, sulla questione maturità. Il professore ferrarese, venerdì, ha aperto ai ragazzi le porte del suo ufficio, ma ha chiuso le orecchie: “Ci è stata solo comunicata una decisione senza nessuna disponibilità a discutere”. Un muro contro muro che porterà di nuovo gli studenti in piazza per una mobilitazione nazionale ancora più vasta di quelle fatte finora. Almeno così dice Biancuzzi, che dopo l’incontro con l’ex rettore è ancora più arrabbiato: “Da settimane chiedevamo di incontrare Bianchi per discutere della maturità. Ci aspettavamo di poter costruire un esame diverso. Abbiamo chiesto di aprire un tavolo di confronto costante con le rappresentanze studentesche per l’esame di Stato, ma nulla. Il no di Bianchi su tutte le nostre proposte sulla maturità non può che portarci a continuare la protesta”. Un tentativo in extremis quello della Rete degli studenti medi, prima della decisione finale del ministro che ha fatto una sola concessione ai ragazzi accogliendo la proposta dell’Ufficio di coordinamento nazionale delle Consulte: le prove d’esame varranno meno nel conteggio finale rispetto al punteggio per il percorso, svolto nel percorso scolastico; 50 punti per il triennio e 50 per le prove (15 per ciascuno scritto e 20 per l’orale) a differenza della proposta iniziale che prevedeva 60 punti per la prova.

Resta, invece, la seconda prova che gli studenti (tutti) chiedevano di eliminare perché “fuori luogo e senza contesto”. Secondo i giovani, dopo due anni in cui molti laboratori non si sono potuti utilizzare, fare un test d’indirizzo non tiene in considerazione le difficoltà reali dei maturandi. Una richiesta avanzata, nei giorni scorsi, anche dal Consiglio superiore della Pubblica istruzione, che nel parere (obbligatorio ma non vincolante) inviato a Bianchi ha scritto: “L’accertamento delle competenze nelle materie di indirizzo può avvenire anche con modalità più adeguate alla situazione, non prevedendo necessariamente la seconda prova scritta”. Nulla da fare. Il ministro va avanti per la sua strada e a Metropoli, la trasmissione in streaming del quotidiano La Stampa, ha detto: “È tempo di riprendere un percorso ritmato della scuola che preveda una prova di italiano e una seconda prova fatta dalle commissioni interne”.

Gazzettino Venezia, giornalisti vincono: assemblee valide

Come si vive nelle redazioni dei giornali in tempo di Covid? Tra assenze per malattia, lavoro a distanza, turni aumentati per tappare i buchi e peso scaricato sui collaboratori, le frizioni sono all’ordine del giorno. Niente di nuovo, verrebbe da dire conoscendo l’ambiente. Ma non dappertutto l’aria si arroventa fino a produrre ricorsi alla magistratura. È accaduto al Gazzettino di Venezia, dove il sindacato dei giornalisti del Veneto ha portato davanti al giudice il direttore Roberto Papetti e il responsabile del personale Roberto Ganelli, al culmine di un conflitto partito ancora a luglio 2021. La direzione rivendicava l’assoluta discrezionalità nell’organizzazione del lavoro, nell’attribuzione di carichi e mansioni ai redattori e nella gestione dei collaboratori, rifiutando gli incontri con il Cdr previsti dall’art. 34 del contratto. Arrivando a impedire lo scorso settembre un’assemblea, perché secondo Ganelli doveva essere chiesta e non semplicemente comunicata. Posizione che invece il tribunale del lavoro, giudice Margherita Bortolaso, ha sanzionato: un’assemblea va preventivamente comunicata, non esiste l’autorizzazione. La sentenza del 31 gennaio impone anche alla direzione del Gazzettino un calendario di incontri quindicinali con il Cdr, periodicità che era stata irrisa dalla proprietà. Il giudice ha invece respinto due altre richieste del sindacato: condannare la proprietà per il rifiuto di pubblicare un comunicato e il direttore Papetti per un editoriale polemico contro lo sciopero dei suoi giornalisti.

Il cameo di Buzzi nel film coi fondi del Lazio. Poi la “festa garantista”: “Alcol e socialismo”

Isoldi (“pochi”, assicurano i produttori) li ha messi la Regione Lazio. O meglio, la sua “agenzia” Laziocrea. Il docu-corto racconta “una storia di riscatto”, ovvero “dal carcere alla rinascita”. Gli ultimi minuti del film, però, rischiano di diventare uno spot (seppure “totalmente gratuito”) al ristopub aperto a Roma da Salvatore Buzzi. Lui, il “re delle coop”, principale imputato dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo (attende il ricalcolo della pena, ma rischia una condanna a 12 anni e 10 mesi, di cui parte già scontati) appare nelle vesti di “oste” del suo Buzzi’s Burger, aperto da pochi mesi alla periferia sud-est di Roma, dove i panini prendono i nomi dei personaggi di Romanzo Criminale e dove “i magistrati pagano doppio”. La pellicola La buona libertà racconta la storia di Marco Costantini, ex detenuto che sconta il suo debito con la giustizia, poi entra nel Partito Radicale e diventa dirigente di Nessuno Tocchi Caino. “Alla fine del film – spiega al Fatto Ettore Terzo, proprietario della casa di produzione Strikemonth srl – c’è il colpo di scena, con il protagonista che guarda Roma dall’alto e poi incontra Buzzi, un altro che sta costruendo la sua seconda rinascita”. Dice ancora Terzo: “Abbiamo vinto un bando con Laziocrea, poche migliaia di euro. Buzzi fa solo un cameo, qui si vuole raccontare una storia di libertà e di speranza”. Per questo “la Regione Lazio co-produce il documentario, ma c’è da dire che qui non ci guadagna nessuno, già è tanto se non ci si perde”.

Le riprese sono state immortalate in una foto pubblicata sul blog Mondoliberonlinews.com e a seguire – si legge sul sito – c’è stata anche una serata karaoke fra canzoni di Lucio Battisti e “brani della tradizione socialista, compresa l’Internazionale”. Alla cena, si legge ancora nel resoconto – il cui link è stato spammato da Buzzi ai suoi contatti whatsapp – hanno partecipato il giornalista Aldo Torchiaro del Riformista (autore dei presunti “scoop” su Report) e l’ex deputato socialista Bobo Craxi, esibitosi chitarra e voce in un “concerto garantista e anticlericale”. “Abbiamo trovato la via alcolica al socialismo”, ha scherzato Buzzi sempre via sms. Dalla Regione Lazio spiegano che “si tratta di finanziamenti che non entrano nel merito dell’oggetto del progetto, dei luoghi delle riprese o di chi ci lavora. Sono valutazioni squisitamente tecniche. Fra l’altro, il pub di Buzzi ha le autorizzazioni per lavorare e la Regione non può impedire a una troupe di filmarlo”.

La Dia: “Graviano in cella disse che B. gli chiese le stragi”

Giuseppe Graviano, il boss responsabile delle stragi del 1992 e 1993, confidò al suo compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, il 10 aprile 2016, che Silvio Berlusconi gli chiese “una bella cosa” quando voleva scendere in politica nel 1992. Questo era noto. La novità è che, secondo la Dia, se si guarda ai gesti fatti da Graviano quel giorno mentre pronuncia quelle parole, la “bella cosa” sarebbe “con tutta probabilità” una strage. Di qui la Dia ritiene che si generino “importantissimi elementi probatori in merito ai fatti per cui si indaga (cioè le stragi del 1993, ndr) con specifico riferimento a Silvio Berlusconi”.

Secondo la Dia, a un certo punto del dialogo del 10 aprile 2016, quando Graviano sta raccontando che i vecchi politici democristiani volevano bloccare le stragi, c’è un equivoco. Adinolfi capisce inizialmente che anche Berlusconi voleva la fine delle stragi. Ma Graviano gli spiega che non è così. “Nel successivo scambio di battute tra Graviano Giuseppe e Adinolfi Umberto, nelle more di un equivoco, hanno avuto genesi importantissimi elementi probatori in merito ai fatti per cui si indaga, con specifico riferimento a Silvio Berlusconi, che poi, a distanza di tempo – prosegue la Dia – verranno ribaditi e confermati dallo stesso Graviano Giuseppe in ulteriore colloquio intercettato”. La Dia basa queste convinzioni sull’analisi dei gesti di Graviano: “Nello specifico, Adinolfi Umberto, per ben due volte appariva convinto che Silvio Berlusconi avesse anche egli interagito con Graviano Giuseppe al fine di porre termine alla strategia stragista (‘per bloccare l’azione’, ndr) ma al contrario quest’ultimo prima rispondeva negativamente: ‘Noo…!’ e poi aggiungeva: ‘anzi meglio, anzi… lui mi disse, dice: ‘ci volesse una bella cosa’. A questo punto, l’attenta osservazione del video – prosegue la Dia – consentiva di dare un’oggettiva e autentica lettura a quest’ultima frase pronunciata da Graviano Giuseppe il quale, mentre parla, cercando di coprirsi dietro allo stesso Adinolfi senza però riuscirvi completamente, operava dei gesti che lasciavano pochi dubbi circa l’oggetto della richiesta formulata da Silvio Berlusconi”.

Va detto che, dopo la stesura di questa informativa, Graviano ha risposto alle domande del pm di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, e poi a quelli di Firenze. Il boss non è un collaboratore di giustizia e non ha mai confermato la linea interpretativa della Dia sulla “bella cosa”. Nell’informativa del 2018 la Dia però si dice convinta che “con tutta probabilità” si riferisca a una bomba. “Egli, infatti, dapprima – scrive la Dia – percuote la spalla sinistra di Adinolfi Umberto utilizzando la mano destra in posizione cosiddetta ‘a taglio’, dopodiché – prosegue la Dia – la chiude a pugno e la muove ritmicamente due volte orizzontalmente per indicare, con tutta probabilità, un evento esplosivo, per poi, infine, appoggiarla a palmo aperto sul petto di Adinolfi così come desumibile parzialmente dagli estratti dei relativi fotogrammi di seguito riportati”. L’informativa risale al 20 aprile 2018 ed è stata depositata recentemente, omissata in larga parte, dai pm di Firenze. Le intercettazioni che riportano il dialogo tra Graviano e Adinolfi sono note da 5 anni e portarono già nel 2017 la Procura di Firenze a indagare di nuovo Berlusconi e Dell’Utri. L’ipotesi di accusa, va detto, è tutta da dimostrare ed è già stata archiviata tre volte. L’inchiesta è stata poi riaperta per la quarta volta nel 2020 dopo le dichiarazioni di Graviano a Reggio Calabria sugli asseriti rapporti economici della sua famiglia con Berlusconi. L’ipotesi è che Berlusconi e Dell’Utri abbiano avuto un ruolo di mandanti esterni delle stragi del 1993 a Firenze e Milano e negli attentati del 1993-94 a Roma.

Per questo la Dia ha sottolineato il passaggio della conversazione in cui, a suo parere, Graviano allude con i gesti a un’esplosione chiestagli da Berlusconi.

La difesa di Marcello Dell’Utri nel marzo 2018 al processo Trattativa (concluso in appello con l’assoluzione dell’ex senatore di FI) ha contestato in radice la lettura della Dia. Per l’avvocato Giuseppe Di Peri, Graviano non pronuncerebbe nemmeno il nome di Berlusconi. Evidentemente la Procura ha un’idea diversa.

La Direzione Investigativa Antimafia di Firenze che sta indagando su delega dei procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli nell’informativa del 20 aprile 2018 fa una vera e propria esegesi delle parole e dei gesti di Graviano. Secondo la lettura della Dia, quel 10 aprile 2016, Graviano “confidava ad Adinolfi con atteggiamenti che appaiono genuini, utilizzando toni di voce variabili (alta-bassa) e gestualità particolari la probabile ‘genesi’ del progetto politico del 1992-94 (che lo vedrà promotore poi, nel 1993, del partito Sicilia Libera insieme a Leoluca Bagarella). In tale contesto introduce la figura di un personaggio che, in contatto sia con Graviano che con altri si sarebbe inserito in questo corso mirando già nel 1992 a entrare nell’agone politico per ‘prendersi tutto’ e anche perché ‘lo volevano indagare’, persona che – prosegue la Dia – si ritiene sia identificabile per i contesti iniziali della conversazione e vari riferimenti specifici che sotto si commentano, in Berlusconi”.

Secondo la lettura della Dia poi Graviano riferisce ad Adinolfi di “un intervento ‘dei vecchi’ finalizzato a bloccare gli eventi stragisti (…) (gli omicidi Falcone e Borsellino) e perdurati fino all’estate del 1993 (maggio strage di Firenze e luglio stragi di Milano e Roma). Con il termine ‘vecchi’ – scrive la Dia – si ritiene che Graviano indichi i rappresentanti della vecchia nomenclatura politica al potere tra il 1992 e il 1994” e in particolare, continua la Dia, “il senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, strettamente legato a Graviano che si fece portavoce della richiesta di far cessare gli eventi stragisti”. Uno stop che secondo la lettura delle parole del boss fatta dalla Dia, non era condiviso da Berlusconi che invece a detta di Graviano chiedeva ‘una bella cosa’.

Libia, road map per il voto e milizie in difesa di Dbeibah

Il primo ministro libico Abdel Hamid Dbeibah annuncerà una tabella di marcia per le elezioni giovedì 17: la road map è intitolata “Restituire la fiducia al popolo” e comprende lo svolgimento nello stesso giorno di elezioni legislative e di un referendum sulla Costituzione. Dbeibah ha ribadito l’intenzione di non dimettersi da capo del governo di Tripoli – nonostante la nomina del “premier-rivale” Fathi Bashagha da parte del Parlamento di Tobruk (in Cirenaica) – e di voler cedere il potere solo a chi verrà scelto attraverso elezioni. Intanto “centinaia di mezzi armati si sono mobilitati oggi da Misurata verso Tripoli a sostegno del premier (Abdel Hamid) Dbeibah”, secondo la segnalazione di un’analista della “Global Initiative” basata a Ginevra. “Convogli armati provenienti da Misurata arrivano a Tripoli per proteggere il governo di unità nazionale”: sia Dbeibah che Bashagha provengono proprio dalla medesima città sul golfo della Sirte (in Tripolitania).

Convoglio no-vax: scontri, ma Parigi non si blocca

La marcia del “convoglio della libertà”, partito dalla provincia francese per raggiungere Parigi e puntare poi diritto al cuore dell’Europa, ha provato a entrare nella Capitale ma è stato respinto. Migliaia di veicoli, furgoni, camper, sono stati bloccati alle porte della Capitale, mentre decine di elementi della galassia di anti-vax, anti-Macron, gilet gialli e antagonisti vari – sui circa 8.000 manifestanti – sono riusciti a passare a piedi o in auto. Ne è seguita un’ora di tafferugli con la polizia attorno agli Champs-Élysées, con lancio di lacrimogeni. Il bilancio finale è stato di 44 fermi, nessun ferito e la situazione tornata alla normalità prima di sera.