L’enciclica di Papa Francesco. Cultura è accogliere il diverso

Fratelli tutti, l’enciclica che papa Francesco ha firmato ad Assisi il 3 ottobre, è un testo di raggio straordinariamente ampio. E contiene anche un capitolo decisivo per impostare una politica diversa per il patrimonio culturale: quello sull’Orizzonte universale.

Francesco, come sempre, parla con evangelica chiarezza: sì, sì e no, no. “Ci sono narcisismi localistici – scrive – che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli. Tale localismo si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze, incapace di ammirazione davanti alle molteplici possibilità e bellezze che il mondo intero offre e privo di una solidarietà autentica e generosa. (…) Perché, in realtà, ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così che una cultura senza valori universali non è una vera cultura”.

Così papa Francesco definisce l’idea stessa di “identità”, questa parola pericolosa, scivolosa. E infatti, subito dopo aggiunge: “In realtà, una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta alimentata. Perciò ho esortato i popoli originari a custodire le loro radici e le loro culture ancestrali, ma ho voluto precisare che non era mia intenzione proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si sottragga a qualsiasi forma di meticciato, dal momento che la propria identità culturale si approfondisce e si arricchisce nel dialogo con realtà differenti e il modo autentico di conservarla non è un isolamento che impoverisce. Il mondo cresce e si riempie di nuova bellezza grazie a successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni imposizione culturale”.

Se volessimo riassumerlo in uno slogan potremmo dire: “Ogni identità è meticcia”. Per capire l’attualità di simili affermazioni, basta ricordare che pochi giorni prima che fosse pubblicata l’enciclica, Fratelli d’Italia e Lega avevano attaccato a testa bassa la maggioranza di governo per la ratifica parlamentare della Convenzione di Faro, da loro definita una “resa culturale”, la “Caporetto di una civiltà”, perché imporrebbe “limitazioni” all’identità per non “offendere le culture altrui”.

La bestia nera dell’estrema destra è l’articolo 4 di quella convenzione del Consiglio d’Europa, che prevede che “l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà”. Si tratta di un articolo assai blando (come è, in verità, assai blanda l’intera Convenzione), che non dice nulla che non sia ricavabile dalla nostra stessa Costituzione: ossia che il patrimonio culturale deve essere governato tenendo conto della democrazia e dell’eguaglianza. Per fare un esempio pratico: la statua di un mercante di schiavi potrebbe essere spostata da una piazza, e musealizzata. E in quel caso lo sarebbe per difendere i valori della nostra Costituzione (che riconosce i diritti umani), non solo quelli di coloro i cui antenati furono venduti come schiavi.

La risposta del governo alle destre è stata evasiva e debole (a causa della confusione culturale delle forze che lo sostengono), mentre straordinariamente forte è la risposta (ovviamente indiretta) che arriva da questo testo di papa Francesco. La Chiesa riscopre la sua cattolicità: cioè la sua universalità, forte di un messaggio (quello evangelico) che scardina ogni appartenenza nazionale (“non c’è più né giudeo né greco”, esulta san Paolo), e vede, profeticamente, l’unità culturale del genere umano. È una sfida che riguarda innanzitutto l’enorme patrimonio culturale ecclesiastico italiano, che può essere raccontato e conosciuto proprio in una chiave universale che gli restituisca i suoi significati originali, togliendo terreno a quello “spirito chiuso” (per riprendere le parole del papa) che ogni anno a dicembre riduce il simbolo, universale e meticcio, del presepe a bandiera identitaria di un’italianità buona per gli spot dei panettoni, e dei partiti neofascisti.

Ogni cultura è meticcia, dice il successore di Pietro: e – lo sappiamo – quando la si vuole rendere “pura”, ci mette pochissimo a non essere più cultura. E a diventare una clava.

La sai l’ultima?

 

Monza Chiamate oscene e autoerotismo: il giudice ferma lo stalker delle suore

Ah, le monache di Monza! In Brianza i giudici hanno stabilito per un uomo di 71 anni il divieto assoluto di avvicinarsi a due suore e al convento monzese dove risiedono. Lo stalker, a quanto risulta, le perseguitava con frasi oscene al telefono, le seguiva ovunque e le omaggiava pure con gentili atti di autoerotismo sotto la loro finestra. Per quasi due anni – scrive l’Ansa – l’uomo si presentava quasi ogni sera all’istituto religioso, sotto la finestra di una e dell’altra religiosa. Oltre alle molestie (auto) erotiche, le seguiva come un’ombra e si presentava in chiesa durante le funzioni a cui partecipavano. Alla fine, ovviamente esasperate, le due monache di Monza hanno sporto denuncia ai carabinieri. I quali non hanno dovuto faticare molto per sorprendere l’uomo in flagranza. Le religiose hanno spiegato di aver aspettato così tanto a denunciare le molestie nella speranza costante che l’uomo potesse redimersi. E invece nessuna redenzione.

 

Russia Il sindaco putiniano sfida la signora delle pulizie del suo Comune. E perde le elezioni
Russia, comune di Povalikhino, villaggetto rurale di 250 anime lontano 500 chilometri da Mosca. Non proprio il centro del mondo. Si va alle elezioni e il sindaco uscente Nikolai Loktev, esponente del partito di Putin Russia Unita, praticamente non ha sfidanti. Ma bisogna pur sempre votare, per dare una parvenza di credibilità al suo mandato. Così Loktev si sceglie la sfidante: propone la candidatura come sua avversaria alla signora 35enne Marina Udgodskaya. Non una grande carriera politica alle spalle, ma una profonda conoscenza del palazzo del municipio: era la signora delle pulizie. Sembra una pagliacciata? Invece è una storia meravigliosa: la candidata colf ha vinto le elezioni con il 62% delle preferenze, passa direttamente dalla carica di signora di servizio a quella di prima cittadina. Una piccolo, minuscolo sberleffo democratico all’enorme, sterminato potere di Putin.

 

Scozia La telecamera automatica dell’Inverness confonde il pallone da calcio con la testa pelata del guardalinee
Storie che riconciliano col calcio: la capoccia pelata di un guardalinee viene confusa con il pallone. Succede in Scozia e per la precisione a Inverness, dove la squadra locale si era da poco dotata di uno straordinario strumento tecnologico: per trasmettere le partite, il club aveva deciso di rinunciare agli operatori umani e utilizzare una telecamera robotizzata, controllata da un sistema basato sull’intelligenza artificiale. In sostanza la lente dovrebbe riconoscere la sfera di cuoio e indirizzare da sola l’inquadratura sul pallone e sul cuore dell’azione. Un giochino dal nome pomposo: “Sistema Pixellot dotato di telecamere con tecnologia di inseguimento della palla integrata e IA”. Tutto bellissimo, ma all’atto pratico la telecamera robot dell’Inverness ha confuso la sfera di cuoio con la zucca pelata del guardalinee. Così la partita trasmessa a tutti i possessori di biglietti stagionali dell’Inverness si è trasformata in un lunghissimo primo piano di un uomo calvo.

 

Treviso Giovane ubriaco si addormenta al casello dell’autostrada A28 con l’automobile ancora accesa
Si sa che il Veneto è una terra dove il vino è una cosa seria: si beve bene e soprattutto si beve tanto. A certe scene però non ci si abitua mai: alcuni giorni fa un 24enne era talmente ubriaco che si è addormentato al casello dell’autostrada, di fronte alla sbarra abbassata, accasciandosi sul volante dell’auto, con le luci e il motore ancora accesi. Il bucolico siparietto è avvenuto all’uscita di Cordignano dell’A28, in provincia di Treviso. La polizia stradale all’inizio si è preoccupata per le condizioni di salute del giovane, poi gli operatori si sono accorti del pesante fetore di alcool che emanava. Inclemente il responso dell’etilometro: il tasso alcolemico del conducente era di 1,42 g/l, superiore di circa tre volte al limite consentito. Al ragazzo è stata ritirata la patente ed è stato deferito alla Procura di Treviso (le pene prevedono l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da 800 a 3200 euro, da aumentare perché il fatto è avvenuto in ore notturne).

 

Pakistan Trentaduenne nato senza le braccia riesece a diventare un campione di biliardo
Alle numerose storie pazzesche che arrivano dal Pakistan possiamo aggiungere anche questa: nasce senza braccia e diventa campione di biliardo. Un racconto assurdo e a suo modo bellissimo scoperto da Fanpage: “Ikram ha 8 fratelli e non ha frequentato la scuola. Con la sua disabilità, ormai arrivato all’età dei 32 anni, ha potuto aggrapparsi soltanto ad una passione: il biliardo. Lui le biglie da pool le manda a segno con il mento e la sua è una precisione balistica supportata dal grande allenamento dello sguardo e della fermezza del viso. Il 32enne è diventato in poco tempo un campione di snooker, disciplina che in Pakistan è popolare quasi quanto il cricket”. A testimoniare che non si tratta di una bufala ci sono le foto pubblicate su Facebook e i video che sono arrivati fino alla Bbc. Le gesta di Ikram lo hanno reso una celebrità su internet tra gli appassionati di biliardo. Lui ha confessato che il suo sogno adesso è giocare una partita all’estero, lontano dal suo paese.

 

Uganda L’uomo che stecchisce le zanzare con i suoi peti vorrebbe mettere in commercio i suoi gas intestinali
È una vecchia storia, di recente riportata alla ribalta dal sito Commenti memorabili. Una parabola sulla speranza, se vogliamo: anche alle peggiori pestilenze prima o poi si trova una soluzione. Ma veniamo al dunque: in Uganda c’è un uomo in grado di uccidere le zanzare con i suoi peti. Si chiama Joe Rwamirama e i suoi servizi, a quanto pare, sono molto ricercati. È riuscito con il solo potere dei suoi gas intestinali a debellare il problema delle zanzare nella sua abitazione. Senza bisogno di unguenti, spray o altri rimedi chimici. “Il raggio di azione del peto che annienta qualsiasi zanzara è impressionante – leggiamo sul sito –. Il buon Joe riesce a far funzionare quest’aria fino a una distanza di dieci chilometri. I peti vengono emessi soltanto nel momento in cui le zanzare cominciano a svolazzare e a minacciare la pelle della gente”. È inevitabile chiedersi quali siano gli effetti sulle persone di queste emissioni micidiali. Joe non ne pare preoccupato: vorrebbe commercializzare il suo talento e venderlo a qualche azienda. In bocca al lupo.

 

Svizzera Chiamano la figlia “Twifia” come una rete wi-fi e la compagnia telefonica gli regala internet per 18 anni
Due genitori svizzeri hanno dato alla figlia il nome di una compagnia telefonica: Twifia. Per quale motivo hanno rovinato la fragile psiche della loro bambina? Per avere la connessione wi-fi gratis per i prossimi 18 anni. Il provider elvetico Twifi aveva offerto questo premio succosissimo a chiunque avesse battezzato il proprio pargolo con il nome della loro azienda (Twifius per i maschi e Twifia per le femmine). Un’occasione davvero imperdibile. La racconta Leggo: “In fondo, questo nome esprime un legame eterno”, avrebbe detto la mamma. Più che un legame, una connessione in fibra. “Grazie al premio – aggiunge la genitrice – apriremo un conto di risparmio e vi trasferiremo 60 franchi ogni mese. Quando compirà 18 anni, può usarlo per fare un esame di guida o acquistare un’auto. Ci sono nomi molto peggiori. E più spesso diciamo ‘Twifia’, più il nome suona!”. Insomma: la bambina è stata chiamata come una rete internet, ma almeno quando sarà maggiorenne potrà pagarsi un esame di guida con i soldi dell’affare. Ne sarà entusiasta.

“Si apre tutto. Anzi no: sudtirolesi, che figura… Per i giochi di partito”

“Noi sudtirolesi abbiamo perso credibilità. Il virus sta mangiando la nostra reputazione, sta facendo lievitare piccoli giochetti dei politici locali che con la pandemia si sono messi a frullare obiezioni, osservazioni, contestazioni, perplessità. Cosicché per distinguerci da Roma abbiamo prodotto la più incredibile delle giravolte: chiusi, no aperti!, poi richiusi”.

Il mondo alla rovescia nella terra di Reinhold Messner, il signore delle montagne. 76 anni e tremilacinquecento spedizioni. In vetta su tutti gli ottomila metri del pianeta.

Voi tirolesi sempre ordinati, sapienti, organizzati.

È vero, abbiamo dato prova di confusione, approssimazione e di insipiente arroganza con Roma.

L’autonomia vantata per distinguervi da Roma mentre la bolla dei contagi si fa sempre più grande è parsa un modo piuttosto infantile di farla valere.

Guardi conosco bene Arno Kompatscher, il presidente della Provincia di Bolzano. È una persona equilibrata, governa con misura e attenzione ma questa volta ha dovuto piegarsi a quella destra disordinata, un po’ leghista, un po’ irredentista, un po’ qualunquista, che vedeva nell’accettazione dei decreti romani sulle chiusure dei locali dopo le sei del pomeriggio una automatica supina accondiscendenza ai voleri dell’Italia.

Accondiscendenza a cosa se siete pieni di contagi?

Infatti, non c’è una sola ragione per distinguerci da quel decreto di Conte. Sembra che il virus si stia portando via anche il senso della misura, la minima intelligenza di ciò che è urgente fare e ciò che bisogna vietare.

Quale sarebbe dovuta essere la via sudtirolese alla lotta al coronavirus?

Macché via sudtirolese, abbiamo solo fatto una figura barbina.

Voi sempre così austeri.

È misteriosa e allo stesso tempo penosa questa capacità di ingannare la ragione e la logica. Alcuni partiti si oppongono per principio a qualunque cosa sappia di condivisione con Roma perché la condivisione trasfigura nelle loro menti nella sottomissione. L’autonomia perciò si difenderebbe, secondo questi nostri scienziati della politica, affrontando l’emergenza con una nostra inedita proposta.

Due giorni è durata la vostra spedizione autonoma contro il virus.

Due giorni sono bastati per farci perdere la reputazione di popolo che sa organizzarsi bene e amministrarsi meglio. Nonostante tutto abbiamo avuto tre presidenti della Provincia contro i vostri trentatrè capi di governo.

Sarebbero ventinove.

Dico per dire, per illustrare la più evidente delle differenze. Ma in questo caso, in questa emergenza mondiale non c’era alcun bisogno di ostentare ciò che non era possibile: siamo nei guai e anche nelle nostre vallate siamo malmessi.

Infatti il virus galoppa tra le vostre valli, le mucche e i canederli. Perché?

Perché per la prima volta ci stiamo comportando male. Noto una riluttanza a seguire le indicazioni, un ribellismo vasto. Gente che mi ferma e mi dice che è tutta una messinscena.

L’ospedale di Bolzano è già saturo di pazienti, lo sanno i ribelli?

Cosa vuole che le dica. Questa mistificazione, questa idea che l’infezione sia una costruzione di poteri occulti per disgregare la nostra economia e la nostra società è così preoccupante. Eppure miete successi.

Fosse successo in Sicilia ciò che è accaduto a Bolzano sa quanti commenti ironici su questo cammino delle autorità a zig zag: dire e poi revocare, contraddire. Annunciare e disdire.

Credo che il virus abbia messo in luce tutta l’inadeguatezza dell’uomo a fare i conti con la natura, a saper gestire i suoi successi e anche a difendere le sue conquiste. Non ce la facciamo proprio. Oggi ho assistito all’intervento della mia amica Angela Merkel al Bundestag. Che vergogna! Hanno iniziato ad urlare, offenderla. Deputati esagitati, irresponsabili.

La sento scosso. Lei non guarda la tv italiana?

Un po’ e un po’.

I furbetti del Sud Tirolo!

Ecco, siamo arrivati a dare questo spettacolo.

Passerà?

Non credo presto. La politica gioca col virus mentre il virus si porta via la nostra vita e i nostri soldi.

 

Dati alti, ma negli ospedali i ricoveri rallentano un po’

Inumeri sono sempre quelli di un’epidemia drammatica che colpisce il nostro Paese. Calano i contagiati rispetto a sabato, si passa da 31.758 a 29.907, ma anche con meno tamponi (183.457 contro 215.886) e quindi il tasso di positività sui test effettuati continua a crescere: dal 14,7 al 16,3 per cento, lontanissimo da quel 3 per cento che dà la misura di un tracciamento efficace dei contatti. Non è buon segno, però nel mese di ottobre le domeniche avevano fatto segnare aumenti più consistenti, come rilevato ieri sera dal fisico Alessandro Amici che segue da mesi con attenzione le curve dell’epidemia. Le persone attualmente positive sono 378.129.Prosegue invece la scia dei decessi: sono 208 quelli registrati ieri contro i 297 di sabato per un totale di 38.826. Aumentano i ricoveri, che sono stati 936 per un totale di 18.902, circa il 65 per cento del picco della prima ondata (29 mila il 4 aprile). Nelle terapie intensive i malati più gravi sono 1.939 (il 3 aprile il massimo è stato toccato a oltre 4 mila), cioè 96 in più rispetto a sabato e quindi l’aumento è ancora contenuto rispetto ai giorni scorsi quando più volte erano cresciuti di oltre 120 unità in 24 ore.

Sono gli indicatori più importanti. Nell’ultimo monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di Sanità, datato 31 ottobre ma elaborato sui dati fino al 25 ottobre, si legge che diverse Regioni e Province autonome hanno una probabilità superiore al 50 per cento di oltrepassare i limiti della soglia critica negli ospedali, superata la quale non è più possibile parte dell’attività sanitaria ordinaria. Sono Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte, Bolzano, Trento, Puglia, Sicilia e Umbria.

Gli ultimi giorni, però, danno qualche motivo di speranza. I contagi rilevati sono raddoppiati più lentamente: dieci giorni contro i sette delle settimane precedenti, anche i ricoverati in terapia intensiva sono raddoppiati in 11 giorni anziché dieci, mentre per i decessi l’attenuazione della curva non c’è ancora. “È presto per dirlo ma ci sono segnali di una possibile stabilizzazione della curva epidemica, stiamo aspettando nuovi dati”, dice un autorevole membro del Comitato tecnico scientifico. “Potrebbe essere un primo effetto delle misure adottate non con l’ultimo Dpcm ma con quello del 18 ottobre”, quello per intenderci che tra le altre cose ha imposto la chiusura dei ristoranti alle 24. Anche la precedente introduzione della mascherina obbligatoria all’aperto potrebbe aver limitato, in qualche misura, i contagi.

Proprio per attendere nuovi dati il Cts ha chiesto di aggiornare a domani, martedì, la valutazione sulle aree del Paese maggiormente a rischio, richiesta dal ministro della Salute Roberto Speranza in vista dell’emanazione di provvedimenti che potrebbero limitare ulteriormente le attività e la circolazione su scala provinciale o comunque subregionale.

“No al lockdown, ma basta Regioni in ordine sparso”

Agostino Miozzo, medico, ex Protezione civile, è il coordinatore del Comitato tecnico scientifico che consiglia il governo.

Ci prepariamo al nuovo lockdown?

Ci prepariamo a un’intensificazione delle misure visto l’aumento dei contagi e dei ricoveri anche se non abbiamo avuto il tempo di valutare l’impatto degli ultimi provvedimenti, che si misura in 2-3 settimane.

Però il Cts non chiede il lockdown.

Il Cts non chiede e non decide, deve dare valutazioni tecniche collegate a indici epidemiologici e allo stress sul sistema ospedaliero e territoriale. La valutazione spetta al governo, riguarda anche l’economia, la sicurezza, la mobilità, l’accesso ai servizi essenziali.

Il cittadino Miozzo come la vede?

Il lockdown come a marzo-aprile è la soluzione più semplice. Paralizzi il Paese e puoi sperare che in 3-4 settimane la catena di trasmissione si interrompa o si attenui. Ma quando l’abbiamo fatto si andava verso l’estate: ora siamo a novembre, arriveremmo in condizioni meno stressanti a dicembre ma all’inizio della stagione influenzale, con la popolazione chiusa in casa, magari per poi affrontare il periodo natalizio come l’estate nella logica del “liberi tutti” che coinciderebbe con il desiderio di ritorno alla normalità e gli stessi errori. Tutti sulle piste da sci e a febbraio saremmo nella stessa condizione. Si rischia seriamente di arrivare all’inizio della primavera con i contagi ancora alti. Possiamo permettercelo? L’economia può permetterselo?

L’assalto agli ospedali c’è già. Lei giorni addietro ha detto che “abbiamo perso tempo”.

Su tante cose a livello municipale, regionale e generale avremmo dovuto prepararci meglio all’autunno.

La sanità territoriale non è stata rafforzata, il bando della Protezione civile è partito da poco, l’accordo con i medici di famiglia si fa solo adesso.

Spezzo una lancia a favore del ministro Roberto Speranza, l’accordo con i medici di famiglia è complicato: servono i dispositivi di protezione, gli spazi negli studi… Veniamo da decenni, per così dire, di distrazioni nella sanità del territorio.

Hanno sbagliato le Regioni che governano la Sanità? Lei sabato ha invocato “una strategia nazionale” come se non ci fosse.

Ogni Regione ha parametri diversi, una chiude le scuole, una solo i licei; una fa i Covid hotel e l’altra no, ma questi sono decisivi: chi non può stare in casa non deve andare in ospedale per 2-3 giorni in osservazione. I drive in: qui aspetti 12 ore e lì fai tutto in via telematica. Gli accessi separati ai pronto soccorso quanti li hanno fatti? Non si tratta di dare la colpa a questo o a quello ma serve una gestione centralizzata.

Quando il Cts ha voluto, per esempio suggerendo il 50 e non l’80% di capienza sui bus, l’ha fatto. Queste altre cose le avete dette con la dovuta energia?

Abbiamo detto tante cose, ci sono i verbali. Fino agli ombrelloni, ai ristoranti e agli ippodromi…

Sabato avete chiesto più controlli sulle quarantene e sugli esercizi che devono chiudere.

Certo, ci sono piscine aperte, bar aperti dopo le 18. Non ci sono abbastanza controlli. E ci preoccupa che siano invocati nuovi divieti e nuovi parametri quando quelli già esaminati e disposti non sono sempre rispettati. Avete visto le metropolitane a Milano e Roma: l’avevamo detto. Ma non è facile risolvere problemi antichi, come per la sanità. Gli ingressi differenziati nelle scuole li abbiamo sperimentati? Noi li abbiamo chiesti lì e altrove.

Ad agosto il professor Andrea Crisanti ha proposto un piano nazionale per arrivare subito a 300mila tamponi al giorno, ma non ne avete discusso.

Non è vero, ci siamo confrontati con il commissario Domenico Arcuri sui reagenti e sui tamponi rapidi. Arcuri ne sta comprando milioni.

Il viceministro Pierpaolo Sileri ha chiesto a settembre di decidere su tamponi rapidi e quarantena breve. L’avete fatto a ottobre inoltrato.

Il Cts viene attivato dal governo e dal ministro competente. Anche l’Oms era per la quarantena di 14 giorni. Quando Speranza l’ha chiesto, ci siamo espressi.

Rottura governo-“governatori”. Si va verso il coprifuoco alle 18

Un coprifuoco nazionale dalle ore 18 o al massimo dalle 20. È l’ipotesi principale uscita dal tavolo tra governo e regioni sull’emergenza Covid. Potrebbe essere inserito nel prossimo Dpcm firmato da Giuseppe Conte, che dovrebbe vedere la luce entro martedì sera: oggi pomeriggio saranno informate Camera e Senato, poi ci sarà un ultimo punto sulle misure insieme ai governatori. Ma più che nel merito l’incontro di ieri è stato illuminante per il metodo. La dinamica tra governo e Regioni è sempre la stessa, non riescono a trovare un linguaggio comune, continuano a litigare dall’inizio della pandemia. E si rifugiano nel gioco del cerino.

I presidenti delle giunte vorrebbero che il governo si assumesse la responsabilità che non vogliono prendersi loro: il lockdown totale. Ma Conte continua a respingere l’ipotesi di una serrata nazionale. Il governo invita i governatori ad agire con chiusure locali, circoscrivendo le aree più colpite dalla seconda ondata. Ipotesi rifiutata in modo secco dai presidenti di centrodestra – secondo Fontana “chiudere anche solo Milano è impensabile, è come chiudere la Lombardia” – ma il fronte degli amministratori ostili è trasversale. Vogliono un provvedimento uniforme su tutto il territorio nazionale: i blocchi locali – sostengono – sono difficili da gestire anche per ragioni di ordine pubblico (oltre che di consenso, si potrebbe aggiungere).

All’incontro di ieri hanno partecipato alcuni rappresentanti dell’esecutivo (i ministri Roberto Speranza e Francesco Boccia, il commissario Domenico Arcuri), i presidenti delle giunte regionali e degli altri livelli di governo locale (l’Anci guidata da Antonio Decaro e l’Unione delle Province). Un lungo confronto che si è chiuso senza certezze definitive. Alla fine il clima pessimo tra Stato e Regioni si riassume in un tweet di Andrea Orlando, vicesegretario del Pd: “(I governatori, ndr) sono federalisti quando le cose migliorano. Centralisti quando peggiorano. Spero almeno che non attacchino le misure adottate dal governo su loro richiesta mezz’ora dopo che sono state adottate”. Orlando si riferisce proprio al coprifuoco, una proposta spinta fortemente dai presidenti di regione. Con questa ratio: visto che bar e ristoranti chiudono alle 18, il coprifuoco alla stessa ora servirebbe a scoraggiare gli incontri privati, che sono le occasioni in cui è possibile esercitare un controllo e il contagio si diffonde maggiormente. Si andrebbe quindi verso un “mezzo” lockdown: dalle 18 in poi tutti a casa, tranne chi è fuori per motivi di lavoro, salute o altre emergenze (da provare con la solita autocertificazione). Di sicuro il governo inserirà nel Dpcm ulteriori provvedimenti restrittivi, cercando una mediazione (im)possibile con le richieste regionali.

In serata Conte ha incontrato i capigruppo dei partiti di maggioranza per un ulteriore punto insieme ai ministri Dario Franceschini e Alfonso Bonafede. Clima tutt’altro che sereno per la consueta contrapposizione con Franceschini, che insiste per il lockdown nazionale.

In serata lo stesso ministro, ospite di Fabio Fazio su Rai Tre, ha annunciato la chiusura dei musei e ha aggiunto: “Ci saranno misure più forti nelle regioni con i contagi più alti. La soluzione di sintesi alla fine potrebbe essere questa, su due livelli: un mix di misure nazionali (appunto il coprifuoco e sicuramente anche lo stop alla mobilità tra regioni) e misure locali più restrittive (zone rosse) nei territori in cui la situazione è più grave.

Restano sullo sfondo altre ipotesi, tutte da verificare. Decaro e l’Anci chiedono la chiusura dei centri commerciali nei weekend e degli sportelli scommesse in tabaccherie e bar. I governatori di centrodestra propongono invece limitazioni ad hoc per i più anziani (in particolare Giovanni Toti, protagonista di un tweet inconcepibile: “Sono persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”). L’idea di costringere a casa gli “over 70” (o gli over 75 secondo Fontana) solleva dubbi di natura etica, politica e costituzionale. Anche sulla scuola, inoltre, il fronte dei governatori marcia compatto: tutti con De Luca ed Emiliano per la didattica a distanza in tutte le classi.

Ma mi faccia il piacere

Congiuntivite. “Siamo stati anche i primi a riconoscere che il sacrificio che hanno fatto i veneti, dovesse essere poi ricon… stat… fosse, dovesse essere stato… avess… insomma fosse… fosse stato… mi sono incasinato coi verbi… lo devo dire col condizionale giusto” (Luca Zaia, Lega, presidente Veneto, 27.10). Prima regola: conoscere il nemico.

Il virologo del grappino. “In Lombardia situazione migliore del previsto” (Fabio Rubini, Libero, 29.10). Malgrado Fontana e Gallera c’è ancora qualcuno vivo.

Il virologo di Pulcinella. “Oggi in Campania la situazione del Covid 19 è pienamente sotto controllo” (Vincenzo De Luca, Pd, presidente Campania, alla vigilia delle Regionali, 18.9). “Già oggi dovremmo prendere decisioni drastiche” (De Luca, dopo le elezioni, 9.10). “È indispensabile subito il lockdown. È necessario chiudere tutto, fatte salve le categorie dei beni essenziali. In ogni caso la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo” (De Luca, 23.10). “Chiedo che ristoranti e bar restino aperti fino alle 23” (De Luca sul Dpcm di Conte che li chiude alle 18, 25.10). “Serve muoversi in maniera unitaria; differenziazioni territoriali in Campania non sarebbero capite e sono improponibili” (De Luca, dopo le rivolte di piazza, 1.11). Non ho detto ciò che ho detto e, se l’ho detto, mi sono frainteso.

Il virologo del Papeete/1. “Siamo nel caos. Serve un Cts alternativo a quello ufficiale. Propongo di istituire un altro comitato: dieci scienziati autorevoli scelti dal Parlamento” (Matteo Salvini, segretario Lega, Verità, 26.10). Non vedo l’ora di vedere quello della Lega.

Il virologo del Papeete/2. “Ma perché dovrebbe esserci una seconda ondata di contagi? ‘Sta roba che dicono: ‘Attenzione attenzione! è a ottobre, è a novembre!’… Inutile continuare a terrorizzare le persone!” (Salvini, Aria Pulita, 7Gold, 25.6). Nostradamus gli fa una pippa.

Il virologo primate. “Secondo me i monopattini hanno ucciso più persone del Covid” (Alessandro Meluzzi, primate della Chiesa Ortodossa Italiana Autocefala Antico-Orientale, La Zanzara, Radio 24, 18.10). Vedi sopra.

Il Covid alla testa. “Appena guarito ho sognato un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Tra i suoi ministri, oltre ai capi dei partiti di maggioranza e opposizione, le piùà autorevoli e prestigiose personalità politiche e ‘tecniche’ di cui questo Paese dispone” (Massimo Giannini, Stampa, 1.11). Non bastava il Covid: pure gli incubi.

Tutta invidia. “Conte non faccia il populista” (Renzi, ibidem). Sarebbe concorrenza sleale.

Bollino di qualità. “Riforma Bonafede bocciata dai capi della Cassazione” (manifesto, 29.10). Quindi, a occhio e croce, dev’essere ottima.

Fuffa di Porro. “Il blocco dei licenziamenti è una cretinata” (Nicola Porro, Verità, 26.10). Giusto: impedisce di licenziare lui.

Senza parole/1. “’Atlantide’, le angosciose domande sulla morte di Pantani”, “Pantani è morto più volte. E’ morto quando fu appiedato senza alcun riguardo, come un delinquente, perchè nel suo sangue erano stati trovati livelli troppo alti di ematocrito” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 26.10). Una domanda, in particolare: era dopato, oppure era dopato?

Senza parole/2. “Pantani voleva la verità. Gli dissero che nella coca avrebbe trovato risposte’. Intervista a Manuela Ronchi, manager delle star” (Repubblica, 29.10). “La risposta è dentro di te, epperò è sbajata!” (Corrado Guzzanti, Quèlo).

Putinate. “Riparte la disinformazione filorussa. Mattarella e il governo nel mirino. Servizi e Copasir indagano sull’ondata di tweet e fake news per alimentare le proteste di piazza contro i nuovi divieti” (Repubblica, 29.10). Ah, ecco chi è stato: Putin.

Cick to Cick/1. “Entrai nella P2 come si entra al Rotary. Credevo di farmi qualche amico al Corriere. Ma ero l’ultimo degli stronzi…” (Fabrizio Cicchitto, Foglio, 27.10). Il solito modesto: dài, proprio l’ultimo no.

Cick to Cick/2. “Poi pensai al suicidio” (Cicchitto, ibidem). Invece si iscrisse a Forza Italia.

Non sappia la destra. “Questo governo non può continuare a gestire il virus. Il governo Conte non è in grado… Conte e i suoi hanno fallito nella prima ondata, hanno fallito nel prevenire la seconda” (Domani, pag.1, 27.10). “Mi pare che sia assolutamente irresponsabile chiedere la sostituzione del presidente del Consiglio” (Domani, pag. 8, 27.10). Che fico: due giornali in uno.

La parola all’esperto. “La guerra del Pd a Calenda è suicida” (Roberto Giachetti, deputato Iv, Riformista, 28.10). S spera che lo ascoltino: nessuno meglio di lui sa come si perde.

Il titolo della settimana/1. “Basta bugie. Il virus della menzogna” (Giornale, 29.10). Sallusti ha deciso di consegnarsi?

Il titolo della settimana/2. “Berlusconi candidato al Quirinale. Il patto di fedeltà nel centrodestra. Vespa rivela la promessa di Salvini e Meloni per tenere unita la coalizione” (Corriere della sera, 29.10). Dài che forse abbiamo trovato qualcuno più bugiardo di B.

“Si vive solo due volte”: addio Connery, eterno 007

“Bond… James Bond”. La leggenda nasce settant’anni fa. Il pusher letterario è Ian Fleming, il regista Terence Young, il film Dr. No, da noi Licenza d’uccidere: Monte Carlo, casinò, Chemin-de-fer, Sylvia Trench (Eunice Gayson) chiede: “Mister…”, 007 risponde, a lei, a noi, alla Storia del Cinema. È tra le massime epifanie del grande schermo, assistita dall’immarcescibile James Bond Theme composto da Monty Norman: accogliamo 007 nell’immaginario collettivo, e diamo il benvenuto a Sean Connery.

Altri si metteranno al servizio di Sua Maestà, nessuno come lui: forse nome e cognome sovvengono un attimo dopo, è vero, ma le fattezze, gli occhi scuri, il naso lungo e sottile, il torace villoso, la statura importante, le sopracciglia folte… James Bond, appena ci si pensa, è lui. L’identikit è stampigliato su pellicola quanto su marmo, rimarrà sine die, anche se Sean Connery non è più: è deceduto ieri, novantenne da poco più di due mesi, malato da tempo (“unwell for some time”), come ha confermato il figlio Jason.

L’approdo al ruolo di una vita, e oltre la morte, non fu semplice, i papabili non mancavano, il trentenne scozzese non era il favorito, però aveva qualcosa in più degli altri, non la bravura, non il curriculum, non la fama, bensì il sex appeal: lo certificò una donna, Dana, che elevò il proprio parere sopra la media e il sentire comune femminile, giacché era la moglie del produttore, Albert Broccoli.

Amato dalle donne, apprezzato, e invidiato, dagli uomini, dopo Dr. No distribuito nel 1962, Connery è stato Bond altre sei volte: quattro ortodosse e consecutive dal 1963 al 1967, Dalla Russia con amore (From Russia With Love), Missione Goldfinger (Goldfinger), Thunderball: Operazione tuono (Thunderball) e Si vive solo due volte (You Only Live Twice), poi si concede un Alfred Hitchcock, Marnie, un Sidney Lumet, La collina del disonore, quindi rifiuta il rientro nei ranghi della saga, e Al servizio segreto di Sua Maestà (On Her Majesty’s Secret Service) si presta l’australiano George Lazenby, che non andrà oltre una one-night stand causa mancato gradimento.

007 suona altre volte, Sean risponde a due: Una cascata di diamanti (Diamonds Are Forever), nel 1971, che gli vale un cachet stratosferico; Mai dire mai (Never Say Never Again), il Bond movie non “ufficiale” di Irvin Kershner, per cui dodici anni più tardi strappa un compenso altrettanto incredibile. Non tornerà, satollo di denaro e status com’è, al cospetto di M, ora può ritagliarsi un secondo tempo da battitore libero, meno riflettori e più, si fa per dire, lanternino: la fantascienza eterodossa di John Boorman Zardoz; L’uomo che volle farsi re di John Huston, da Kipling, al fianco dell’amico Michael Caine; Robin e Marian, dove è un azzimato Robin Hood; Highlander, cui darà seguito; Il Nome della Rosa, da Umberto Eco, dove è un notevole Guglielmo da Baskerville.

Arriverà l’Oscar, nel 1988, per Gli Intoccabili di Brian De Palma, arriveranno Indiana Jones e l’ultima crociata, in cui è il padre di Harrison Ford, il sottomarino Caccia a Ottobre Rosso e La casa Russia: un colpo alla bravura e uno alla celebrità, della serie “oltre Bond c’è di più, sono di più, guardatemi!”.

In effetti, è un bel vedere: Connery migliora con gli anni, da attore e anche da sex-symbol, alla faccia della calvizie. Ma Bond, il suo e dunque per antonomasia, non se ne va, pur irricevibile da questi nostri tempi politicamente corretti, solidali a tutto e buoni a nulla: James Connery o, se preferite, Sean Bond beve parecchio, con una predilezione per il Martini shaken, not stirred; fuma parecchio, sin da quel folgorante biglietto da visita del 1962; uccide parecchio, forte di quella originaria Licenza; scopa parecchio, da strenuo fautore del mai dire mai, e anche del mai chiedere mai.

Ora è morto, e non può stupire: non solo per la veneranda età – avesse fatto davvero suo il ruolino di marcia di 007 da mo’ che l’avremmo salutato… – e le condizioni di salute – si vociferò anche l’Alzheimer –, bensì simbolicamente per lo stato dell’arte del franchise che l’ha reso universalmente famoso.

Il venticinquesimo film di 007 era atteso in sala a novembre 2019, l’uscita di Danny Boyle dal progetto, definitivamente diretto da Cary Fukunaga, lo fece slittare prima a febbraio e quindi all’aprile 2020, poi ci si è messa la pandemia, dal 12 novembre si è passati al 2 aprile del 2021, anche se i rumors su una vendita ai colossi dello streaming, da Amazon a Netflix, per 600 milioni di dollari non mancano: il titolo è imperativo, No Time to Die, ma dopo tutti questi rinvii Connery si deve essere sentito libero di disattenderlo.

Un commiato da mostro sacro, da uomo che volle, e seppe, farsi re, con buona pace di Sua Maestà britannica, giacché, forte dei natali nei difficili sobborghi di Edimburgo il 25 agosto del 1930, s’è battuto costantemente per l’indipendenza scozzese. Ultima prova, La leggenda degli uomini straordinari nel 2003: cinecomics invero poco straordinario. Si capisce, al netto della sua leggenda.

 

“Per vincere ci scannavamo persino in allenamento. Ora siamo un po’ doloranti”

Questa è la storia di un bambino di dieci anni che un giorno, mentre passeggia in bicicletta, vede alcune ragazze allenarsi a pallavolo. Si ferma. Scende. Si unisce al gruppo e cambia la sua vita.

Quel bambino a 14 anni esordisce in A2, l’anno dopo va via di casa per giocare con una delle formazioni più forti della massima serie. A 20 è campione del mondo.

I compagni di squadra, da subito, lo hanno soprannominato “Giangio” perché “ero come Obelix: il bimbo caduto nella pozione magica che è sempre il più forte di tutti”; in realtà si chiama Andrea Giani, 50 anni quest’anno, allena a Modena, ha le ginocchia sfondate a forza di giocare, il carattere sagomato dalla più alta coscienza sportiva e la forza di commuoversi davanti agli affetti e alle sconfitte. Lui era in campo quando il 28 ottobre del 1990 l’Italia scopriva che in Brasile c’erano dodici ragazzi sul tetto del mondo; quei ragazzi sono stati ribattezzati e votati come “La nazionale del secolo”.

Si parla di nuovo lockdown…

A marzo abbiamo smontato la palestra della società e consegnato gli attrezzi ai nostri ragazzi, perché gli atleti non sono abituati a fermarsi, e al ritorno ci siamo trovati con una lunga serie di infortuni muscolari.

Lei andava a correre?

(Sorride) Non posso, ho subito sette operazioni alle ginocchia; paradossalmente salto, ma niente jogging.

Sciare?

Devo stare attento, sono messo veramente male.

Capita agli ex sportivi.

Negli anni Ottanta e primi Novanta, l’attività fisica e motoria degli atleti non era così curata; a diciotto anni sono tornato dall’Olimpiade di Seul e dopo il primo allenamento con il club, mi si è spaccata l’articolazione del ginocchio. Operato al volo. Due giorni dopo già correvo e passate due settimane saltavo in palestra tanto da riaprire uno dei buchi dell’intervento in artroscopia. Il chirurgo incazzatissimo.

Perfetto.

Avevo 18 anni, allora era normale: giocai tutta la stagione con il ginocchio gonfio.

Ripeto: un classico per la sua generazione.

Della nostra squadra nazionale, tra schiena e bacino si saranno operati in sei o sette: non ce n’è uno sano, perché al bacino aggiungo le spalle, i gomiti, le ginocchia e le caviglie.

Bel quadro.

Siamo dei fiorellini.

Chissà le vostre conversazioni…

Abbiamo una chat su WhatsApp in cui ci scambiamo soprattutto consigli medici e dritte sui migliori ortopedici.

Come si chiama la chat?

(Sorride) “La nazionale del secolo”.

Il suo ex compagno, Andrea Zorzi, ha portato a teatro uno spettacolo sul volley nel quale racconta pure di lei.

Temeva mi offendessi.

Invece?

Sono arrivato a Parma appena 15enne, e lì ho trovato lui 20enne: non avevo la patente, per anni mi ha scorrazzato in macchina. Ci è successo di tutto; (ci pensa) in realtà ad ascoltarlo mi sono commosso.

Per cosa?

Vivevamo in un palazzetto al centro di Parma, tutti insieme e senza mai chiudere le porte. Io mi addormentavo con il phon acceso, avevo bisogno di un rumore bianco per rilassarmi, e loro ridevano; oppure un giorno salgo in motorino per andare a scuola, si stacca la marmitta, da rintontito la raccolgo con le mani e mi ustiono. Sono arrivato in palestra pieno di vesciche.

E si è allenato.

Certo!

Insomma, studiava.

Geometra. A volte finivo i disegni alle quattro o alle cinque del mattino. Con alcuni professori poco interessati alla nostra vita extrascolastica. E bastonavano.

Si è diplomato?

A 17 anni ero titolare in Serie A, ho abbandonato .

Vita privata?

In quel palazzetto erano tutti più grandi di me: uscivo con loro; dopo due o tre mesi Zorzi venne convocato dalla società per raddrizzare la situazione: “Ha 15 anni, non lo potete portare in discoteca”.

Ha mai rischiato di perdersi?

Io? No; (cambia tono) a quattro anni, per una broncopolmonite, ho passato dieci mesi in ospedale, tre di questi in terapia intensiva. Mamma e papà li vedevo una volta ogni dieci giorni; poi ho iniziato con il canottaggio e stavo sempre in palestra o in giro per le gare: ero abituato a stare fuori; comunque a Parma mi tutelavano, controllavano tutto.

Ma davanti a una difficoltà chiamava Zorzi o mamma?

(Ride) La padrona del ristorante.

Cioè?

Sotto casa c’era una pizzeria, e la signora Tilde ci teneva d’occhio: il telefono del suo locale era un po’ il nostro, e mamma per cercarmi chiamava lì.

Tilde docet.

Dava dei raus a tutti.

Negli Anni 80 la tv trasmetteva Mila e Shiro, un cartone giapponese sulla pallavolo.

(Ride, ma tanto) Una sera andiamo a cena con le zie di Riccardo Michieletto (anche lui giocatore a Parma), e tra un portata e l’altra sentono il bisogno di togliersi un dubbio: “Ascolta Michi, ma quella battuta che si chiama Tornado, che esce dal campo e poi rientra, perché non la provi?”. Ci siamo buttati a terra per le risate; quel cartone lo guardavamo, anche se la tv era proprio rara, non c’era tempo.

Un azzardo andare via a quell’età?

Mi ha aiutato avere un papà sportivo: ha saputo valutare la situazione.

Due lacrime, mai?

Macché, stavo proprio bene; a 15 anni ero passato da allenarmi dentro un pallone pressostatico, tra freddo, umidità e attrezzi vecchi, a una palestra super attrezzata, tutto nuovo, organizzato. Una meraviglia.

30 anni fa la prima vittoria Mondiale ed è esploso un movimento…

Sì, ma non avevamo coscienza di quello che sarebbe successo; a fine Ottanta, in Italia, il top del volley era solo il derby tra Parma e Modena, ottomila presenti, una tensione rara, tra risse, macchine distrutte, sassaiole sui pullman.


E…

Al ritorno dal Mondiale, dopo l’atterraggio a Malpensa, abbiamo trovato un numero spropositato di fan, fotografie, autografi. Pacche sulle spalle. Urla. E improvvisamente il campionato italiano è cambiato con l’arrivo dei giocatori più forti, degli sponsor straordinari, dei gruppi industriali schierati con le loro squadre; quando giocavi a Milano trovavi il PalaTrussardi con 8-10 mila persone.

Lei, spiazzato?

Parma di quegli anni ti proteggeva, era una realtà ovattata e incentrata sullo sport: c’era la pallavolo, il basket femminile, il rugby, il pallone, il baseball, l’atletica. Ci frequentavamo. E ho conosciuto il pianeta calcio con Minotti, Apolloni, Melli, Brolin…

Il Parma dei miracoli.

Professionisti con una grande cultura dello stare insieme: spesso organizzavamo tornei tra di noi, o magari reciprocamente andavamo alle partite.

I suoi miti da ragazzo.

Non li avevo, la mia vita era già un surplus.

Mai una rissa?

Da piccolo, sì.

In campo?

Quando giochi da professionista devi imparare un punto: la gestione emotiva è importante sia nel match che fuori dalla gara, altrimenti i momenti caldi della partita diventano un problema. Non sai gestirli.

Niente scontri post match…

(Tono sornione) Al massimo ho appeso qualcuno al muro, magari ho lanciato una scarpa o dato un pugno a una porta.

Di voi chi era il più peperino?

Marco Bracci era il più agonista di noi.

Su Netflix c’è una serie dedicata a Michael Jordan, in cui l’agonismo non prevede prigionieri.

I gruppi che puntano a vincere, e non una volta, ma tante, devono mantenere quella condizione nervosa, altrimenti non è possibile ottenere i giusti risultati.

Chi era il vostro “Jordan”?

In squadra ne avevamo quattro o cinque.

Tra questi, lei.

Ero uno che punzecchiava i compagni, anche in maniera esplicita durante la partita e solo per tenere alta la tensione; se qualcuno di noi non dava il massimo, era inevitabile dargli addosso per vincere.

E quando perdeva?

Stavo male. Poi non tutte le sconfitte sono uguali.

Come la finale Olimpica…

Per metabolizzarla ho impiegato un’infinità di tempo. Abbiamo perso di niente.

La sua partita vincente?

La finale Mondiale del 1998: tutti parlavano di ciclo finito, invece nell’ultimo match abbiamo segato le orecchie alla Jugoslavia; una di quelle vittorie che ti segna, è come una tacca che ti appendi dentro; (cambia tono) eppure in quel caso, dal comitato internazionale, non abbiamo ricevuto neanche un premio individuale; dalla rabbia, alla premiazione gli abbiamo lanciato palline.

Non vi sopportavano.

Vincevamo sempre. Forse troppo, per loro.

Sempre nella serie su Jordan anche gli allenamenti sono impressionanti.

Anche noi ci scannavamo: in campo c’era un agonismo che a volte non esprimevamo neanche nelle partite ufficiali; Julio Velasco (l’allenatore) organizzava molti “uno contro uno” per stimolarci, per generare competitività estrema.

Lei reggeva?

Non sempre: ricordo un “uno contro uno” con Zorzi: alla fine ero così incazzato da togliermi la maglietta, restare a torso nudo e urlare: “Basta, me ne vado!”

La dote di Velasco.

Ti insegnava a tirare fuori il meglio, solo così fai la differenza; a quel livello tutte le formazioni puntano a batterti e tutti i tuoi compagni puntano a fregarti il posto: se non hai in testa l’obiettivo massimo, la tua squadra perde e tu perdi il posto.

E quindi?

Entravamo in palestra ed era guerra.

Velasco un guru.

Un tuttologo. In ogni discussione lui sapeva tutto, e ogni tanto allargavamo le braccia come a dire, “non è possibile”; ci ha insegnato a discutere.

Nel Mondiale del 1990, in semifinale vi siete trovati di fronte il Brasile e 27 mila persone sugli spalti.

Ricordo il baccano; ma in campo tutto si attutisce.

Tradotto?

Non ti rendi conto di quello che avviene attorno, il focus è solo la palla, l’avversario, l’arbitro. L’allenatore.

Una bolla.

In campo riesci a isolarti e ascoltare il rumore della palla a terra, il fischietto dell’arbitro e le parole dell’allenatore.

A cosa ha rinunciato nella vita?

La rinuncia è una mancanza, e a me non è mancato nulla.

La sua ultima partita.

(Già abbassa la voce) Ce ne sono state due: una con la Nazionale per la finale Olimpica di Atene del 2004, l’altra in campionato.

La prima.

Ero consapevole, sereno: avevo 34 anni e non potevo mantenere quei ritmi.

Con il club.

(Abbassa ancora la voce) Reduce da infortunio, eliminati ai quarti, senza lottare. Non era il mio modo. Caduta a terra l’ultima palla della mia carriera, i giocatori in campo mi hanno preso e sollevato (Silenzio. Qui la voce si strozza, tanto). Quel giorno mi sono commosso.

Ancora oggi.

In campo c’erano pure Zlatanov e Bovolenta, ragazzi che ho cresciuto (Vigor Bovolenta è morto nel 2012 a soli 37 anni. Giani resta zitto). Lasciamo stare Vigor, per favore. Non ne parliamo.

Oggi l’azzurro più famoso è Zaytsev: sarebbe entrato nella vostra “generazione di fenomeni”?

Sì, eccome. Perché io so chi è.

Un suo complesso.

Mai avuti. È la vita che è complessa.

Tatuaggio.

Neanche uno, avrei ceduto solo nel caso di Oro alle Olimpiadi; (ora torna a sorridere) desideravo l’orecchino e un giorno ne ho indossato uno con la calamita: quando mio padre l’ha visto è sbiancato.

Il suo supereroe.

(Ride) Oltre Obelix? Da quando sono piccolo amo Thor e il suo martello; quel martello lo avrei sempre voluto con me.

A un 18enne come spiega chi è Andrea Giani?

Non gli elencherei cosa ho vinto, ma chi sono.

E lei chi è?

Un super lavoratore.

Due fucilate sul prete ortodosso

A soli due giorni dall’attentato nella basilica di Nizza, un prete ortodosso di 52 anni, di nazionalità greca, è stato ferito a colpi di arma da fuoco ieri, a Lione, mentre stava chiudendo la chiesa. Malgrado il nuovo lockdown, entrato in vigore venerdì, i luoghi di culto sono stati autorizzati a restare aperti per le feste religiose di questi giorni. L’aggressore, un uomo alto, in impermeabile e cappuccio nero, ha sparato al prete due volte con un fucile a canne mozze, colpendolo in pieno petto, poi è scappato. Il prete è stato ricoverato d’urgenza in prognosi riservata. Il quartiere intorno alla piazza Jean Macé è stato blindato e la polizia ha lanciato una vera e propria caccia all’uomo. Da fonti del giornale regionale Le Progrès, un sospetto sarebbe stato fermato in serata, tre ore dopo l’attacco. A caldo, anche per gli investigatori difficile collocare l’agguato: vendetta personale o attentato ispirato dal terrorismo islamico? Da un lato, l’aggressione di un prete ortodosso non può non riportare all’attacco di Nizza di giovedì, dove tre persone sono state uccise per il solo fatto che pregavano in una chiesa. Come i poliziotti, i professori, i giornalisti, anche i cristiani sono il bersaglio degli islamisti. C’è però da aggiungere che secondo notizie arrivate da Lione, la vittima aveva avuto diversi contrasti nella sua comunità. Da giovedì l’allerta attentati è stata portata al livello massimo in Francia. Il numero di soldati dell’operazione “Sentinelle” è passato da tremila a settemila, proprio per proteggere i luoghi di culto e le scuole, che restano aperte durante il lockdown. “Siamo determinati perché ognuno possa praticare il proprio culto in tutta sicurezza e libertà”, ha osservato il premier Jean Castex, che proprio ieri, alla vigilia della festa di Ognissanti, era in visita alla chiesa di Saint-Etienne-de-Rouvray, dove nel luglio 2016 era stato ucciso padre Jacques Hamel, sgozzato da due jihadisti. Neanche due settimane fa, un insegnante di storia è stato decapitato in un sobborgo di Parigi per una lezione sulla libertà d’espressione in cui ha mostrato le caricature di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Vignette che hanno scatenato la furia dei jihadisti e che indignano il mondo musulmano. Da giorni va avanti un braccio di ferro tra Parigi e Ankara con il presidente turco Erdogan che accusa Emmanuel Macron di difendere la blasfemia e alimentare l’islamofobia in Europa. Ieri il presidente francese ha rilasciato un’intervista alla tv del Qatar, Al Jazeera, registrata all’Eliseo nel pomeriggio: “Capisco che certe caricature possano infastidire – ha detto -, ma non accetterò mai che si possa giustificare la violenza. Ritengo – ha aggiunto – che le mie parole, sulla lotta contro il separatismo islamista e le caricature, siano state deformate, provocando delle reazioni violente”.