Questa è la storia di un bambino di dieci anni che un giorno, mentre passeggia in bicicletta, vede alcune ragazze allenarsi a pallavolo. Si ferma. Scende. Si unisce al gruppo e cambia la sua vita.
Quel bambino a 14 anni esordisce in A2, l’anno dopo va via di casa per giocare con una delle formazioni più forti della massima serie. A 20 è campione del mondo.
I compagni di squadra, da subito, lo hanno soprannominato “Giangio” perché “ero come Obelix: il bimbo caduto nella pozione magica che è sempre il più forte di tutti”; in realtà si chiama Andrea Giani, 50 anni quest’anno, allena a Modena, ha le ginocchia sfondate a forza di giocare, il carattere sagomato dalla più alta coscienza sportiva e la forza di commuoversi davanti agli affetti e alle sconfitte. Lui era in campo quando il 28 ottobre del 1990 l’Italia scopriva che in Brasile c’erano dodici ragazzi sul tetto del mondo; quei ragazzi sono stati ribattezzati e votati come “La nazionale del secolo”.
Si parla di nuovo lockdown…
A marzo abbiamo smontato la palestra della società e consegnato gli attrezzi ai nostri ragazzi, perché gli atleti non sono abituati a fermarsi, e al ritorno ci siamo trovati con una lunga serie di infortuni muscolari.
Lei andava a correre?
(Sorride) Non posso, ho subito sette operazioni alle ginocchia; paradossalmente salto, ma niente jogging.
Sciare?
Devo stare attento, sono messo veramente male.
Capita agli ex sportivi.
Negli anni Ottanta e primi Novanta, l’attività fisica e motoria degli atleti non era così curata; a diciotto anni sono tornato dall’Olimpiade di Seul e dopo il primo allenamento con il club, mi si è spaccata l’articolazione del ginocchio. Operato al volo. Due giorni dopo già correvo e passate due settimane saltavo in palestra tanto da riaprire uno dei buchi dell’intervento in artroscopia. Il chirurgo incazzatissimo.
Perfetto.
Avevo 18 anni, allora era normale: giocai tutta la stagione con il ginocchio gonfio.
Ripeto: un classico per la sua generazione.
Della nostra squadra nazionale, tra schiena e bacino si saranno operati in sei o sette: non ce n’è uno sano, perché al bacino aggiungo le spalle, i gomiti, le ginocchia e le caviglie.
Bel quadro.
Siamo dei fiorellini.
Chissà le vostre conversazioni…
Abbiamo una chat su WhatsApp in cui ci scambiamo soprattutto consigli medici e dritte sui migliori ortopedici.
Come si chiama la chat?
(Sorride) “La nazionale del secolo”.
Il suo ex compagno, Andrea Zorzi, ha portato a teatro uno spettacolo sul volley nel quale racconta pure di lei.
Temeva mi offendessi.
Invece?
Sono arrivato a Parma appena 15enne, e lì ho trovato lui 20enne: non avevo la patente, per anni mi ha scorrazzato in macchina. Ci è successo di tutto; (ci pensa) in realtà ad ascoltarlo mi sono commosso.
Per cosa?
Vivevamo in un palazzetto al centro di Parma, tutti insieme e senza mai chiudere le porte. Io mi addormentavo con il phon acceso, avevo bisogno di un rumore bianco per rilassarmi, e loro ridevano; oppure un giorno salgo in motorino per andare a scuola, si stacca la marmitta, da rintontito la raccolgo con le mani e mi ustiono. Sono arrivato in palestra pieno di vesciche.
E si è allenato.
Certo!
Insomma, studiava.
Geometra. A volte finivo i disegni alle quattro o alle cinque del mattino. Con alcuni professori poco interessati alla nostra vita extrascolastica. E bastonavano.
Si è diplomato?
A 17 anni ero titolare in Serie A, ho abbandonato .
Vita privata?
In quel palazzetto erano tutti più grandi di me: uscivo con loro; dopo due o tre mesi Zorzi venne convocato dalla società per raddrizzare la situazione: “Ha 15 anni, non lo potete portare in discoteca”.
Ha mai rischiato di perdersi?
Io? No; (cambia tono) a quattro anni, per una broncopolmonite, ho passato dieci mesi in ospedale, tre di questi in terapia intensiva. Mamma e papà li vedevo una volta ogni dieci giorni; poi ho iniziato con il canottaggio e stavo sempre in palestra o in giro per le gare: ero abituato a stare fuori; comunque a Parma mi tutelavano, controllavano tutto.
Ma davanti a una difficoltà chiamava Zorzi o mamma?
(Ride) La padrona del ristorante.
Cioè?
Sotto casa c’era una pizzeria, e la signora Tilde ci teneva d’occhio: il telefono del suo locale era un po’ il nostro, e mamma per cercarmi chiamava lì.
Tilde docet.
Dava dei raus a tutti.
Negli Anni 80 la tv trasmetteva Mila e Shiro, un cartone giapponese sulla pallavolo.
(Ride, ma tanto) Una sera andiamo a cena con le zie di Riccardo Michieletto (anche lui giocatore a Parma), e tra un portata e l’altra sentono il bisogno di togliersi un dubbio: “Ascolta Michi, ma quella battuta che si chiama Tornado, che esce dal campo e poi rientra, perché non la provi?”. Ci siamo buttati a terra per le risate; quel cartone lo guardavamo, anche se la tv era proprio rara, non c’era tempo.
Un azzardo andare via a quell’età?
Mi ha aiutato avere un papà sportivo: ha saputo valutare la situazione.
Due lacrime, mai?
Macché, stavo proprio bene; a 15 anni ero passato da allenarmi dentro un pallone pressostatico, tra freddo, umidità e attrezzi vecchi, a una palestra super attrezzata, tutto nuovo, organizzato. Una meraviglia.
30 anni fa la prima vittoria Mondiale ed è esploso un movimento…
Sì, ma non avevamo coscienza di quello che sarebbe successo; a fine Ottanta, in Italia, il top del volley era solo il derby tra Parma e Modena, ottomila presenti, una tensione rara, tra risse, macchine distrutte, sassaiole sui pullman.
E…
Al ritorno dal Mondiale, dopo l’atterraggio a Malpensa, abbiamo trovato un numero spropositato di fan, fotografie, autografi. Pacche sulle spalle. Urla. E improvvisamente il campionato italiano è cambiato con l’arrivo dei giocatori più forti, degli sponsor straordinari, dei gruppi industriali schierati con le loro squadre; quando giocavi a Milano trovavi il PalaTrussardi con 8-10 mila persone.
Lei, spiazzato?
Parma di quegli anni ti proteggeva, era una realtà ovattata e incentrata sullo sport: c’era la pallavolo, il basket femminile, il rugby, il pallone, il baseball, l’atletica. Ci frequentavamo. E ho conosciuto il pianeta calcio con Minotti, Apolloni, Melli, Brolin…
Il Parma dei miracoli.
Professionisti con una grande cultura dello stare insieme: spesso organizzavamo tornei tra di noi, o magari reciprocamente andavamo alle partite.
I suoi miti da ragazzo.
Non li avevo, la mia vita era già un surplus.
Mai una rissa?
Da piccolo, sì.
In campo?
Quando giochi da professionista devi imparare un punto: la gestione emotiva è importante sia nel match che fuori dalla gara, altrimenti i momenti caldi della partita diventano un problema. Non sai gestirli.
Niente scontri post match…
(Tono sornione) Al massimo ho appeso qualcuno al muro, magari ho lanciato una scarpa o dato un pugno a una porta.
Di voi chi era il più peperino?
Marco Bracci era il più agonista di noi.
Su Netflix c’è una serie dedicata a Michael Jordan, in cui l’agonismo non prevede prigionieri.
I gruppi che puntano a vincere, e non una volta, ma tante, devono mantenere quella condizione nervosa, altrimenti non è possibile ottenere i giusti risultati.
Chi era il vostro “Jordan”?
In squadra ne avevamo quattro o cinque.
Tra questi, lei.
Ero uno che punzecchiava i compagni, anche in maniera esplicita durante la partita e solo per tenere alta la tensione; se qualcuno di noi non dava il massimo, era inevitabile dargli addosso per vincere.
E quando perdeva?
Stavo male. Poi non tutte le sconfitte sono uguali.
Come la finale Olimpica…
Per metabolizzarla ho impiegato un’infinità di tempo. Abbiamo perso di niente.
La sua partita vincente?
La finale Mondiale del 1998: tutti parlavano di ciclo finito, invece nell’ultimo match abbiamo segato le orecchie alla Jugoslavia; una di quelle vittorie che ti segna, è come una tacca che ti appendi dentro; (cambia tono) eppure in quel caso, dal comitato internazionale, non abbiamo ricevuto neanche un premio individuale; dalla rabbia, alla premiazione gli abbiamo lanciato palline.
Non vi sopportavano.
Vincevamo sempre. Forse troppo, per loro.
Sempre nella serie su Jordan anche gli allenamenti sono impressionanti.
Anche noi ci scannavamo: in campo c’era un agonismo che a volte non esprimevamo neanche nelle partite ufficiali; Julio Velasco (l’allenatore) organizzava molti “uno contro uno” per stimolarci, per generare competitività estrema.
Lei reggeva?
Non sempre: ricordo un “uno contro uno” con Zorzi: alla fine ero così incazzato da togliermi la maglietta, restare a torso nudo e urlare: “Basta, me ne vado!”
La dote di Velasco.
Ti insegnava a tirare fuori il meglio, solo così fai la differenza; a quel livello tutte le formazioni puntano a batterti e tutti i tuoi compagni puntano a fregarti il posto: se non hai in testa l’obiettivo massimo, la tua squadra perde e tu perdi il posto.
E quindi?
Entravamo in palestra ed era guerra.
Velasco un guru.
Un tuttologo. In ogni discussione lui sapeva tutto, e ogni tanto allargavamo le braccia come a dire, “non è possibile”; ci ha insegnato a discutere.
Nel Mondiale del 1990, in semifinale vi siete trovati di fronte il Brasile e 27 mila persone sugli spalti.
Ricordo il baccano; ma in campo tutto si attutisce.
Tradotto?
Non ti rendi conto di quello che avviene attorno, il focus è solo la palla, l’avversario, l’arbitro. L’allenatore.
Una bolla.
In campo riesci a isolarti e ascoltare il rumore della palla a terra, il fischietto dell’arbitro e le parole dell’allenatore.
A cosa ha rinunciato nella vita?
La rinuncia è una mancanza, e a me non è mancato nulla.
La sua ultima partita.
(Già abbassa la voce) Ce ne sono state due: una con la Nazionale per la finale Olimpica di Atene del 2004, l’altra in campionato.
La prima.
Ero consapevole, sereno: avevo 34 anni e non potevo mantenere quei ritmi.
Con il club.
(Abbassa ancora la voce) Reduce da infortunio, eliminati ai quarti, senza lottare. Non era il mio modo. Caduta a terra l’ultima palla della mia carriera, i giocatori in campo mi hanno preso e sollevato (Silenzio. Qui la voce si strozza, tanto). Quel giorno mi sono commosso.
Ancora oggi.
In campo c’erano pure Zlatanov e Bovolenta, ragazzi che ho cresciuto (Vigor Bovolenta è morto nel 2012 a soli 37 anni. Giani resta zitto). Lasciamo stare Vigor, per favore. Non ne parliamo.
Oggi l’azzurro più famoso è Zaytsev: sarebbe entrato nella vostra “generazione di fenomeni”?
Sì, eccome. Perché io so chi è.
Un suo complesso.
Mai avuti. È la vita che è complessa.
Tatuaggio.
Neanche uno, avrei ceduto solo nel caso di Oro alle Olimpiadi; (ora torna a sorridere) desideravo l’orecchino e un giorno ne ho indossato uno con la calamita: quando mio padre l’ha visto è sbiancato.
Il suo supereroe.
(Ride) Oltre Obelix? Da quando sono piccolo amo Thor e il suo martello; quel martello lo avrei sempre voluto con me.
A un 18enne come spiega chi è Andrea Giani?
Non gli elencherei cosa ho vinto, ma chi sono.
E lei chi è?
Un super lavoratore.