Il cronista in fuga dal gregge del giornalismo di potere

È un’icona del giornalismo indipendente. Ed è la sua indipendenza ad averlo portato a ottenere uno degli scoop più grandi nella storia del giornalismo: i file top secret di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa dell’agenzia americana Nsa, che gli hanno permesso di vincere un Pulitzer e il George Polk Award. Ma non è solo un grande giornalista, è anche una grande persona. Uno che nemmeno nomina il premio Pulitzer nel suo profilo Twitter da un milione e mezzo di follower, è generoso con i giovani reporter indipendenti e si dà da fare per gli homeless e gli animali abbandonati. Glenn Greenwald ha fatto parlare di sé questa settimana: appena ha annunciato di lasciare il giornale da lui fondato, The Intercept, accusandolo di averlo censurato, gli sono piovute addosso critiche velenose. L’incidente è stato causato dalle contestazioni della direzione di The Intercept a un suo articolo sui documenti che riguardano Joe Biden, il candidato democratico nelle imminenti elezioni presidenziali americane. Da settimane le grandi redazioni Usa trattano quei file come radioattivi e si rifiutano di lavorarci, convinti che siano pericolosi un po’ come le email dei Democratici pubblicate da WikiLeaks nelle elezioni del 2016.

Se c’è una cosa che accende Glenn Greenwald e tocca le sue corde più profonde è proprio questa ‘mentalità del gregge’ dei media mainstream: la percepisce come un vero e proprio tradimento della professione giornalistica, che per lui è seguire i fatti, dovunque essi portino. Americano, di formazione avvocato costituzionalista, Greenwald è un convinto sostenitore della libertà di stampa. I suoi scontri con i media mainstream, dal Washington Post al New York Times, sono iniziati nel 2005, quando dal suo blog ha iniziato a fustigare il giornalismo americano per la sua sudditanza verso il governo nella war on terror di George W. Bush. Furono proprio le sue critiche al vetriolo all’establishment del giornalismo Usa ad attirare l’attenzione di Edward Snowden, che cercava reporter indipendenti per rivelare i documenti top secret della Nsa. Snowden non bussò alla porta del New York Times o del Washington Post, ma a quella di Glenn Greenwald e della documentarista e giornalista americana Laura Poitras. E funzionò: la pubblicazione dei file non fu bloccata o neutralizzata in quelle camere di compensazione che sono le grandi redazioni americane. Da quindici anni Glenn è sposato con il marito David Miranda e vivono a Rio de Janeiro, in Brasile, dove hanno adottato due bambini. Ed è lì che ha messo a segno un altro grande scoop: con i colleghi della redazione locale di The Intercept, ha rivelato le pressioni del giudice Sergio Moro sui procuratori per incriminare l’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, spianando così la strada all’elezione di Jair Bolsonaro. Un grande lavoro giornalistico che, insieme con l’attività politica del marito, ha fatto finire lui e la sua intera famiglia al centro di gravissime minacce di morte, tanto che devono vivere blindati e scortati da guardie private. Generoso, umile, qualche anno fa, a una nostra domanda se temesse di fare la fine di Bob Woodward e di altre grandi firme del giornalismo Usa, che passano tutto il giorno a parlare con i papaveri alti del governo e a far uscire i segreti che le varie fazioni della politica vogliono far uscire per promuovere questa o quell’agenda, Greenwald ci rispose: “Una delle cose che mi rende felice è che, se si guarda alla recensione del New York Times del mio libro (su Snowden), mi considerano ancora un outsider, mi fanno capire che nonostante il Pulitzer, rimango fuori dal club. E questo mi rasserena, perché non mi fa sentire troppo avvolto nelle dinamiche dell’establishment del giornalismo, che di fondo, considero corrotto”.

Coronavirus, Donald accusa i medici: “Più morti, più soldi”

La pandemia è colpa della Cina. Ma il numero dei decessi nell’Unione – oltre 230 mila, ieri – è gonfiato dai medici, a fini di lucro: “I nostri medici fanno più soldi se qualcuno muore di Covid”, ammicca ai suoi fan Donald Trump, alludendo a inverosimili teorie nel giorno in cui gli Stati Uniti registrano un nuovo record di contagi giornalieri, quasi cento mila. La risposta, indignata, arriva da Susan Bailey, presidente dell’American Medical Association: “L’idea che i medici gonfino i numeri dei pazienti di Covid per riempirsi le tasche è una calunnia. Invece di attaccarci, i nostri leader dovrebbero seguire la scienza e chiedere il rispetto di misure che funzionano, indossare la mascherina, lavarsi le mani e praticare il distanziamento sociale”. Per un team di ricercatori dell’Università di Stanford, 18 comizi del presidente tra il 20 giugno – l’evento di Selma – e il 22 settembre, tre dei quali al chiuso, hanno provocato oltre 30 mila contagi e sono collegabili a oltre 700 morti, anche di persone non presenti all’evento. In base allo studio, la campagna di Joe Biden critica Trump per l’organizzazione di manifestazioni ‘super-diffusori’ del virus. Biden twitta: “Il presidente non ha un piano anti-Covid. Non ci possiamo permettere altri quattro anni di leadership fallita”. Trump, però, vuole continuare a tenere comizi stile campagna elettorale anche dopo l’Election Day, se non ci sarà un chiaro vincitore il 3 novembre. In Pennsylvania, dove ieri aveva quattro eventi, ha detto: “Stiamo facendo molto bene, un’onda rossa si sta formando, stiamo facendo bene fra neri e ispanici”. Il divario tra Trump e Biden, nella media dei sondaggi fatta da RealClearPolitics, è stabile: Biden è avanti del 7,8% a livello nazionale, del 3,1% negli Stati in bilico. Entrambi i candidati consacrano gli ultimi scampoli delle loro campagne a Florida, Pennsylvania, Michigan, North Carolina, gli Stati percepiti come determinanti. L’ex presidente Obama chiede agli elettori di scegliere “Biden e Harris per una America migliore”.

Dem, Texas sogno proibito. Harris, comizi senza applausi

In Texas tutto è grande, enorme. Tranne i comizi dei Democratici. Kamala Harris ha parlato ieri a Houston davanti a un piccolo pubblico, poche decine di persone. Dal comitato elettorale spiegano: “Sì, sono 90mila contagi al giorno, non possiamo rischiarne nemmeno uno in più. Chi vuole seguire il convegno, può farlo in streaming”. Prima della Harris parlano solo donne: tre, tutte appartenenti a una minoranza. Salita sul palco la candidata non aspetta nemmeno un minuto per attaccare: “Quella a cui stiamo assistendo è la più grande strage di americani mai vista. Il numero di morti è paragonabile solo alla Seconda guerra mondiale. Trump continua a sottostimare questa tragedia”.

Sarà per il pubblico ridotto o perché non infarcisce il discorso di battute e nomignoli per etichettare l’avversario, a nessuna delle dichiarazioni di Kamala Harris fa eco uno scroscio di applausi come quelli che si sentono a un comizio di Trump. Ma i sondaggi statali, per la prima volta in un secolo, danno i Democratici avanti. Da tempo è iniziato un processo di cambiamento radicale della società. Le città crescono, attirando professionisti da tutto il Paese, diventano meno conservatrici e aumentano i latinos nelle campagne. La gestione della pandemia sembra aver accelerato tutto. Ed è proprio la texana El Paso la prima città statunitense con il coprifuoco, in questa terza ondata. All’uscita dall’evento, Angela Carr, 36 anni, programmatrice in un’azienda di software, non ha dubbi: “Abbiamo avuto quattro anni di show, non una presidenza. E ora ci sono 200mila morti per Covid. La disoccupazione è a livelli record e nei mesi di pandemia i multimiliardari hanno moltiplicato la loro fortuna. Dobbiamo agire”. Qualcosa è già successo. Nel 2016 alle Presidenziali votarono 8,9milioni di persone. Per questa tornata elettorale, fino a sabato mattina, avevano votato per posta oltre 9 milioni di persone. “Il voto anticipato è sicuramente a nostro favore”: Bill Hansey, 49 anni, è un produttore televisivo e vive a Houston da metà anni 90. “È la prima volta che vedo la possibilità di un cambiamento. In tanti si sono mobilitati per il voto. Se il Texas non sarà blu questa volta, lo sarà certamente tra quattro anni”. A un isolato di distanza ci sono una mezza dozzina di sostenitori di Trump.

I due schieramenti si guardano, si sfidano. Ma sembra più una messinscena che uno scontro. “Altri quattro anni” urla Louise McNally, 32 anni, che indossa una maglietta rosa con la scritta: Anche il coronavirus ha scelto Trump invece che Biden. In mano ha la bandiera della campagna elettorale ‘Keep America Great’. Louise è venuta da fuori città: “Harris è a favore dell’aborto. Distruggerà il nostro Paese, i nostri valori”. Le strade per uscire da Houston sono immerse nel verde. Il deserto e il confine messicano sono lontani. Ci sono i ranch, le mandrie e l’orizzonte sempre lontanissimo. “La benzina costa troppo poco, qui la produciamo. A questi prezzi c’è qualcosa che non va, ci perdiamo”: Beth Simon gestisce una stazione di servizio a Hye, meno di un’ora da Austin. Bastano poco più di 40 centesimi per un litro di benzina. Alle pompe di carburante ci sono veicoli enormi, il più piccolo è un Suv a sette posti. Il Texas è il sesto produttore di greggio al mondo. “Gli Usa – sostiene Beth – sono diventati indipendenti sull’energia da pochi anni. In Texas lo siamo da decenni. Il petrolio lo vendiamo e su questo si sono fondate decine di imprese”. Non si tratta solo delle grandi multinazionali, ma anche di piccole aziende a gestione familiare. Sono loro che in questi anni di Amministrazione Trump hanno goduto di una politica fiscale molto vantaggiosa. Lungo la statale ci sono molti striscioni per le elezioni. Solo un paio hanno il nome di Biden. La campagna texana è ricca, rigorosa e repubblicana. Megan e Charlie sono una coppia 50enne, producono vino. 800mila bottiglie all’anno, per l’Italia una cantina di medie dimensioni. “Ma in Texas è tutto più grande” e lo considerano poco, quasi un hobby. “Sono le vigne di famiglia – racconta lui – ora sto cercando di portare la produzione a un livello sufficiente da lasciare il mio lavoro in città”. Charlie è nel settore dell’edilizia: “Voglio andare via, c’è un decadimento morale. Ormai è pieno di persone che vengono da fuori. Io sono americano, ma prima sono texano. E in città ce ne sono sempre meno”.

 

I tiktoker fanno causa a Trump e la vincono: se l’app chiude perdono una fonte di reddito

Trump vieta la piattaforma di condivisione di video TikTok in America, ma non fa i conti con il fatto che la app non è solo un social network, ma un vero e proprio mezzo per la libertà di espressione con cui in milioni lavorano: e così, venerdì, un giudice federale della Pennsylvania ha emesso un’ingiunzione che ha bloccato le restrizioni che sarebbero partite il 12 novembre. A promuovere la causa è stato un gruppo di “creator”, utenti con milioni di follower: l’attore Douglas Marland che ha 2,7 milioni di follower; Alec Chambers che ne ha 1,8 milioni e Cosette Rinab con 2,3 milioni. La loro tesi, sensata, è che il divieto nell’uso di TikTok avrebbe significato la perdita di “opportunità professionali” e quindi del reddito che arriva dalle sponsorizzazioni. L’argomento centrale per il giudice – racconta Tech Crunch – è stato il fatto che “le descrizioni del governo della minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata dall’app TikTok sono formulate in modo ipotetico”. Come per Huawei, infatti, finora non è ancora mai emersa alcuna prova. Un rischio ipotetico, dunque, che secondo il giudice federale non era tale da superare l’interesse pubblico, ovvero quello degli oltre 100 milioni di utenti di TikTok e dei creatori di contenuti come Marland, Chambers e Rinab. Inoltre, il fatto che TikTok fosse anche utilizzato per diffondere “manuale informativo” ha permesso al giudice di stabilire che il divieto avrebbe determinato la chiusura di una piattaforma per la libera espressione. Non è comunque la prima volta che i tribunali statunitensi si schierano con TikTok contro la decisione di Trump. Il mese scorso, un giudice di Washington ha bloccato il divieto che avrebbe rimosso l’app dagli app store statunitensi gestiti da Apple e Google, ma non quello che dovrebbe impedire, da novembre, alle aziende di fornire i servizi di hosting Internet che consentirebbero a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti.

Ora, con questa decisione, anche quella misura resta congelata almeno fino a che non dovesse intervenire un annullamento (il Dipartimento di Giustizia potrebbe infatti ricorrere) e intanto lo stesso TikTok – le cui trattative con Oracle e Walmart per cedere gli affari made in Usa sono ferme – si prepara al tribunale: ha intentato una causa contro l’ordine esecutivo di Trump e il 4 novembre è prevista un’udienza. Chissà se il giudice seguirà i passi dei suoi predecessori.

Da Roma ad Atene, ridere per liberarsi di debiti… e mogli

Non potuit paucis plura plane proloquei. (Plauto)

The pellet with the poison’s in the vessel with the pestle. (Danny Kaye)

È giunto il momento di fare un salto nell’Atene e nella Roma dell’antichità per vedere cosa combinavano i Danny Kaye locali (a loro non importa, sono tutti morti). Vedremo come sottomettevano il pubblico, colpendone i punti vitali e proteggendo i propri. Ancora oggi si resta conquistati dalla loro bravura, al pari di chi fu sedotto dall’assaggio di un’erba presso i Lotofagi, e finì per anteporre il piacere alla salvezza. Setacceremo le opere di Aristofane, Menandro, Plauto, Terenzio, Cicerone, Quintiliano e Marziale. Pergraecemur!

 

COS’ERA (ED È) LA COMICITÀ

La comicità è una festa che celebra la liberazione dello spirito umano dalle sue tre costrizioni: la legge, che frena l’agire; il dato di fatto, che trattiene il pensiero; e la morale, che mortifica i sensi.

PROLOGO: Cacciate via dall’animo ogni preoccupazione e il cruccio dei debiti; nessuno sussulti al pensiero del proprio creditore. È festa. (Cas., 23-25 )

La comicità è un antico rito apotropaico che inscena un tipo particolare di disordine. Nella commedia, come nella natura, tale disordine è temporaneo, e conduce a una stabilità nuova, che un futuro disordine rimetterà in discussione. Il centro dell’universo comico è qualunque facezia, smorfia, gesto, situazione che facciano ridere un pubblico; ed è ovunque.

PROLOGO: In che modo costui sia diventato schiavo di suo padre è proprio ciò di cui vi parlerò, se mi prestate attenzione. Avete capito? Benissimo. L’ultimo arrivato, laggiù, dice di no. Avvicinati. (Capt., 5-6, 10-11)

TRANIONE: Continuerò a intorbidare le acque (Most., 546).

 

IL SAPERE DEL COMICO

Se è vero che chi è istruito vede il doppio degli altri, non per questo un comico deve essere esperto di ogni disciplina: basta che non gli sia ignaro ciò di cui parlerà. Plauto, fosse stato a digiuno di questioni legali, non avrebbe potuto tessere la trama del Persiano su una presunta vendita senza malleveria; né alludere, nel Mercante, all’argomento delle Baccanti di Euripide, se non ne avesse letto il testo; né ricalcare le Bacchidi da Menandro, se l’autore gli fosse stato ignoto. Marziale satireggia scrivendo “Chi dipinse la tua Venere, Licoride, secondo me era uno che voleva ingraziarsi Minerva” (Epigr., I, 102) perché si rivolge a chi, come Licoride, sapeva della antica rivalità fra le dee.

 

I PERSONAGGI DELLA COMMEDIA

Aristotele, nell’Etica, individua quattro tipi di personaggi comici: gli intercessori per se stessi (eirones), gli impostori (alazones), i buffoni (bomolochoi), i bifolchi (agroikos). I primi due generano l’azione comica; gli altri due l’atmosfera comica.

Eirones sono: lo schiavo scaltro che architetta gli intrighi in favore del suo padrone; l’eroe e l’eroina; la prostituta buona.

Alazones sono: il soldato fanfarone (Lamaco negli Acarnesi, Polemone nel Perikeiromene, Trasonide nel Misumenos, Biante nel Kolax, Pirgopolinice nel Miles gloriosus e Trasone nell’Eunuchus), il vecchio avaro, il misantropo, il pedante, la bisbetica, la prostituta cattiva, la preziosa ridicola.

Bomolochoi sono: il parassita, il cuoco, l’oste.

Agroikos sono: il villico, il credulone, il malcontento, l’invidioso, la prostituta ingenua.

Personaggi a sé sono le divinità che intervengono a generare e risolvere l’intrigo, come Pan nel Dyskolos, o Giove e Mercurio nell’Amphitruo. In Terenzio, la divinità lascia il posto al Caso, la sorte benevola. Com’è suo stile, l’autore ne dissimula la presenza:

CREMETE: Come mai sei qui ad Atene?

CRITONE: Capita. (Andr., 907)

 

La presentazione dei personaggi. Se il pubblico conosce il carattere di un personaggio, pregusta gli accadimenti. Per questo motivo i commediografi amano dare ai personaggi nomi descrittivi (“nomi parlanti”): Plauto chiama Tranione (“trappola”) il servo furbo, protagonista della Mostellaria; Pseudolo è un contaballe già nel nome. Il nome diventa così una maschera. Aristofane, chiamando Trigeo, ovvero “vendemmia”, il protagonista della Pace, evoca invece il tema della commedia: i vantaggi della pace per chi si guadagna da vivere lavorando la terra; e chiama Paflagone (“schiumante di rabbia”) il personaggio che corrisponde al bersaglio satirico della commedia I cavalieri, l’aggressivo demagogo Cleone (Treu, 2019). Quanto a Lisistrata, “Colei che scioglie gli eserciti”, il suo nome è tutto un programma. Altre volte, i nomi dei personaggi sono comici per antifrasi. Nel Mercante, il vecchio che subisce le angherie della moglie si chiama Lisimaco, come il valoroso generale di Alessandro. Nelle Vespe di Aristofane, i vecchi della giuria popolare sono soprannominati “le vespe” in quanto si illudono, almeno con il loro ruolo, di poter ancora pungere.

Un procedimento consueto è quello di descrivere i personaggi prima ancora che il pubblico li abbia visti in azione. Un personaggio può presentarsi da solo:

SOSIA: Se dirò una menzogna, avrò fatto come al solito. (Amph., 198)

PARASSITA: Io sono un parassita. (Bacc., 573)

SPAZZOLA: La gioventù del paese mi chiama Spazzola, perché a tavola, quando mangio, spazzolo via tutto. (Men., 77-78)

Oppure sono altri a descriverlo:

MERCURIO: Nessuno ha fifa come lui (Amph., 293).

PALESTRIONE: Credo che un avvoltoio sia più umano di lui (Mil., 1043-44).

MENECMO I: Ogni volta che sto per uscire mi trattieni, mi richiami, mi fai domande, dove vado, cosa faccio, che combino, cosa cerco, che porto, cosa ho fatto fuor di casa. Ho sposato un doganiere (Men., 114-118).

(28. Continua)

Csm, battaglia per l’uomo che sussurra al Quirinale

Una nuova nomina al Csm sta facendo discutere i consiglieri, soprattutto togati: quella del segretario generale, che è anche l’interfaccia di Palazzo dei Marescialli con il Quirinale. Mica roba da niente. E poiché le correnti si trascinano quel famigerato “uno a te, uno a me”, anche se Palamara un po’ docet, in questa partita l’appartenenza agli schieramenti ha il suo peso. Il Comitato di presidenza è alla ricerca di una sintesi in modo da presentare una proposta che non produca un due di picche al plenum sovrano. Le audizioni dei candidati si sono concluse, i più papabili, finora, sono Marco Dall’Olio e Alfredo Pompeo Viola, entrambi sostituti pg in Cassazione. Dall’Olio ha dalla sua parte, oltre alle capacità riconosciute da tutti, anche l’essere stato vicesegretario generale e magistrato segretario del Csm. Contro, sempre secondo ragionamenti interni, è l’appartenenza alla “rossa” Md, la stessa dei capi di Corte Piero Curzio e Giovanni Salvi e pure di Stefano Erbani, consigliere giuridico del Quirinale. E’ stato, inoltre, capo degli ispettori dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Viola, ben visto anche da alcuni laici, ha dalla sua il ruolo attuale di segretario generale alla procura generale della Cassazione e il ruolo passato di consigliere del Csm. Fu eletto nel 2009 con la centrista Unicost, caduta in disgrazia perché l’uomo forte degli ultimi 10 anni è stato Luca Palamara. A incalzare Viola e Dall’Olio ci sono Luigi Birritteri e Alessandro Pepe, sempre della procura generale della Cassazione. Birritteri, ex consigliere di Stato, è stato capo del Dipartimento organizzazione giudiziaria al ministero della Giustizia con Angelino Alfano e con Paola Severino. Pepe è stato consigliere del Csm, eletto con la conservatrice MI nel 2009. Nel 2015, con Piercamillo Davigo è tra i fondatori di AeI, per prendere le distanze dall’ingerenza del leader ombra di MI, Cosimo Ferri, ex sottosegretario alla Giustizia con centrodestra e centrosinistra, ora deputato renziano.

Finto matrimonio in punto di morte. Accuse al prete

Accusato di circonvenzione d’incapace, per aver celebrato il matrimonio di un uomo di 93 anni in fin di vita con una donna di 72 anni, un sacerdote rischia una condanna a 16 mesi. È quanto ha chiesto il pubblico ministero Gabriella Dotto per don Pietro Franco, parroco di Boccadasse a Genova. Il pm ha chiesto la condanna a quattro anni per la sposa, Gabriella Radaelli e 16 mesi per il figlio della donna e 20 mesi per la sua fidanzata, testimoni del matrimonio. L’ignaro sposo era Carlo Gian Battista Bianchi Albrici, imprenditore milanese trapiantato a Genova con eredità milionaria. Secondo l’accusa, l’unione sarebbe stata celebrata di notte in modo furtivo. Così la settantenne sarebbe diventata erede dell’impero dell’imprenditore. Il presunto raggiro è stato scoperto dal figlio di Bianchi Albrici, che ha impugnato il testamento e denunciato la donna. Il prete ha sostenuto di avere unito in matrimonio una coppia innamorata. Ma secondo il giudice che l’ha rinviato a giudizio, dell’amore non ci sarebbe stata l’ombra. I fatti risalgono al 2017.

Balletto militare, tenente di vascello ricorre al Tar

Finisce davanti al Tar della Puglia la vicenda della tenente di vascello protagonista dell’ormai famoso balletto messo in scena l’estate scorsa nella Scuola sottufficiali di Taranto dai giovani volontari che avevano appena prestato giuramento. La giovane ufficiale è stata messa sotto procedimento disciplinare dalla Marina e ora rischia la pesante sanzione della consegna di rigore per aver gettato discredito sulle Forze armata. Lei ha però sempre sostenuto di non aver fatto niente di male. E, alla vigilia della Commissione di disciplina che si terrà martedì, ha fatto ricorso al Tar perché l’amministrazione militare le avrebbe negato l’accesso ad atti indispensabili per sostenere la sua difesa. L’ufficiale ha chiesto l’accesso ai “provvedimenti disciplinari nei confronti dei militari ritratti in analoghi video presenti in Rete”. E ha elencato una serie di link che rimandano a filmati su Youtube in cui reparti della Marina o equipaggi di militari vengono ripresi mentre cantano o scherzano sulle note delle hit del momento.

Il fascioleghista Giuli: collezionista di flop su Rai2, ma intoccabile per Meloni e Salvini

In Rai è sempre la stagione di qualcuno. Ora è il momento di Alessandro Giuli. Lineamenti da senatore romano, biondo teutonico, aquilotto tatuato sul petto, Giuli – che da ragazzino era un “Mod” e lo ricorda calzando vezzosamente delle Dr. Martens rosse – è il nuovo volto della destra in tv. Di Salvini, ma soprattutto di Meloni, dato che Giuli non ha mai nascosto le sue idee ben salde a destra, fin da quando era al Foglio, da cui se ne andò sbattendo la porta per divergenze con Claudio Cerasa. Dopo uno sfortunato passaggio a Tempi, è approdato a Libero e, soprattutto, in Rai. Nel 2015 nella Rai3 di Daria Bignardi e poi a Rai2 con Carlo Freccero.

Il problema, però, è che tra fare l’ospite e condurre c’è un abisso. E Giuli sta collezionando un flop dopo l’altro. Prima con Povera patria con Annalisa Bruchi, che ha chiuso l’anno scorso con una media del 2,5% di share. E quest’anno con Seconda linea, con Francesca Fagnani, talk di prima serata molto atteso su Raidue, chiuso dopo appena due puntate da 1,9 e 1,7 di share. E retroscena annessi: Giuli che dopo la prima puntata ha un crollo di nervi e sparisce per tre giorni; una furiosa litigata col direttore di rete, Ludovico Di Meo; il gelo tra i due conduttori; l’invito di Salini a proseguire mentre è Giuli a dire no. Altri sarebbero stati messi da parte per un po’, ma a Giuli viene affidato un altro programma, quello che lui voleva fare dall’inizio. Titolo: Oltre la linea, che si rifà a un libercolo di Ernst Jünger e Martin Heidegger sul superamento del nichilismo. Da solo, in seconda serata, con un programma più culturale, tagliato su di lui. Comunque casca sempre in piedi. “Meloni e Giampaolo Rossi lo portano in palmo di mano, può fare quel che vuole”, dicono le malelingue Rai. Sua sorella, Antonella Giuli, è portavoce di Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera e cognato della Meloni, avendone sposato la sorella Arianna. Intrecci non solo ideali.

Mancano i risultati, ma non le polemiche. Come quella sulle mail tra lui e Armando Siri con Giuli impegnato a scrivere il programma culturale della Lega nel 2017, che Sigfrido Ranucci ha sparato in prima serata su Report. Una corrispondenza privata che, secondo il giornalista, qualcuno ha rubato violando la sua privacy. “Sono pronto a far causa, appena mi riprendo dal virus”, ha detto Giuli. Che nel frattempo si è preso anche il Covid.

Mail Box

 

“Caro direttore, ma chi è il misirizzi?”

Buongiorno Marco, mi è sfuggita la tenzone tra Padellaro ed il sunnominato misirizzi, fra i tanti sproloquiatori da talk show fatico ad identificarlo… Sansonetti? Ci ho azzeccato?

Eros

 

Mi deve essere sfuggito qualcosa nella vita politica italiana in questi ultimi giorni in cui ho avuto ben altri problemi. Chi è il personaggio politico a cui si riferisce Travaglio nel suo editoriale di ieri? Troppo forte l’articolo! Mi piacerebbe sapere chi è il personaggio.

Franco

 

Caro Travaglio dovresti dire chi è questo misirizzi del quale parli ieri sul Fatto per completezza di informazione. Altrimenti è come un coito interrotto!

F. R.

 

Scusate amici: evidentemente ho attribuito ad Alessandro De Angelis un eccesso di notorietà.

M. Trav.

 

Qualcuno vorrebbe un ritorno al Nazareno

Qualcuno pensava che i soldi del Recovery Fund li avrebbero fatti gestire dagli odiati 5Stelle? Piano piano sta arrivando la risposta. Dai distinguo di Zingaretti, all’intervento di Delrio alla Camera, si sta preparando il ritorno al tanto caro bipolarismo (che in fatto di affari somiglia molto di più a un polo unico). Ai tanti cacasentenze, vorrei dire che fossero un pochino più prudenti nell’esprimere giudizi così trancianti sulle opinioni di questo o di quello (leggi Di Battista), altrimenti tra qualche tempo saranno costretti a fare una figura un po’ barbina per spiegare agli elettori come mai sia stato possibile un ritorno al Nazareno.

Stefano Strano

 

Nell’Italia post Covid azzeriamo l’evasione

Come auspicato dall’economista Emanuele Felice, è necessario un patto di collaborazione tra “imprenditori e Stato”, un patto necessario per superare questa come tante altre crisi future.

Sono tutte ipotesi concrete di quei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” imposti a tutti dall’articolo 2 della nostra Costituzione. Se la crisi in atto riuscirà a far riflettere sulle tante altre “furbizie e ruberie” che sono state usate da alcune imprese per aggirare i doveri di solidarietà verso lo Stato, vorrà dire che non tutto il male viene per nuocere.

Mauro Bortolani

 

La destra si ricordi di tutti i tagli alla Sanità

L’Ancien Régime deve smetterla di fare il tiro al bersaglio contro Conte. Forse si dimenticano i devastanti tagli alla sanità degli anni precedenti pari a 37 miliardi di euro, per cui all’inizio della pandemia avevamo solo 5 mila posti letto in rianimazione contro i 28 mila della Germania. Oggi siamo a 8400, scrive Travaglio, ai quali si possono aggiungere i 3249 ventilatori acquistati da Arcuri, ma ancora non utilizzati dalle Regioni. In tale contesto Conte ha fatto miracoli, difendendo con le unghie e con i denti il diritto alla salute che la Costituzione definisce come “fondamentale”.

Maurizio Burattini

 

Il Mes è un prestito, ma molti non ci pensano

Sono settimane che nei giornali e tv c’è una grande diatriba per il famoso “Mes” Meccanismo europeo di stabilità, tutti sappiamo quante risorse servono per avere una sanità nazionale efficiente, ma ci sono analisi di cui non possiamo sottrarsi. E qui non voglio parlare dei vari sprechi che si vedono e che comunque con le risorse attuali si potrebbe fare di più e meglio. Quello che voglio dire, possibile coloro che il Mes insistono per prenderlo non si rendono conto che è un prestito? Ma alle future generazioni non ci pensano? Mi fa impazzire il fatto che non si sente da nessun colore politico prendere posizione riguardo al recupero della montagna di euro evasi nel nostro Paese anche da multinazionali come le varie piattaforme web che ricavano cifre enormi. Faccio appello alla vostra redazione di non stancarsi di riproporre questo argomento per tenere vivo l’interesse di noi cittadini e fare pressione nell’ambito politico.

Roberto Mascherini

 

Sono necessarie pene severe per i violenti

Credo che fra non molto gli agenti delle forze dell’ordine inizieranno a dimettersi in massa. Il motivo insopportabile oltre a uno stipendio inadeguato, il fatto che chiunque possa commettere oltraggio di ogni tipo nei loro confronti senza che nessun parlamentare o giornalista dica una sola parola di stima per gente che ogni giorno va alla guerra. In tempi come questi è assolutamente necessario che qualcuno indichi un ministro della guerra adeguato, che preveda pene esemplari per coloro che manifestano solo per rompere tutto.

Biagio Stante

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri nell’articolo “Whilrpool chiuderà, non bastano altri aiuti” ho scritto che le difficoltà dello stabilimento partono ancora prima, quando a gestire il tavolo senza successo c’era Carlo Calenda. Ma il tavolo gestito dall’ex ministro del Mise non è quello di Napoli: è quello, sempre con Whirpool, ma riguardante la controllata brasiliana Embraco proprietaria dello stabilimento di Riva di Chieri nel torinese che a gennaio 2018 lasciò quasi 500 lavoratori a casa. Me ne scuso con l’interessato e i lettori.

Pdr