La ripresa della pandemia rende urgenti due riflessioni sul mondo del lavoro: una, più contingente, su come tamponare nell’immediato i danni provocati dai vari tipi di lockdown che si stanno adottando in Italia e nel mondo; un’altra, più radicale e di lungo raggio, su come evolverà il mercato del lavoro e cosa si dovrà fare dopo che la pandemia sarà sconfitta.
Durante questi mesi di collasso economico, alcune aziende (come quelle del settore farmaceutico e dell’e-commerce), stanno facendo affari d’oro; la maggior parte vede ridotto il proprio giro d’affari; una minoranza non esigua sta per collassare. Il riflesso complessivo sull’occupazione è comunque drammatico e può essere “ristorato” solo con rimedi parziali come la cassa integrazione, i bonus, il Reddito di cittadinanza o quello di emergenza. Ma proprio mentre si ricorre a questi rimedi tattici, occorre che si abbia la lungimiranza di impostare un piano strategico per equilibrare il mercato del lavoro quando, passata la tempesta, occorrerà ripartire secondo un programma intelligente. A quel punto i problemi recessivi creati dal Covid-19 si sommeranno a quelli processivi che già urgevano ben prima della pandemia. I problemi di vecchia data, che il coronavirus non ha eliminato ma evidenziato e acuito, derivavano soprattutto dall’irruenza del progresso tecnologico e dei suoi effetti sul lavoro. A partire dall’avvento industriale, due secoli or sono, si sono susseguite e sommate tra loro quattro ondate di questo progresso: prima le macchine automatiche come i telai, poi le macchine elettromeccaniche come le catene di montaggio, quindi le macchine digitali come i computer, ora l’Intelligenza Artificiale.
Tutte e quattro queste trasformazioni hanno puntato all’aumento esponenziale della produttività e ogni volta siamo risusciti a produrre più beni e più servizi utilizzando più lavoro meccanico e meno lavoro umano. Come ho ricordato più volte, 130 anni fa, gli italiani erano 30 milioni e, in un anno, lavorarono 70 miliardi di ore. Lo scorso anno eravamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore ma, lavorando 30 miliardi di ore in meno, abbiamo prodotto centinaia di volte in più. Contemporaneamente è mutata anche la qualità del lavoro restante: nella metà dell’Ottocento, su 100 lavoratori, 94 erano operai; oggi gli operai sono il 30 per cento di tutta la forza lavoro mentre tutti gli altri – cioè il 70 per cento – sono “colletti bianchi” di cui la metà, composta da professionisti, manager, imprenditori, artisti e scienziati, svolge attività creative. Piaccia o non piaccia, andiamo verso un mondo in cui il progresso tecnologico sottrarrà sempre più lavoro ai lavoratori in carne e ossa. Del resto, è proprio in questo che consiste il progresso. Per evitare che la disoccupazione aumenti a dismisura, l’unico strumento risolutivo sarà la progressiva riduzione dell’orario di lavoro.
Tutto questo fu previsto lucidamente già 90 anni fa da John Maynard Keynes e viene confermato dal recente rapporto The Future of Jobs 2020 del World Economic Forum, secondo cui la pandemia “ha accelerato l’arrivo del futuro del lavoro” perché “l’adozione del cloud computing, dei big data e dell’e-commerce rimane una priorità assoluta per i leader aziendali, seguendo una tendenza stabilita negli anni precedenti. Tuttavia, c’è stato anche un significativo aumento dell’interesse per la crittografia, i robot non umanoidi e l’intelligenza artificiale”. Il risultato è che “a differenza degli anni precedenti, la creazione di posti di lavoro sta rallentando mentre la distruzione di posti di lavoro accelera”.
Già negli anni precedenti la pandemia i robot avevano sostituito buona parte della fatica operaia, i computer avevano assorbito gran parte del lavoro impiegatizio e avevano fornito un grande aiuto alle attività creative. Ora l’Intelligenza Artificiale stava facendo il resto. Ma, a tutto questo progresso tecnologico, si è ora aggiunto un imprevisto sviluppo organizzativo con effetti molto simili di labour saving. Benché da molti anni si parlasse di telelavoro e di smart working, vantandone vantaggi accertati sia per i lavoratori che per le aziende e per le città, il primo marzo di quest’anno in Italia telelavoravano circa mezzo milione di impiegati. Ma il 10 marzo, come per incanto, sotto la frusta del coronavirus e del lockdown, questi telelavoratori sono schizzati a otto milioni, cioè la metà di tutti gli impiegati, i funzionari, i manager e i professionisti esistenti in Italia.
Il maggiore effetto, ampiamente previsto dai sociologi, ma sorprendente per i manager che avevano sempre ignorato quelle previsioni, è stato un aumento notevole della produttività degli smart workers. Non a caso, tutte le ricerche condotte sull’adozione del lavoro agile negli anni precedenti il coronavirus dimostravano che, con esso, la produttività cresce del 15-20 per cento. Ciò significa che, dove il lavoro in ufficio richiedeva 100 dipendenti, con lo smart working ne bastano 80-85.
Torniamo al report del World Economic Forum: “Il futuro del lavoro è già arrivato per la grande maggioranza dei colletti bianchi online. L’84% dei datori di lavoro è pronto a digitalizzare rapidamente i processi di lavoro” in modo da “spostare il 44% della propria forza lavoro per operare da remoto”. In Italia questo processo è più esteso e veloce che altrove.
In complesso, dunque, dobbiamo attenderci che, dopo la pandemia, una pluralità di fattori agirà simultaneamente nel senso di produrre di più con minore impiego di lavoro umano. Alcuni posti saranno distrutti dal lockdown; altri saranno assorbiti dai robot e dall’Intelligenza Artificiale; altri dalla conversione del lavoro d’ufficio in smart working; altri ancora dalla soppressione di attività aziendali ed extra-aziendali connesse al lavoro in ufficio (mense, guardianie, bar, ecc.); altri dall’esuberanza di immobili determinata dalla dismissione degli uffici; altri ancora dalla sostituzione di molte attività intermediarie grazie all’e-commerce e alla gig economy. Dunque, passata la pandemia, la ricchezza riprenderà a crescere, ma sarà prodotta sempre meno dagli uomini per cui sarà difficile ripartirla come facciamo tuttora, cioè in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Alcuni continueranno a prestare servizi alle persone (medici, infermieri, badanti); altri svolgeranno attività creative inventando nuovi prodotti e nuovi servizi; ma per un numero crescente di persone non ci sarà lavoro o ce ne sarà poco e precario per cui si dovrà istituire un reddito universale, di cui l’attuale Reddito di cittadinanza non è che un pallido antesignano.
Inoltre si profila una nuova contrapposizione frontale tra i milioni di operai, chirurghi, insegnanti, barbieri, costretti a recarsi quotidianamente sui luoghi di lavoro, e i milioni di privilegiati che potranno consentirsi lo smart working.