Il lavoro smart è un cannibale

La ripresa della pandemia rende urgenti due riflessioni sul mondo del lavoro: una, più contingente, su come tamponare nell’immediato i danni provocati dai vari tipi di lockdown che si stanno adottando in Italia e nel mondo; un’altra, più radicale e di lungo raggio, su come evolverà il mercato del lavoro e cosa si dovrà fare dopo che la pandemia sarà sconfitta.

Durante questi mesi di collasso economico, alcune aziende (come quelle del settore farmaceutico e dell’e-commerce), stanno facendo affari d’oro; la maggior parte vede ridotto il proprio giro d’affari; una minoranza non esigua sta per collassare. Il riflesso complessivo sull’occupazione è comunque drammatico e può essere “ristorato” solo con rimedi parziali come la cassa integrazione, i bonus, il Reddito di cittadinanza o quello di emergenza. Ma proprio mentre si ricorre a questi rimedi tattici, occorre che si abbia la lungimiranza di impostare un piano strategico per equilibrare il mercato del lavoro quando, passata la tempesta, occorrerà ripartire secondo un programma intelligente. A quel punto i problemi recessivi creati dal Covid-19 si sommeranno a quelli processivi che già urgevano ben prima della pandemia. I problemi di vecchia data, che il coronavirus non ha eliminato ma evidenziato e acuito, derivavano soprattutto dall’irruenza del progresso tecnologico e dei suoi effetti sul lavoro. A partire dall’avvento industriale, due secoli or sono, si sono susseguite e sommate tra loro quattro ondate di questo progresso: prima le macchine automatiche come i telai, poi le macchine elettromeccaniche come le catene di montaggio, quindi le macchine digitali come i computer, ora l’Intelligenza Artificiale.

Tutte e quattro queste trasformazioni hanno puntato all’aumento esponenziale della produttività e ogni volta siamo risusciti a produrre più beni e più servizi utilizzando più lavoro meccanico e meno lavoro umano. Come ho ricordato più volte, 130 anni fa, gli italiani erano 30 milioni e, in un anno, lavorarono 70 miliardi di ore. Lo scorso anno eravamo 60 milioni e abbiamo lavorato 40 miliardi di ore ma, lavorando 30 miliardi di ore in meno, abbiamo prodotto centinaia di volte in più. Contemporaneamente è mutata anche la qualità del lavoro restante: nella metà dell’Ottocento, su 100 lavoratori, 94 erano operai; oggi gli operai sono il 30 per cento di tutta la forza lavoro mentre tutti gli altri – cioè il 70 per cento – sono “colletti bianchi” di cui la metà, composta da professionisti, manager, imprenditori, artisti e scienziati, svolge attività creative. Piaccia o non piaccia, andiamo verso un mondo in cui il progresso tecnologico sottrarrà sempre più lavoro ai lavoratori in carne e ossa. Del resto, è proprio in questo che consiste il progresso. Per evitare che la disoccupazione aumenti a dismisura, l’unico strumento risolutivo sarà la progressiva riduzione dell’orario di lavoro.

Tutto questo fu previsto lucidamente già 90 anni fa da John Maynard Keynes e viene confermato dal recente rapporto The Future of Jobs 2020 del World Economic Forum, secondo cui la pandemia “ha accelerato l’arrivo del futuro del lavoro” perché “l’adozione del cloud computing, dei big data e dell’e-commerce rimane una priorità assoluta per i leader aziendali, seguendo una tendenza stabilita negli anni precedenti. Tuttavia, c’è stato anche un significativo aumento dell’interesse per la crittografia, i robot non umanoidi e l’intelligenza artificiale”. Il risultato è che “a differenza degli anni precedenti, la creazione di posti di lavoro sta rallentando mentre la distruzione di posti di lavoro accelera”.

Già negli anni precedenti la pandemia i robot avevano sostituito buona parte della fatica operaia, i computer avevano assorbito gran parte del lavoro impiegatizio e avevano fornito un grande aiuto alle attività creative. Ora l’Intelligenza Artificiale stava facendo il resto. Ma, a tutto questo progresso tecnologico, si è ora aggiunto un imprevisto sviluppo organizzativo con effetti molto simili di labour saving. Benché da molti anni si parlasse di telelavoro e di smart working, vantandone vantaggi accertati sia per i lavoratori che per le aziende e per le città, il primo marzo di quest’anno in Italia telelavoravano circa mezzo milione di impiegati. Ma il 10 marzo, come per incanto, sotto la frusta del coronavirus e del lockdown, questi telelavoratori sono schizzati a otto milioni, cioè la metà di tutti gli impiegati, i funzionari, i manager e i professionisti esistenti in Italia.

Il maggiore effetto, ampiamente previsto dai sociologi, ma sorprendente per i manager che avevano sempre ignorato quelle previsioni, è stato un aumento notevole della produttività degli smart workers. Non a caso, tutte le ricerche condotte sull’adozione del lavoro agile negli anni precedenti il coronavirus dimostravano che, con esso, la produttività cresce del 15-20 per cento. Ciò significa che, dove il lavoro in ufficio richiedeva 100 dipendenti, con lo smart working ne bastano 80-85.

Torniamo al report del World Economic Forum: “Il futuro del lavoro è già arrivato per la grande maggioranza dei colletti bianchi online. L’84% dei datori di lavoro è pronto a digitalizzare rapidamente i processi di lavoro” in modo da “spostare il 44% della propria forza lavoro per operare da remoto”. In Italia questo processo è più esteso e veloce che altrove.

In complesso, dunque, dobbiamo attenderci che, dopo la pandemia, una pluralità di fattori agirà simultaneamente nel senso di produrre di più con minore impiego di lavoro umano. Alcuni posti saranno distrutti dal lockdown; altri saranno assorbiti dai robot e dall’Intelligenza Artificiale; altri dalla conversione del lavoro d’ufficio in smart working; altri ancora dalla soppressione di attività aziendali ed extra-aziendali connesse al lavoro in ufficio (mense, guardianie, bar, ecc.); altri dall’esuberanza di immobili determinata dalla dismissione degli uffici; altri ancora dalla sostituzione di molte attività intermediarie grazie all’e-commerce e alla gig economy. Dunque, passata la pandemia, la ricchezza riprenderà a crescere, ma sarà prodotta sempre meno dagli uomini per cui sarà difficile ripartirla come facciamo tuttora, cioè in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Alcuni continueranno a prestare servizi alle persone (medici, infermieri, badanti); altri svolgeranno attività creative inventando nuovi prodotti e nuovi servizi; ma per un numero crescente di persone non ci sarà lavoro o ce ne sarà poco e precario per cui si dovrà istituire un reddito universale, di cui l’attuale Reddito di cittadinanza non è che un pallido antesignano.

Inoltre si profila una nuova contrapposizione frontale tra i milioni di operai, chirurghi, insegnanti, barbieri, costretti a recarsi quotidianamente sui luoghi di lavoro, e i milioni di privilegiati che potranno consentirsi lo smart working.

 

Integrazione. Il ruolo delle comunità religiose è lavorare alla società aperta

La recrudescenza degli attentati di matrice islamista in Francia ripropone antiche questioni riguardanti le relazioni tra le religioni e soprattutto la loro convivenza nello stesso territorio, nel gioco spesso conflittuale dei rapporti di maggioranza e minoranza. A chi propone il pugno di ferro, ricordo che questa è stata la scelta sciagurata dei secoli passati: le guerre in nome delle religioni (o di una di esse) e la repressione delle minoranze hanno portato, insieme a grandi sofferenze e ingiustizie, impoverimento e oppressione nelle società e nei popoli, non certo crescita economica e culturale, tantomeno pace. Senza dimenticare che la strumentalizzazione del fattore R (religione) è un antico modo per nascondere interessi che poco o nulla hanno a che fare con l’esercizio della fede.

Lunedì scorso, Peter Ciaccio, pastore delle chiese metodiste e valdesi di Palermo per nove anni, ha ricevuto dal sindaco Leoluca Orlando il conferimento della cittadinanza onoraria, anche come segno di riconoscenza per una comunità che dal 1861 ha svolto un servizio di testimonianza e servizio disinteressato e aperto alla città e alla collaborazione con le altre fedi religiose presenti nel territorio. Tra le altre cose, il pastore Ciaccio ha ricordato un passaggio della Bibbia che in molte chiese si legge in questa domenica: “Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene”. Sono parole rivolte a un popolo deportato nella terra del conquistatore (Nabucodonosor II, re di Babilonia) in cui non sarebbe stato possibile vivere la propria fede come in patria. Il risentimento avrebbe potuto trovare terreno fertile, invece le parole di incoraggiamento di Geremia e la lungimiranza dei governanti consentirono un esperimento di accoglienza anche religiosa che per secoli produsse frutti duraturi sia nella comunità ebraica (come il Talmud babilonese) sia per Babilonia.

Solo chi è nella distretta della persecuzione e dell’umiliazione da parte di un potere ostile, oppure chi si trova lontano dalla propria patria non per scelta ma per necessità, può comprendere l’enormità della richiesta di Geremia: pregare e operare per il bene della città che non è la tua o che non è quella che vorresti! Eppure è questo l’appello che rivolge Geremia al suo popolo deportato. E questo stesso appello venne ricordato nel 1958 dal grande teologo Karl Barth – nella Lettera a un pastore della Germania orientale – ai cristiani di quella parte di una terra divisa e sottoposta a un regime di polizia.

Geremia (e Barth con lui) non suggerisce una linea “collaborazionistica”, piuttosto la linea di una testimonianza, come dirà Gesù, capace di essere sale della terra e luce del mondo (Matteo), capace di trasformare il male in bene (1 Tessalonicesi), la maledizione in benedizione (Romani). Una testimonianza capace di mantenere la propria identità sia di fronte al “totalitarismo” dei regimi polizieschi sia di fronte ai sistemi economici che non si fanno carico dei più fragili. Il ruolo delle comunità religiose, di tutte, non è la “conquista” delle società in cui vivono, pretendendo che queste si conformino alla propria visione del mondo, ma è l’adoperarsi per società aperte, plurali e più giuste, in cui nessuno tema che difendere le minoranze significhi ledere i diritti della maggioranza. Al contrario: la maggioranza si difende sostenendo il diritto/dovere anche delle minoranze di contribuire al bene comune. E su questo c’è tanto da lavorare. Ovunque.

*Già moderatore della Tavola Valdese

 

Neve in New Mexico, ma niente ghiaccio in Siberia e sulle Alpi

In Italia – La perturbazione atlantica di lunedì 26 ottobre ha prodotto piogge abbondanti e temporali intorno a Genova e sui rilievi tra Lombardia, Trentino e Veneto, in spostamento martedì sull’alto Friuli: 152 mm d’acqua a cavallo dei due giorni a Tolmezzo (Udine), e a fine evento la neve è scesa anche sotto i 1.500 m (20 cm a Livigno, 70 cm allo Stelvio, temporaneamente chiuso). Ancora piovoso martedì e mercoledì al Sud, schiarite altrove, intanto un poderoso anticiclone nord-africano si estendeva dalla Spagna culminando tra venerdì e ieri con temperature insolite per il periodo, specie in montagna: sulle Alpi isoterma 0 °C a quasi 4.000 m, e massime di 21 °C a Courmayeur, Bardonecchia e Bormio (tutte a quote di 1.200-1.300 m), 10 °C sopra media, situazioni sempre più ricorrenti con il riscaldamento globale e osservate in anni recenti anche a fine ottobre 2006, 2009, 2016, 2017 e 2019. Caldo meno anomalo in pianura, ma pur sempre 16-20 °C in Valpadana e 22-25 °C in Sicilia e Sardegna. Gli ultimi giorni tiepidi hanno smorzato l’anomalia fredda di ottobre 2020, che nel suo insieme è rimasto circa mezzo grado sotto media al Nord-Ovest, mentre è rientrato nella norma nel resto d’Italia. I corsi Climalab e Meteolab al Forte di Bard (Aosta) si adeguano alle norme anti-Covid: gli interventi dedicati a clima e diritto (venerdì 6 novembre) e al tema dell’acqua tra passato e futuro (sabato 7) saranno visibili solo in diretta streaming, previa prenotazione su www.fortedibard.it.

Nel mondo – Un’intensa ondata di freddo ha attraversato il Nord America. Martedì 27, nuovi record nazionali di temperatura più bassa per ottobre in Colorado (-36,1 °C) e South Dakota (-29,4 °C), nevicate eccezionali in New Mexico (32 cm ad Albuquerque), pioggia congelantesi in Oklahoma e Texas con black-out elettrici in centinaia di migliaia di edifici. Il gelo si è spinto fin sul Messico settentrionale con punte di -11 °C in zone di montagna, raro in questa stagione. Negli stessi giorni l’uragano tropicale Zeta (categoria 2, venti fino a 175 km/h) causava inondazioni e gravi danni, black-out per 2,6 milioni di utenze e almeno otto vittime dai Caraibi, alla Louisiana, alla North Carolina: ventisettesima tempesta tropicale del 2020 in Atlantico, ha portato questa stagione a eguagliare il record del 2005, e altri episodi potranno ancora verificarsi in novembre. Inoltre, almeno 47 morti dalle Filippine al Vietnam sotto il violento tifone Molave. Ottobre estremamente caldo con anomalie termiche mensili intorno a +5 °C tra Caucaso, Turchia ed Europa orientale, perfino oltre +10 °C sui mari di fronte alla Siberia che infatti non stanno ghiacciando, mentre sulle Alpi svizzere il mese è stato freddo (2 °C sotto media, precoce spruzzata di neve lunedì scorso ai 550 m di Coira); completamente secco in Israele (era accaduto solo nel 1948, 1964 e 1992), molto piovoso invece in Francia (354 mm a Dax, record ottobrino nella serie dal 1958). È iniziata in questi giorni la 36a spedizione italiana in Antartide con rigidi protocolli Covid, personale e attività ridotti, e durata limitata a tre mesi, minimo indispensabile per la manutenzione delle basi scientifiche. A proposito, l’agile ed efficace libretto Antartide. Come cambia il clima (Dedalo) nasce da un’esperienza della fisica Elena Ioli, che nel 2018 ha fatto parte di un’innovativa missione nel continente bianco di 77 ricercatrici in svariate discipline scientifiche, volta a promuovere il ruolo femminile nello studio e nella lotta ai cambiamenti climatici. Partendo da questo viaggio tra i ghiacci australi, l’autrice snocciola senza fronzoli i dati dell’emergenza climatica, centrando l’auspicio che gli scienziati, “portavoci del pianeta”, diventino anche “abili comunicatori”.

 

La lezione di vita di Liliana Segre

 

“Io ho scelto la vita, anche se sono sopravvissuta per caso. Erano pochissime quelle che si suicidarono, per quanto fosse facilissimo, bastava attaccarsi ai fili spinati elettrificati che sfioravamo tutti i giorni. Tutti sceglievano la vita, la vita, la vita! Sognavamo di essere fuori di lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una nuvola, una qualsiasi cosa bella”.

Liliana Segre

 

Forse ci chiuderanno di nuovo o forse ancora no, ma in ogni caso muniamoci di un “livre de chevet”, da tenere a portata di mano quando ci sentiremo un po’ giù, o nervosi, o smarriti. Pronti a commiserarci per la tegola che ci è piovuta in testa, a inveire contro l’avverso destino, che genera domande senza risposta: perché proprio adesso, perché proprio a noi, a me?

L’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah di Liliana Segre (lo scorso 9 ottobre, davanti ai ragazzi di Rondine, piccolo borgo in provincia di Arezzo) è uno scrigno del dolore incommensurabile e della speranza indomabile. Contiene cose di cui non scriverò perché le parole per dirle sono quelle, non queste. Sono lì, non qui. E in quelle cose c’è l’unità di misura per calcolare i nostri drammi, le nostre rinunce, le nostre paure rispetto al dramma, alla rinuncia, alla paura. Non che la pandemia sia una passeggiata, non che essa non generi una scia di sofferenza, d’infelicità, di lutto, di morte. Non si possono comparare le tragedie individuali (per quelle della Storia il punto di non ritorno è l’Olocausto). E se il cuore sanguina, sanguina allo stesso modo. Però possiamo imparare ancora, e ancora, sulla sofferenza e sulla vita. Leggete Liliana Segre (potete stamparla da Internet, o pubblicata in un libretto edito dal “Corriere della Sera” con la bella prefazione di Ferruccio de Bortoli). Ascoltate la voce di Liliana Segre (la trovate facilmente in streaming). Facciamola sentire ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri amici. Sentiamola noi, quando facciamo la lagna.

“Io dico ai giovani: non date la colpa a qualcun altro dei vostri insuccessi, della vostra debolezza. Siamo fortissimi, siamo fortissimi!”.

 

Perché non condivido Di Battista sui migranti

Ho letto l’articolo di Alessandro Di Battista “Migranti, Erdogan ricatta la Ue. La risposta non è l’accoglienza”. E ho notato due astuzie. La prima è citare dettagli che solo chi è stato davvero sul posto può conoscere. Per esempio, se vuoi scoprire immigrati marocchini in sosta alla periferia di Sarajevo, in attesa di entrare illegalmente in Europa, devi prendere il tram 3 fino al capolinea. La seconda è uno scoop: è Erdogan, e non Soros, che sta fiaccando le nostre economie (virus a parte) spingendo sempre nuovi uomini in fuga dall’Africa verso l’Europa.

La descrizione di luogo, tempo e persone gli riesce bene. E la spiegazione politica è chiara. Erdogan, il sultano turco liberticida che giustamente Di Battista non ama, sta realizzando una sua vendetta verso un’Europa divenuta nemica: imbottire i nostri Paesi di immigrati illegali che invece, per il loro bene, dovrebbero esercitare il “diritto di restarsene a casa” (sic). A differenza di altri noti personaggi politici che hanno la stessa persuasione, Di Battista non invoca il respingimento. Di Battista dichiara con enfasi il diritto a non imbarcarsi, ignorato purtroppo dai perseguitati etnici di alcuni Paesi africani, da coloro che sono cacciati dalla carestia totale del Burkina Faso, spinti via dalle loro terre e dalle loro case dalle scorrerie dei terroristi islamici, dalle bombe che anche adesso cadono da aerei di ultima fabbricazione un po’ dovunque nel Medio Oriente e, adesso, ai confini della Russia. Cita e usa il titolo di un libro fresco di stampa, Il diritto di non emigrare di un prof., Maurizio Pallante, che si definisce “eretico e irregolare della cultura”. A Di Battista sembra utile citarlo, per dirci che anche le persone perbene diffidano dei “taxi del mare”. Per esempio: “Le politiche di respingimento e quelle della accoglienza interessata sono due facce della stessa medaglia: c’è chi sfrutta i migranti per raccogliere voti cavalcando la paura, e chi li sfrutta per tenere in piedi un sistema basato sulle diseguaglianze”. Caso esemplare il sindaco di Riace, che ha dato case vuote e abbandonate a famiglie di profughi, ma la giustizia è intervenuta con mano ferma espellendolo dal suo ufficio.

Con astuzia da buon giornalista, l’inviato Di Battista – che ha scoperto e incontrato i marocchini portati direttamente alle frontiere d’Europa a cura della Turkish Airlines – può fare entrare in scena il concetto di “accoglienza interessata” che, secondo i suprematisti, è una delle due missioni delle barche Ong. L’altra, ricorderete, era di importare una quantità di neri (parlavano di “invasione”) per espellere l’uomo bianco e sradicarne cultura e religione. Religione. Il reporter si accorge di averla trascurata e allora cita Papa Francesco, trascrivendo un brano di Fratelli tutti: “Coloro che emigrano sperimentano la separazione dal proprio contesto, spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. Le comunità di origine perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti e perdono le famiglie quando emigra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli… Di conseguenza va riaffermato il diritto a non emigrare”. Segue il commento coraggioso del giornalista: “Altro che porti chiusi e cooperative aperte. Hanno il diritto di restare a casa… Ne va del futuro degli africani e degli stessi europei”.

Diventa chiaro che il reporter ha a cuore di trasmettere una opinione piuttosto che raccontare un fatto. Ma non nota, lui attento ai dettagli, che ha citato una frase di Benedetto XVI inserita tra virgolette nel testo di Bergoglio. Infatti Bergoglio fa seguire un diverso e chiarissimo pensiero: “Comprendo che di fronte alle persone migranti alcuni provino dubbi… Invito ad andare oltre queste reazioni primarie perché il problema è quando esse condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche, senza accorgersene, razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro”.

L’ accostamento errato di fonti (le parole di accoglienza di Bergoglio da fare intendere come approvazione del “diritto di non emigrare” di Pallante) spiega la doppia natura dell’autore. Di Battista giornalista ci offre dettagli di fatti veri e di persone esistenti nel triste mondo dell’immigrazione per dirci poi, da politico, che non si deve cadere nella trappola del cercare una via d’uscita organizzata da interessi spregevoli. Di Battista racconta da reporter di una folla di erranti trasportata in aereo davanti a frontiere chiuse d’Europa per dire ciò che è un po’ azzardato se detto da un leader politico sotto copertura di un partito di governo: “Accoglienza mai”. Di Battista sa scrivere, e conta molto nel suo partito o movimento. Bisognerà che qualcuno lo legga e lo ascolti. E chi è d’accordo (a parte Meloni e Salvini) lo dica.

 

Doris, la cagnolina morta e i baffetti di Hitler: come litigare col marito

Dalle commedie apocrife di Simon Kent. LA MOGLIE: Puoi dire quello che vuoi su Hitler, ma una cosa è certa: portava i baffi ben curati. IL MARITO: Non portava i baffi. LA MOGLIE: Cosa? IL MARITO: Non aveva i baffi. LA MOGLIE: Sto parlando di Hitler. IL MARITO: Sì, precisamente. Non portava i baffi. Era tutto rasato. LA MOGLIE: Hitler non portava i baffi? IL MARITO: Aveva dei ciuffi di pelo che gli uscivano dal naso. LA MOGLIE: Hitler. IL MARITO: Neppure ciuffi di pelo. Peli, lunghi peli. Quasi ciuffi, ma non li chiamerei baffi. Non portava i baffi, Hitler. LA MOGLIE: Ma sì che aveva i baffi. Come quelli di Charlot. IL MARITO: No, cara. Hitler non portava i baffi. LA MOGLIE: In altre parole, mi stai dicendo che era completamente rasato. IL MARITO: Se ti fa piacere metterla così… LA MOGLIE: Siamo arrivati a questo punto? IL MARITO: Ciuffi di peli, cara. Gli uscivano dal naso. LA MOGLIE: Ciuffi. Non aveva ciuffi. IL MARITO: Be’, peli. LA MOGLIE: Niente peli. IL MARITO: Vorresti dirmi che non gli uscivano i peli dal naso? LA MOGLIE: Neppure uno. IL MARITO: Hitler? LA MOGLIE: Hitler. IL MARITO: Non so cosa dire. LA MOGLIE: Portava i baffi. IL MARITO: E di che colore? LA MOGLIE: Neri. IL MARITO: No. LA MOGLIE: Non capisco come tu possa startene lì seduto a guardarmi negli occhi, e dirmi che Hitler non portava i baffi. IL MARITO: Che c’entra se ti guardo negli occhi o no? LA MOGLIE: C’entra, invece. La penso così, e mi dispiace. IL MARITO: Anche a me dispiace. C’è un punto sul quale non siamo d’accordo. Così mi pare. LA MOGLIE: Ma non si tratta di—. IL MARITO: Mi dispiace, ma io la cosa la vedo così. Non posso vederla sotto un altro aspetto. Sulla questione, noi due abbiamo punti di vista diversi. Tu ne pensi una cosa e io ne penso un’altra. Così mi sembra. Abbiamo opinioni contrastanti sulla faccenda, tanto per dirla in parole povere. LA MOGLIE: Dico solo—. IL MARITO: Proprio così, benissimo. Tu dici una cosa e io ne dico un’altra. È tutto quello che c’è da dire, la discussione non ha senso. Se tu sei convinta che Hitler aveva i baffi, fai bene a insistere. Potremmo continuare a discuterne all’infinito e non verremo a capo di niente. L’unica cosa da fare è dimenticare tutta la faccenda. LA MOGLIE: Benissimo, se la pensi così non parliamone più. IL MARITO: Ottimo. (Lunga pausa) Ma se Hitler aveva i baffi, come la mettiamo allora con quella fotografia che si fece fare sul lungolago a Berlino nell’estate del 1938, eh? Prova un po’ a rispondermi. LA MOGLIE: Non è mai stato sul lungolago a Berlino. IL MARITO: Cosa? LA MOGLIE: Ti sbagli. Non è mai stato sul lungolago a Berlino. IL MARITO: Ma allora la fotografia? E tu te ne stai seduta lì a dirmi che Hitler non è mai stato sul lungolago a Berlino? LA MOGLIE: All’Obersalzberg, non a Berlino. IL MARITO: Macché Obersalzberg… Nell’estate del 1938, sul lungolago a Berlino, in compagnia dei sottoscritti, Hitler si fece fare una fotografia mentre mangiava un panino col würstel. LA MOGLIE: Non ha mai mangiato panini col würstel. IL MARITO: Hitler? Non mangiava panini col würstel? LA MOGLIE: Gli facevano senso. Non era un panino col würstel. Non era Hitler. Nell’estate del 1938 non eravamo sul lungolago a Berlino. IL MARITO: Non so cosa dire. LA MOGLIE: Nel 1928, forse. Sul Teufelssee. Con Tom, che stava mangiando un panino col tonno. IL MARITO: Non conosco nessun Tom. Oh, basta! Porto fuori il cane. LA MOGLIE: È morto tre anni fa. E non era un cane, era una cagnolina. Si chiamava Doris. IL MARITO: Doris era nostra figlia! LA MOGLIE: Non abbiamo figli. IL MARITO: Davvero? Che peccato.

 

I fatti, la finta retorica e le lacrime di coccodrillo

Loro, per il virus, sono “le vittime perfette”. Sono anziani, cronici, con più patologie e, vivono, di necessità, in comunità. Sono i nonni, le madri, i padri, i nostri cari che in sempre più casi, non potendo essere assistiti in famiglia, trovano casa nelle residenze per gli anziani. Quelli su cui nei mesi scorsi sono state versate, oltreché lacrime, parole e parole di retorica. Cosa è stato fatto in questi mesi per proteggere i nostri nonni? Mancano ancora i test rapidi. I vaccini antinfluenzali. Non esistono linee guida – è così per esempio in Francia e Germania, che pure hanno attuato il lockdown

– per permettere l’ingresso ai parenti dietro tampone. Manca un tracciamento a tappeto degli operatori, per evitare l’ingresso del virus nelle strutture e per isolare tempestivamente, anche tra gli ospiti, i positivi. Inizia a mancare – questo è quello che raccontiamo in queste pagine – a partire dalla Lombardia, la possibilità di adeguati ricoveri ospedalieri per gli anziani più gravi, indipendentemente dalla loro età. Nei fatti, il lockdown

generazionale, l’isolamento per gli over 75, lo stiamo già attuando. Con le nefaste conseguenze che possiamo non solo immaginare, basterebbe ricordare. Le Rsa – eccetto i casi virtuosi, che pure ve ne sono – sono già allo stremo. “Non ripetiamo gli stessi errori di marzo”. Quante volte lo abbiamo sentito dire? È come quel paziente che a un certo punto chiede al suo medico: “Voglio continuare a curarmi, ma per favore mi spieghi contro cosa esattamente sto combattendo”. Potevamo dire di non saperlo al primo giro. Ora, non regge più.

P.s.

Per la serie “I nostri errori”, suggeriamo ai fautori della famosa delibera, che poi ha fatto proseliti, con cui Regione Lombardia suggeriva e auspicava che i pazienti Covid a bassa intensità venissero trasferiti nelle Rsa, di appuntarsi i numeri ufficiali che lo stesso Pirellone ha comunicato non più tardi di due mesi fa: “Limitatamente alle Rsa che hanno aderito alla DGR 2906/2020 risulta che, alla data del 31 luglio, 719 sono gli ospiti di Rsa risultati positivi al Covid e 163 sono gli ospiti positivi al Covid che risultano deceduti”. A futura memoria.

Il virus si sfida investendo sui ragazzi e sul futuro

Il nostro nemico è il virus. Ma ci sono molti modi per combatterlo: si dividono in efficaci e inefficaci, e in giusti e ingiusti. Il virus non ci ha cambiato: rimaniamo il Paese che eravamo. Un Paese assai poco incline a coltivare l’interesse generale: perciò un Paese che ha sempre massacrato la sua scuola. Ora si tratta di scegliere: Francia e Germania, i cui governi hanno commesso errori e omissioni non dissimili da quelli imputabili al nostro, hanno scelto: anche durante il lockdown

le scuole restano aperte. È una decisione forte, sul piano sociale e su quello simbolico (rende chiara la gerarchia dei valori per cui vogliamo rimanere vivi). Ma è soprattutto una decisione strategica: quando una società è minacciata, punta tutto sulla possibilità di salvare il futuro. E fare scuola vuol dire restituire un futuro alla generazione dei nostri figli.

Ieri, tra i resti lasciati dai manifestanti che si sono scontrati con la polizia a Firenze, ho trovato uno dei loro cartelli. Scioglieva l’acronimo DAD in Didattica ad Altissima Discriminazione. Se le buone ragioni non trovano rappresentanza politica, sfociano in violenza. Se togliamo ancora la scuola a questa generazione costruiamo un futuro che fa paura. Sono pochissimi i contagi avvenuti nelle scuole, rese sicure dal lavoro strenuo e appassionato della comunità educante. Il pericolo è semmai sui mezzi di trasporto necessari per raggiungerle: per colpa degli inqualificabili governi regionali. Se necessario, facciamo scuola il pomeriggio. Ma continuiamo a farla anche dove e quando dovremo chiudere tutto il resto. È un modo efficace e giusto per combattere il nemico. Per non diventare nemici di noi stessi.

L’ex manager e le minacce di Eni. L’azienda: “È falso”

Dice la verità Vincenzo Armanna quando sostiene di aver ricevuto messaggi del tenore “l’Eni può distruggere chiunque in Italia”. O la dice l’Eni quando smentisce categoricamente l’esistenza di questi messaggi? Il Fatto non ha gli strumenti tecnici per risolvere questo dilemma, che peraltro sarebbe competenza di una Procura. Il tema è però di enorme importanza sia per il rilievo dell’Eni nel nostro tessuto economico, sia per la gravità del tenore del messaggio mostratoci da Armanna.

La conversazione che il Fatto ha visionato è firmata dall’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, e indirizzata nel giugno 2013 all’ex dirigente Armanna, oggi imputato di corruzione internazionale con l’ad Claudio Descalzi nel processo sulla presunta maxi-tangente da circa 1,2 miliardi di dollari pagata per l’acquisto del giacimento nigeriano Opl245.

Il messaggio riguarda le questioni legate, in quell’estate 2013, al licenziamento di Armanna – firmato proprio da Granata – accusato da Eni di gravi scorrettezze nella rendicontazione dei rimborsi spese.

Armanna ci ha assicurato di averli depositati alla Procura di Milano ma al Fatto non risulta che sia così (a differenza di altre chat confluite nel processo su Opl245). Comprendere a quale gioco stia giocando Armanna è una fatica che impegna da anni la stessa Procura di Milano. Resta il fatto che se i messaggi in questione fossero autentici il loro tenore risulterebbe gravissimo e, se fossero falsi, Armanna dovrebbe pagarne le conseguenze. Armanna è il manager le cui accuse, un anno dopo i fatti in questione, hanno contribuito all’inchiesta milanese su Opl 245. Gli abbiamo chiesto di inviarci un video e mostrarci l’apertura della chat (per dimostrare che fosse collegata all’utenza e al nome di Granata registrato sul telefono). Armanna lo ha fatto. Abbiamo poi verificato che il numero di telefono videoregistrato fosse quello che, in altri documenti depositati, risultava in uso a Granata. Veniamo quindi alla chat.

È il 18 giugno 2013 e nei messaggi mostrati da Armanna si legge che Granata lo invita a far contattare, dal suo legale, un avvocato che gli avrebbe precedentemente indicato. L’argomento in questione – si comprende dai successivi dialoghi – è quello del licenziamento e della futura possibilità di rientrare in Eni od ottenere incarichi presso altre società. Granata invita Armanna a “non fare mosse avventate” e sostiene che “Eni può certamente distruggere chiunque in Italia”. Gli scrive: “Sanno tutto di te, chi sono i tuoi amici, dove vivi, con chi parli, dove potresti cercare lavoro, chi potrebbe aiutarti, dove lavora tua moglie e dove vanno a scuola i tuoi figli”. E ancora: “Non potrei fare nulla per fermarli”. Gli annuncia che Eni “comincerà a breve un’opera di distruzione della tua reputazione” e che l’unica soluzione per i problemi di Armanna è che Descalzi diventi ad. Armanna risponde di sentirsi minacciato e Granata replica: “Non ti voglio minacciare, ti devi fidare di me”.

Bisogna ammettere che sarebbe stato piuttosto imprudente, per Granata, lasciare una traccia scritta di tale portata. Ma i casi – lo ribadiamo – sono due: o Armanna ha realizzato un falso per colpire l’attuale numero due dell’Eni (non sappiamo a quali fini) oppure questi messaggi sono autentici e molto gravi. In entrambi i casi riteniamo doveroso scriverne.

L’ex dirigente ci ha inviato una copia del verbale di conciliazione successivo al licenziamento: per chiudere la questione, nell’ottobre 2013, a fronte di rimborsi indebiti per 109mila euro, Eni offre ad Armanna, che accetta, 499 mila euro lordi (ne vengono comunque decurtati 109 mila perché l’ex dirigente ammette il “proprio errore contabile”).

Il rapporto di lavoro si conclude quindi con Armanna che, accusato di aver intascato indebitamente 109mila euro, ne incassa 390 mila.

“Premesso – replica Eni – che per quanto ci risulta non esiste copia forense certificata che confermi la veridicità delle comunicazioni dei cellulari di Armanna né della loro esistenza. Descalzi e Granata smentiscono categoricamente di avere mai intrattenuto con Armanna le conversazioni riportate nello scambio e si riservano di perseguire in ogni sede la ripresa di falsità simili o altrimenti associate. Tali conversazioni, peraltro, sono artificialmente riproducibili in modo agevole, semplicemente associando il nome delle persone che si intende diffamare a numeri di telefoni mobili in proprio possesso. Ricordiamo inoltre che su tali vicende esistono indagini in corso in vari procedimenti, i cui contenuti sono (ad oggi) coperti da segreto istruttorio. Si ricorda come Descalzi e Granata abbiano già presentato querela per diffamazione a carico di Armanna in merito a sue affermazioni simili a quelle riportate nella falsa conversazione. Descalzi, oltre al confronto tenuto nel 2016 dinanzi alla magistratura, non ha mai avuto alcun altro contatto con Vincenzo Armanna dopo l’uscita da Eni di quest’ultimo. Granata non ha mai più avuto contatti con Armanna dopo aver seguito la pratica relativa al suo licenziamento, avvenuto per gravi motivi quali la sottrazione di denaro all’azienda attraverso la manipolazione delle note spese. Ricordiamo come le dichiarazioni e le accuse avanzate da Armanna nel corso del procedimento Opl245 si siano dimostrate false e smentite da fatti e testimonianze processuali, e come siano emerse prove inconfutabili sulla sua intenzione di manipolare a livello giudiziario vicende legate al giacimento per colpire il management di Eni e trarne vantaggi economici personali”.

La telenovela Mps: Profumo sotto tiro, il Cda gli ha tolto la manleva legale

Le difficoltà del Monte dei Paschi di Siena stanno mettendo l’amministratore delegato di Leonardo, l’ex Finmeccanica, Alessandro Profumo in una posizione complicata. La situazione è paradossale. Giovedì scorso, il cda di Mps ha deciso di spedire una lettera a Profumo e all’ex ad della banca, Fabrizio Viola, per interrompere la prescrizione di un’eventuale azione risarcitoria che la banca si riserva di avviare contro di loro. Nello stesso tempo, l’istituto ha deciso di togliere a entrambi la tutela legale: non sosterrà più le spese legali nei procedimenti che li riguardano per il loro ruolo come amministratori della banca.

Profumo è stato presidente dal 2012 al luglio 2015. Viola amministratore delegato dal 2012 a settembre 2016. Il 15 ottobre sono stati condannati in primo grado a 6 anni per aggiotaggio e false comunicazioni sociali nel processo sulla contabilizzazione dei derivati del Montepaschi fatti dalle precedenti gestioni. Leonardo-Finmeccanica ha fatto sapere che Profumo, riconfermato ad aprile in quota Pd (parrocchia: Paolo Gentiloni), non è obbligato a dimettersi. Informalmente nessuno del governo glielo ha chiesto, nemmeno l’azionista del colosso della difesa, il ministero dell’Economia.

Il Tesoro però è anche azionista di Mps, di cui controlla il 68% del capitale dopo averlo nazionalizzato nel 2017. Il cda di giovedì avrebbe dato mandato all’amministratore delegato Guido Bastianini di valutare, alla luce delle motivazioni della sentenza (che usciranno, salvo ritardi, prima di Natale), l’eventualità di un’azione di responsabilità ai danni di Profumo e Viola. In pochi dubitano che questo avverrà. In passato il Tesoro l’ha sempre bloccata, ma con la condanna cambia tutto: i consiglieri del Montepaschi rischiano di doverne rispondere a loro volta in caso di voto contrario. L’azione di responsabilità dovrà poi passare al voto dell’assemblea dei soci, dove il Tesoro dovrebbe sconfessare la decisione del cda che ha espresso alla guida della banca. Anche questo è improbabile che accada. Di sicuro, la guerra per il vertice di Leonardo è già partita.

La condanna dell’ex manager aggrava la situazione di una banca già in profonda crisi, che ha sulle spalle cause civili per quasi 10 miliardi, in buona parte per gli aumenti di capitale del periodo 2012-2015 andati in fumo. Di questi, circa 6 miliardi sono classificati dalla banca a rischio probabile di soccombenza e per questo ha accantonato a copertura poco meno di un miliardo. Giovedì il cda ha valutato la situazione e deciso di alzare gli accantonamenti, senza rendere noto di quanto (la cifra sarebbe di 400 milioni), cosa che avrà un impatto negativo sui conti del terzo trimestre che dovrebbero essere approvati dal cda del prossimo 5 novembre.

Nei giorni scorsi i vertici della banca e quelli del Tesoro, compreso il ministro Roberto Gualtieri, hanno discusso l’eventualità di un aumento di capitale da 1,5-2,5 miliardi per rimpinguare il patrimonio della banca: per dare l’idea della situazione è più di quanto Mps capitalizzi in Borsa. Già solo per liberarsi di 8 miliardi di crediti deteriorati il Monte dovrebbe emettere obbligazioni per 700 milioni a tassi stellari che rischiano di dissanguare l’istituto. Il Tesoro vuole ricapitalizzare la banca per poi liberarsene. Alle porte c’è solo Unicredit, ma l’ad Jean Pierre Mustier è disponibile solo se lo Stato gli dà anche un cospicua dote pubblica. Un negoziato reso grottesco dalla decisione di designare alla presidenza l’ex ministro Pier Carlo Padoan, l’uomo che ha nazionalizzato Mps . I 5Stelle sono contrari e promettono barricate. Ieri fonti finanziarie riportate dall’Ansa riferivano di un’offerta a Unicredit comprensiva, oltre alla ricapitalizzazione, anche di 6mila esuberi in Mps, che peraltro porta in dote 3 miliardi di crediti fiscali extra-bilancio. Il ministero ha smentito l’offerta, ma con la formula “fonti del Tesoro” che alimenta più di un sospetto.