Papeete, sequestrati 500mila euro per una frode fiscale

“Conto di tornare qui l’anno prossimo come presidente del Consiglio, con ruoli di governo, se gli italiani vorranno, per prendere per mano questa terra e questo Paese”. Matteo Salvini nel luglio scorso, dal quartier generale del Papeete di Milano Marittima del suo amico europarlamentare Massimo Casanova, annunciava il suo ritorno. Intanto l’estate è abbondantemente trascorsa, il leader della Lega non è diventato premier e nel frattempo, lo scorso 30 settembre, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Ravenna, su richiesta della Procura, ha disposto un sequestro preventivo per equivalente da oltre 500 mila euro sulle società che gestiscono Papeete e Villa Papeete di Milano Marittima, i luoghi dove il leader leghista passa le estati.

La legale rappresentante delle due società, Rossella Casanova – sorella di Massimo (estraneo all’inchiesta) – è indagata per dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In sostanza, secondo le accuse, in qualità di legale rappresentante delle due società, avrebbe tratto vantaggio da fatture emesse da una società, la Mib Service Srl, che non corrispondevano a reali prestazioni, evadendo così l’Iva. È scritto nel capo di imputazione: Rossella Casanova “al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto” dal 2013 al 2016, indicava nelle dichiarazioni di quegli anni “elementi passivi fittizi, previa annotazione nelle scritture contabili obbligatorie delle fatture emesse dalla società Mib Service Srl, (…) relative a operazioni in tutto o in parte oggettivamente inesistenti, rappresentando che l’attività posta in essere dalla Mib Service Srl è riconducibile a una illecita somministrazione di manodopera dissimulata da fittizi contratti di appalti di servizi”. La Mib Service Srl è una società ravennate specializzata in consulenze nel settore ristorazione e intrattenimento ed è proprio da una verifica fiscale su di essa, a dicembre 2017, che parte l’indagine. Nel decreto di sequestro preventivo la Mib Service viene definita una “cartiera”, “una società di servizi che forniva solo prestazioni illecite, senza alcun tipo di rischio d’impresa, salvo l’eventualità di essere scoperta nei suoi reali intenti”. Come ricostruito dal Gip nel decreto di sequestro, la Mib, dal 2013 al 2016, “dopo aver formalmente sottoscritto il contratto di appalto di servizi con i clienti, assumeva direttamente i dipendenti già impiegati nell’impresa”. “In particolare – scrive il gip – per la quasi totalità dei contratti stipulati con i committenti, in concomitanza con l’annualità di stipula del contratto, le parti facevano transitare i dipendenti (…) dalla società committente alla ‘appaltatrice’, impiegandoli con il ruolo di direttori degli appalti o di semplici lavoratori nello stesso locale della committente”.

Da qui a cascata c’è stato anche l’accertamento su alcune società clienti, come la Villa Papeete Srl e la Papeete Srl. Si tratta di due società le cui quote sono detenute da Rossella Casanova, che ne è rappresentante legale, e dal fratello Massimo, l’europarlamentare leghista (estraneo all’indagine).

Durante le verifiche, la Finanza cerca di capire se queste ma anche altre società avessero “effettivamente utilizzato delle fatture emesse dalla Mib” dal 2013 al 2016. “Dal 2013 al 2017 – scrive il gip nel decreto di sequestro – le società sottoposte a verifica hanno registrato e utilizzato a fini fiscali le fatture passive emesse dalla Mib Service Srl, attestanti il sostenimento di spese relative all’esecuzione di appalti di servizi, da ritenersi simulati, realizzando notevoli risparmi di imposta”. Secondo la Finanza, per gli anni di imposta 2013-2017, l’Iva evasa dalla Villa Papeete srl ammonta a circa 152 mila euro, per la Papeete Srl si tratta di poco più di 373 mila euro. In totale più di 500 mila euro, cifra del sequestro preventivo disposto dal Tribunale di Ravenna.

Contro il decreto, l’avvocato Ermanno Cicognani, legale di Rossella Casanova, ha già presentato ricorso al Tribunale del Riesame.

Respinti gli anziani in ospedale: 300 casi in Lombardia

Il tam tam preoccupato tra le case di riposo lombarde, correva da alcune settimane: “Per i nostri anziani positivi al Covid, e con sintomi, si stanno chiudendo le porte degli ospedali”. Tanti segnali c’erano già. Come quello arrivato dall’Ospedale di Circolo di Varese, che aveva invitato i vertici delle Rsa a provvedere il più possibile al loro interno all’assistenza dei degenti contagiati. O come quello del direttore generale dell’Ats Città metropolitana di Milano, Walter Bergamaschi, che nel corso di un audizione con i consiglieri del Comune ha spiegato che “si sta esaurendo la possibilità di trasferire negli ospedali gli ospiti di queste strutture, perché la pressione è tale che la disponibilità è modesta. Stiamo lavorando in sinergia con le Rsa per definire dei livelli di rischio differenziati”. In realtà già ora non c’è più posto, negli ospedali pubblici, per gli anziani contagiati: vengono respinti. La conferma è arrivata ieri dallo stesso assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera. “Già 300 anziani non sono stati accettati”, ha detto durante l’incontro dell’Osservatorio sulle Rsa, riunito in videoconferenza dopo otto mesi dall’ultima convocazione (presenti, le associazioni delle case di riposo e i sindacati).

“A fronte dei diversi focolai che stanno ricomparendo – spiega Antonio Sebastiano, direttore dell’Osservatorio sulle Rsa della Liuc Business School – già da un po’ di tempo non è più facile per il personale delle case di riposo curare gli ospiti positivi. La situazione varia da territorio a territorio, ma non è semplice farli ricoverare in un ospedale”. Quando va bene a qualcuno capita di essere trasferito a oltre 200 chilometri di distanza. Proprio come è accaduto a un anziano di una Rsa del Mantovano, mandato nell’ospedale di Lecco. Ma può succedere anche di non trovare posto. Come sta succedendo sempre più spesso, specie negli ultimi giorni, a fronte di situazioni di forte pressione dei pronto soccorso e dei reparti Covid degli ospedali lombardi.

Già in giugno, Regione Lombardia aveva revocato la disposizione con la quale nel pieno dell’emergenza di primavera aveva bloccato il ricovero degli over 75 con più patologie provenienti dalle case di riposo. Ma la pressione sugli ospedali è tale che sono proprio gli anziani, ancora una volta, a pagare il prezzo più alto. Vale a dire “le vittime perfette del virus”, come le definisce Carlo Borghetti (Pd), vice presidente del Consiglio regionale. Borghetti ha presentato una mozione chiedendo un piano regionale di sostegno alle case di riposo. “È inutile sommergere le strutture di mail e protocolli”, dice. “Dobbiamo prevedere screening con i tamponi ogni 5 o 6 giorni. Anche perché ci sono pure anziani asintomatici. E se non vengono isolati fatalmente infettano gli altri degenti e il personale”. Quanto alla grave crisi finanziaria in cui versano le case di riposo lombarde, il presidente Attilio Fontana e l’assessore Gallera si preparano a mettere a punto una legge per garantire alle Rsa, anche nel 2021, lo stesso budget di quest’anno, nonostante i tanti posti letto liberi. “Vogliono adesso la copertura di una legge – osserva Borghetti – per fare una cosa che doveva essere fatta mesi fa”.

“Ora – dice il segretario regionale dello Spi-Cgil, Valerio Zanolla – dovremo manifestare: le persone anziane devono essere tutelate”. E dire che solo a Milano, come ha spiegato lo stesso Bergamaschi, la ripresa dei contagi nelle case di riposo ha già portato la percentuale degli infettati al 3% del totale degli ospiti (più frequenti, ha aggiunto lo stesso Bergamaschi, sono i casi dei positivi nei centri diurni e in quelli per i disabili). Significa circa 400 anziani, dato che i degenti totali sono 13.900. Altri numeri certo rispetto a quelli della prima ondata, e della “strage dei nonni”. Ma dalla riunione dell’Osservatorio regionale sulle Rsa, ieri, sono emersi drammaticamente anche altri numeri. Nella sola provincia di Varese i malati sarebbero il 60% del totale degli ospiti delle case di riposo.

Rsa, secondo atto: così può ricominciare la strage

Un incubo che sembrava svanito. Invece no. Il dramma di una strage degli anziani, nelle Rsa, si materializza di nuovo. Come un brutto film già visto. Proprio come avvenne in primavera, con la prima ondata epidemica. Con i drammatici numeri ricavati dall’istituto superiore della Sanità, da una indagine svolta dall’1 febbraio al 5 maggio nelle case di riposo, che potrebbero replicarsi e aumentare. Allora furono contati 4mila decessi riconducibili al Covid-19. E il dato era assolutamente parziale, riferito a solo a meno della metà delle strutture presenti nel Paese. Ma se all’epoca la pandemia fece vittime tra gli anziani ospiti soprattutto nel Nord, ora nessuna regione sembra essere risparmiata.

I focolai sono decine. Sono in Lombardia, la regione che tra febbraio e maggio fu la più colpita dalla mattanza dei nonni. Poi in Piemonte, nelle Marche, in Toscana, in Puglia, Liguria, Campania, Emilia-Romagna. Con alcune aggravanti. Le strutture sono stremate dal crollo delle entrate dovuto ai numerosi posti liberi seguiti ai decessi (circa il 30% del totale nella sola Lombardia). Ma, soprattutto, sono sopraffatte dalla fuga in massa degli operatori sanitari, soprattutto degli infermieri (in cerca di remunerazioni più alte), dopo che con il decreto legge 34 il governo ha dato il via libera alle aziende sanitarie per il reclutamento di personale tramite incarichi di lavoro autonomo per il 2020 e a tempo indeterminato per il 2021. In forti difficoltà finanziarie, le case di riposo non possono competere per cercare di trattenere il personale. E così, in molti casi, non riescono nemmeno a garantire adeguati livelli di assistenza.

“Ci mancano, in tutta Italia, almeno 1.500 infermieri”, denuncia Alberto De Santis, presidente nazionale di Anaste, a cui fanno capo nel Paese 400 Rsa per un totale di 16mila posti letto: in Toscana gli Ordini delle professioni infermieristiche hanno già chiesto alla Regione un tavolo tecnico per cercare di frenare l’emorragia di personale.

Ma il fatto è che le Rsa non possono nemmeno chiedere aiuto alle stesse aziende sanitarie, che sono sottoposte alla fortissima pressione esercitata dell’escalation dei contagi e dei ricoveri ospedalieri. Alcuni casi sono emblematici. Nella struttura della Fondazione Carisma di Bergamo su 100 infermieri ne mancano già 50: si sono tutti dimessi per andare a lavorare negli ospedali. A Bollate, nel Milanese, la casa di riposo comunale (55 anziani ospiti e 53 sono positivi) a corto di risorse e personale per assistere i degenti, ha chiesto aiuto all’Ats del capoluogo. “La risposta, seppur condita da belle parole, è stata: arrangiatevi, non chiedeteci nulla perché non possiamo fare nulla”, dice il sindaco Francesco Vassallo.

C’è chi si è appellato al prefetto, come Giampaolo Balotelli, presidente della Rsa Santa Caterina, di Fabriano (Ancona): 52 anziani su 55 infettati, e solo cinque operatori al lavoro per assisterli, perché 30 sono contagiati mentre altri cinque sono in malattia. In questo disastro c’è anche chi ha chiesto una mano ai cittadini, come Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, nel Bergamasco. Cancelli ha inviato una lettera agli abitanti, ha chiesto donazioni per salvare dal tracollo la locale Rsa, 84 posti letto, 34 decessi solo tra febbraio e marzo a causa della pandemia. È un pezzo di storia del paese, un’ancora socio-assistenziale: ha raccolto finora 100mila euro per arginare una perdita, a fine anno, di 400mila.

In primo piano resta il tema della sicurezza sanitaria, con la paura che i contagi possano galoppare, ricominciando a mietere migliaia di vittime. Ma ci sono anche i ritardi delle Regioni, i tanti appelli inascoltati nonostante siano trascorsi mesi dalla primavera scorsa; mesi, dicono i vertici delle associazioni delle Rsa, che avrebbero potuto essere utilizzati per proteggere le case di riposo, per prevenire e fermare i nuovi, possibili, contagi. “I tanti errori compiuti lo scorso inverno rischiano di essere ripetuti”, ha detto, per esempio, Barbara Manzoni, presidente dell’associazione case di riposo San Giuseppe, che fa capo alla Diocesi della città lombarda, intervistata dall’Eco di Bergamo. “Questa volta però – prosegue Manzoni – nessuno potrà dire che non sapevamo a cosa si andava incontro”.

E iniziano di nuovo a fioccare anche esposti e inchieste. A Torino, la Procura ha aperto un fascicolo conoscitivo, senza ipotesi di reato né indagati, sul focolaio scoperto a Susa nella Rsa San Giacomo, dove in seguito a uno screening con i tamponi sono stati riscontrati un centinaio di positivi, tra anziani degenti (81) e addetti (25). Un fascicolo che si aggiunge a un’altra trentina di inchieste sulla gestione dell’emergenza sanitaria aperte dalla magistratura torinese. Poi, ecco la Toscana: Rsa San Giuseppe di Sesto Fiorentino, in provincia di Firenze (dieci decessi riconducibili al Covid negli ultimi giorni). Ecco la Puglia: 59 contagiati nella casa di riposo della Fondazione Giovanni XXIII di Alberobello (Bari). E ancora una volta la Lombardia, tra Monza – dove nella casa di riposo Villa Teruzzi di Concorezzo sono stati riscontrati 33 ospiti positivi su 37 – Vercelli, Como, Mantova. Focolai anche in Veneto (19 persone in una struttura del Trevigiano), in Emilia-Romagna, tra Carpi (65 persone infettate nella casa di riposo Quadrifoglio), Lugo di Ravenna (50 contagiati nella Rsa Don Cavina), Bologna. Mentre a Volturara Irpina, in provincia di Avellino, è emersa la positività al Covid di 72 tra operatori e ospiti su 82 tamponi eseguiti nella locale Rsa.

La sensazione che comanda, tra gli operatori, è che i mesi siano passati inutilmente. Senza che siano stati predisposti quegli interventi richiesti dalle strutture e ritenuti necessari. Per impedire che il coronavirus possa ricominciare a uccidere. Anche ora, anche in questa seconda ondata.

Regno Unito: pub e negozi chiusi, ma scuole e uffici no

Un mese di chiusura a partire da giovedì 5 fino al 2 dicembre. Anche nel Regno Unito, dopo Francia e Germania, arriva il secondo stop nazionale. L’annuncio del premier Boris Johnson – sofferto e rimandato di oltre due ore rispetto all’orario previsto, anche a causa della riunione agitata tra consiglieri del governo ed esecutivo e l’incontro con il leader Labour, Keir Starmer – è seguito al raggiungimento del milione di contagi totali dal 31 gennaio.

Scenario questo che l’Inghilterra non si aspettava che si sarebbe verificato così velocemente, così come l’aumento delle vittime, 326 ieri. “Ora abbiamo diversi ospedali con più pazienti ricoverati per Covid rispetto a quelli che abbiamo avuto durante il picco in primavera”, spiega il consigliere Chris Whitty. “Se non agiamo, vedremo più morti che in aprile”, gli fa eco Johnson. Per questo l’appello è a stare in casa: saranno chiusi i negozi, mentre pub e ristoranti restano aperti solo per asporto, vietate le riunioni e limitati i viaggi, ma, a differenza della scorsa primavera, scuole e università resteranno aperte nonostante l’appello alla chiusura del sindacato insegnanti (anche tribunali, uffici e cantieri non chiuderanno). Ieri i casi registrati nel Regno Unito sono stati 21.915, facendo raggiungere al Paese il secondo posto per contagi da Covid in Europa dopo la Spagna. In attesa dell’annuncio di Johnson si è diffuso il panico: il sito e l’app del supermercato Sainsbury’s risultavano bloccati già alle 18. Mentre la Camera di commercio ha criticato la mancanza di coerenza nella gestione della pandemia.

Sarà in lockdown da martedì 3 anche l’Austria. Il cancelliere Sebastian Kurz ha annunciato tra le misure il coprifuoco da mezzanotte alle 6 del mattino; l’annullamento della maggior parte degli eventi, ristoranti chiusi e strutture ricreative bloccate per un mese. La vicina Germania ha registrato il record di infetti nelle ultime 24 ore per il quarto giorno consecutivo, ha superato i 19 mila casi con 103 decessi e 500 mila malati dall’inizio della pandemia. Per invertire la tendenza oggi entrano in vigore le norme previste dalla Cancelliera Angela Merkel: totale chiusura dei servizi di ristorazione, consentiti solo per asporto e take away, stadi a porte chiuse per la Bundesliga, chiusi anche palestre, piscine, cinema e teatri. Restano aperti scuole di ogni grado e negozi, mentre è vietato pernottare nel Paese per motivi turistici. Anche la Francia di Emmanuel Macron è ricorsa a misure restrittive dopo il record dei casi registrati nella secondo ondata e il tracciamento fuori controllo. “Siamo sommersi dal virus”, ha dichiarato il presidente mercoledì scorso annunciando la chiusura fino al 1° dicembre di bar, ristoranti e negozi non essenziali. A restare aperte anche a Parigi e in tutte le altre regioni francesi sono, per ora, le scuole. A dare il là alle restrizioni causa recrudescenza della pandemia d’autunno è stato, in Spagna, il premier Pedro Sanchez, che ha scelto il semi-confinamento, l’estensione dello stato d’emergenza fino a maggio, quasi tutte le regioni chiuse nel ponte dei morti e coprifuoco dalle 23 alle 6.

Serrata anche in Belgio dopo l’aumento dei casi nelle ultime settimane. Il premier, Alexander De Croo, ha annunciato misure più dure per cercare di contenere il dilagare dei contagi da coronavirus a partire dal 2 novembre. Dovranno restare chiusi tutti i negozi non essenziali e le professioni da contatto, come parrucchieri ed estetisti, saranno chiusi per un mese e mezzo, mentre le scuole resteranno chiuse solo fino al 15 novembre.

La Grecia, invece, che nella prima ondata era riuscita a contenere i contagi, ha annunciato che da martedì prossimo adotterà un lockdown parziale. “Non sarà una quarantena come la prima volta”, ha detto il premier greco in un discorso alla nazione, spiegando che le misure prevedono un coprifuoco dalla mezzanotte alle 5 del mattino, con la chiusura di bar e ristoranti ad Atene e in altre città del Paese. Anche in Portogallo, che da una settimana aveva già adottato piccole restrizioni, da due giorni vige lo stato di calamità con il divieto di spostarsi da un comune all’altro e il 2 novembre è indicata come la giornata di lutto nazionale per le vittime del Covid-19.

Contagiati, ricoveri e vaccini: i numeri contro i catastrofisti

Abbiamo “la curva peggiore d’Europa” in quanto a contagi. I posti nelle rianimazioni “non ci sono”. Il governo “continua a promettere l’impossibile” sul vaccino. Mentre la seconda ondata della pandemia di Covid-19 mette a dura prova il Paese e le sue strutture sanitarie, i luoghi comuni sulla gestione dell’emergenza trovano sempre più spazio nella discussione pubblica. Senza dimenticare le difficoltà e i ritardi di governo e Regioni, abbiamo provato a metterli in discussione, analizzando fatti e dati.

 

Contagi, non siamo il Paese messo peggio in Europa

Secondo lo European Centre for Disease Prevention and Control, l’agenzia dell’Ue per la lotta alle malattie infettive, nelle ultime due settimane l’Italia ha registrato 424,2 casi ogni 100mila abitanti, inferiori ai 450,9 del Regno Unito, ai 530,7 della Spagna e ai 742 della Francia. Ben al di sotto anche dei 1.497,3 del Belgio, che è uno degli Stati più colpiti da questa seconda ondata. Anche il numero di decessi ogni 100mila abitanti dice che il nostro Paese, che negli ultimi 14 giorni è a quota 3,1, viene dopo Gran Bretagna (4,2), Spagna (4,5) e Francia (4,9). Anche vista da una prospettiva più profonda, dall’inizio dell’epidemia, la nostra situazione non è la peggiore: la media mobile settimanale dei nuovi casi calcolata dal Financial Times sul numero di giorni trascorsi dalla prima registrazione di 10 casi medi giornalieri dice che il 29 ottobre (ultimo aggiornamento) Roma aveva una media di 21.552,7 casi contro i 40.532,3 di Parigi.

 

Positivi, il 95% dei nuovi casi gestito a domicilio

Nella settimana tra il 21 e il 27 ottobre, fa sapere Altems, l’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari dell’Università Cattolica, tutte le Regioni “hanno fatto prevalentemente ricorso all’isolamento domiciliare dei nuovi casi rinvenuti”. Nel complesso, in base ai dati pubblicati dalla Protezione civile, in Italia “ci sono stati 156,5 nuovi isolati a domicilio ogni 100mila abitanti, 8,1 nuovi ricoveri ordinari (x 100mila abitanti) e 0,8 nuovi ricoveri in Terapia Intensiva ogni 100mila abitanti: circa il 95% dei nuovi casi è stato quindi gestito a domicilio” con il valore massimo in Campania, pari al 98%, e il minimo in Liguria (87%). Il rafforzamento della medicina territoriale è ancora un miraggio, ma se non altro forse abbiamo imparato una delle lezioni della Fase 1.

 

Ricoveri, a marzo la percentuale era doppia

Il 27 ottobre, si legge nel’ultimo monitoraggio settimanale di Istituto Superiore di Sanità e ministero della Salute, con dati disponibili per 129.764 casi su 252.739 (il 51,3% del totale esclusi guariti e deceduti), “117.534 (90,6%) stanno affrontando l’infezione presso il proprio domicilio/in altra struttura” e “11.965 (9,2%) sono ospedalizzati” (ieri erano saliti a 17.966). Una situazione diversa rispetto marzo: il 23, quando i casi erano 57.989, sui 17.798 per cui erano disponibili i dati gli ospedalizzati erano 3.761, il 21,1%. Diversa la situazione anche delle terapie intensive: a marzo ospitavano il 4,6% dei pazienti (818), il 27 ottobre lo 0,9% (1.224). Qui, poi, i numeri continuano a salire ma con un leggero rallentamento negli ultimi giorni: se il 20 ottobre il rapporto tra ricoverati in T.I. e attualmente positivi era dello 0,61% (870 pazienti su 142.739 infetti), record dal 22 giugno quando il rapporto era dello 0,62%, il 30 ottobre era sceso allo 0,54% (1.746 letti occupati su 325.786 positivi). L’aumento dei ricoveri in rianimazione, infatti, negli ultimi giorni ha fatto registrare una timida frenata: ieri sono stati 97 in più, il 30 ottobre erano 95, giovedì 115, mercoledì 125, martedì 127.

 

Rianimazioni, aumentati i posti disponibili

Dai 5.179 posti di marzo i posti di rianimazione sono arrivati agli attuali 8.548 con i 3.369 ventilatori fatti arrivare negli ospedali dalla struttura commissariale di Domenico Arcuri. Un numero che comprende sia i letti attivati sia quelli attivabili in breve tempo. Il 29 ottobre Arcuri ha annunciato di avere “a disposizione altri ventilatori per arrivare a 10.337 posti”. Quello che manca è il personale. Secondo Aaroi-Emac, sindacato degli anestesisti-rianimatori, con il numero attuale di medici si riesce a mettere e a tenerne in funzione non più di 7mila. “Mancano 4mila specialisti”, ha spiegato al Fatto il presidente Alessandro Vergallo. È vero però che gli anestesisti in Italia scarseggiano e che per formarne uno servono 5 anni, quindi sarebbe stato oggettivamente non facile ovviare alla carenza nell’arco di pochi mesi. Occorre pianificare sul medio-lungo termine.

 

Vaccini, tempistiche simili a quelle della Germania

L’Italia ha puntato sul vaccino su cui lavorano Oxford e AstraZeneca che sta per completare la fase 3 della sperimentazione e qualcuno imputa al governo eccessivo entusiasmo sul suo arrivo già a fine anno. “Confidiamo di averlo a dicembre – ha detto ieri il premier Conte –, ma arriveranno qualche milione di dosi per Paese, quindi dovremo fare un piano condiviso a livello europeo per intervenire sulle fasce più fragili e via via per le altre categorie”. Quindi per averlo su larga scala “dobbiamo aspettare primavera”. Una tempistica simile a quella indicata dalla Germania, che punta sul BNT162 sviluppato da Biontech e Pfizer e i risultati della cui sperimentazione in fase 3 sono attesi a giorni: il ministro della Salute Jens Spahn ha detto che i tedeschi avranno le prime dosi “già a gennaio”.

“Presidente, lei ha avuto un’infanzia problematica”

Venerdì, il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha risposto con questa battuta alle parole di una madre, che raccontava il dolore della figlia per la chiusura della sua classe: “È l’unica bimba che vuole andare a scuola. Si vede che è stata cresciuta col latte al plutonio”. Centinaia di mamme campane hanno firmato una lettera pubblica
inviata a De Luca.
Ne pubblichiamo un ampio estratto.

 

Presidente, innanzitutto: ci spiace. Ci spiace che la sua infanzia e la sua adolescenza siano state contrassegnate da un rapporto così conflittuale con la scuola. Deve essere certamente tra coloro – pochissimi – che a scuola non tirava palline di carta dall’ultimo banco, non si chiudeva nei bagni a fumare di nascosto, non aspettava nei corridoi la ragazza coi ricci.

Devono essere stati anni veramente tristi, squallidi, privi di qualunque slancio emotivo. Anni grigi che l’hanno portata a farsi un’idea che sembra molto precisa della scuola: un vero incubo. Ma vogliamo darle una buona notizia, Presidente: oggi la scuola è diversa (…). Ci si guarda negli occhi e si impara, confrontandosi. Si studia, si disegna sui diari coi pastelli, si spettegola, ci si innamora, ci si scambia merende e matite, si corre, si fa festa, ci si traveste, ci si bacia, si canta, si balla, si impara a fare la cacca nel vasetto, si scopre la storia, si impara a leggere e scrivere, a diventare cittadini, uomini e donne liberi. Da molti mesi per i nostri figli non è stato più così (…). Eppure, Presidente, gli andava bene perfino così. Pur di andarci a scuola, pur di vedere amici e insegnanti, tornare in un luogo familiare che desse loro garanzie, sicurezza, serenità e conforto. Un posto “proprio” dove crescere, sperimentarsi, sbagliare, piangere, crescere, dove VIVERE (…). Quello che nelle ultime settimane ci ha maggiormente scosso, sorpreso, umiliato, offeso, è stato il modo di veicolare una certa idea di scuola e irridere chi si penava per la sua chiusura. Chiunque di noi è stato felice di saltare qualche giorno di scuola (…). Tutti, Presidente, tutti. Ma è profondamente ingeneroso, oltre che incredibilmente miope, anche solo provare ad accostare le due situazioni. Le scuole chiuse sono un danno economico, sociale, umano.

Le scuole chiuse sono bambini lasciati soli a casa a scaldarsi la pasta nel microonde, o per strada a fare i cavalli sul motorino. Sono bambini lasciati davanti alla Tv per ore, assistiti da tate straniere incapaci di decifrarne le richieste, sono bambini affidati a nonni stanchi e anziani, incapaci di accedere a Zoom. Siamo abbastanza certe che lei non ignori tutto questo, Presidente, neanche un macaco potrebbe. Quello che ci indigna è che se ne faccia beffe. Che pretenda di ridurlo a un capriccio, a una frivolezza mascherata da urgenza, a un pretesto per qualche minuto di teatro. Non siamo mammine, non abbiamo gli occhi ridenti e fuggitivi, siamo donne che combattono per il futuro dei nostri figli, che, preme ricordare, sono anche i cittadini della regione che governa. Non ci è dato sapere che latte bevesse ai suoi tempi – che poi a occhio e croce sono quelli dei nonni dei nostri figli – ma a oggi ci sentiamo di dire che forse non era particolarmente saporito neanche quello.

“Chiudo, anzi no”. Un po’ governatori e un po’ macchiette

Lockdown subito, tenere tutto aperto. Scuole chiuse, ma anche no, anzi boh. E guai a fare “dolcetto o scherzetto” per Halloween, ma niente coprifuoco ché poi i ristoratori si arrabbiano. Con la seconda ondata è ripreso senza limite il profluvio di ordinanze dei presidenti di Regione che hanno la competenza sulle materie più importanti per gestire l’epidemia: sanità e trasporti su tutti. Peccato che molti di questi atti siano emanati senza alcuna base scientifica e in contraddizione tra loro, contribuendo a dare segnali contrastanti ai cittadini. Sicché l’effetto è presto detto: molti governatori sono diventati delle macchiette di se stessi.

In cima alla classifica c’è il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, difficile da distinguere dalla sua imitazione grottesca di Maurizio Crozza. Il “lanciafiamme” contro le feste di laurea e le intemerate contro “la stupida americanata” di Halloween sono buoni per i social, ma la realtà parla chiaro: la Campania, insieme alla Lombardia, è l’altra malata d’Italia con oltre 3mila casi al giorno di cui 1.900 solo a Napoli. Eppure De Luca nell’ultimo mese ha emanato 14 ordinanze e dichiarato tutto e il contrario di tutto. Venerdì 22 si presenta in diretta mostrando una tac di un polmone malato e annunciando la serrata imminente: “Chiedo al governo il lockdown nazionale, ma intanto in Campania chiuderemo tutto, voglio evitare di vedere centinaia di bare sui camion militari”. Poi, due giorni dopo l’ordinanza sparisce e De Luca ci ripensa: “Non avrebbe senso mettere in ginocchio intere categorie” dice prima di precisare che comunque “Napoli dovrebbe essere zona rossa”. Almeno quella, si dirà. E invece no, perché ieri, di fronte alla prospettiva di chiudere Milano e Napoli, De Luca ha fatto ancora retromarcia: “È una stupidaggine –­ha detto rispolverando il sovranismo borbonico – nessuno si permetta di immaginarlo”. Stessa falsa riga sulle scuole. Il 16 ottobre il governatore annuncia la serrata di tutti gli istituti, primari e secondari. Poi dopo quattro giorni dichiara di voler riaprire le scuole elementari, prima di ripensarci di nuovo e tenerle chiuse almeno fino a metà novembre. Venerdì l’ultima ordinanza: chiusi anche gli asili e le scuole materne. Difficile capirci qualcosa.

Chi nelle ultime ore ha seguito De Luca sulle misure restrittive per gli studenti è Michele Emiliano che, nonostante la Puglia non sia tra le Regioni messe peggio, ha deciso di trasformarsi in sceriffo. La Puglia è decima in Italia per numero di contagi (ieri 762) e avendo “solo” 84 pazienti in terapia intensiva (nona in Italia). Giovedì però Emiliano ha firmato l’ordinanza per chiudere tutte le scuole fino al 24 novembre e venerdì è stato costretto a un mezzo passo indietro: gli studenti con “bisogni educativi speciali” possono fare lezione in presenza fino al 25% e anche i corsi serali sono esclusi. Insomma, si riapre, ma solo un po’.

Poi ci sono quei presidenti di Regioni a statuto speciale che da giorni vanno per conto loro. Prima c’è stato il Trentino Alto-Adige dove i presidenti delle province di Trento e Bolzano Maurizio Fugatti e Arno Kompatscher erano andati controcorrente al dpcm lasciando i bar aperti fino alle 20, i ristoranti alle 23 e le scuole aperte. Il governo ha impugnato le ordinanze e hanno cambiato idea: chiudere tutto (bar e ristoranti con orari ridotti e coprifuoco dalle 22) andando oltre il Dpcm con un mini lockdown “come in Germania e Austria”. Anche in Sicilia e in Sardegna Nello Musumeci e Christian Solinas fanno gli indipendentisti senza adeguarsi alle chiusure nazionali, e poi ci sono i presidenti che non si sono ancora messi d’accordo con se stessi. Come il ligure Giovanni Toti che non voleva chiudere bar e ristoranti e ieri ha firmato l’ordinanza di Halloween contro il “dolcetto o scherzetto” (“Restate a casa, ma potete uscire”), e anche l’umbra Donatella Tesei che chiude le scuole anche se vorrebbe tenere aperti i locali. Infine c’è Eugenio Giani che vuole ritardare la chiusura dei ristoranti alle 22 ma ha firmato un’ordinanza che obbliga un solo componente per famiglia a fare la spesa. I toscani rischiano la labirintite.

Scuola in semi-lockdown: resta aperta fino alla seconda media

“Tenere le scuole aperte significa aiutare le fasce più deboli della popolazione. Significa contrastare l’aumento delle disuguaglianze. Significa tutelare gli studenti, ma anche tante donne, tante mamme, che rischiano di pagare un prezzo altissimo”: di prima mattina, la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina pubblica su Facebook un post cristallino. Tenere le scuole aperte, è il punto, serve a evitare che le disparità economiche ricadano sui ragazzi perché è intuitivo pur senza scomodare le statistiche, che tenere i figli a casa – soprattutto i più piccoli e in assenza di un welfare adeguato – abbia pesi diversi su redditi diversi. E lo stesso vale per la dispersione scolastica, di cui l’Italia registra una media superiore a quella degli altri Paesi europei. Una posizione chiara, ma che forse non è bastata.

Il post arriva infatti dopo le parole poco incoraggianti del premier Giuseppe Conte, ospite al festival de il Foglio: “La curva sta subendo una impennata così rapida che rischia di mettere in discussione la didattica in presenza – ha detto in mattinata – alcuni presidenti di Regione lo hanno fatto, non è il nostro obiettivo, noi continuiamo a difendere fino alla fine la didattica in presenza. Ma dobbiamo mantenerci vigili per seguire e assicurare la tutela della salute del tessuto economico”. Economia contro relazioni e istruzione. La stessa didattica a distanza può raggiungere un punto senza ritorno: “Nella scuola l’offerta formativa a distanza rischia di oscurare il valore della relazione interpersonale, i ragazzi e le ragazze diventano uomini e donne, perché interagiscono e farlo solo con dispositivi elettronici non offre la competenza della relazione interpersonale” ha aggiunto Conte che però, nonostante le preoccupazioni, è sembrato più possibilista all’idea di chiudere gli istituti scolastici e, per dirla con le parole del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, consegnare “intere generazioni all’analfabetismo”.

E infatti in serata, dopo il vertice con i capi delegazione, fonti della maggioranza hanno riferito che la proposta del premier, che potrebbe essere inserita nel Dpcm che si attende per domani sera, sarebbe quella garantire la scuola in presenza fino alla seconda media lasciando il resto in didattica a distanza. Alle Regioni resterebbe comunque la libertà di stabilire diversamente, come avvenuto finora grazie al “rinforzo” dei loro poteri in emergenza che hanno ricevuto con gli ultimi due Dpcm.

Sul mantenere il più possibile aperte le classi, dopo i sindacati e le associazioni di categoria, ieri è stata Italia Viva a suggerire una soluzione “di principio”: “Dobbiamo mettere in estrema sicurezza tutto il resto: trasporti, tracciamento, tamponi, medicina di territorio, evitare le attività superflue e lasciare aperte le scuole, unica possibilità di sopravvivenza della civiltà umana” ha scritto su Twitter la senatrice e presidente della Commissione permanente di Igiene e Sanità di Palazzo Madama, Annamaria Parente. E la stessa ministra della Famiglia, Elena Bonetti, aveva rinnovato il suo appello affinché si faccia di tutto per riaprirle. La scelta, soprattutto in un momento in cui non ci sono prove scientifiche inconfutabili dell’effetto moltiplicatore negli istituti (che non è detto non arrivino in futuro) è indicativa delle priorità: chiudere le scuole per favorire il resto o tenere sotto controllo il resto per favorire le scuole? Oggi il capo del governo incontrerà di nuovo i capi delegazione, mentre i ministri Boccia e Speranza si confronteranno con le Regioni per cercare di trovare soluzioni condivise. Intanto, il Tar della Puglia ha rigettato l’istanza cautelare di sospensione dell’ordinanza sulla chiusura delle scuole voluta dall’assessore Lopalco che, comunque, ha ribadito l’intenzione di riaprire le scuole di primo grado qualora il quadro epidemiologico dovesse essere rassicurante.

Lega, FdI e B. invitati a Chigi: “Non andiamo, è troppo tardi”

Nel centrodestra, in Lega e FdI, l’apertura che ieri Giuseppe Conte ha fatto su “una cabina di regia con l’opposizione” non convince. Matteo Salvini e Giorgia Meloni non si fidano e così in serata, con un comunicato congiunto con Silvio Berlusconi, hanno fatto sapere che oggi non andranno a Palazzo Chigi dal premier: “La cabina di regia con le opposizioni ipotizzata dal governo è tardiva – hanno scritto – la sede per il confronto è il Parlamento mentre non siamo disponibili a partecipare a operazioni di Palazzo che sembrano dettate più che da una reale volontà di collaborazione dal tentativo di voler coinvolgere l’opposizione in responsabilità gravi che derivano dall’immobilismo e dalle scelte sbagliate effettuate dal governo”. Ieri però qualche apertura è arrivata. Giancarlo Giorgetti, teorico dell’unità nazionale, per esempio ha detto: “La cabina di regia noi l’abbiamo proposta a marzo. Ora finalmente qualcuno ha pensato che è di buon senso non lasciare l’opposizione solo a ratificare le decisioni di Palazzo Chigi”.

Da una parte però Salvini e Meloni non si fidano, dall’altra non vogliono fidarsi perché la contrapposizione al governo permette loro di soffiare sul malessere delle piazze. Nonostante l’unità anti-governo, Salvini e Meloni però restano divisi sul voto. Per quest’ultima bisogna andare alle urne nel 2021, una volta “messo in sicurezza il Paese”. L’altro è convinto che adesso più si resta lontani da Palazzo Chigi e meglio è. Diversissimo è l’atteggiamento di FI, che si è detta disposta a scrivere la legge di bilancio con la maggioranza. Renata Polverini e Renato Brunetta in settimana hanno incontrato riservatamente Conte. Non erano in missione per conto di Berlusconi, ma il contenuto delle conversazioni alle orecchie del Cavaliere è arrivato.

Contagi e ricoveri, salita stabile. Quasi 300 morti

Condizioni gravi ma stabili. Se il Covid fosse un malato, questa potrebbe essere la diagnosi del 31 ottobre. La curva epidemiologica continua la sua marcia preoccupante, ma – almeno nelle ultime 24 ore – senza strappi, fatta eccezione per il dato dei decessi (297, 98 in più rispetto a venerdì) il cui conto, però, segue inevitabilmente tempi diversi rispetto a quelli del contagio.

Il totale dei nuovi positivi registrati ieri, l’ennesimo nuovo record, è di 31.758, a fronte di 215.866 tamponi. Il tasso di positività (rapporto casi/tamponi effettuati) sale al 14,7% rispetto al 14,4% di venerdì.

La Lombardia (8.919 positivi in 24 ore) rimane la Regione più colpita, seguita da Campania (3.669), Piemonte (2.887), Veneto (2.697), Toscana (2.540), Lazio (2.289) ed Emilia-Romagna (2.046), ma aumenti giornalieri superiori al 5% si registrano anche in Molise, Basilicata, Umbria e provincia di Bolzano (7%).

Quanto ai 297 morti, per ritrovare un numero simile bisogna risalire fino al 7 maggio (274), tre giorni dopo la fine del lockdown.

Capitolo ospedali. I pazienti ricoverati con sintomi sono attualmente 17.966 (ieri 972 casi, una sessantina in meno di venerdì), mentre i malati gravi in terapia intensiva (95 in più, 2, in meno delle precedenti 24 ore) salgono a 1.843. Un numero non ancora allarmante, ma ormai vicino al 25% di quel tetto massimo di settemila posti letto che – secondo quanto dichiarato a Repubblica da Alessandro Vergallo, segretario del sindacato dei medici anestesisti Aaroi-Emac – il sistema Italia sarebbe al momento in grado di far funzionare, sulla base del personale a disposizione. Il fronte ospedaliero rimane quello più in sofferenza. Ieri a Sassari, come a Torino 24 ore prima, sono comparse tensostrutture per ospitare i pazienti che si rivolgono al pronto soccorso. A Genova, il consigliere regionale Ferruccio Sansa, su Facebook, ha raccontato con dovizia di voci, particolari e immagini, la difficilissima situazione del ps di Villa Scassi. E a Milano, la prima tra le grandi città a rischio lockdown, prosegue l’assalto ai pronto soccorso, con numeri ormai vicini ai giorni peggiori della prima ondata della pandemia: venerdì gli interventi delle ambulanze per casi assimilabili ai Covid sono stati 420, contro i 480 al giorno del periodo marzo-aprile 2020. Ieri alle 14 erano già 250, e nella seconda parte della giornata in genere, le chiamate aumentano.

Numeri che certo non delineano un quadro confortante, tuttavia ci sono alcuni parametri che potrebbero indurre un cautissimo ottimismo. Sta aumentando il tempo di raddoppio dei contagi: non è più sette giorni ma qualcosa di più. E lo stesso (con sette giorni di ritardo rispetto a quella dei contagi) vale per la curva dei decessi). Ma è soprattutto il tempo di raddoppio del tasso di positività (rapporto nuovi casi tamponi effettuati) a manifestare i primi segni di risalita. A metà settembre era superiore a 45 giorni, poi, dalla fine del mese, il grafico ha segnato una picchiata verticale verso il basso. Il tempo di raddoppio è arrivato intorno alla metà di ottobre 7-8 giorni. In questi ultimi la curva sta risalendo: “Potrebbero essere gli effetti del Dpcm del 13 ottobre che ha reintrodotto l’obbligo della mascherina ovunque”, dichiara il matematico del Cnr, Giovanni Sebastiani.

Di diverso avviso il fisico Giorgio Parisi dell’Università Sapienza di Roma: “I dati non sono buoni, non sappiamo quanti sono davvero i contagiati, perché ne perdiamo di vista troppi. Lo confermano tutte le Regioni. Il rapporto fra positivi e tamponi, ieri 14,4%, indica infatti che sono numerosi i casi che stanno sfuggendo al tracciamento. A questo punto è difficile capire che cosa stia succedendo”.