Zone rosse tra Nord e Sud: ora arriva l’alt agli spostamenti

Si prepara il divieto di spostamento tra le Regioni salvo motivi di lavoro o assoluta necessità, saranno chiusi i centri commerciali nel fine settimana, nelle tabaccherie e nei bar saranno vietati slot machine e altri giochi che al momento aggirano la chiusura delle sale giochi già in vigore. E ancora, le scuole superiori saranno chiuse con il passaggio alla didattica a distanza al 100 per cento (ora è al 75) che potrebbe essere esteso anche alle ultime classi delle medie. Potrebbe essere ridotta la capienza massima dei mezzi di trasporto pubblico che il Comitato tecnico scientifico ha già chiesto invano di portare dall’attuale 80 al 50 per cento.

Non ci sarà il lockdown, ma solo un altro deciso passo in quella direzione nel Decreto del presidente del Consiglio che potrebbe essere varato nei prossimi giorni. Per il resto, il governo attende che ad agire siano le Regioni, in particolare quelle che sono già nello scenario 4 dell’ormai noto documento “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale”, condiviso dagli stessi “governatori”. È quello che si verifica quando Rt, il tasso di riproduzione del virus, supera 1,5: in Lombardia e Piemonte, secondo il monitoraggio fino al 21 ottobre e reso noto venerdì, erano già sopra 2, rispettivamente a 2,09 e 2,16. Vuol dire che ogni positivo contagia in media più altre due persone, quindi l’epidemia corre come infatti vediamo da settimane. Altre nove tra Regioni e Province autonome erano giù una settimana fa sopra 1,5: Bolzano (1,96) e Trento (1,5), la Valle d’Aosta (1,89), il Molise (1,86), l’Umbria (1,67), la Calabria (1.66), la Puglia (1,65), l’Emilia-Romagna (1,63), la Liguria (1,54), il Lazio (1,51), il Friuli (1,5). La Campania era a 1,49. Ma dal 21 ottobre Rt è certamente aumentato ancora e comunque la situazione degli ospedali preoccupa a Milano, a Torino a Genova ma anche a Napoli e in misura leggermente minore a Roma, non tanto per le terapie intensive quando per in posti in area medica. L’esecutivo metterà a disposizione nuovi fondi per il ristoro delle attività che saranno chiuse a livello locale. Saranno le Regioni a valutare se chiudere solo in alcune aree o nell’intero territorio. Le zone rosse, insomma.

Il Cts si è aggiornato a martedì per discutere con nuovi dati. Il clima è teso, lo stesso coordinatore del Comitato, Agostino Miozzo, ex Protezione civile, nella riunione di ieri sera ha invocato “una strategia nazionale”. Nella riflessione dell’organismo sono tornati i temi delle carenze della sanità territoriale che hanno alimentato la corsa agli ospedali di queste settimane e dell’impegno che viene richiesto ai medici di famiglia per i tamponi: in Veneto li hanno obbligati, l’accordo nazionale per ora non lo prevede. E ancora, si è discusso dei limiti dell’app Immuni, fortemente criticata ieri sera dal direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma, Giuseppe Ippolito, che avrebbe preferito il modello scelto in Gran Bretagna.

Quanto agli ospedali, nelle riunioni del governo si discute in queste ore dei ricoveri troppo facili, cioè di pazienti che vengono ammessi perché non possono rimanere isolati a casa, di quelli che affollano i pronto soccorso degli ospedali con i più alti livelli di assistenza a Napoli, a Genova o a Torino perché non si fidano dei nosocomi più piccoli e meno attrezzati, specie in provincia. C’è chi auspica diverse linee guida per i ricoveri e chi osserva invece che non è possibile rimandare a casa pazienti positivi anche con sintomi lievi che presentino una o più patologie, dal diabete all’ipertensione, che rendono il Covid particolarmente pericoloso. Il commissario Domenico Arcuri è stato incaricato di fare il possibile per aumentare i posti letto, anche con strutture mobili o tendoni come quelli che sono già riapparsi nelle vicinanze di alcuni ospedali. Sarà sostenuto in ogni modo il reperimento di immobili da destinare ai pazienti che non richiedono cure particolarmente complesse, ma devono rimanere in isolamento, compresi gli hotel che in molte aree del Paese sono vuoti. Alcune Regioni li utilizzano già.

Conte dà l’ultimatum alle Regioni: il nuovo Dpcm già da domani

La curva dei contagi continua a salire, i morti aumentano, i ministri temono che il virus diventi un mostro ingestibile. E allora stop agli spostamenti tra Regioni e alla didattica in presenza per tutte le scuole superiori e per le terze medie. Le principali misure che il governo varerà domani, con il quarto Dpcm in meno di tre settimane. Ma che andranno accompagnate da lockwdown territoriali, ossia da zone rosse nelle Regioni e nelle città dove il virus è più diffuso. Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte prova a scongiurare un lockdown nazionale. Partendo dal Dpcm che illustrerà in Parlamento domani. Prima però, questa mattina, Conte incontrerà i governatori e l’associazione nazionale Comuni. E li inviterà a intervenire, a chiudere dove l’indice di trasmissione è fuori controllo, secondo i dati del Cts.

Conte punta sulle “misure territoriali” come ultima carta per scongiurare una serrata nazionale “Siamo sempre più flessibili” scandisce il premier, nell’intervento di ieri mattina alla festa del Foglio. E il primo a doversi fare convesso sarà lui, che avrebbe voluto aspettare prima di emanare l’ennesimo provvedimento. Almeno fino a mercoledì, quando alla Camera verranno votate le risoluzioni sulle “comunicazioni” di Conte sulla situazione economica e sanitaria.

Un segnale di attenzione per le opposizioni, a cui ieri il premier è tornato tendere la mano proprio come auspicava il Quirinale: “È un’esigenza che ci sia un tavolo di confronto. Il governo sarebbe ancora più sereno coinvolgendo tutti gli attori”. Per questo in serata ha telefonato ai leader del centrodestra, invitandoli a partecipare a una cabina di regia su informative e Dpcm, coordinata da Speranza. Ma da Meloni, Salvini e Berlusconi è arrivato un netto no sotto forma di nota congiunta: “Ravvedimento tardivo, non siamo disponibili a operazioni di palazzo”. Così la maggioranza dovrà fare da sola. E ieri ha gettato le basi nelle cinque ore di riunione di Conte con i capi delegazione dei partiti di maggioranza, ministri vari e i tecnici: il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, quello del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, coordinatore del Cts Agostino Miozzo e il commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Un lungo confronto sulle cifre del virus, per capire la rotta. Ma già in mattinata Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di fatto del M5S, aveva spiegato che aria tirasse intervenendo anche lui alla festa del Foglio: “Sono in corso riunioni per il prossimo Dpcm che sarà sicuramente più restrittivo, dobbiamo capire se anticipare mosse per evitare che la curva peggiori”. E qualche dettaglio lo aveva fornito il ministro agli Affari Regionali, il dem Francesco Boccia: “Se è necessario si deciderà per una, due o tre settimane di stop in alcuni territori, perché l’Rt non è uguale dappertutto”. All’ora di pranzo, la riunione tra politici e tecnici. Gli esperti elencano numeri, spiegano che gli effetti dei precedenti dpcm non sono ancora valutabili. E si soffermano su un dato, quello dei ricoveri: “Se continuano ad aumentare così la situazione diventerà a breve re preoccupante” spiegano (in sostanza). Così il governo chiede agli esperti un elenco delle città e delle zone con il Rt più alto: una mappa dei luoghi dove intervenire. “Servono criteri chiari per i casi nei quali è necessario chiudere” esorta il capo delegazione del Pd, Dario Franceschini. Mentre il suo omologo del M5S, Alfonso Bonafede, ripete: “Dobbiamo fermare gli spostamenti tra Regioni”. Si parla di scuola. I contagi si propagano anche lì, confermano gli esperti. Perciò potrebbe arrivare la didattica a distanza per le scuole superiori. Ma non solo, dice Conte: “Valuteremo uno stop anche per le terze medie”.

Ne parlerà stamattina con le Regioni, che vedrà assieme all’Anci. E a governatori e sindaci chiederà di creare zone rosse, coordinandosi. Partendo da Piemonte e Lombardia, le regioni più flagellate dalla pandemia. Il resto dovrà farlo l’esecutivo, con un Dpcm di cui il premier discuterà nel pomeriggio con i capi delegazione, i ministri e i capigruppo di maggioranza, convocati per mostrare apertura nei confronti delle forze parlamentari.

Per questo Conte domani Conte illustrerà il Dpcm in Parlamento, come ha spiegato per telefono ieri ai presidenti delle Camere, Fico e Casellati, prima di varare il provvedimento lunedì sera. Sperando che basti per non dover chiudere tutto: ovunque.

Catastrofisti voluttuosi

Confesso un mio limite: non capisco la voluttà con cui, mentre le persone responsabili fanno tutto il possibile per scongiurare il dramma di un nuovo lockdown totale, personaggi anche rispettabili continuano a sparare cifre e giudizi a casaccio senz’alcuna attinenza con dati, fatti e i problemi reali. L’altra sera, in tv, Veltroni col librino sottobraccio ripeteva la gnagnera dell’aumento esponenziale della curva, che invece è costante da una settimana: basta guardare non il tasso di positività (rapporto positivi-tamponi): lunedì era al 13,6%, ieri al 14,7%. Che c’è di esponenziale in un punto percentuale? Idem per l’aumento dei ricoveri in terapia intensiva, che si è persino ridotto: erano 127 martedì e 125 mercoledì, poi negli ultimi tre giorni sono scesi a 115, 95 e 97. I 297 di ieri sono un dato terribile, che però risale a contagi di almeno due settimane fa. Ciò che può mandare in tilt gli ospedali sono i ricoveri ordinari, che però da una settimana aumentano anch’essi in modo costante: lunedì +991, ieri +972.

A questo ritmo, gli ospedali non reggono. Ma non reggerebbero nemmeno se fossimo il Paese più organizzato del mondo, cioè se governo e soprattutto Regioni non avessero sbagliato nulla. Perciò si spera che i medici di base superstiti (circa 40mila) aiutino gli ospedali ad alleggerire la pressione, curando i pazienti con sintomi lievi a casa. Il commissario Arcuri s’è appellato a loro e ai pediatri di libera scelta, promettendo da lunedì 10 milioni di testi molecolari rapidi antigenici per chiunque sappia di aver avuto un contatto stretto con un positivo. Speriamo che arrivino e aiutino ad abbattere l’aumento dei ricoveri, lasciando a casa i tanti paucisintomatici che oggi corrono ai pronto soccorso anche per una febbre a 38. Su questa trincea si decide se torneremo ai domiciliari o no. Fermo restando che zone fuori controllo come Milano, Brianza, Varese, Napoli, forse Genova, Torino e Cuneo vanno chiuse subito per qualche settimana. Anzi dovrebbero già esserlo da un pezzo se gli sgovernatori (e alcuni sindaci) non fossero degl’irresponsabili. Ma, anziché concentrarsi sulle questioni cruciali, il dibattito pubblico vaga nell’iperuranio: dal rimpasto al Mes, dalla crisi di governo alle larghe intese (idea geniale lasciare senza guida il Paese in piena seconda ondata). E il ritorno all’autoflagellazione compiaciuta. “Dobbiamo smetterla di dire che siamo stati bravi”, intimava Veltroni. E perché mai, visto che ce l’hanno riconosciuto tutti gli altri Paesi, la Ue, le organizzazioni e i giornali internazionali? E visto che le ultime misure del governo Conte sono state ancora una volta riprese da Francia e Germania?

Massimo Gramellini, sul Corriere, scrive che “politici e amministratori hanno passato l’estate a farci la predica, mentre loro vivevano alla giornata e discettavano di banchi a rotelle”. Forse non ricorda che, mentre alcune Regioni riaprivano le discoteche, il governo non faceva prediche né discettava di banchi a rotelle (piccola porzione dei 2,4 milioni di nuovi banchi acquistati per le scuole): si batteva in Europa per avere la fetta più grossa del Recovery Fund e la otteneva (209 miliardi), assumeva 34 mila medici e infermieri, stanziava 8 miliardi per la sanità (che purtroppo è regionale, infatti non ne ha speso neppure 1), organizzava la riapertura delle scuole in sicurezza da tutti ritenuta impossibile (anche dal Corriere) e prorogava lo stato d’emergenza con tutti contro (incluso il Corriere con Giucas Cassese). Faceva errori, certo: per esempio sui trasporti, anche se è impossibile acquistare decine di migliaia di autobus in pochi mesi. Ma ora Veltroni vuol sapere perché quest’estate non si è ricostruita la medicina di base sul territorio: come se in tre mesi si potesse rimediare a 30 anni di tagli e privatizzazioni, quando lui non faceva ancora il giallista, il regista e il giornalista, ma il vicepremier e il segretario del Pd.

Ecco: è questa voluttà catastrofista un tanto al chilo che dà l’orticaria anche più del “Covid governo ladro” delle opposizioni di ogni colore, anche perché non serve a nulla, salvo forse a vendere qualche libercolo. La stessa voluttà che porta una persona seria come Carlo Verdelli a scrivere sul Corriere che abbiamo “la curva peggiore d’Europa” (invece abbiamo la meno peggiore, dopo quella tedesca). E che “non è come a marzo, è molto peggio”. Ma a marzo finiva in ospedale il 50% dei positivi, oggi il 6% (0,6% in terapia intensiva), mentre il 94% è asintomatico e sta a casa. E i ricoverati sono, sì, troppi. Ma le degenze durano la metà (7-9 giorni contro i 15-17 della prima ondata), grazie a diagnosi precoci, età media più bassa e progressi nelle cure; quindi la capienza dei posti letto è raddoppiata. E ora il prof. Rino Rappuoli annuncia per marzo la cura con gli anticorpi monoclonali. Secondo Verdelli, Conte deve scusarsi per “l’imperdonabile errore” di annunciare “un vaccino che non arriverà a dicembre”. E allora perché il governo Merkel prepara un piano per distribuirlo già da fine 2020? E se poi fosse a gennaio, cosa cambierebbe? Se si riuscisse ad averne abbastanza per mettere in sicurezza anziani e personale sanitario, gran parte del problema sarebbe risolta: i giovani positivi sono quasi tutti asintomatici. Per questo, con buona pace dei catastrofisti voluttuosi, oggi è molto meglio che a marzo: perché si intravede il traguardo.

Bello il “Mostro di Mary”, noto come Frankenstein

Estate 1816, nella residenza estiva di Lord Byron a Cologny, sono riunite alcune fini menti tra cui il lirico romantico Percy Shelley e la compagna diciannovenne Mary Godwin, figlia di Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, morta quando lei era ancora in fasce. In un’atmosfera lugubre, sotto un cielo che minaccia tempesta, tutti si misurano nella stesura di un racconto horror su invito di Byron, ispirati anche dagli esperimenti del naturalista E. Darwin, che in quegli anni giurava di poter rianimare la materia morta.

È il frangente in cui Mary concretizza la sua creatività, piantando i semi di Frankenstein, la storia dello scienziato che si crede onnipotente e della sua Creatura, respinta sin dal primo respiro. Il mostro di Mary. Come Mary Shelley ha creato Frankenstein (dai 9 anni) – per il New York Times miglior albo illustrato 2018, edito da Splen, piccolo ma meritevole editore per l’infanzia (le tavole di Felicita Sala, autodidatta, valgono da sole l’acquisto) – racconta l’origine del celeberrimo romanzo e invita i piccoli a familiarizzare con un’autrice sensibile ma anche tenace e combattiva che, seppur costretta a pubblicare il suo esordio-capolavoro nell’anonimato perché la scrittura femminile era tabù, non si arrese, riuscendo a fare della sua passione un mestiere.

Il mostro di Mary. Lynn Fulton, ill. Felicita Sala – Pagine: 40 – Prezzo: 15 – Editore: Splen

Un’Internazionale del “buen vivir”, per un’alternativa al neoliberismo

In tempi oscuri come quello caratterizzato dal Covid, c’è bisogno di buone idee, di una filosofia politica per uscire dall’esistente. Soprattutto se l’esistente, come spiega il Secondo manifesto convivialista, che segue di sette anni la pubblicazione del primo, è una società che mitizza la “dismisura”, l’eccesso e la tracotanza che i greci definivano hybris. La quale, scrive nell’introduzione la filosofa Elena Pulcini (teorica delle passioni nella politica) “degenera facilmente nelle società che hanno eretto l’individualismo a valore”. Il Manifesto non sottovaluta affatto la naturale tendenza degli uomini, e delle donne, a sviluppare la propria “singolare individualità”, anzi, fa della “legittima individuazione” uno dei cinque principi del convivialismo insieme alla “comune naturalità”, cioè l’interdipendenza con la Natura, la “comune umanità”, la “comune socialità” e il principio “di opposizione creatrice”.

Non si tratta di un opuscolo redatto da un manipolo di utopisti, ci sono proposte molto concrete e radicali come il reddito di base universale, il tetto massimo al patrimonio, una regolazione del debito ispirata al “giubileo del giudaismo antico” (debito rimesso ogni “sette volte sette anni”). Tra i circa 300 firmatari ci sono nomi come Noam Chomsky, Leonardo Boff, Jacques Le Goff, Shirin Ebadi, gli italiani Elena Pulcini, Laura Pennacchi, Luigi Zoja e molti altri. Il manifesto è ispirato all’opera di Alain Caillé, teorico della società del dono, ha una forte vocazione ecologista, immagina i propri lavori nel segno di una internazionale convivialista – che non c’entra nulla con la convivialità – in una idea di democratizzazione massima della società capitalista (senza rivoluzioni) alternativa al neoliberismo. Un riferimento, scrive Pulcini, è il buen vivir delle società indigene dell’America latina, mescolando ecologismo, beni comuni, democrazia e giustizia sociale. Non è poco.

 

L’arte di vivere insieme. Secondo manifesto convivialista – Pagine: 144 – Prezzo: 13 – Editore: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

Sulla luce il Divisionismo ci ha visto giusto

Quando alla prima Triennale di Brera del 1891 viene esposto il quadro Le due madri di Giovanni Segantini, si comprende subito che qualcosa sta cambiando: Milano è già una città cosmopolita dove arrivano (e passano) tutte le correnti artistiche, ma non si tratta di post-impressionismo italiano, né di pointillisme francese, c’è uno sguardo diverso. Dentro una stalla, una giovane madre tiene sulle ginocchia un neonato che dorme pacioso, mentre a sinistra una vacca si ciba dalla mangiatoia con il vitellino dormiente tra la paglia. L’effetto dell’insieme è nuovo: siamo di fronte al primo quadro divisionista.

Con le nuove teorie dell’ottica (nel 1873, Maxwell dimostrò la natura elettromagnetica della luce, confermata dall’osservazione di onde elettromagnetiche da parte di Heinrich Rudolf nel 1887), si giunge all’idea che luce e colore siano fenomeni di percezione primaria: l’occhio, cioè, è capace di creare una sintesi a partire dalla ricostruzione di frammenti. Segantini, allora, intuisce per primo che si può sostituire la pennellata continua con piccole pennellate giustapposte e di forma diversa: puntini, lunghi filamenti, trattini corti colorati ricreano un’intensità luminosa maggiore. Non a caso, si intitola Divisionismo – La rivoluzione della luce la mostra a cura di Annie-Paule Quinsac che, fino al 24 gennaio al Castello Visconteo Sforzesco di Novara, racconta l’epopea di questo rivoluzionario movimento italiano.

Oltre all’apripista Segantini, uno spazio speciale lo occupa Giuseppe Pellizza da Volpedo, che dimostra come il divisionismo, però, non sia solo tecnica ma anche estetica, perché da quell’intuizione cambia completamente la fisionomia del dipinto. Osservando l’atmosfera fanée de Il Ponte (1893), la visione crepuscolare e prospettica di Sul fienile (1894), i volti umanissimi e vividi ritratti ne Il ritorno dei naufraghi al paese (1894), l’iride di cielo e terra in Nubi di sera sul Curone (1905), si comprende che, abbandonando il disegno lineare riempito di colori, il risultato è la definizione di forme riempite da pennellate di formato diverso che suggeriscono alla giusta distanza quella fusione immaginifica di luce e colore.

Altri protagonisti immancabili sono Angelo Morbelli, i cui volti e corpi – nivei e cangianti come in Meditazione (1913), Per sempre (1905) o in Venduta (1906) – riscrivono l’espressività fisica; e Gaetano Previati che con il suo capolavoro Maternità (1891), in cui una Madonna immersa in una natura miracolosa allatta il Bambino circondata dagli angeli, eleva la luce a simbolo della fusione tra uomo e natura.

 

Divisionismo. Fino al 24 gennaio al Castello Visconteo Sforzesco di Novara

Veltroni ha un’anima cupa e crudele: l’ideale per le inchieste del poliziotto Buonvino

Stavolta il commissario Giovanni Buonvino deve affrontare un caso irrisolto di due lustri addietro. Uno di quei misteri che gli americani chiamano cold case. Nel maggio del 2009, di ritorno da una tranquilla giornata a Villa Borghese, la famiglia Nodari sprofonda nella tragedia: vicino casa viene rapito il piccolo Aldo. La sorella maggiore, Daniela, doveva tenerlo d’occhio mentre i loro genitori si avviavano al portone. Ma la ragazza si era rifiutata e nel giro di pochi secondi Aldo era sparito. Undici anni dopo, Daniela ha venticinque anni e un senso di colpa che le ha deformato la vita. Il papà si è ucciso e la mamma è diventata una pittrice matta sempre rinchiusa in casa.

Così è tornata a Villa Borghese, laddove la famigliola aveva vissuto il suo ultimo frammento di normale serenità. Vuole incontrare il commissario Buonvino. Per certi versi il poliziotto più fortunato del mondo. Non solo perché lavora in uno dei posti più belli della Capitale. Villa Borghese, appunto. Ma soprattutto perché ha trasformato un’umiliante promozione-punizione (a Villa Borghese i poliziotti fanno più che altro un servizio di ronda), in un’opportunità di riscatto per sé e i suoi agenti, declassati come lui. Tutto è cambiato con il primo caso risolto, Assassinio a Villa Borghese. E nella Roma pandemica, tra rimandi cinematografici e musicali, il solitario Buonvino adesso deve indagare su quella sparizione del 2009. Buonvino e il caso del bambino scomparso è il nuovo giallo di Walter Veltroni. Dopo il felice esordio di un anno fa, non era facile ripetersi. L’opera seconda fa inciampare spesso. Invece la trama della storia mostra ancora una volta un’avvincente anima cupa e crudele, pur attenuata dalle digressioni sentimentali di Buonvino. E l’agghiacciante colpo di scena finale – la vera cifra del veltronismo noir – fa sussultare. Fosse stato un film avremmo socchiuso gli occhi.

D. C. (DOPO CHRISTIE)

Buonvino e il caso del bambino scomparso Walter Veltroni – Pagine: 243 – Prezzo: 14 – Editore: Marsilio

Papà Manganelli, anaffettivo e cinico

Da adolescente Romana Petri era affascinata dalla scrittura picaresca e barocca di Giorgio Manganelli. Di lui leggeva tutto. Così, quando sua madre la informò di aver sentito dire alla radio che se un aspirante scrittore vuole essere pubblicato deve farsi leggere da un autore che ama, Petri, con una manciata di racconti pronti, squadernò l’elenco telefonico, trovò il numero e lo compose. L’intellettuale che la teneva sotto scacco coi suoi “un dito fonico ti indica nella notte”, “irti pinnacoli”, “ha ossa di vapore ma inconsumabili”, rispose, perse subito la pazienza, e dopo avere scoperto che l’interlocutrice era la figlia di Mario Petri, basso-baritono eccelso e attore, le disse: “Mi lasci pure ’sta roba che ha scritto in portineria” e appese, racconta Petri.

Era l’82. La raccolta in fieri gli piacque e qualche anno dopo divenne il suo esordio, Il gambero blu, inizio di una brillante carriera. Non è dunque un caso che questo Cuore di furia, che esce poco dopo Figlio del lupo su Jack London, sia il ritratto fantastico del Manga, tutto giocato sul limite tra invenzione e verità, perché per Petri è stato un padre letterario e poi il tema delle figure paterne distanti e anaffettive è sua costante.

Trasportando Manganelli, in queste pagine “Jorge Tripe”, da Barcellona a Siviglia, a bordo di un trattore anziché sulla Lambretta con cui si trasferì da Milano a Roma nel ’53, immaginandolo prima magazziniere in un deposito di granaglie e poi autore osannato, Petri ripercorre la vicenda privata ed editoriale del critico, scrittore, anglista, giornalista e membro di quel Gruppo 63 di cui facevano parte Arbasino, Eco, Sanguineti, Colombo. Lo fa attraverso gli occhi della figlia Norama Tripe, anagramma dell’autrice, cioè Lietta, che Manganelli lasciò quando aveva due anni, per non farsi più vivo, oggi ancora occupata nello snicchiamento dei testi inediti e dimenticati del padre, del suo editore Arroldez, alias Edmondo Aroldi, ai tempi editor di spicco e di Dolores, cioè Ebe Flamini, la donna che lo amò con pazienza e devozione per tre decadi curando anche diverse pubblicazioni postume del Manguro.

Quando lo spettro della morte si fa strada nella sua mente, Jorge fa promettere a Dolores che “tutto ciò che sarà in casa mia sarà pronto a farsi carta stampata e tutto ciò che sarà qui da te, gelosamente nascosto, non avrà altra soluzione che le fiamme”. Aborre l’idea che i suoi scritti vengano pubblicati postumi, indiscriminatamente, e cova il terrore che la figlia si vendichi appropriandosi dell’unica cosa che conta per lui: le parole. Una paura legittima dato che, si sa, chi non è stato amato non solo brama esserlo ma è preda di un rancore-dolore insanabile. Norama, che scopre la fisionomia del padre per la prima volta a 18 anni, trovando una sua foto su un quotidiano, decide che è giunta l’ora di conoscerlo ma non sa che ad attenderla ci sarà un uomo cinico, taciturno, umbratile, odioso. Manganelli era così: pur consapevole di esser stato un padre orrendo, non vuole porvi rimedio. Lei continuerà a cercarlo ossessivamente. Lui si negherà, le darà buca o le lascerà briciole di tempo, condannandola, specie dopo il decesso, a un tormento perenne, quello tipico dei figli che, senza sapere il perché, si son sentiti eternamente indesiderati.

Cuore di furia Romana Petri – Pagine: 144 – Prezzo: 16 – Editore: Marsilio

Le “mascherine” di Pirandello proteggono l’uomo dall’angoscia

Sentitemi. Conosco tanti che nell’accostarsi a Pirandello – leggendolo, studiandolo, attraversandolo – ne sono stati segnati. Qualcuno s’è consegnato alla follia, altri si sono affidati alla solitudine e altri ancora – ahimè – al colpo di pistola perfino.

“Sentitemi, per Dio, io soffro!”. Così s’impone all’ascolto degli indifferenti il professor Toti in Pensaci Giacomino, la commedia scritta da Luigi Pirandello del 1916. La sofferenza è lo stigma che il grande Accademico d’Italia – nonché Premio Nobel per la letteratura – ebbe per sé come una croce, condizionato a tal punto dal dolore da lacerare l’intera sua famiglia.

Sentitemi perché in tema di maschere – mai come oggi, dispositivo di protezione qual è dal virus ma non dall’angoscia – immancabilmente dilaga l’alienazione, lo spavento esistenziale e saperne di lui, del già giovane Luigi in quel di Agrigento, mette tutti noi sull’avviso. Il crocevia si destina per via tutte traverse, tanto quanti sono i sonagli nel berretto del Jolly.

La vita del giovane talento è da subito complicata dalla presenza di un esteso e ramificato parentado. Con la presenza soffocante dell’occhio familiare iniziano a manifestarsi i primi disturbi nervosi: l’osservazione delle vite degli altri nelle loro convulsioni, nei mille inganni che compongono quel guazzabuglio chiamato esistenza si offre a lui come una miniera inesauribile di buffonate e di conseguente dolore.

Sentitemi. Già a Bonn, da studente universitario, inizia per lui il teatrino delle maschere. S’innamora di Jenny, diserta le lezioni e si racconta ai genitori lontani – a Porto Empedocle – come allievo modello, beniamino dei professori che in realtà ignorano la sua esistenza. È l’imprinting di un danno chiamato bugia: quel suo essere in vita – diventare Pirandello – per restare ignoto a se stesso.

Sentitemi. Diventare Pirandello è cosa troppo grave assai.

 

Diventare Pirandello, Annamaria Andreoli, Mondadori

 

Suburra e le ultime verità marce su Roma

La Chiesa, la politica e ora il crimine. Suburra – La serie completa il suo viaggio in tre stagioni nella geografia del potere romano e giunge all’epilogo: con gli ultimi sei episodi, disponibili da ieri, si conclude la prima produzione italiana di Netflix. Una serie partita dai fatti di cronaca, che rimane legata alla cronaca fino alla fine. Dal caso di monsignor Becciu agli arresti nel clan dei Casamonica, alle condanne nell’ambito dell’inchiesta sul Mondo di mezzo: Suburra non ha anticipato la realtà, semmai ha messo in forma di fiction fatti già noti che ora emergono in tutta la loro gravità. Ispirata all’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, la serie è un prequel del film di Stefano Sollima uscito nel 2015. Ma ha scelto sin dall’inizio di camminare da sola: “In comune con il film abbiamo solo qualche personaggio e il contesto, la Roma criminale” ha spiegato la showrunner Gina Gardini nella conferenza stampa di presentazione di Suburra 3. La costruzione del porto di Ostia nella prima stagione, l’elezione del nuovo sindaco nella seconda, la battaglia per il controllo criminale della città nell’ultima. Suburra mette in scena, attraverso personaggi di invenzione ma profondamente ancorati alla realtà, i rapporti loschi e strettissimi che intercorrono fra mafia, politica e gerarchie vaticane. Il terzo capitolo comincia da dove si era concluso il secondo. Aureliano e Spadino, giovani capi di due potenti famiglie criminali, vogliono diventare i “re di Roma” ma per farlo devono superare più di un ostacolo.

Innanzitutto bisogna togliere di mezzo Samurai, il personaggio ispirato a Massimo Carminati. E poi occorre risolvere i problemi interni: Manfredi, il fratello maggiore di Spadino, si è risvegliato dal coma e vuole tornare a comandare. Queste lotte fra clan coinvolgono anche il politico corrotto Amedeo Cinaglia e il cardinale Nascari. Il Giubileo potrebbe portare a Roma decine di milioni di euro e nessuno vuole lasciarseli sfuggire. Suburra 3 allarga gli orizzonti: dalle periferie al centro, dagli uomini soli al comando a personaggi femminili finalmente forti, che vogliono il potere e lo esercitano. Angelica aspetta una figlia da Spadino e dice: “Io non voglio che cresce come le femmine delle famiglie nostre. La voglio diversa: una che può stare in mezzo agli uomini alla pari. Libera, che li può comandare. Senza dover obbedire a nessuno”. Come ha spiegato Federica Sabatini, l’attrice che interpreta Nadia, le giovani donne di Suburra “si vogliono autodeterminare in un sistema che non le vuole inserire”. Se il percorso dei personaggi femminili è lineare, quello degli uomini, raccontato anche attraverso dei flashback, è più tormentato. Cinaglia (Filippo Nigro) completa la sua mutazione da idealista a faccendiere dei clan, ma il passaggio non è indolore. Aureliano deve convivere con i fantasmi della sua famiglia; Spadino, oltre che con la famiglia, è costretto a combattere con se stesso. Ancor più delle precedenti, la terza stagione si regge proprio sul rapporto fra i personaggi interpretati da Alessandro Borghi e Giacomo Ferrara. “Ci siamo conosciuti sul set del film e c’è stata subito un’alchimia particolare. Abbiamo creato due ragazzi che si vogliono bene” ha detto Ferrara. E Borghi: “La loro è più di un’amicizia: non possono fare a meno l’uno dell’altro. Nell’ultimo giorno di riprese io e Giacomo ci siamo molto commossi”. Al netto di alcune scene poco credibili, come la megasparatoria nel parcheggio di un ristorante, la terza stagione di Suburra regge bene fino in fondo e completa il racconto iniziato nel 2017. Si è rivelata azzeccata, alla fine, la scelta degli autori di sviluppare la storia su tre capitoli e di condensare l’ultimo in soli sei episodi, perdendo per strada alcuni dei protagonisti e inserendone di nuovi. Come ha ammesso anche Filippo Nigro, “sarebbe stato complicato andare avanti a raccontare in maniera credibile l’evoluzione di questi personaggi”.

 

Suburra 3. Ultimi sei episodi in onda su Netflix