Piazze. Dai moti di Reggio a oggi, spesso la protesta sfocia a destra

 

Caro Gad, il tu lo uso per l’età che ho e per l’amicizia che avevamo con Mauro Rostagno. Mercoledì un tuo bel “pezzo” era affiancato alle parole di condanna delle violenze delle quali si notava la genericità, se confrontate a quelle che hai dedicato quando si è trattato di violenze, sempre condannabili, contro i centri sociali. Quello che mi turba maggiormente però è il clima diffuso che abbiamo vissuto, almeno io ripeto per ragioni di età, nel 1970-71 con i moti di Reggio Calabria e la loro fine, che hanno portato alla sconfitta di quella che allora era definita la “classe operaia” e alla vittoria della destra fascista, della malavita, della massoneria e dei servizi segreti, con le conseguenze che poi abbiamo vissuto. Il problema ora è anche quello che ci sono pochi giornali e ancor meno tv che fanno una informazione corretta e i poteri forti sono divenuti fortissimi, non parlando poi della debolezza dei partiti e delle loro divisioni che hanno qualche somiglianza con i “gruppetti” i cui leader si credevano Mao Tse Tung o Karl Marx e ora si chiamano Calenda, Renzi e alcuni dirigenti del Pd sordi alle esigenze dei cittadini quanto attenti ai propri interessi personali.

Franco Novembrini

 

Gentile Franco, il tuo giusto richiamo alla rivolta di Reggio Calabria di mezzo secolo fa, guidata da un capopopolo, Ciccio Franco, presto arruolato nel Msi di Giorgio Almirante, mi incoraggia a fare ancora un passo indietro nella storia d’Italia. Può succedere oggi, così come è successo tante volte nel passato, che la legittima protesta delle classi subalterne (cit. Gramsci) sfoci a destra. Fu ad esempio, cento anni or sono, la parabola del sindacalismo rivoluzionario ispiratosi alle idee di George Sorel. L’Unione sindacale guidata da personalità radicali come Alceste De Ambris e Filippo Corridoni passò rapidamente dall’insurrezionalismo al nazionalismo, all’interventismo e infine al fascismo. Non è difficile, in momenti drammatici come quello che stiamo vivendo, che gli oppressi vengano indotti a credere che i loro interessi coincidano col “sovversivismo delle classi dirigenti” (altra cit. di Gramsci), perché l’Italia tutta sarebbe una “Grande Proletaria” (cit. Giovanni Pascoli).

Ps: ho divagato con le citazioni per non arrischiarmi su a chi somiglino Renzi e Calenda.

Gad Lerner

Il futuro di Conte e il “Domani” dell’Ingegnere

“Domani è un altro giorno, si vedrà” (dalla canzone di Ornella Vanoni, scritta da Giorgio Calabrese – 1971)

Per il rapporto di fiducia che s’instaura tra l’editore e il direttore di un giornale dal momento della sua nomina, dobbiamo ritenere – fino a prova contraria – che Stefano Feltri fosse d’accordo con Carlo De Benedetti quando ha intimato le dimissioni al premier Conte in un editoriale pubblicato sul Domani martedì scorso, sotto il titolo “Questo governo non può continuare a gestire il virus”. Un ultimatum del genere esprime chiaramente la linea politico-editoriale di quel giornale e riflette l’orientamento della sua proprietà. E infatti, non è stato né smentito né corretto.

Tutto ciò non poteva non provocare, però, le dimissioni di Luigi Zanda, senatore del Pd, per manifesta incompatibilità con la carica di presidente del consiglio di amministrazione della società: “Ho compreso – ha riconosciuto lui stesso – di trovarmi in una posizione di conflitto politico-editoriale”. Da parlamentare dell’attuale maggioranza, non poteva condividere evidentemente l’attacco del giornale al presidente del Consiglio.

Ha fatto senz’altro bene Zanda a dimettersi. E ancor meglio avrebbe fatto ad ascoltare chi l’aveva avvertito in tempo che quel ruolo non sarebbe stato compatibile con il suo mandato. Non solo e non tanto per una questione di linea, quanto piuttosto di opportunità. Un parlamentare che fa il presidente di una società editoriale, quale che sia l’inclinazione politica, non giova né al suo partito né al suo giornale. Tanto più che il medesimo De Benedetti, ancor prima di fondare il nuovo quotidiano, aveva già reclamato l’estromissione del presidente Conte a costo di imbarcare Silvio Berlusconi e i suoi seguaci superstiti.

La verità è che, a differenza di Carlo Caracciolo, compianto presidente del glorioso Gruppo L’Espresso-Repubblica di cui Zanda è stato per diversi anni consigliere d’amministrazione, De Benedetti non è un editore e ormai non lo diventerà più. Finché è stato sotto la tutela di Caracciolo e di Scalfari, l’Ingegnere è riuscito a mantenere un aplomb politico-istituzionale, al punto da annunciare l’intenzione di prendere la tessera n.1 del Partito democratico, senza mai versare peraltro la quota d’iscrizione. Ma CdB, come lo chiamavano i dioscuri del Gruppo, un padrone era e un padrone rimane.

Ne sa qualche cosa Ezio Mauro, l’ex direttore di Repubblica che successe a Scalfari dopo aver già diretto La Stampa della Fiat. Per De Benedetti, era l’uomo che doveva segnare una “discontinuità” con il primo fortunato ventennio di quel giornale. E Mauro ha saputo barcamenarsi abilmente con la “troika” del Gruppo L’Espresso, per fungere poi da ufficiale di collegamento con il nuovo gruppo Gedi guidato da John Elkann, il nipotino dell’“Avvocato di panna montata”.

Per giudicare le capacità editoriali di De Benedetti, del resto, basterebbe valutare la diffusione e l’inconsistenza del giornale che ha affidato al giovane Feltri, sebbene appena due anni fa proprio lui avesse addebitato all’Ingegnere l’“assenza di ogni vincolo etico” a proposito delle speculazioni in Borsa sulle banche popolari. In linea con la Confindustria, e con la stampa padronale, CdB non gradisce questo governo né tantomeno l’alleanza Pd-M5S. A lui non interessa più di tanto che il Paese si trovi nel pieno di una pandemia da cui non sappiamo se, come e quando il mondo uscirà. Né riesce a immaginare che cosa potrebbe accadere se il premier abbandonasse la nave in mezzo alla tempesta. Gli preme, piuttosto, illudersi di imporre il suo potere mediatico e di influire così sulla vita politica.

 

Si fa presto a dire esponenziale: come si leggono i dati del covid

Caro direttore, già ad aprile segnalai sul Fatto la confusione sui dati Covid e da allora la situazione non è migliorata.

Dati più precisi. Concordo con le misure restrittive del governo. Ma, per non dare spazio a negazionisti e squilibrati d’ogni sorta, occorre essere più rigorosi nella produzione e nella diffusione dei dati: è indispensabile informare e responsabilizzare i cittadini, ma allo stesso tempo non si possono comunicare dati tanto importanti con tale leggerezza, con conseguenze non banali su chi le riceve.

Le parole sono importanti. Lo diceva Nanni Moretti. Ma di questi tempi i numeri lo sono altrettanto e i media per primi dovrebbero porvi grande attenzione, per aiutarci a distinguerli da quelli delle estrazioni del Lotto. Domenica un servizio di Rainews 24 parlava della saturazione delle terapie intensive, citando poi il dato di riempimento su base nazionale: il 15%! È certamente un dato da non sottovalutare, ma avere 85 posti liberi su 100 (sia pure non uniformemente distribuiti nelle varie Regioni) non significa essere prossimi alla saturazione. Sul sito di uno dei Tg Rai leggiamo che “l’Abruzzo ha saturato il 150% dei posti letto aggiuntivi implementati”: informazione contraddittoria e priva di senso.

Quali dati. Partiamo dal numeretto che ci comunicano ogni sera (ieri + 31.084): quello dei “nuovi positivi” rilevati nelle ultime 24 ore. Ma non è proprio così: il numero comprende anche i test antigenici con esito positivo, che richiedono poi una conferma dal tampone molecolare. E poi un dubbio: include anche i tamponi di chi era già positivo e resta tale? Sarebbero dunque dei doppioni, non dei nuovi casi.

Andamento. La curva dei contagi è esponenziale? Forse ricorderete la storia del re ridotto in povertà per aver accettato di ricompensare uno straniero con un chicco di riso sulla prima casella di una scacchiera, il doppio sulla seconda (2 chicchi), il doppio sulla terza (4 chicchi) e così via: in breve tempo si arriva a oltre 18 miliardi di miliardi di chicchi, più del raccolto dell’intero pianeta. Ecco, questa è una crescita esponenziale. Se oggi i contagi raddoppiassero ogni giorno od ogni settimana, in poco tempo saremmo tutti positivi. Per fortuna così non è: depurati dall’incremento dei tamponi e dai doppioni, i dati non stanno raddoppiando, né ogni giorno né ogni settimana. C’è una crescita forte e preoccupante, ma non esponenziale.

Sintomatici e non. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, tra i positivi è nettamente aumentata la percentuale di asintomatici o paucisintomatici (sintomi lievi). Nel computo quotidiano, è utile distinguerli dai sintomatici, anche al fine di produrre previsioni sulle saturazioni delle terapie intensive e sub-intensive.

Proposta. Ben vengano i dati, purché siano più accurati e completi, magari certificati dall’Istat e comprendano: il numero di nuovi positivi giornalieri, distinguendo tra sintomatici e non; il numero di tamponi, distinguendo tra antigenici e molecolari; le relative percentuali; la saturazione media nazionale e regionale delle terapie intensive e sub-intensive. Le fisiologiche oscillazioni quotidiane, inoltre, non aiutano la comprensione dell’andamento: meglio usare una media che sintetizzi i dati di più giorni.

Sintesi. Sarebbe utile un indicatore sintetico di tutte queste variabili che ci desse un’idea complessiva della situazione: esiste già un “indice di gravità” del sito YouTrend, perché non crearne uno certificato dalle istituzioni, anche su base territoriale?

Differenze territoriali. Con un approccio più rigoroso potrebbero emergere con più chiarezza contrasti e differenze territoriali (Milano e Napoli vivono una situazione ben diversa dalle altre grandi città).

Tutto ciò ci darà un’idea più fedele alla realtà e aiuterà Governo e Regioni a prendere le migliori decisioni (anche in vista di un eventuale “scenario 4” – criticità della tenuta del sistema sanitario) e i cittadini a comprendere l’andamento dell’epidemia.

 

Caro Macron, la vostra libertà è il colonialismo

“Noi difenderemo sempre la nostra libertà e i nostri valori” (Emmanuel Macron, dopo l’attentato a Nizza). La vostra libertà, Presidente Macron? La vostra libertà. La vostra libertà è stata sempre quella di troncare con la violenza quella altrui. Avete un passato coloniale che fa orrore. Come tutti gli altri Paesi europei, come l’intera razza bianca (ho detto razza, restituiamo le parole ai fatti) ma non ci si può lavare l’anima, un’anima sporca come poche, con un facile e comodo “così fan tutti”.

Era appena finito il processo di Norimberga, che secondo alcuni uomini di buona volontà avrebbe dovuto sancire la condanna definitiva della guerra, che con l’atroce brutalità di sempre soffocavate il Madagascar che cercava di liberarsi dalle vostre manette coloniali. Dopo la Seconda guerra mondiale vi siete seduti come vincitori al tavolo della pace. Arbitrariamente, perché la vostra Resistenza è stata addirittura inferiore a quella italiana. Gerhard Heller – un singolare nazista (in realtà era solo un tedesco) che durante l’occupazione della Francia era a capo della Propaganda staffel, cioè della censura, e che invece lasciò pubblicare il giovane Camus (Lo straniero) e il giovane Sartre (A porte chiuse) e rappresentare le opere di quest’ultimo anche a teatro – diceva: “Siamo disgustati dalla quantità di francesi che vengono a denunciare altri francesi” (La Rive Gauche, H. R. Lottman). A parte che Heller era impregnato di cultura francese, è evidente che la Gestapo riteneva del tutto innocua la resistenza o la pseudoresistenza degli intellettuali transalpini.

La vostra libertà, nonostante tutte le arie di grandeur, non siete mai stati capaci di difenderla. Durante la Prima guerra mondiale foste salvati dagli inglesi. Nella Seconda, la strombazzata linea Maginot fu aggirata con irrisoria facilità dall’esercito tedesco e in due settimane Hitler passeggiava sugli Champs-Elysées. L’Europa fu salvata, ancora una volta, dallo straordinario valore e coraggio degli inglesi, che come colonialisti non hanno meno responsabilità di voi, ma a differenza vostra hanno le palle. Napoleone? Napoleone era corso e comunque fu sulla punta delle baionette, cioè ancora con la violenza, che furono esportati in Europa quei sacri princìpi dell’Illuminismo (liberté, égalité, fraternité) che voi rispettate un giorno sì e un altro no a seconda che vi convengano o non vi convengano.

Si dirà che son cose che appartengono a un passato ormai lontano. Mica tanto. Siete stati in Algeria, se non sbaglio, sino al 1962. Siete l’unico Paese europeo che fa uso ancora di pratiche coloniali vieux style. Nel Mali del Nord – ed è storia di oggi – convivevano pacificamente animisti, tuareg, islamici moderati. Ma, poiché occupate di fatto il Mali del Sud e la sua capitale Bamako, la cosa non vi stava bene. E avete quindi scatenato l’inferno nel Mali del Nord cercando di rioccuparlo con la forza, inventandovi anche una moneta coloniale che fa comodo a voi ma non certamente a chi là ci vive. Risultato: gli islamici son diventati estremisti, e animisti e tuareg hanno dovuto soccombere.

Storie di ieri? Nel 2011, con un’azione del tutto illegittima secondo il diritto internazionale, e contro la volontà dell’Onu, avete attaccato la Libia di Muammar Gheddafi, lasciato assassinare il colonnello con un linciaggio che farebbe orrore a quelli che chiamate, che tutti chiamano, “i tagliagole dell’Isis”, cosicché oggi la Libia è totalmente fuori controllo, percorsa da violenti e sanguinosissimi scontri intertribali, mentre durante il regime di Gheddafi la Libia non rappresentava un pericolo all’esterno e viveva con sufficiente ordine al suo interno. Perché lo avete fatto? Per i nobili princìpi della libertà e dei suoi valori? No, solo per sostituire i vostri interessi economici a quelli dell’Italia che con la Libia, sia per motivi storici, sia grazie a Berlusconi che con Gheddafi aveva stretto rapporti di amicizia, sia pur a modo suo, maldestro, aveva forti legami. Dell’attuale, tragica, situazione libica siete i principali responsabili.

Come non ho mai creduto al processo di Norimberga, dove pur sedevate fra i giudici, né ad alcun Tribunale internazionale per “crimini di guerra” perché son sempre i Tribunali dei vincitori (all’Aja ci vanno solo i serbi, da Milosevic, a Karadzic, a Mladic), be’ se questi tribunali fossero una cosa seria uno dei primi a dover esservi mandato, insieme ad altri autentici tagliagole come Bush, Obama e il nostro grande amico Abdel Fattah al-Sisi, dovrebbe essere Nicolas Sarkozy.

 

La Santa Messa in Replica, ma è ben più longevo il Maurizio Costanzo Show

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 1, 21.25: Doc – Nelle tue mani, fiction. Luca Argentero interpreta Andrea Fanti, primario di medicina interna costretto a ricominciare da capo dopo aver perso 12 anni di ricordi per un colpo di pistola. “Cosa sta facendo, dottore?”. “Una rettoscopia”. “Con un forcipe?”.

Rai 2, 21.20: Seconda linea, attualità. Questo programma, condotto da Alessandro Giuli e Francesca Fagnani, è stato cancellato dopo due puntate. Non lo guardavano neanche loro. Cosa volete, era uno di quei programmi innovativi che hanno bisogno di un po’ di rodaggio, prima di fare flop. L’altroieri, però, Rai2 ha annunciato che Giuli e Fagnani torneranno in onda in primavera, ciascuno con un proprio programma, perché se due giornalisti dimostrano di essere incapaci in coppia, la Rai rilancia affidando loro un programma ciascuno, in modo da garantirsi due flop. Che je frega? Tanto paghiamo noi col prelievo forzoso dalla bolletta della luce: un’altra delle idee brillanti di quel ganassa di Renzi, dopo il famigerato Jobs Act. Domanda: non è troppo comodo, per la Rai, prendersi il canone (1.700.000.000 di euro l’anno) con la scusa che la legge riduce il suo affollamento pubblicitario? Vogliono essere sul serio una media company, come annunciano pomposamente ogni due per tre? Vadano sul mercato davvero: via il canone, via il tetto all’affollamento pubblicitario. Provate a incassare solo se i vostri programmi funzionano, cioè se i vostri dirigenti sono davvero in grado di competere con gli altri. Trovo pessimi anche i palinsesti Mediaset, ma non sono costretto a finanziarli (se non indirettamente, acquistando i prodotti che pubblicizzano, e che, pertanto, boicotto invece con cura). Chi vuole vedere Neflix si deve abbonare, ma desidera farlo: chi desidererebbe abbonarsi alla Rai? Mangiate un chilo di fagioli borlotti, scoreggiate dentro un barattolo di vetro a chiusura ermetica, e apritelo fra dieci anni: annusare quell’aroma potrebbe essere più interessante di tutti i programmi Rai trasmessi nel frattempo.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa. (Replica)

Rete 4, 21.20: Fuori dal coro, attualità con Mario Giordano. C’è una forma di aristocrazia mentale che vieta a una persona intelligente di dire ciò che il primo imbecille direbbe. Altri, invece, ci costruiscono su intere carriere giornalistiche.

Top Crime, 21.10: Csi: Ny, telefilm. All’inizio c’è un omicidio, che dopo mezz’ora è risolto.

Rai 1, 21.25. Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, un’intervista esclusiva alla Regina Elisabetta: “Lei è fortunata, Maestà. Stasera stavo per mettermi il suo stesso vestito”.

Canale 5, 23.10: Maurizio Costanzo Show, talk show. Nuova edizione del più longevo talk della tv italiana. Va in onda da 39 anni, e anche stavolta ospiterà faccia a faccia con esponenti politici di spicco. Ricordo la puntata con Massimo D’Alema, quando era presidente del Consiglio. All’epoca, ogni lunedì mattina, D’Alema prendeva lezioni di comunicazione televisiva negli uffici di Costanzo. Voleva perdere quell’aria saccente che lo rende da sempre inviso alle masse. Non ci fu nulla da fare: l’uomo era come impermeabile. Al termine di quella puntata, per farlo risultare più simpatico, Costanzo fu costretto a soffiargli in faccia della polvere per starnutire.

 

Chiudere i vecchi, la nostra via virale al darwinismo etico

Lo studio dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) condotto dal ricercatore Matteo Villa stima che, poiché l’82% dei morti per Covid ha più di 70 anni e il 94% più di 60, isolando solo le persone anziane si ridurrebbe drasticamente la mortalità, si libererebbero le terapie intensive e si eviterebbe un lockdown generale, paralizzante per la comunità e distruttivo per l’economia. Lo studio intravede dei problemi logistici (dove isolare gli anziani che vivono coi figli?), e ne adombra di comportamentali (accetterebbero di auto-isolarsi?), ma trascura del tutto quelli antropologici ed etici. Noi siamo un Paese di famiglie, unità sociali che in molti casi hanno permesso di sopperire alle lacune del welfare sotto i colpi della prima ondata. È vero che il contagio avviene per lo più in famiglia: persone che per tutta la primavera e l’estate hanno adottato mille accorgimenti sanitari sono venute in contatto con chi alla fine della clausura si è concesso una vita sociale più attiva, e il virus ha colpito laddove le distanze tra persone si restringono, ci si concede l’abbraccio e si cerca riparo. Come un mantra consolatorio (e falso), da marzo ci ripetiamo che “muoiono solo i vecchi”, più fragili e soggetti ad avere malattie pregresse. Questo stride con i diktat progressisti di una società improntata alla prevenzione e alla medicalizzazione, con cui si cerca di procrastinare la morte stanando ogni possibile malattia e consentendo attraverso i farmaci di allungare l’età media. Perciò la nostra società invecchia progressivamente: i 37 miliardi sottratti alla Sanità pubblica in 7 anni e i 5 milioni di poveri non compaiono nelle statistiche in cui finiscono triturate vite, biografie di anziani che magari, fossero stati più in salute, non sarebbero morti.

Il Covid ha annullato queste conquiste (o dogmi, a seconda di come si intende la dialettica tra scienza e natura), come fosse l’incarnazione di una Parca, o Moira, capace di recidere il filo che eroicamente la Medicina aveva tessuto per tenerci attaccati alla vita. Questo virus destinale ci ha “donato” una specie di fatalismo, sfociato nel vitalismo dell’estate e nel darwinismo etico che oggi ci fa pensare di poter sterilizzare le vite di un terzo o di un quarto degli italiani per non bloccare noi sani, pronti a goderci il rischio dell’infezione. Certo, la soluzione proposta nello studio è mossa dalla volontà di salvare il “sistema” proteggendo anzitutto i vecchi (cioè gli improduttivi); ma siamo sicuri che non sia invece l’altra faccia, il volto speculare dello stesso nichilismo? Al di là degli aspetti costituzionali (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), in definitiva si tratterebbe di lasciare i nostri vecchi da soli di fronte alla paura e alla morte. Si vive tutta una vita per comprendere il senso del dolore e dell’amore: noi doneremmo a chi è arrivato all’ultimo tratto della vita un presente disinfettato, impaurito, con la consolazione di lasciar vivere noi e con la promessa di un futuro sanificato che sarebbe solo più vicino. Il freddo della morte sociale portato da questa separazione igienica non è meno rigido del freddo della morte biologica.

Apocalypse Now. Il despota conte e gli indisposti

Fermate gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso al cane, alleluja alleluja la popolarità di Giuseppi collassa di dieci punti e che nessuno osi turbare l’annuncio di una scintillante epifania. Che crac, che rovescio, che tracollo e anche se, a dirla tutta egli è ancora e pur sempre il leader più gradito (orrore), lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano la lieta novella. Si cacci ordunque l’usurpatore da Palazzo Chigi, che sia ricondotto tra le oscure pandette cui fu sottratto dall’infausto, per il Paese, destino a cinque stelle. Disarcionato il premier tiranno, che si proceda a inviare i più titolati ambasciatori nel maniero umbro di Mario Draghi (Draghi! Draghi!) per deporre ai suoi piedi la sacra corona virus. Un momento però: siamo proprio sicuri che informatosi della crescita esponenziale dei contagi, delle faide tra i virologi, dell’anarchia regionale, degli incombenti lockdown (per citare soltanto l’ordinaria amministrazione), l’Eletto (ma non ancora eletto) sia colto da voluttà di masochismo? E decida di inabissarsi nell’apocalypse now delle rivolte di piazza, del giornalismo tre palle un soldo, dell’allucinato mondo popolato dai Fontana, Gallera e De Luca? Non è che adducendo improvvisa indisposizione farà perdere le tracce mentre le sue ultime parole (fossi matto) si perderanno nel vento? Che si interpelli senza indugio Giorgia Meloni, l’unico uomo forte dell’opposizione e a lei si affidi il compito di restituire all’Italia l’antico splendore, più bella e più superba che pria (Bene! Brava!). Come dite? Purtroppo ella già comunicò di essere, al momento, riluttante. Pronta, s’intende, alla pugna elettorale ma solo quando l’emergenza se la sarà cuccata l’odiato premier, raschiando fino in fondo il barile della pandemia.

E l’unità nazionale allora? E le larghe intese? E i comitati di salute pubblica? Suvvia, che s’interpelli il sempre probo e leale Renzi. E l’ardimentoso Zingaretti. Dove si trovano? Intenti a fornicare con disgustosi rimpasti, voi sostenete? Si dovrà insomma ricorrere ancora ai maneggi del despota di Volturara Appula? Del resto, quale dissennato vorrebbe in questo momento essere al suo posto, per giunta tormentato dai profeti del giorno dopo? Non a caso il mitico Mannelli ce lo mostra mentre arringa le folle in subbuglio, con il fervido auspicio: andate pure liberamente affanculo. Ma per fortuna è solo una vignetta.

Sars-cov2 pensa globale, noi ancora no

Il peggioramento della fase pandemica è sotto gli occhi di tutti, anche degli ottimisti a oltranza. La notizia che arriva dalla Francia, in una situazione certamente peggiore della nostra, di lockdown, preoccupa e rattrista. È la soluzione (lo sarà?) estrema che tutti vorremmo evitare, il fallimento delle strategie adottate finora. È l’annullamento dell’essenza fondamentale della globalizzazione, oltre che della libertà individuale. Di fatto, è l’azzeramento del senso di Unione europea, il sogno della mobilità senza confini, dello spostamento per viaggi ma anche per lavoro. Settant’anni cancellati dall’invisibile mostro SarSCoV2. È accettare di chiudere le frontiere che abbiamo abbattuto, di azzerare gli scambi culturali, le esperienze di studio dei nostri giovani. Stiamo trasformando la mega mobilità in mega statisticità. La società non è più liquida (Bauman, 1999), ma granitica, inerme.

Lo faremo per anni? Non ripeto l’invito inascoltato che si esaminino possibili strategie diverse per fronteggiare una lunga convivenza con il virus. Se questa, inspiegabilmente, sembra essere l’unica ipotesi degna di considerazione, teniamo almeno di conto che procedere con lockdown di singoli Paesi, aspettando che il virus si diffonda in altri, è uno spreco di tempo e di denaro. È un indiretto lockdown del puzzle europeo, nel quale si eliminano a turno delle tessere, cancellando, di fatto, l’interezza dell’immagine. Il quadro attuale potrebbe, invece, far notare che presente e futuro della sanità dovrebbero finalmente avere connotati europei, globali. Abbiamo fatto comparazioni fra diversi Paesi, come se fossero monadi. In realtà il virus è più “avanti”. Pensa globale, mentre noi siamo ancora a una sanità locale. Forse la sconfitta non avviene proprio per questo, perché lui, il virus, ha un piano mondiale e noi no. È tempo che si condividano strategie, protocolli. È tempo che si abbattano realmente le frontiere, quelle del sapere e del fare. Forse, cambiando piano di battaglia, vinceremo.

 

Whirlpool chiuderà, non bastano altri aiuti

Oggi a mezzanotte lo stabilimento Whirlpool di Napoli chiuderà i battenti. Questa è la decisione annunciata dalla multinazionale americana lo scorso anno, questa la decisione ribadita dai vertici del colosso a Giuseppe Conte che, ieri, durante la riunione in videoconferenza coi sindacati non ha lasciato molte speranze ai 430 lavoratori dello stabilimento.

Negli scorsi giorni, il presidente del Consiglio ha deciso di prendere in mano la trattativa sull’azienda per un ultimo disperato tentativo. Ma non è bastato. A questo punto le possibilità di salvare il sito del capoluogo campano sono ridotte al lumicino. Ieri mattina Whirlpool ha annunciato in una lettera la cessazione delle attività dal primo novembre, ricordando che gli stipendi verranno pagati fino al 31 dicembre 2020. Solo in tarda serata è arrivata via sms la comunicazione dell’azienda agli operai per dirgli che possono starsene a casa. Così come resteranno senza lavoro gli oltre 500 lavoratori dell’indotto.

La procedura di chiusura arriva a due anni dall’accordo siglato il 25 ottobre 2018 dall’allora ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio con cui la proprietà si è impegnata al rilancio degli impianti senza spostare la produzione di lavatrici verso Polonia e Cina. Sul piatto il governo aveva messo quasi 50 milioni di euro per continuare la produzione a Napoli. Ma le difficoltà dello stabilimento partono ancora prima, quando a gestire il tavolo senza successo c’era Carlo Calenda. Poi nel settembre 2019 è anche naufragata l’ipotesi che gli svizzeri della Passive Refrigeration Solutions, dai finanziatori sconosciuti, potessero prendersi lo stabilimento.

“Abbiamo messo a disposizione di Whirlpool più di quanto fosse stato offerto in passato, abbiamo dato massima disponibilità al board americano di Whirlpool”, ha detto Conte ai sindacati. Il governo ha proposto incentivi, decontribuzione al 30%, contratti di sviluppo, 10 milioni a fondo perduto per le crisi d’impresa, garanzie Sace e aiuti dalla Regione Campania con misure a sostegno per la reindustrializzazione. Ma per l’ad di Whirlpool Corporation, Marc Blitzer, non basta: “A Napoli non c’è una prospettiva industriale per rendere competitiva la produzione”. L’azienda americana è ferma sui suoi dati: ha subìto un drastico crollo nella domanda globale per il modello di lavatrici di alta gamma prodotto nel sito di Napoli e “pur ritenendo l’Italia un Paese strategico, dove prevede di investire 250 milioni di euro entro il 2021”, non può permettersi di tenere ancora attiva la produzione. Al termine dell’incontro tra Conte e i sindacati un centinaio di operai ha bloccato la viabilità vicino allo stabilimento napoletano di via Argine.

“Verificheremo tutti gli incentivi dati che devono essere retrocessi. Ricorreremo in ogni sede europea, anche giudiziaria, se ci fosse la necessità per far valere l’accordo del 2018”, è la promessa del ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. Mercoledì scorso, durante il question time alla Camera, Conte aveva detto che tra le ipotesi sul tavolo per la risoluzione Whirlpool c’era anche l’ipotesi di riconversione del sito, senza fornire nomi. Ma ieri ai sindacati non l’ha ribadito. “La chiusura di Napoli è un sopruso inaccettabile. La continuità produttiva è il nostro obiettivo”, ha commentato il segretario Cgil, Maurizio Landini. Un’altra bomba sociale è pronta a esplodere.

Ormai non è una manager, ma un crocevia del potere

Per contare i suoi incarichi presenti e passati magari non le servirà l’antica laurea in Matematica, ma un buon pallottoliere aiuterebbe di certo: la fama di tagliatrice di teste o di manager dal pugno di ferro non rende più giustizia a Lucia Morselli, che è ormai un autentico crocevia di potere, confermato ieri dal voto favorevole dell’assemblea dei soci alla sua cooptazione (decisa a fine settembre) nel consiglio d’amministrazione di Atlantia, la holding controllata dai Benetton che a sua volta controlla Autostrade per l’Italia.

Bizzarra scelta tanto della famiglia veneta quanto per lei stessa: Morselli – modenese, classe 1956, in carriera dal 1982, quando debuttò da assistente del direttore finanziario in Olivetti – siede infatti su un’altra poltrona che la mette in rotta di collisione rispetto allo Stato. La telenovela Autostrade su cui acquista un palco in prima fila, per lunghezza è seconda solo a quella dell’Ilva e la nostra eroina lì è assai più che spettatrice: da un anno, infatti, è presidente e amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, cioè la società affittuaria dell’ex siderurgico dei Riva la quale, per così dire, non ha brillato per aderenza agli accordi presi in questi ultimi due anni. Proprio in questi giorni, peraltro, lo Stato e il colosso franco-indiano dovranno decidere come e se andare avanti: secondo gli accordi di marzo, Arcelor può uscire dall’Ilva semplicemente pagando 500 milioni entro fine mese e non è ancora chiaro cosa farà.

Conviene a questo punto ricordare l’altrettanto bizzarro arrivo di Morselli a Taranto, che plasticamente racconta la sua elasticità, per così dire, in tema di avventure lavorative. Le sue esperienze nella siderurgia consistevano in due incarichi nel gruppo ThyssenKrupp. Nel 2013 alla Berco, Morselli debuttò annunciando 611 licenziamenti e la chiusura di uno stabilimento nel Canavese: dopo mesi di lotte, si arrivò a cassa integrazione, esodi incentivati e tagli agli stipendi. Come premio, la manager fu portata all’Ast di Terni: propose 550 licenziamenti, ottenne 290 esodi incentivati; nel mezzo ci fu uno dei più lunghi scioperi di fabbrica in Italia, 36 giorni. Successi, diciamo così, che le valsero la guida della cordata “AcciaItalia”, quella messa in piedi dagli indiani di Jindal, Cassa depositi e prestiti, Arvedi e Leonardo Del Vecchio di Luxottica: era la cordata concorrente di Arcelor e, pur avendo tra le sue file Cdp, riuscì incredibilmente a perdere la gara per Ilva. Morselli, ancora nel 2018, su Affari&Finanza demoliva le azioni dei vincitori, l’anno dopo è andata a lavorare per loro.

Cresciuta all’ombra di “Kaiser Franz” Tatò, manager dalle molte vite professionali con cui nel 2003 ha fondato la società di consulenza Franco Tatò & Partners, il primo ruolo da capo, Morselli, lo ha avuto nel 1995 in Telepiù, poi confluita in Sky. Tra le curiosità, nel 2005 è stata per un mese ad della Magiste Sa, la società lussemburghese di Stefano Ricucci, il signor “furbetti del quartierino”.

Una quarantina gli incarichi cessati, una dozzina quelli attivi e le fonti di nomina sono le più disparate: basti dire che persino i grillini, con cui ha intrattenuto rapporti cordiali via la solita Link University dell’ex ministro Vincenzo Scotti, l’hanno “spinta” nel consiglio di supervisione della semi-pubblica STMicroelectronics e la proposero per la presidenza di Tim, società di cui comunque era già consigliere per il fondo Elliott.

Risulta ancora nel cda di Fondazione Snam e fino all’anno scorso era anche in quello del colosso dei tubi su nomina di Cdp. Per capirci sulla vastità degli interessi di Morselli, da qualche anno è anche nel consiglio del colosso dei giochi Sisal (peraltro concessionario pubblico) che fa capo al fondo britannico CVC, quelli che vogliono comprarsi la Serie A di calcio. Siccome non le manca tempo, è pure nel cda di Exilor-Luxottica (e dire che Del Vecchio non era felice di come era finita AcciaItalia) e, tra le altre cose, membro del World economic forum. Si dirà che è se non altro positivo che per una volta sia una donna a occupare posti di potere, ma il punto qui è sempre stato il modello di potere, non il genere di chi lo esercita.