Undici anni dopo Nine di Rob Marshall, Sophia Loren si rimette davanti alla macchina da presa: La vita davanti a sé, diretto dal figlio Edoardo Ponti, arriva il 13 novembre su Netflix. Gli americani già parlano di Oscar, lei, al secolo Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, fa gli scongiuri: “Il mio Oscar è lavorare, per me la statuetta è questo film. Non ci voglio neanche pensare, per carità. Vediamo, vediamo…”.
Di Academy Awards ne ha già avuti due, li conserva “nel corridoio di casa, insieme agli altri premi della mia lunga carriera”: quello onorario l’ha preso nel 1991, nel 1962 si laureò migliore protagonista per La ciociara di Vittorio De Sica, prima attrice di un film non in lingua inglese ad aggiudicarsi il riconoscimento. Sessant’anni più tardi il passato non è una terra straniera, non lo è De Sica, “una scuola meravigliosa”, non lo è Napoli, “sono napoletana al mille per cento”. E nemmeno lo sono gli adattamenti, che ne hanno costellato la carriera: La ciociara, prodotto dal defunto marito Carlo Ponti, è tratto dal romanzo di Alberto Moravia; sette anni fa ha recitato nel mediometraggio del figlio Edoardo La voce umana, da Jean Cocteau; ora le tocca la seconda trasposizione de La vie devant soi.
Eccezion fatta per De Sica, nel novero la letteratura vince sul cinema: con quel Cocteau, al più, si strappa una sconfitta di misura, come ha fatto Pedro Almodóvar con The Human Voice all’ultima Mostra di Venezia, con Gary, be’, perdono tutti. Non che l’adattamento del 1977 di Moshé Mizrahi non ci abbia provato: Oscar al film straniero, César alla splendida, ingrigita e imbolsita Simone Signoret, ma il romanzo, licenziato col nome de plume Émile Ajar, era altra cosa, era tanta roba.
Larger than life l’autore ebreo lituano trapiantato a Parigi, amante di Jean Seberg e come lei suicida, gollista, talento letterario irredento e dinamitardo; non riproducibile il libro, premio Goncourt nel 1975 (seconda volta per il sabotatore Gary sotto mentite spoglie, con annesso scandalo), tentativo screanzato e straordinariamente riuscito di associare nella Belleville del dopoguerra l’Olocausto patito da Madame Rosa e la marginalità socio-antropologica del bambino algerino Momò.
Consuetudine e capacità adattiva della Loren sono notorie, agli albori in pochi anni incasella Miseria e nobiltà (1954, regia di Mario Mattoli) dalla pièce teatrale di Eduardo Scarpetta; L’oro di Napoli (1954, De Sica), dai racconti di Giuseppe Marotta; Orgoglio e passione (1957, Stanley Kramer), liberamente tratto da The Gun di Cecil Scott Forester; La chiave (1958, Carol Reed), da Stella di Jan de Hartog; Il diavolo in calzoncini rosa (1959, George Cukor), da Heller with a Gun di Louis L’Amour.
Spesso lei e il film hanno avuto la meglio, anche Cassandra Crossing (1976, George Pan Cosmatos) da Robert Katz e chissà che sarebbe stato del non realizzato La monaca di Monza di Visconti da Manzoni, ma stavolta l’impresa era francamente proibitiva: la riduzione di Ponti, che sceneggia con Ugo Chiti, è tale di nome e di fatto. Ha ragione il regista, “se non si sacrifica qualcosa non si può raccontare, noi ci siamo concentrati sulla storia d’amore e amicizia tra Madame Rosa e Momò, che tutto separa – religione, cultura, età, razza – ma che alla fine sono molto simili”. Tuttavia, vengono stralciati snodi capitali e scene madri, non impunemente per complessità e ambizione del testo: che Momò, mantenendo fede all’Islam, divenga senegalese è condivisibile, che Belleville si trasformi in Bari assai meno, non solo perché Loren e Renato Carpentieri parlano in napoletano, ma per la bontà della traduzione multi-culturale. Potenza, diciamo così, dell’Apulia Film Commission, con lapsus meritorio l’attrice stessa infila il dito nella location: “Silenzi, tempo, mare, spiaggia, Napoli è nel mio cuore” e, all’avvertenza del figlio, “lo so che era Bari…”.
Ça va sans dire, è lei la cosa migliore del film, e non può stupire: ancora oggi, a ottantasei anni, è la nostra più grande attrice, e non solo per aura. Sono bravi gli altri interpreti, l’esordiente Ibrahima Gueye pecca per cadenza romana, ma ha presenza scenica da vendere, Carpentieri è un totem, il cartolaio bibliomane Babak Karimi e la trans, non solo per finzione, Abril Zamora convincono, con una regia-regia, a partire da una palette per la fotografia meno oleografica, ci si sarebbe discostati dalla sufficienza. Le prospettive agli Oscar della Loren, che sullo schermo con sprezzo del pericolo si fa apostrofare “mummia”, non verranno comunque inficiate: intelligentemente vi si approccerà da non protagonista, a oggi ha più probabilità lei di vincere che i 93esimi Academy Awards di tenersi, il 25 aprile del 2021. Perché la pandemia morde ovunque, e Signora Sophia non si nasconde: “Io sono per seguire le leggi, io ho paura di tutto, non esco”. E nemmeno davanti alla chiusura delle sale svicola: “Cinema e teatri sono rifugi in cui possiamo trovarci e capirci meglio, la salute è importante, ma anche quella emotiva conta… Dispiace, certo, ma che cosa si può fare?”.