“Non è una guerra di fede, ma contro la democrazia”

“Ci vogliono far credere che questa è una guerra di religione. Si attaccano le caricature di Maometto. Ieri è stata colpita una chiesa. Ma questo non è uno scontro tra credenti e non credenti. È una battaglia tra totalitaristi e democratici. L’offensiva islamista che viviamo oggi ha un carattere strettamente politico ed è iniziata trent’anni fa, quando l’ayatollah Khomeini lanciò la fatwa contro Salman Rushdie. Anche oggi sono dei capi di Stato a condurla. E nelle mani di totalitaristi come il presidente turco Erdogan, la religione è un formidabile strumento di strumentalizzazione. Lo denunciamo da tempo”. Gérard Biard è il caporedattore di Charlie Hebdo, il giornale satirico attaccato nel 2015 dai fratelli Kouachi.

Da giorni Erdogan attacca Macron perché difende la libertà di blasfemia. Gli ha dato del malato mentale e ha chiesto di boicottare il made in France…

Il suo è un atto di guerra. Per ragioni geopolitiche e interne, Erdogan vuole imporsi a guida dei musulmani e a pascià ottomano. Diciamo le cose come stanno: il suo non è altro che un tipo di fascismo religioso. Per anni ha tentato di passare come un islamista moderato. Ma già nel 1997, da sindaco di Istanbul, disse: ‘Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette’. Il colpo di Stato mancato del luglio 2016 gli ha permesso di fare una purga gigante e oggi si rivela per quello che è davvero.

Mercoledì avete pubblicato in copertina una vignetta su di lui, che ha minacciato misure giudiziarie contro di voi…

Non vedo bene cosa potrà fare. La legge francese autorizza a prendere in giro chiunque, anche il presidente della Repubblica. Ma fa parte della sua strategia. Istiga chi crede in lui ad agire, e sono tanti. Nella notte tra martedì e mercoledì abbiamo ricevuto un miliardo di attacchi sul nostro sito. Continueremo a fare il nostro lavoro. Non è perché ci sono attentati che bisogna cedere davanti a chi fomenta e li arma.

Dopo l’uccisione del professore Samuel Paty, migliaia di francesi hanno risposto al vostro appello e sono scesi in piazza. C’è un risveglio delle coscienze?

Spero di sì. Paty è stato ucciso perché ha fatto il suo lavoro. La sua morte ci riguarda tutti. E ci obbliga a guardare in faccia una realtà che si insabbia da troppo tempo: quanto la radicalizzazione è penetrata nella nostra società. Per anni abbiamo guardato altrove, per non creare problemi, si diceva. Ora che siamo con le spalle al muro, politici e intellettuali cominciano ad ammetterlo. Ma la situazione è drammatica.

La Francia è entrata in un nuovo ciclo di attentati?

Temo che ce ne saranno altri. Ma basta credere nel lupo solitario. Questi killer non agiscono mai da soli. Hanno dietro un’ideologia, dei responsabili religiosi o i dirigenti di uno Stato. Bisogna dire che questi Stati non sono democrazie e che si screditano da soli. Dopo la vignetta su Erdogan, il ministro della Cultura turco ci ha trattati da “bastardi” e “figli di un cane”. Come prenderli sul serio?

La città maledetta dei “miserabili martiri di Allah”

Nulla è casuale, nella simbologia jihadista, soprattutto ora, al tempo del Covid, in piena devastante crisi economica aggravata dalla pandemia, con le forze dell’ordine impegnate a far rispettare il lockdown, con “les misérables” male integrati, con la rabbia degli “invisibili” e dei nuovi poveri. Secondo la logica dei “martiri di Allah”, solo il terrore può generare giustizia. La loro. Sgozzare la donna nella cattedrale di Nizza, uccidere il sacrestano e un’altra donna è come inviare un monito. Politicamente cruento. Ci rimanda al noto dramma di Thomas Eliot, quell’Assassinio nella cattedrale che propone il conflitto ferale tra Chiesa e Stato. Nel dramma, che si ispira a un fatto storico, soccombe l’arcivescovo Thomas Becket massacrato nella cattedrale di Canterbury dai cavalieri, che giustificano il loro scellerato atto come “giusto” e necessario perché dovevano impedire alla Chiesa di minare le basi del potere statale e dovevano farlo in modo clamoroso. Ieri, a Nizza, la decapitazione della donna aveva per bersaglio la religione cattolica, quella dei Crociati. Così come la decapitazione di Samuel Paty, professore di storia e geografia, ucciso davanti alla sua scuola in un sobborgo di Parigi lo scorso 16 ottobre, colpiva uno dei baluardi laici della Francia, ossia la scuola. Dove insegnare la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza. I valori di uno Stato giudicato dai jihadisti troppo laico, lascivo, blasfemo. Perché poi Nizza e non ad esempio Reims, dove c’è la magnifica cattedrale in cui vennero incoronati tutti i re di Francia? Perché la nuova geopolitica della paura ha per scopo la destabilizzazione emotiva della popolazione laddove è già stata provata: a Nizza successe il 14 luglio 2016, quando un camion guidato da un terrorista piombò sulla celebre Promenade des Anglais falciando la folla che sciamava dopo aver assistito alla celebrazioni della festa nazionale. Per anni migliaia di nizzardi restarono traumatizzati e dovettero ricorrere in massa ai servizi di assistenza psicologica. Oggi Nizza si ritrova sprofondata di nuovo nell’incubo, nell’incertezza, nell’insicurezza. Ogni anno, di questi giorni che precedono la festa d’Ognissanti e il 2 novembre dedicato ai defunti, nelle chiese di Nizza i sacerdoti officianti ricordano le 86 vittime di quel giorno maledetto, e le centinaia di persone rimaste ferite nel corpo e nell’anima. La basilica di Notre-Dame, che è la cattedrale, è situata nel cuore della città, lungo avenue de Jean Médecin, il sindaco più popolare del dopoguerra e arteria commerciale frequentatissima: dunque, luogo doppiamente simbolico per la “punizione” predicata dai combattenti dell’Islam più intollerante ed estremista, nemico implacabile della laicità e delle libertà d’espressione e d’opinione. È il conflitto tra Stato laico e nichilismo islamista, che ripropone la tribolata questione musulmana in Francia, dove l’Islam è la seconda religione (sei milioni di fedeli, 2.600 moschee e luoghi di culto riconosciuti, centinaia di scuole coraniche). Lo sa bene il presidente Macron: “Veniamo attaccati per la nostra libertà: non cederemo”. Lo stesso Cristian Estrosi, sindaco di Nizza, uomo di centrodestra, ha subito messo le cose in chiaro: l’attentato è di matrice “islamo-fascista”.

Allora, forse sarebbe corretto anche domandarsi perché la Francia sia tornata nel mirino del terrorismo jihadista. La colpa, chiamiamola così, sta nel dna culturale e politico francese: la laicità repubblicana è un valore profondo, irrinunciabile. Lo ha spiegato Macron dopo la decapitazione di Paty, due settimane dopo il 2 ottobre, quando aveva annunciato una legge “sui separatismi”, con norme più restrittive sui finanziamenti alle associazioni religiose e col rafforzamento della laicità. La libertà non è negoziabile, ha ribadito, per questo è necessario contrastare il “separatismo islamista” e ciò ha scatenato l’ira funesta di Erdogan e virulente polemiche nel mondo musulmano, condite da minacce e invettive. Che ci fosse qualche sintomo di un probabile risveglio terroristico, le autorità francesi ne erano coscienti. C’erano stati episodi inquietanti. Emblematico l’accoltellamento a Parigi, a due passi dai vecchi locali di Charlie Hebdo, mentre stava per iniziare il processo per i terribili attentati del 2015. Non una coincidenza. Bensì un avviso.

Strage in chiesa a Nizza: 3 morti. L’assalitore veniva da Lampedusa

Brahim Aouissaoui ha continuato a gridare Allah Akbar anche mentre la polizia lo fermava e lo trasferiva in ospedale, ferito, ma vivo. Poco prima, verso le nove del mattino, armato di un coltello, è entrato nella basilica Notre-Dame di Nizza dove si raccoglievano i fedeli e ha ucciso due persone. Una donna che pregava: il killer l’ha massacrata tentando di decapitarla.

L’altro era il sagrestano della chiesa, un laico di 45 anni, padre di due figli. È stato sgozzato. Una terza persona è stata attaccata, una donna di una trentina di anni, che è riuscita a fuggire, ma le sue ferite alla gola erano troppo gravi ed è morta poco dopo. Aouissaoui è stato identificato perché addosso gli è stato trovato un documento della Croce Rossa italiana. Il terrorista, un tunisino di 21 anni in situazione irregolare, è sbarcato il 20 settembre a Lampedusa. Si trovava su uno dei barconi, una ventina, arrivati quel giorno con decine di migranti tunisini a bordo. Era stato indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e trasferito a Bari per le procedure di identificazione. “Non ci sono dubbi sul fatto che si tratti di un militante islamo-fascista”, ha detto il sindaco di Nizza, Christian Estrosi.

La spirale del terrore non sembra avere fine in Francia. Appena il 16 ottobre i francesi scoprivano con orrore la morte di Samuel Paty, un insegnante di Storia aggredito e decapitato da un giovane ceceno radicalizzato mentre usciva dalla scuola di Conflans-Sainte-Honorine, dove insegnava. Aveva tenuto una lezione sulla libertà di espressione e mostrato ai suoi allievi le caricature di Maometto pubblicate da Charlie Hebdo. Il clima di tensione che si è instaurato negli ultimi giorni tra Parigi e Ankara, coinvolgendo altri Paesi del mondo arabo, faceva temere. Una nota del ministero dell’Interno allertava sin da domenica del rischio di nuovi attacchi all’avvicinarsi della festa di Ognissanti, dopo gli appelli al “jihad individuale” intercettati sui media legati a al Qaeda. “I cattolici hanno il sostegno di tutta la Francia. La religione deve continuare a essere esercitata liberamente nel nostro Paese. Se siamo stati attaccati – ha detto Emmanuel Macron arrivando a Nizza ieri – è per i nostri valori”. Ai francesi ha chiesto di restare “uniti”, di “non cedere allo spirito di divisione”, come dopo l’omicidio di Samuel Paty. La giornata di ieri è stata caotica. Poco dopo le 11 è arrivata anche la comunicazione che ad Avignone un uomo aveva minacciato i passanti con un coltello ed era stato abbattuto dalla polizia. Nello stesso tempo, a Gedda, in Arabia Saudita, un uomo ha accoltellato una guardia del consolato di Parigi. Tutto questo nel giorno in cui i francesi aspettavano i dettagli del nuovo lockdown che entra in vigore oggi, deciso dopo l’impennata dell’epidemia.

Di fronte a una minaccia terroristica sempre più alta, Macron ha annunciato che l’allerta sarebbe stata elevata al livello massimo e il numero dei militari dell’operazione “Sentinelle” portato da tremila a settemila per garantire la sicurezza dei luoghi di culto e delle scuole, che resteranno aperte durante il lockdown.

Messaggi di solidarietà sono arrivati dal Papa, dai vescovi di Francia e dal Consiglio francese del culto musulmano, da numerosi capi di Stato, compreso Erdogan. Il ministro francese degli Esteri ha inviato un “messaggio di pace” al mondo musulmano. L’attacco della basilica rinvia al 26 luglio 2016 e a padre Jacques Hamel, sgozzato nella sua chiesa vicino a Rouen, mentre celebrava la messa. Ma anche all’attentato sul lungomare della stessa Nizza, colpita appena alcuni giorni prima, il 14 luglio 2016, da un camion lanciato sulla folla alla festa nazionale.

La fine delle grandi illusioni di Macron

Con molte settimane di ritardo, Macron ha finalmente annunciato mercoledì un secondo lockdown: era ora che lo facesse, considerato l’espandersi incontrollato del virus sin da luglio.

Era ora che la lunga e ottusa illusione finisse, anche se di essa permangono alcuni inquietanti frammenti: come quando il presidente assicura che “tutti in Europa sono sorpresi dall’evoluzione del virus”, o che il primo confinamento “aveva abbattuto (stoppé) il Covid”. Il lockdown sarà alleviato –non chiudono servizi pubblici, imprese, scuole, nidi, residenze per anziani. Le università tornano a insegnare online – ma il colpo è duro. Ancor più duro dopo l’attentato islamista che ha ucciso tre cittadini in una basilica a Nizza, a tredici giorni dalla decapitazione a Conflans. La Francia fronteggia la doppia sciagura lockdown-terrorismo nel pieno della propria impotenza.

Il lockdown durerà fino al 1° dicembre (“come minimo”: il traguardo è 5.000 positivi al giorno). Ogni quindici giorni ci sarà una revisione: alcune attività potranno riaprire se i contagi scenderanno. Lo scopo – in Francia come altrove – è “salvare il Natale” e la sua manna consumistica.

Il ritardo dell’intervento francese è messo in rilievo da molti esperti. Il Comitato scientifico aveva consigliato già in estate di aprire gli occhi, con misure più drastiche o nuovi lockdown, e si era trovato alle prese con un Eliseo stizzito, e con un fronte mediatico che ripeteva il mantra: “Nessun altro confinamento, visto che non lo vogliamo”. L’11 settembre il governo dava assicurazioni perentorie in tal senso.

Nei giorni precedenti l’Eliseo si era scontrato con il presidente del Comitato scientifico, Jean-Francois Delfraissy, che di fronte alla progressione esponenziale del virus giudicava ormai insufficienti mascherine obbligatorie e test migliorati. Il capo dello Stato lo richiamò all’ordine, spiegandogli che non spetta ai tecnici ma solo ai politici prendere decisioni. Jean Castex, nuovo premier, offrì dunque misure bande. Il periodo di isolamento dei casi positivi passò da 14 giorni a 7. I laboratori in affanno furono invitati a esaminare solo i sintomatici. Si diffuse la notizia di un vaccino imminente (ieri Macron ha detto che non arriverà prima dell’estate prossima).

In un primo tempo furono quindi sconfitti sia il Comitato scientifico sia il ministro della Salute Olivier Véran, che preferivano chiusure radicali di bar e ristoranti nelle città da mesi sotto flagello. Il 5 ottobre furono chiusi i bar, ma non i ristoranti. Poi venne il coprifuoco, ma era troppo tardi. A Parigi chiunque ha potuto constatare nelle ultime settimane come i bar, fungendo anche da ristoranti, restassero sovraffollati: all’aperto e dentro, e di giorno prima del coprifuoco serale.

Il ritardo ha assunto forme di diffuso negazionismo ed è costato migliaia di morti, una situazione ospedaliera allo stremo, il quasi azzeramento delle terapie intensive a Parigi o Marsiglia, dove il virus aveva fatto un ritorno distruttivo sin da luglio-agosto. Macron ha dovuto ammettere mercoledì che in assenza di una nuova stretta, i “morti supplementari saranno 400.000 entro qualche mese”.

Il Comitato scientifico e i virologi più avvertiti hanno fortunatamente ripreso il sopravvento, anche se moniti e critiche permangono: l’epidemiologa Catherine Hill, ad esempio, ha denunciato dopo il discorso di Macron l’incapacità, immutata, di controllare le catene di contagio, di tracciare i contatti dei positivi, di testare rapidamente sintomatici e asintomatici. Posizioni simili sono paragonabili, da noi, a quelle di Massimo Galli o al verdetto di Andrea Crisanti (“Siamo al punto di partenza, i sacrifici degli italiani sono stati resi inutili. Il tracciamento si è sbriciolato”).

È un conforto che i verdetti deprimenti siano infine ascoltati. Chi ha vissuto ultimamente in Francia, specie a Parigi, era quotidianamente sbigottito: bar pieni zeppi, strade sovraffollate, mascherine portate controvoglia, come se indossarle fosse una fissa di indisponenti ipocondriaci. Se non ci sono stati episodi spettacolari come quelli italiani (Salvini o Sgarbi che si strappano la maschera) è perché il rifiuto era diffuso capillarmente in Francia, tra giovani e non giovani che non sono mai stati bene informati o il più delle volte hanno disdegnato ogni informazione. Ci sono voluti più di sei mesi per ammettere che il virus non si propaga solo attraverso le famose goccioline – come ripetono ancora tanti esperti in Italia – ma attraverso goccioline che evaporando diventano aerosol, cioè l’aria che respiriamo. Ci sono voluti più di sei mesi perché le mascherine divenissero obbligatorie anche nei luoghi aperti.

Ieri Macron ha respinto con giusti argomenti la strategia dell’immunità collettiva, ma più volte ne ha subito le lusinghe. La fece propria quando indisse le elezioni municipali, per ricredersi due giorni dopo e decidere il lockdown, o in estate quando mostrò fastidio verso l’allarme degli scienziati. Occorre “cavalcare la tigre”, era la parola d’ordine. Bisogna “vivere col virus”, ripeteva l’Eliseo quando s’accorse (senza ammetterlo) che il primo confinamento non aveva “stoppato” alcunché. Per l’ennesima volta è ora costretto ad abbandonare la grande illusione dell’immunità collettiva constatando che il trittico anti-Covid (testare-tracciare-isolare) si è, come dice Crisanti, sbriciolato.

L’Eliseo adotta adesso l’inevitabile lockdown, ma elementi cruciali tuttora mancano: un’analisi dei macroscopici fallimenti post-confinamento e l’ammissione che la tigre non può essere “cavalcata”, a meno di non accettare centinaia di migliaia di morti entro poche settimane.

Non per ultima, manca la coscienza che in tempi di pandemia e terrorismo non è davvero il caso di lacerare il Paese, e che dopo gli attentati di Conflans e Nizza occorrono parole di sostegno ai cattolici, ma anche di conciliazione con la vastissima comunità musulmana. La denuncia del terrorismo islamista dovrà prima o poi combinarsi con una presa di distanza sistematica dall’islamofobia.

Tornando più particolarmente al Covid: ogni volta che Macron ha abbandonato la chimera dell’immunità collettiva le cose sono andate un po’ meglio in Francia. Ma anche ora, come all’uscita dal primo lockdown, è del tutto assente una chiara indicazione su quel che occorrerà fare o evitare di fare dopo il 1° dicembre, sugli errori da non ripetere, sulle grandi illusioni di cui bisognerà sbarazzarsi, specie nelle vacanze di Natale quando strade e negozi torneranno ad affollarsi.

 

Limitate pure i talk: le proposte per il Cts

Una stretta tira l’altra, lo abbiamo capito. E se non lo avessimo capito, ci pensano i talk show a ripetercelo 24 ore su 24. Ma allora, visto che dopo le 18 l’unica cosa aperta in Italia è la tv, non sarebbe il caso di pensare a una stretta anche per loro? Ecco alcune proposte da sottoporre al Cts.

Mascherine. Appena un ospite sbrocca, dà sulla voce, esplode in improperi, calano la mascherina chirurgica sul viso, e la ffp3 sul microfono. Volume azzerato. Può bastare la minaccia, come sperimentato da Kristen Welker nel faccia a faccia Trump-Biden. I leoni da video temono una cosa sola: essere silenziati.

Assembramenti. “Non parlate più di tre o quattro alla volta, sennò non si capisce niente”. Il severo monito di Aldo Biscardi, padre del talk all’italiana, appare superato. Gli scienziati parlano in cinque sei, otto alla volta, ognuno pronto a contraddire gli altri sette. Ci vuole una stretta per questi assembramenti virologici. Limite di quattro clinici in studio (se non sono congiunti), limite di quattro scenari certi, limite di quattro smentite sicure.

Coprifuoco. Se gli italiani non possono più andare al bar o al ristorante e non possono rientrare dopo le 23, non si vede perché questo non debba valere anche per i talk, che durano più di Via col vento. Come dice Zingaretti, non è bello tenere il piede in due scarpe. Non è bello raccomandare di andare a letto con le galline mentre si fanno le ore piccole.

Lockdown. Non dovesse bastare il coprifuoco, si può arrivare al lockdown. Addio a collegamenti, reportage, politici, virologi e tuttologi. Possibili anche lockdown mirati (quando Sgarbi comincia a urlare “Capra!”, o quando Calenda dopo cinque minuti che parla non ha detto niente). Chiusura totale per un mese, il tempo di vedere se questa onda inesausta di allarmi, rassicurazioni, strumentalizzazioni della pandemia fa bene o no al senso di responsabilità degli italiani. Chissà cosa ne pensa il Comitato tecnico scientifico.

Mail box

 

Giuste le restrizioni: la situazione è grave

Sono l’infermiere che ha scritto a marzo, ero stato infettato e per fortuna ora sto bene, purtroppo in questi giorni stiamo riconvertendo la mia terapia intensiva di nuovo in Covid. Tra i miei colleghi regna tanta tristezza, ansia e rabbia.. Ma come può la gente lamentarsi di non andare al cinema , bar, ristorante dopo tutto quello che è successo? Ma hanno capito che non abbiamo cure rispetto a questo virus che si muove come ad aprile. Forse non hanno mai visto morire una persona sola che non riesce a respirare mentre chiede di salutare i parenti. Mi vengono i brividi solo a pensarci. Ringrazio e ammiro Conte per quello che ha fatto, salvando tanta gente.

Antonio Iacovazzo

 

Conte non abbia paura di risultare impopolare

Troppo buono il governo nei suoi decreti, siamo in grave pericolo sia economico che finanziario e combattiamo una guerra contro il Covid. Decisioni drastiche sono necessarie. L’Italia non deve fermarsi. I sacrifici, come la distanza e le mascherine, in tempo di guerra farebbero ridere.

O. M.

 

Di Battista ha ragione, la Turchia è un pericolo

Ottimo l’articolo di Alessandro Di Battista da voi pubblicato. È importante il concetto di “diritto a rimanere nella propria terra” ed è necessario stigmatizzare il fatto che il capitalismo sfrutta gli immigrati e che i flussi di immigrati sono diventati un’arma di ricatto in mano a brutali dittatori come Erdogan. L’Ue non può continuare a essere un nano militare sotto tutela Usa quando il presidente della Turchia e quello della Confederazione russa scorrazzano nel Mediterraneo.

Alessandro Tiri

 

Accogliamo i migranti: serve il nostro aiuto

Per Di Battista un atteggiamento accogliente dell’Italia favorisce tutti coloro che speculano sulla vita degli immigrati disperati. Ma a me il suo articolo del 28 ottobre ricorda molto la teoria del leader della Lega Salvini: “Aiutiamoli a casa loro”. Come si convincono milioni di persone che fuggono dalla guerra o dalla fame ad aspettare a casa propria un fantomatico aiuto italiano? Il Papa dice che “è necessario riaffermare il diritto a non emigrare”. Bergoglio però si spende anche nel presente per aiutare i migranti.

Marco Pontiroli

 

Chi rifiuta la mascherina merita la multa

Perché il nostro giornale non si fa promotore di una campagna contro i mancati controlli nell’uso della mascherina che attualmente potrebbero rendere da 400 a 1.000 euro a infrazione? Cosa aspettano i sindaci a intervenire e a sanzionare chi non rispetta le regole?

Renato Piselli

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo “Viaggiano in treno fino a Napoli i test Lombardi” pubblicato dal Vostro giornale il 27 ottobre scorso, la delibera di affidamento ad Ames è stata approvata il 22 ottobre ma l’ordine di fornitura che vale come contratto è stato caricato sulla piattaforma di Aria – la centrale acquisti di Regione Lombardia – il 14 ottobre 2020, entro quindi la scadenza fissata al 15 ottobre. Gli Enti Sanitari – in base alla Dgr XI/2672 del 16.12.2019 di Regione Lombardia – non possono attivare procedure di acquisto relative a beni e/o servizi già oggetto di Contratti/Convenzioni stipulati in loro favore da Aria o oggetto di convenzione Consip.
Poiché Asst Sette Laghi, che si era resa disponibile a processare una quota parte dei tamponi effettuati da Asst Lariana per conto di Ats Insubria, si è detta non più in grado di far fronte a tale richiesta, Asst Lariana si è trovata nella condizione di attivare la convenzione con Ames. La durata di tale convenzione, non prorogabile, è di due mesi, quindi fino al 14 dicembre. I tamponi dell’ospedale di Como non vengono processati attraverso Ames ma dal laboratorio interno attraverso le macchine in dotazione al presidio. Dal 20 ottobre – primo giorno in cui i tamponi sono stati inviati a Napoli – al 27, la società Ames ha processato 2402 test (1794 dei quali scolastici); nei giorni 24, 25 e 26 ottobre oltre ai tamponi scolastici a Napoli sono stati inviati anche i tamponi prenotati da Ats Insubria, dai medici di medicina generale e dai pediatri.

ASST Lariana

 

Circa “l’ordine di fornitura (tecnicamente ODF), che vale come contratto, è stato caricato sulla piattaforma di Aria il giorno 14 ottobre 2020, entro quindi la scadenza fissata al 15 ottobre”, dalla delibera di affidamento non è stato possibile evincerlo. L’unico documento consultabile nell’apposita sezione “Amministrazione trasparente” è infatti datato 22 ottobre 2020 (Deliberazione n. 846).

FQ

 

I NOSTRI ERRORI

Nel pezzo “Veneto, il vero contagio sono i clan” di mercoledì 28 ottobre, l’ampia analisi storica contenuta nella relazione finale dell’Osservatorio regionale veneto sulla criminalità non va attribuita al consigliere regionale Bruno Pigozzo, che l’ha introdotta, bensì al grande studioso di mafia e antimafia Enzo Guidotto: me ne scuso con l’interessato e con i lettori.

F. P.

Lazio anziché riaprire gli ospedali, la Regione s’affida alle cliniche private

Buongiorno, in questo momento particolare bisognerebbe rimettere in funzione l’Ospedale Forlanini a Roma, essendo stato per decenni un’eccellenza nella cura di queste malattie. Invece versa in stato di abbandono od occupato da altre situazioni che non hanno niente a vedere con la salute.

Pier Paolo Covello

 

La questione dell’ex ospedale Forlanini è una delle (tante) note dolenti della sanità romana e laziale. Eretto negli anni 30 come polo d’eccellenza nella cura della tubercolosi, è stato chiuso definitivamente nel 2015 dalla giunta guidata da Nicola Zingaretti. Al termine, va detto, di un processo di progressivo disfacimento durato almeno 20 anni. Già a marzo, con la prima ondata del Covid, si è discusso molto a Roma dell’opportunità di riallestire almeno qualche padiglione per recuperare posti letto e terapie intensive, trovandosi proprio affianco all’Istituto Spallanzani. La Regione Lazio spiegò, in sintesi, che la struttura – che misura complessivamente 150.000 metri quadrati – ormai è obsoleta, decadente e ci vorrebbe molto tempo (senza calcolare i costi) per rimetterne in piedi anche solo una parte. È vero, tuttavia, che i padiglioni non abbandonati sono stati assegnati in questi anni ad attività che nulla c’entrano con la funzione sanitaria, fra associazioni culturali, forze dell’ordine e uffici amministrativi del limitrofo ospedale San Camillo. Addirittura, due delibere del 2015 avevano individuato il trasferimento all’Agenzia del Demanio per farne la sede di due agenzie Onu (Ifad e Wfp). Attualmente, la Regione Lazio spende almeno 300mila euro l’anno per la vigilanza privata della struttura, oltre a 1 milione di euro già “investito” nella parziale bonifica. Resta la contrarietà dell’unità di crisi regionale a realizzare ospedali ad hoc per il Covid sul modello Fiera di Milano, per una questione sia di costi sia di disponibilità del personale sanitario specializzato. Nel Lazio, tuttavia, il Forlanini è solo uno dei 16 ospedali chiusi negli ultimi 10 anni per far fronte al debito miliardario accumulato in precedenza, conti rimessi in sesto solo quest’anno. La proposta avanzata di provare a riaprire alcune delle strutture chiuse da minor tempo non è stata però presa in considerazione dalla Regione, avendo preferito optare per la requisizione onerosa – prevista dai Dpcm governativi – delle cliniche private, come la Columbus della Fondazione Gemelli o l’Istituto Casal Palocco del gruppo Sansavini.

Vincenzo Bisbiglia

Anche i giornalisti hanno delle colpe rispetto al virus

Oggi parliamo di noi. Di noi giornalisti. Ed il caso di farlo adesso, mentre tutta la stampa è impegnata nelle sue doverose, ma spesso tardive, denunce. Con la pandemia che impazza e la paura che sale, in tv e sui giornali si racconta degli errori dei politici, dei litigi dei virologi, della storica inefficienza della burocrazia, della folle estate degli italiani. Tutto giusto. Tranne per un particolare. Manca un nome in questo elenco di imputati, o meglio manca una categoria: la nostra. Sì, perché in questi mesi troppo spesso l’informazione ha dimenticato uno dei suoi doveri: l’avere coscienza del proprio ruolo. Perché quello che si scrive, si dice o si sceglie di trasmettere ha sempre delle conseguenze. E, specie quando la collettività corre dei rischi mortali, è eticamente sbagliato e per tutti dannoso inseguire solo gli ascolti e le vendite, senza riflettere e contestualizzare. Quante trasmissioni sono state organizzate per dire che tutto era di fatto finito? Per raccontare che il solo problema era l’economia. Quanto spazio è stato dato a ospiti negazionisti o para-negazionisti? Prendete ad esempio Giulio Tarro (ma si potrebbero fare molti altri nomi), il medico in pensione certo che con l’estate l’epidemia sarebbe scomparsa. A partire dalla primavera è stato invitato decine di volte in tv per illustrare la sua sballata teoria. Il 99,9 per cento della comunità scientifica affermava il contrario e qualunque giornalista che avesse voluto documentarsi avrebbe compreso il suo errore. Tarro però veniva intervistato di continuo. Con l’ipocrita accortezza di mettergli al fianco un’altra campana: un esperto pronto a dirgli che sbagliava. In questo modo chi conduceva il programma o faceva il giornale poteva lavarsi la coscienza dicendo: “Cosa volete da me? Io ho fatto solo cronaca, ho dato spazio a tutti”. Ma fare il giornalista significa anche saper selezionare e gerarchizzare le notizie. Se, ad esempio, in tv un intervistato dice che il mare è giallo e un altro risponde che è viola, chi lavora nei media deve spiegare che è blu. E far tacere chi delira. Non solo per amore di verità. Ma soprattutto perché in un Paese con 37mila morti per Covid alle spalle, chi è cosciente del proprio ruolo non incentiva con informazioni distorte comportamenti che mettono a rischio la salute di tutti.

Stesso principio vale per i politici. Ovviamente chi tra loro ostentava il volto senza mascherina o difendeva la riapertura delle discoteche, visto che siamo in democrazia, non andava censurato. Ma il nostro dovere era quello di sottolineare, dati alla mano, l’errore. Direte voi: questo in Italia non avviene perché stampa e tv sono quasi sempre schierate politicamente. Vero, ma non del tutto. Perché la questione centrale è il modo con cui è strutturata l’informazione. Solo da noi i talk politici vanno in onda su tutte le reti da mattina a sera. Non solo per linea editoriale (gli editori della Rai sono i partiti, quello di Mediaset è un capo-partito), ma soprattutto per questioni economiche. I talk costano poco. Gli ospiti non sono in genere pagati e le loro chiacchiere permettono di far scorrere il tempo senza mandare in onda veri servizi giornalistici o programmi d’intrattenimento di altro tipo (che invece costano molto). Ma se con educazione e fermezza, utilizzando con tutti lo stesso metro di giudizio, ci si mette seriamente a contestare le eventuali affermazioni false, gli ospiti non vengono più e vanno da qualche altra parte. E il talk a basso costo muore. Così ora, anche per colpa nostra, a morire saranno tanti italiani.

 

La “Repubblica” di Molinari e la questione palestinese

Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, da sempre su posizioni vicine alla destra israeliana di Benjamin Netanyahu, ieri ha pubblicato un’intervista al ministro degli Esteri di Gerusalemme. A realizzarla non è stato un giornalista del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, ma Gianni Vernetti: ex militante torinese di Lotta continua, ex esponente dei Verdi, poi deputato e senatore prima dell’Ulivo, poi della Margherita e del Pd, infine di Alleanza per l’Italia. Una breve e assai spigliata carriera politica che gli valse anche la carica di sottosegretario agli Esteri nel secondo governo Prodi: utilissima per garantirsi contatti internazionali decisivi per le sue successive attività private. Anche nel suo caso, la predilezione per gli ambienti non progressisti di Gerusalemme è nota: Vernetti annovera infatti, nel proprio curriculum, la vicepresidenza di un’associazione Italia-Israele.

In realtà, persino nella sua Torino, l’ex parlamentare era ormai dimenticato da tempo, nonostante amasse presentarsi come “analista di politica internazionale”, mettendo nell’ombra il titolo di architetto. Ma è stato proprio Molinari, quando era direttore de La Stampa, a strapparlo all’oblio: adesso, sedutosi sulla poltrona che fu di Scalfari e di Ezio Mauro, lo ha fatto debuttare sul giornale che un tempo affidava la propria linea sulle le crisi del Medio Oriente ad Alberto Jacoviello, Sandro Viola e Bernardo Valli. Eppure proprio a Molinari, per capire chi è davvero Vernetti, sarebbe stato sufficiente uno degli espedienti più banali di cui si serve ogni direttore che si insedia alla guida di un giornale. Scendere nell’archivio, rileggere articoli e commenti, intuire l’evoluzione della linea editoriale, magari anche approfondire la conoscenza di personaggi del territorio che quel giornale vuole rappresentare. Così, se lo avesse fatto per Vernetti, avrebbe scoperto che nella Torino degli anni 90, giovane assessore nelle giunte comunali, era il bersaglio proprio delle cronache cittadine de La Stampa e dell’edizione torinese di Repubblica (allora non ancora in pugno a un unico padrone).

A dire il vero, però, non è l’architetto Gianni Vernetti il vero bandolo di questa strana, e solo all’apparenza, intricatissima matassa della linea di politica estera di Molinari. Si tratta infatti di qualcosa di ben più importante e di ben più profondo che riguarda l’anima stessa di quel quotidiano e il suo “dna” culturale e politico: “Una certa idea d’Italia”, secondo una felicissima definizione di Ezio Mauro. In questo caso, soprattutto, “una certa idea di Medio Oriente”. Qualcosa che sta smantellando la storia del giornale su uno dei temi più caldi e dirompenti dello scenario internazionale dal secondo dopoguerra a oggi. In un susseguirsi di piccoli o grandi incidenti che, giorno per giorno, fanno massa critica, cambiano rotta, innescano cortocircuiti, introducono narrazioni ben orientate. Come la sostituzione di un collaboratore, che scriveva da Gerusalemme, con la ex assistente della europarlamentare di Forza Italia Fiamma Nirenstein (e, a sua volta, candidata per Berlusconi nella circoscrizione estera alle ultime elezioni politiche) o l’accostamento indiretto, in un articolo delle pagine culturali, della parola “fascista” ad Alberto Jacoviello, una delle firme che hanno “costruito” la posizione di Repubblica sulla questione palestinese.

Infine, ed è il caso più clamoroso, l’uscita di scena di una delle ultime grandi personalità del quotidiano: Bernardo Valli. Nelle settimane scorse, dopo essersi rifiutato di cambiare un commento proprio sul Medio Oriente e dopo averlo poi visto pubblicato senza un richiamo in prima pagina (mai accaduto), Valli ha lasciato Repubblica. Un grande giornale con un problema ormai conclamato, e non di poco conto. Per la sua storia e per le idee dei suoi lettori.

 

La laicità è preziosa anche per i musulmani

Il macabro rituale della decapitazione dell’infedele, prima davanti a una scuola, ora in una cattedrale cristiana, come se non bastasse la pestilenza, vuole rigettare in un Medioevo contemporaneo il Paese in cui per primo si affermò l’Illuminismo. Lo alimenta il mito arabo dell’anticrociata che sopravvive nove secoli dopo sulla sponda Sud del Mediterraneo, dove ancora chiamano “franchi” i guerrieri partiti alla conquista di Gerusalemme al grido di “Deus lo vult”. Ma se pure i manovali di queste azioni barbare sono giovani drop out fanatizzati – un 18enne ceceno a Conflans e un 21enne tunisino a Nizza – costoro agiscono sospinti da una campagna per “riscattare l’onore del Profeta” che si avvale di ispiratori scaltri e potenti.

Dopo i tre attentati di ieri, perpetrati nel giorno del compleanno di Maometto, non sono mancate le prese di distanza del ministero degli Esteri turco, dell’università Al-Azhar del Cairo, delle petro-monarchie del Golfo. Ma prima, ai vertici del mondo islamico, si era registrata una irresponsabile condivisione della campagna contro il presidente francese Emmanuel Macron, colpevole di aver difeso Charlie Hebdo e il suo diritto di pubblicare vignette irridenti sul Profeta e su un leader politico come Erdogan. Qui sta il punto, la questione di principio pagata con sangue innocente. “La libertà di non credere è inseparabile dalla libertà di espressione, fino al diritto alla blasfemia”, aveva dichiarato Macron. Accusato per questo di malattia mentale dall’aspirante nuovo Sultano turco. Che aveva però raccolto adesioni inaspettate, dall’imam Ahmed Tayyeb di Al-Azhar agli ayatollah iraniani. Perfino l’arcinemico di Erdogan, l’egiziano al-Sisi, si era sentito in dovere di schierarsi contro Macron sostenendo che “la libertà di espressione non dovrebbe arrivare a offendere oltre 1,5 miliardi di persone”. La contrapposizione è totale fra chi difende la nozione di laicità dello Stato democratico e chi fonda ancora sul vincolo religioso la legittimità di regimi totalitari. Non a caso in alcuni Paesi islamici, spesso alleati dell’Occidente, il reato di apostasia viene ancora punito con la pena di morte. Naturalmente, dietro a questa forsennata campagna ideologica si celano interessi materiali di altra natura che lacerano l’islam al suo interno. Lanciando la parola d’ordine velleitaria del boicottaggio delle merci francesi, Erdogan intendeva reagire anche all’embargo posto dall’Arabia Saudita sull’importazione di prodotti dalla Turchia. Il suo sogno è di delegittimare il ruolo di custodi dell’ortodossia sunnita assunto dai guardiani della Mecca, restituendo a Istanbul la supremazia sulla umma perduta un secolo fa. Trova alleati a Teheran, in Qatar e nel movimento dei Fratelli musulmani. E, soprattutto dopo il fragilissimo Patto di Abramo stipulato dalle petromonarchie con Israele, gli va dietro ciò che resta delle formazioni jihadiste sopravvissute alla sconfitta militare dell’Isis e di al Qaeda.

La difesa dell’onore del Profeta diviene così l’anacronistica messinscena di un progetto di destabilizzazione in cui l’Europa laica torna potenziale campo di battaglia. L’anticrociata, in questo disegno, si combatte anche in casa nostra. Trova adepti sprovveduti, esigue minoranze di prima o seconda immigrazione, probabilmente per ora solo “lupi solitari”, ma non per questo meno pericolosi perché cavalcano una disperazione sociale ammantata da spirito di rivalsa. Giovani, cioè, che spregiano le libertà democratiche perché a loro volta si sentono disprezzati.

L’offensiva culturale che Macron ha lanciato contro il “separatismo islamico”, cioè la tendenza comunitarista a ghettizzare i musulmani francesi dentro a enclaves dove i codici islamisti prevalgono sulle leggi dello Stato, riguarda il destino di tutti noi. E, prime fra tutti, riguarda il futuro delle comunità islamiche europee. Sul principio inderogabile della laicità dello Stato e della libertà di espressione, non possono che unirsi compattamente anche i credenti di ogni fede che vivono con disagio il ricorso alla satira in materia religiosa. Chi si sente offeso dalle vignette su Maometto volti la testa dall’altra parte ma non potrà mai sentirsi vendicato da chi le assume a pretesto di azioni criminali che deturpano il volto dell’islam. Nessuna reticenza, nessun distinguo: ne va della nostra convivenza nella società plurale da cui non si torna indietro.

Cristianità e islam sono categorie del passato. Chi cerca di impossessarsene manipola le nuove forme assunte dalle religioni da quando hanno smesso di coincidere con un’appartenenza territoriale. Siamo destinati a vivere gli uni accanto agli altri e non potremo farlo in compartimenti stagni separati, se non vogliamo trasformarci in guerrieri. La laicità ereditata dalla Rivoluzione francese è un bene prezioso che tutti gli europei, vecchi e nuovi, sono chiamati a difendere.