A Livorno, fino a pochi giorni fa, il nome di Giorgio Heller non diceva niente a nessuno. Oggi invece nella città più rossa d’Italia dove nacque il Partito Comunista con la scissione del 1921, dell’imprenditore romano che ieri è risultato positivo al Covid parlano tutti: da una settimana è il nuovo presidente del Livorno calcio dopo 21 anni di era Spinelli e il breve traghettamento dell’imprenditore Rosettano Navarra. Solo che tra i bar dell’Ardenza frequentato dai tifosi della Curva Nord, si parla poco della prossima sfida con la Pergolettese o della campagna acquisti annunciata dalla nuova proprietà, ma solo del passato e delle simpatie politiche di Heller. Oltre a essere entrato con tutti e due i piedi nel mondo del calcio – nel 2019 aveva comprato anche il Trapani prima del fallimento –, Heller è tutt’oggi presidente della Roma Capital International srl, una fondazione che si occupa di individuare progetti innovativi per Roma Capitale. La sede dal 2012 è in un palazzo del 700 in Santa Maria del Popolo, a pochi passi da Villa Borghese e con affaccio su una delle piazze più famose di Roma, ottenuta in comodato d’uso gratuito. Da chi? Dall’ex sindaco di Roma con un passato nel Fronte della Gioventù e nel Msi, Gianni Alemanno, con cui Heller è legato da una stretta amicizia. E, il paradosso che sta imbarazzando una delle curve più di sinistra d’Italia, è proprio il background di Heller: la destra romana che negli anni ha avuto come padre Giorgio Almirante e Pino Rauti e come successori Francesco Storace e appunto Alemanno. Il Tirreno ha anche scovato un dettaglio particolare del nuovo presidente amaranto: in uno dei suoi profili Facebook, Heller nel 2012 condivideva link del blog atuttadestra.net con una riflessione di Assunta Almirante: “L’Italia non è razzista, semmai lo sono alcuni ebrei”. Ma Heller è anche vicino al mondo dell’ebraismo: nel 2019, durante l’acquisizione del Trapani, l’imprenditore si candidò alla presidenza della comunità ebraica di Roma con la lista “Ebrei per Roma” (arrivata solo quinta) con un messaggio chiaro: la difesa delle “radici giudaico-cristiane dell’Europa” perché “tra trent’anni l’Europa rischia di essere a maggioranza musulmana”. Un messaggio che non piacerà ai tifosi del Livorno: le bandiere del Che e il pugno chiuso di Cristiano Lucarelli rischiano di diventare un lontano ricordo.
Falso e depistaggio, il maggiore Scafarto ora va a processo
Gianpaolo Scafarto, il maggiore del Noe del caso Consip, è finito a processo. La sentenza di proscioglimento dell’ottobre 2019 dalle accuse di rivelazione di segreto, falso e depistaggio ieri è stata ribaltata. I giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Roma hanno accolto la richiesta della Procura generale che aveva impugnato la decisione del Gup Forleo e chiesto il rinvio a giudizio. Il processo inizierà il 9 dicembre e con Scafarto è finito imputato pure il suo ex collega Alessandro Sessa, accusato solo di depistaggio. “Le prove acquisite sono granitiche”, aveva detto nella scorsa udienza il pm Mario Palazzi. Per la Procura di Roma l’ex maggiore era la fonte dietro lo scoop del Fatto del dicembre 2016, quando il vicedirettore Marco Lillo anticipò per la prima volta l’esistenza di un’inchiesta su Consip dagli indagati eccellenti, come l’ex ministro Luca Lotti (ora a processo per favoreggiamento). Il maggiore – nel frattempo nominato assessore a Castellammare di Stabia, carica dalla quale si è dimesso ieri – è accusato anche di falso: secondo i magistrati avrebbe manomesso alcuni passaggi di un’informativa dell’indagine Consip. Come quello che riguardava Tiziano Renzi, padre dell’ex premier. In particolare, Scafarto ha attribuito la frase “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato” all’imprenditore Alfredo Romeo, quando in realtà era stata pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino. Su questo, nelle motivazioni, il Gup Forleo, che a ottobre 2019 aveva deciso per il proscioglimento, scriveva: “Se Scafarto avesse voluto ‘inchiodare’ Renzi (…) non avrebbe ripetutamente sollecitato tutti i suoi collaboratori a risentire le conversazioni, a chiedere di eventuali incontri tra Tiziano e Romeo e soprattutto a invitare tutti i predetti a una rilettura dell’informativa”. Anche la difesa di Scafarto ieri in aula ha sottolineato: “Qui è importante la contestualizzazione”, ha detto l’avvocato Attilio Soriano spiegando che il carabiniere avrebbe dovuto consegnare in 15 giorni un’informativa su un’attività di indagine molto complessa.
“Tre giudici ci hanno detto che l’impianto accusatorio è illogico”, ha aggiunto il legale, facendo riferimento alle decisioni di Riesame, Cassazione e Gup. E ha concluso: su questi dati “proseguire nel giudizio è come innaffiare un albero senza radici aspettandone i frutti”. Ieri in aula anche Scafarto ha preso la parola. Il maggiore ha ripercorso quelle che ha definito le “anomalie di un’indagine complessa”, cominciata ad agosto del 2016 quando sono state installate le cimici negli uffici della Romeo Gestioni. Già a distanza di un mesetto dalle prime intercettazioni, ha detto, le persone iniziavano ad abbassare la voce. Seguirono poi i manoscritti, alcuni ritrovati dai carabinieri nella spazzatura della Romeo Gestioni. L’ex maggiore sembra riferirsi a un foglio sul quale c’era scritto: “30.000 x mese – T.”, che per gli investigatori è Tiziano Renzi, e “5.000 ogni 2 mesi R.C.”, Carlo Russo, sempre per il Noe. Presunti flussi di denaro negati da tutti i protagonisti. In un altro filone dell’inchiesta, intanto, Tiziano Renzi è finito indagato (dopo che il gip ha respinto in parte la richiesta di archiviazione dei pm) per traffico di influenze e turbativa di gara.
Ma torniamo a Scafarto, che ieri ha sottolineato un’altra circostanza emersa durante l’inchiesta Consip: la telefonata di Roberto Bargilli che due giorni dopo l’inizio delle intercettazioni dei pm di Napoli sul telefono di Renzi sr., contatta Russo e gli dice di non chiamare. “Questo ha rappresentato Consip”, ha detto Scafarto. Che adesso dovrà affrontare un processo.
L’incontro ignorato dai pm fra Tiziano Renzi e l’ex Ad
Il Tiki bar sul laghetto dell’Eur è la sede di un incontro finora inedito avvenuto il 22 aprile 2015 alle 15 tra Tiziano Renzi, Carlo Russo e Domenico Casalino, allora amministratore delegato di Consip. I tre oggi sono co-indagati con l’imprenditore Alfredo Romeo e l’ex parlamentare Italo Bocchino dalla Procura di Roma (su impulso del Gip Gaspare Sturzo) per traffico di influenze illecite e turbativa in relazione alla gara da 2,7 miliardi di euro per la pulizia dei palazzi pubblici bandita da Consip nel 2014. I carabinieri di Napoli riportano in un’informativa (depositata a Napoli dai pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano il 12 ottobre in un’udienza su fatti diversi) i messaggi di testo che preparano l’incontro. Abbiamo chiesto lumi ai protagonisti, ma Russo e Tiziano Renzi non ci hanno risposto sul punto. Domenico Casalino invece ha confermato.
Ma partiamo dall’informativa: Domenico Casalino – secondo i carabinieri – alle 13 e 56 del 22 aprile 2015 chiede a Russo dove può raggiungerlo e questi gli risponde che tra poco glielo avrebbe detto. A quel punto (sono le 14 e 14) Russo scrive a Tiziano Renzi che lui sta in zona Eur e chiede al padre dell’allora premier dove deve aspettarlo. Un quarto d’ora dopo è Casalino a scrivere a Russo quali sono le tre opzioni possibili: “Eur, Tiki bar viale America 117. Più verso il centro: Andreotti via Ostiense 54 oppure Rosso via Aventino 34”. Alla fine Russo scrive a Tiziano Renzi alle 14.42: “Eur Tiki Bar viale America 117”. Non ci sono messaggi tra Casalino e Tiziano e allora ci siamo chiesti: alla fine chi c’era al Tiki bar?
L’ex Ad di Consip dice al Fatto: “Sì, ho incontrato Tiziano Renzi. Me lo presentò Carlo Russo che ci teneva tanto”. Perché ai pm romani, nell’interrogatorio di giugno scorso, non lo ha raccontato? Casalino spiega: “Perché nessuno me lo ha chiesto. Non c’è niente di male in quell’incontro. Non si parlò di gare né di Consip e i due non mi chiesero nulla”. I carabinieri di Napoli ritengono dall’analisi del telefono di Russo che Casalino e Russo si siano visti molte volte. Il 26 aprile 2016 si danno appuntamento al bar per ‘il solito’ aperitivo, l’11 febbraio 2015 per un pranzo. Poi ancora appuntamenti il 6 e il 13 maggio 2015. Dopo la rimozione di Casalino ci sono appuntamenti il 22 dicembre 2015, il 20 gennaio 2016, il 2 e 9 febbraio 2016.
L’incontro al bar va inserito in una cronologia. A febbraio 2015 ci sono i primi messaggi di Russo con Casalino. In quel periodo Russo incontra anche Alfredo Romeo. Un anno dopo in una conversazione intercettata Italo Bocchino, per i carabinieri, “riferiva a Romeo che asseritamente era stato proprio Casalino (…) a farli entrare in contatto con il ‘ragazzo’” cioé Russo. Casalino nega.
Il 4 marzo 2015 Russo porta Romeo da Francesco Bonifazi. Per l’ex tesoriere del Pd si parlò genericamente di un contributo lecito di Romeo al Pd, rinviato, e non di Consip o di gare.
Il 10 aprile sempre Russo ottiene il numero di Eleonora Chierichetti da Tiziano Renzi. Poi le scrive per chiamarla. Non era intercettato quindi non sappiamo se la telefonata ci fu e cosa si dissero. Lei lavorava allora come segretaria alle dipendenze della Presidenza del Consiglio.
Il 13 aprile 2015 Russo gira a Eleonora Chierichetti un numero di telefono fisso dove contattare Romeo. Chi doveva chiamare quel numero?
Al Fatto Eleonora Chierichetti non ha risposto. I pm non le hanno chiesto nulla.
Il 22 aprile 2015, Russo incontra con Tiziano Renzi l’Ad in carica di Consip, Casalino.
Il 16 luglio 2015 Romeo va a Firenze e incontra – secondo i pm – Russo e Tiziano Renzi. Dopo l’incontro Tiziano scrive a Russo che ha avuto impressioni buone e aggiunge: “Speriamo non mi pongano ostacoli”. Il 20 luglio poi Tiziano Renzi chiede a Luigi Marroni, da poco Ad di Consip, di incontrarlo a Firenze.
Il 13 settembre Tiziano Renzi scrive a Russo di aver parlato con Marroni e il 15 settembre Russo incontra Marroni. Poi il 4 ottobre 2015 Tiziano Renzi incontra Marroni. Carlo Russo – secondo Marroni – chiede all’Ad di favorire una società nella gara Consip Fm4. Marroni dice ai pm che certamente la ditta non era la Romeo Gestioni ma non ne ricorda il nome.
Questi i fatti. Come è un fatto che Tiziano, Casalino e compagni per i pm dovevano essere prosciolti. Ed è un fatto che a processo ieri è finito il capitano Gianpaolo Scafarto, quello che ha avviato le indagini.
La class action dei papà separati
Una class action contro lo Stato. Per fare in modo che quei bambini strappati dalla famiglie con l’ausilio dei servizi sociali tornino a casa. L’ha lanciata – partendo proprio dal caso Bibbiano – l’Associazione papà separati di Milano. “Gli istituti accolgono circa 40 mila bambini”, spiega il presidente Ernesto Emanuele, che insieme all’associazione aveva partecipato a una protesta proprio a Bibbiano. Nel frattempo i minori coinvolti nell’inchiesta sono tornati alle famiglie d’origine.
Ma intanto, alla vigilia dell’udienza preliminare, anche qualcos’altro sembra essersi mosso. Il ministero della Giustizia, che aveva condotto un’indagine amministrativa per verificare l’operato del Tribunale dei minori di Bologna al quale erano destinate le relazioni ritenute false di psicologi e assistenti sociali, ha infatti annunciato che sarà parte civile nel processo “Angeli e demoni” che si apre questa mattina in udienza preliminare. Sono infatti contestati reati di frode processuale, falsa perizia e depistaggio. “Lo avevamo promesso”, ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi. “È un importante segnale di attenzione alla vicenda. In attesa che si proceda in Parlamento a una riforma complessiva del sistema degli affidi, su cui stiamo lavorando con grande impegno, ci auguriamo che il processo si svolga in tempi celeri e accerti ogni responsabilità”.
Macché guru: Foti scambiò “Dragon Ball” per un pene
Chi conosce a fondo la vicenda di Bibbiano e la lunga scia di accadimenti che per 25 anni circa ha condotto fin qui, non può non ritenere una sinistra coincidenza l’inizio del processo a Claudio Foti e a molti dei suoi “seguaci” nel pieno di una pandemia.
Perché quello che è stato il metodo definito di “ascolto dei bambini” del fondatore del centro Hansel e Gretel ha effettivamente contagiato psicologi, assistenti sociali, pm, giudici di mezza Italia. E Bibbiano è stato il primo focolaio isolato, dopo anni di diffusione perniciosa e inarrestabile. Certo, Claudio Foti, in questo processo, non ha la sfilza di accuse da cui difendersi che hanno altri protagonisti di questa vicenda. Non li ha, ma resta il fulcro ideologico della storia, colui che ha trasmesso l’imprinting metodologico ai suoi “allievi”, agli psicologi che lo hanno affiancato, qualcuno perfino sposato.
E in fondo, comunque vada il processo, per chi ritiene Bibbiano la punta dell’iceberg perché conosce i tragici pregressi di Rignano Flaminio, Sagliano Micca, la Bassa modenese e molte altre vicende meno note, è evidente che l’inizio di questo processo rappresenti comunque una luce accesa su un approccio accusatorio e dogmatico alla questione minori abusati che ha sconvolto la vita a troppi innocenti.
È questo il passaggio su cui dovrebbe soffermarsi il Partito radicale il quale ha deciso di sostenere, con la sua apprezzabile linea garantista, l’imputato Claudio Foti. E non solo imbastendo una conferenza stampa alla vigilia del processo senza uno straccio di contraddittorio, senza nessuno che potesse rappresentare la memoria storica di quel che Foti è stato in 25 anni di indagini e processi condizionati da perizie che somigliavano ad accuse di un pm, ma garantendo a Foti anche la difesa dell’avvocato Giuseppe Rossodivita, avvocato e uno dei principali esponenti del Partito radicale. Bizzarro che l’uomo che per anni ha firmato perizie in cui non si lasciava spazio al dubbio, in cui i bambini diventavano portatori di una verità unica e assoluta, in cui un disegno, un silenzio, una vivacità, perfino una bugia o una contraddizione diventavano prove schiaccianti e insindacabili di colpevolezza, abbia chiesto aiuto al partito garantista per eccellenza. La psicologia giustizialista che si aggrappa alla politica garantista. Chissà se i radicali, quelli che sono stati accanto ai Tortora e ai Negri, hanno mai letto una perizia di Claudio Foti. Chissà se sanno che per provare gli abusi sessuali ai danni di un bambino, Claudio Foti individuò nel disegno del minore la chiara, minacciosa raffigurazione di “un pene con dei denti”. Chissà se sanno che l’avvocato dell’uomo accusato ingiustamente e poi assolto, durante il dibattimento, spiegò al giudice che quel “pene dentato” era invece Goku, un personaggio del cartone animato Dragon Ball. E di aneddoti simili, perfino ai limiti del grottesco, ce ne sono tantissimi, andando a spulciare nella storia delle consulenze e perizie di Foti. Come quella volta in cui inviò un fax con la dicitura “urgente” al pm del caso Sagliano Micca, quello in cui ben quattro persone – che poi si suicidarono insieme – furono accusate di aver abusato di due bambini. Su quel fax Claudio Foti scrisse che il bambino (presunto) abusato gli aveva svelato l’esistenza di una botola nella casa dei suoi aguzzini. Una botola che conduceva in chissà quale luogo degli orrori. C’era perfino una mappa disegnata alla buona. Scattò subito una perquisizione per incastrare gli orchi. Non fu trovato nulla.
Ecco, i Radicali potrebbero ripercorrere la storia di Hansel e Gretel, del suo fondatore, dei suoi adepti. La storia che conduce a Bibbiano. Scoprirebbero che il processo a Claudio Foti deve ancora iniziare, ma quello a tanti padri, madri, nonni, maestre accusati ingiustamente di aver abusato di minori si è già celebrato. E Foti, quel giorno, non sedeva al banco dei garantisti.
Bibbiano, chi sono gli angeli e chi i demoni
A Reggio Emilia oggi riaprono l’aula bunker, quella del maxi-processo alla ’ndrangheta, per l’udienza preliminare del processo sugli affidi illeciti di minori a Bibbiano e dei Comuni della Val d’Enza. Affidi richiesti per i presunti abusi sessuali dei genitori, del compagno della mamma, del sociò del papà, del nonno, una volta del fratellastro, che non sono mai stati accertati. Gli arresti del giugno 2019 furono un terremoto, l’inchiesta “Angeli e Demoni” fece emergere il legame tra i servizi sociali comunali e gli psicoterapeuti della Onlus Hansel e Gretel di Torino, Claudio Foti e l’ex moglie Nadia Bolognini, dieci anni fa tenuti in considerazione da vari uffici giudiziari e poi molto meno, sostenitori di metodi assai discussi per far affiorare “i brutti ricordi”. Fino alla “macchinetta” che generava piccole scariche elettromagnetiche dai cavetti lasciati in mano ai giovani pazienti: illecita per i pm, solo inutile per altri specialisti. Vale diverse accuse di violenza privata a Bolognini, che risponde anche di frode processuale per aver ingannato i giudici e di lesioni per aver provocato a una ragazzina, allontanandola da casa, un “disturbo depressivo permanente”; a un altro un “disturbo specifico dell’apprendimento” raccontandogli che il padre era in carcere e non si era mai occupato di lui; a un’altra un “disturbo post-traumatico da stress”. È la psicologa che, secondo la Procura, trattando un bambino di 7 anni “si travestiva da ‘lupo’ (…) urlandogli contro e inseguendolo, associando al termine del gioco, la figura del ‘lupo cattivo’ a quella del compagno della madre”, accusato degli abusi mai dimostrati.
Foti, 59 anni, laurea in Lettere, è il teorico, nemico della Carta di Noto che nell’esame dei minori vittime di abusi raccomanda tra l’altro di evitare domande suggestive, contestata da una minoranza di operatori riuniti nel Cismai. “Tuo padre ti aveva proposto sesso e violenza – diceva Foti in una seduta registrata a un’adolescente –. Tua madre non ti ha assolutamente proposto sesso e violenza …. ma comunque ti propone anche lei un modello, cioè ehhh… magari da rivedere un attimo”. Ora risponde di lesioni per aver provocato alla ragazza, secondo altri periti, un “disturbo di personalità borderline” e un “disturbo depressivo con ansia”. Risponde anche di frode processuale, benché il Riesame l’abbia escluso in sede cautelare.
In senso tecnico, però, i principali imputati sono l’ex responsabile dei servizi sociali, Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale, Francesco Monopoli, che si fidavano solo di Foti e Bolognini. Un infinito elenco di relazioni ai giudici minorili oggetto di accuse di falso e depistaggio. Alteravano sogni, disegni, racconti e circostanze. E consegnavano i minori, per la psicoterapia, al centro “La Cura” di Foti: 135 euro a seduta. In un caso Anghinolfi ha ottenuto l’affido di una bambina a una coppia di donne che conosceva, ben retribuite con soldi pubblici. Drammatiche intercettazioni: “Vuoi fare come i tuoi genitori che hanno fatto delle scelte che hanno portato tanto male a te?”, le diceva un’affidataria. Ogni gesto dei genitori naturali, negli incontri protetti, era interpretato secondo lo schema solito: “Il padre l’ha baciata sulla bocca e riferisce che è molto diverso dal bacio che darebbe a una donna”. La piccola diceva: “È il mio papà, non c’è niente di male”.
Anghinolfi non si è mai fatta interrogare. Il suo avvocato, Oliviero Mazza, chiede di trasferire il processo altrove: “Reggio Emilia è incompatibile, la mia assistita continua a ricevere insulti e minacce di morte. Risponderemo sulle presunte irregolarità della gestione affidi, a tutte e 90 circa le ipotesi di reato. Mi pare molto semplice ex post dire che l’intervento è stato eccessivo, ma il compito dei servizi sociali è quello di attivarsi prima, sicuramente ci sono stati casi in cui a posteriori il sospetto si è rivelato infondato, ma non è compito della mia assistita accertarlo. Sulle presunte pressioni o minacce rivolte ai suoi sottoposti risponderemo nel merito, spesso si parla in libertà e si tende a esagerare”. Vedremo. Infine c’è il sindaco Andrea Carletti del Pd, che risponde con Foti e Anghinolfi dell’affidamento senza gara del servizio di psicoterapia al centro “La Cura”.
“Agli psicologi sembrava interessare solo quello: ‘Papà ti ha toccato? È per questo che stai male vero?’”, ha raccontato una ragazza ormai maggiorenne, allontanata dal padre. “Io non ho mai parlato di abusi sessuali”, dice. Ma secondo diverse relazioni dei servizi sociali ne aveva parlato eccome. Un certo disagio c’era, sono segnalati “atti di autolesionismo a scuola”. Una volta, ha raccontato lei stessa, si era tagliuzzata un braccio con le forbici, “poi – ha spiegato – mi sono pentita”. A 14 anni la ritenevano “chiusa” e “aggressiva”, sintomi tipici di un’adolescenza complicata che se finisci nelle mani sbagliate difficilmente migliora.
Sono 24 gli imputati, una giovane assistente sociale ha già patteggiato un anno e otto mesi per falso. Sono una dozzina, tra cui tre coppie di fratelli, i minori e gli ex minori coinvolti nei provvedimenti di sospensione o revoca della potestà genitoriale, a volte del solo padre. Tutti revocati prima o dopo l’inchiesta. L’ultimo nel luglio scorso.
Magari non era un “sistema” diffuso, ma in Val d’Enza funzionava così ed è stato l’eccesso di richieste di allontanamento (per l’85% respinte) a suscitare l’attenzione del procuratore Marco Mescolini e della pm Valentina Salvi. Non sono emerse collusioni dei pm e dei giudici minorili di Bologna, finiti lì per lì nella bufera. Il presidente del Tribunale dei minori, Giuseppe Spadaro, ha perso il treno che l’avrebbe portato alla Procura minorile di Roma; dovrà decidere il plenum se nominarlo a Trento come proposto all’unanimità dalla commissione, relatore Piercamillo Davigo in uno dei suoi ultimi atti a Palazzo dei Marescialli. L’inchiesta amministrativa del ministero della Giustizia non ha dato luogo a procedimenti disciplinari a carico dei magistrati minorili e lo stesso dicastero oggi si costituirà parte civile per i reati di frode processuale, falsa perizia, depistaggio.
Medici e sanitari in quarantena? Tornano al lavoro, anche nelle Rsa
Una quarantena part-time, che va rispettata soltanto nel tempo libero. Perché durante l’orario di lavoro medici e infermieri devono essere in servizio in ospedale o in Rsa come se il contatto con il soggetto positivo al SarsCov2 non ci fosse stato. È l’indicazione contenuta nella circolare data 26 ottobre inviata dalla Direzione Welfare della Regione Lombardia a tutte le Ats e le Asst. Il documento specifica che “gli operatori sanitari individuati quali contatti asintomatici di caso (positivo, ndr) (…) non sospendono l’attività e vengono sottoposti a un rigoroso monitoraggio attivo”. Quindi se sono asintomatici devono lavorare, facendo tamponi e usando la mascherina, ma restano in servizio e “sono tenuti a rispettare la quarantena nelle restanti parti della giornata”.
La Regione specifica che la misura è presa “anche in considerazione dell’attuale contesto emergenziale”: ieri la Lombardia ha registrato 7.339 nuovi positivi, nei suoi ospedali sono ricoverate 3.355 persone (+283) e nelle terapie intensive 345 (+53). Ma il provvedimento, che trova copertura legislativa nel dl 9 marzo 2020, ha sollevato diverse perplessità, a partire dal fatto che questi mesi di lotta contro il SarsCov2 hanno insegnato che anche chi non ha sintomi può diffondere il virus. “Eppure la circolare estende la misura alle Rsa – spiega Laura Olivi, della Funzione pubblica Cisl –. È inammissibile, dopo tutti i morti che ci sono stati in primavera”. “Una soluzione assurda – attacca Pietro Cusimano dell’Usb – adottata invece di assumere personale, ripristinare posti letto e far rivivere la medicina territoriale”.
“I governatori ricevono i dati in tempo reale per chiudere”
I rapporti riservati dell’Istituto superiore di sanità con gli indici Rt e altri dati fondamentali provincia per provincia vengono costantemente inviati ai governatori per avere l’esatta fotografia di come corre veloce il coronavirus SarsCov2 nella cosiddetta seconda ondata in Italia.
E gli occhi di tutti sono puntati quindi sulle Regioni, perché – se come ormai acclarato il governo Conte II non vuole ricorrere al secondo lockdown nazionale per evitare conseguenze economiche e sociali devastanti – i governatori possono stringere le maglie dei provvedimenti anti-Covid come e quando vogliono, proprio sulla base dei dati inviati dall’Iss: “Le Regioni possono fare autonomamente il lockdown locale, le zone rosse, se lo ritengono perché ricevono un report dettagliato a livello provinciale sul livello di trasmissione. Il governo deciderà eventualmente il lockdown generale come ultima possibilità. Ma c’è in piedi un sistema adesso di monitoraggio abbastanza dettagliato e strutturato proprio in accordo con i governatori”: a parlare nei corridoi dell’Iss è una fonte qualificata. E sono proprio questi i dati che hanno chiesto di poter vedere anche i sindaci di Milano e Napoli Beppe Sala e Luigi de Magistris. Niente scuse quindi per i governatori, oggi meno che mai. Hanno tutti gli elementi per poter decidere quali aree delle loro regioni serrare. Nel rapporto si tiene conto anche della pressione sugli ospedali e il numero di posti in terapia intensiva.
Una preoccupanteclassifica quella che si può estrapolare dai dati dell’Iss che, comunque, rispecchia i dati della media settimanale del rapporto fra nuovi casi di positivi e persone testate per la prima volta (aggiornata quotidianamente dal consigliere regionale del Lazio Alessandro Capriccioli). Messa peggio di tutti è la regione autonoma Valle d’Aosta al 49,26%, praticamente ogni due persone sottoposte al tampone per la prima volta uno risulta positivo al coronavirus. Segue la provincia autonoma di Trento al 38,11; la Liguria al 34,78; il Veneto al 32,3; la Lombardia al 26,59; la Campania al 26,38; la provincia autonoma di Bolzano al 23,28; l’Umbria al 22,93; il Friuli Venezia Giulia al 22,85; le Marche al 22,51; il Piemonte al 21,2; la Toscana al 20,48; media nazionale d’Italia al 20,07; l’Abruzzo al 18,45; la Sicilia al 17,19; l’Emilia-Romagna al 15,68; la Puglia al 15,42; il Molise al 10,55; la Sardegna al 10,06; il Lazio al 9,49; la Calabria al 6,68; la Basilicata al 6,44%.
Dati allarmanti se si considera che il valore limite per mantenere un buon sistema di tracciamento, secondo molti esperti, è il 3 per cento o al massimo il 5 a voler essere più generosi. E non si può certo esultare per situazioni come quelle delle regioni del Sud in fondo alla classifica perché là la pandemia potrebbe presto presentare il conto di un sistema sanitario molto fragile e poco organizzato.
E, ovviamente, fanno restare col fiato sospeso situazioni come quella della Lombardia, dove dal 2 al 26 ottobre si è registrato un +50,9% di incremento dei casi così ripartiti per provincia: Varese +103,2%; Monza Brianza +91,5; Milano +90,4; Como +58,8; Pavia +42,5; Lecco +41,7; Sondrio +37,5; Lodi +28,6; Mantova +24,7; Brescia +17,7; Cremona +16,5; Bergamo +12,6%.
“Anestesisti costretti a lavorare in Fiera”: saccheggiati i reparti
Qualche ordine di servizio è già arrivato. “E dovrà essere eseguito – dice Alessandro Vergallo, presidente nazionale dell’Associazione anestesisti-rianimatori Aaroi-Emac –. Poi possiamo contestarlo, ma intanto dobbiamo prestare comunque il servizio, anche se il livello organizzativo potrebbe, inevitabilmente, risentirne”. In Lombardia scatta l’agitazione dei medici anestesisti, dopo l’incontro con la Regione di mercoledì sulle risorse da destinare agli ospedali allestiti nelle Fiere di Milano e Bergamo. A far partire la protesta è stato il dietrofront dei vertici del Pirellone, pronti a precettare gli specialisti. “Quando fino a ieri (mercoledì, ndr) si era sempre parlato di adesione volontaria”, spiega Cristina Mascheroni, presidente regionale dell’associazione. “Inoltre noi – prosegue Mascheroni -, avevamo chiesto determinate rassicurazioni: periodi di servizio in fiera non superiori ai 15 giorni, dopo i quali il ritorno agli ospedali di provenienza. Turni di massimo 8 ore. Premi. Tutte richieste che in un primo momento la Regione aveva accettato. Poi la sorpresa. No su tutto. E, di fronte alla mia perplessità sul fatto che così avrebbero avuto molte difficoltà a trovare medici volontari, mi hanno risposto che in quel caso avrebbero fatto ricorso alla precettazione”.
Sullo sfondo un piano, mai approvato dagli anestesisti, che a Milano prevede lo spostamento in fiera degli specialisti in servizio negli hub ospedalieri – come Niguarda e Policlinico – da sostituire con i colleghi degli ospedali periferici, i cosiddetti “spike”. “Avevamo chiesto anche un alloggio, per evitare il rischio di contagiare i nostri famigliari – dice Vergallo – e ci hanno detto che non se ne parlava più. Non ci sembra il caso di essere bastonati dopo esserlo già stati duramente durante la prima ondata pandemica. Comprendiamo il nervosismo, la situazione è difficile. Ma è il momento di essere freddi”. Il motivo della retromarcia? Secondo i medici probabilmente la Regione vuole convogliare nelle due Fiere tutti i pazienti Covid che necessitano di terapia intensiva, per salvaguardare quanto è possibile le attività ordinarie negli ospedali. Mascheroni, che parla al Fatto nel mezzo di un turno al 118, non maschera la delusione: “Dopo tutti gli sforzi che avevamo profuso in ci saremmo aspettati un trattamento differente”. E se le si chiede un parere sulla scelta di aver costruito la struttura al Portello, che tante difficoltà sta creando nel reperire personale, risponde: “Sicuramente le due strutture temporanee di Fiera Milano e Bergamo, ci possono aiutare in questa seconda ondata, meglio lì che tenere i pazienti intubati nei corridoi: questo ci sta. Quello che invece ci lascia perplessi è che ci siamo ritrovati a discutere su come reperire il personale per farle funzionare oggi, in piena emergenza. Sarebbe stato sicuramente meglio parlarne a giugno, con calma, in base a una pianificazione che non c’è mai stata”.
Se le si domanda, invece, quanti anestesisti oggi abbiano volontariamente accettato di lavorare in fiera, risponde ironica: “Se vuole le dico quanti hanno risposto non spontaneamente: tutti quelli che oggi sono alla Fiera di Milano”.
Fiera dove i pazienti attualmente ricoverati sono solo 14, affidati all’equipe del Policlinico. Ulteriori 16 posti sono stati attivati ieri dall’ospedale Niguarda. La piena operatività però stenta ad arrivare per una causa chiara, come denunciato dal consigliere regionale M5S Massimo De Rosa: per gestire il prossimo slot, che secondo i piani dovrà diventare operativo entro i prossimi giorni (16 posti letto, più ulteriori 7), servono 23 medici e 69 infermieri. Secondo l’ultimo ordine di servizio emanato ieri dal Pirellone, i sanitari saranno dirottati da sei ospedali lombardi: Policlinico di Milano, Policlinico di Monza, San Giuseppe, Asst Pini, Asst Santi Paolo e Carlo, Asst di Lodi. Un mix che fa comprendere come, per allestire tutti i 102 posti letto preventivati, si dovrà saccheggiare l’intera struttura sanitaria lombarda.
“Ospedali, Regioni in ritardo” 27mila contagi, indice stabile
Male. Ma non malissimo. Nel giorno dell’ennesimo picco di contagi giornalieri (26.831 nuovi casi Covid in 24 ore e 217 morti), il Commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri si incarica di fare il pragmatico: “Stiamo vivendo un dramma – ha detto – ma è necessario capire quanto sia diverso dalla prima ondata”. I contagi raddoppiano di settimana in settimana, è vero, i ricoverati con sintomi sono già oltre il livello di guardia e i morti giornalieri sono di nuovo nell’ordine delle centinaia, ma rispetto al 21 marzo si fanno oltre 200 mila tamponi (“presto tra antigenici e molecolari contiamo di arrivare a 300 mila”) contro 26 mila, le terapie intensive, al momento, non preoccupano: “A marzo – dichiara il Commissario – il 7% dei malati era ricoverato in terapia intensiva, oggi lo 0,6%, un altro mondo. Oggi, a fronte di 1.641 ricoverati gravi, abbiamo oltre 7mila posti attivati e altri ventilatori a disposizione – 1.445 già consegnati e 1.849 in mio possesso e non ancora richiesti – per arrivare a 10.337 posti”.
Infine, il rapporto tra nuovi positivi e tamponi effettuati, da qualche giorno, è moderatamente positivo, nel senso che – a differenza di tutti gli altri indici – è sostanzialmente stabile: 13,1% il 25 ottobre, 13,6 il 26, 12,6 il 27, 12,5 il 28, 13,3 ieri.
Fin qui il commissario “pompiere”. Poi entra in scena l’incendiario. Ed è un attacco frontale alle Regioni sui piani sanitari: “In queste settimane – dichiara Arcuri – si è detto più volte che il piano di rafforzamento degli ospedali Covid sarebbe in ritardo perché il commissario, avendo ricevuto i piani di rafforzamento regionali il 28 luglio e avendo prodotto gli atti propedeutici alla loro attivazione il primo ottobre, avrebbe perso tempo, motivo per cui le Regioni non avrebbero potuto attrezzarsi per fronteggiare la seconda ondata”. A quel punto Arcuri esibisce l’articolo 2 del decreto Rilancio del 19 maggio, in cui si legge che “qualora la regione abbia già provveduto in tutto o in parte alla realizzazione delle opere nteriormente al presente decreto-legge il Commissario è autorizzato a finanziarle”. Conclusione, le Regioni avrebbero potuto attivarsi fin da maggio ma non l’hanno fatto. Non solo, i piani presentati, per usare un eufemismo, non sono granché: “Per carità di patria per ora evito di dire di cosa si componevano. Mediamente il tempo di attuazione dei progetti presentati dalle regioni era di due anni e tre mesi. Se anche il Commissario, che ha perso tempo, si fosse attivato immediatamente, i risultati si sarebbero visti a dicembre 2022. Non solo, i piani prevedono la dotazione complessiva di 10.792 posti letto in terapia intensiva, intendendo in questo numero anche la trasformazione del 50% dei posti letto di terapia subintensiva, noi siamo già in condizioni di distribuire 10.337 posti in terapia intensiva, il 95% di quelli che avremmo realizzato in due anni e mezzo attuando i piani regionali”.