Cosa dicono i numeri

Da una parte ci sono i politicanti: Salvini, che contesta il coprifuochino lombardo alle 23 e poi apre al lockdown totale; l’altro Matteo, che vuole riaprire tutto, poi preferisce chiudere tutto e infine virologheggia sull’inutilità delle misure del governo di cui fa parte a sua insaputa, senza accorgersi che sono simili a quelle di Merkel, Macron, Sánchez &C. né ovviamente precisare quali sarebbero le sue; il capogruppo renziano Pd Marcucci che, dopo la supercazzola del “comitato di salute pubblica” con scappellamento a destra, chiede a Conte se i suoi ministri siano tutti “all’altezza”, riuscendo solo a mostrare la sua bassezza ai limiti del nanismo. Dall’altra parte ci sono i cittadini depressi e disorientati che ti fermano per strada e ti domandano: “Ma è vero che il governo ha già deciso di richiuderci in casa?”. L’unica risposta sincera è: nessuno ha deciso nulla, dipende dai numeri dei prossimi 10 giorni, cioè dagli eventuali effetti dei Dpcm del 13, 18 e 25 ottobre. Non dal dato che fa titolo e clamore: i nuovi positivi (che raddoppiano ogni settimana, ma aumentano col crescere dei tamponi e sono all’80% asintomatici). Ma da altre tre curve: il tasso di positività (rapporto tamponi-positivi), i nuovi ricoveri in ospedali e terapie intensive. Che per ora non registrano l’aumento esponenziale vaticinato dagli apocalittici.
Da cinque giorni il rapporto positivi-tamponi pare stabilizzato sul 12,5-13,5% (domenica 13,1, lunedì 13,6, martedì 12,6, mercoledì 12,5). Naturalmente potrebbe sempre schizzare all’insù. Ma in tre settimane non s’erano mai registrati tanti giorni di stabilità, mentre dal 12 al 25 ottobre l’indice era salito dal 5 al 13. È presto per dirlo, ma la frenata potrebbe essere frutto dell’effetto-paura misto a quello delle mini-strette di 17 e 12 giorni fa. Se così fosse, sarebbe incoraggiante, perché un’altra frenata potrebbe arrivare tra 7-10 giorni dalle ultime misure. E scongiurare il lockdown. Tantopiù che neppure la crescita dei ricoveri è esponenziale: un migliaio di pazienti in più al giorno nei reparti Covid e oltre un centinaio in terapia intensiva, anch’essi costanti negli ultimi quattro giorni. La saturazione delle terapie intensive è lontana: 1.651 pazienti su 8.400 posti letto (più altri 2-3mila se le Regioni riusciranno a usare i 3.249 ventilatori acquistati da Arcuri e non ancora usati). Invece quella dei reparti ordinari è più vicina, visto che entrano molti più pazienti di quanti ne escano e molti ospedali delle regioni più colpite sono allo stremo. Perciò, per evitare il lockdown, occorrono subito zone rosse nelle aree più infette (Milano e Napoli, ma non solo). Sempreché i politicanti, nei ritagli di tempo tra un assalto e un agguato al loro governo, si ricordino del virus.

Sbatti il mostro in mostra: Bologna si riscopre “noir”

La cronaca nera nasce con lo scrittore inglese Henry Fielding, che nel XVIII secolo, per convincere la Camera dei Lords dell’importanza dei poliziotti di quartiere, iniziò a stilare resoconti dei processi giudiziari e delle indagini: racconti semplici, freddi, distaccati.

In italia, superato il fascismo e il suo ambiguo rapporto con la nera, dal dopoguerra in poi il modo di raccontare gli omicidi cambia: nascono i giornali popolari e l’aula giudiziaria si trasforma in un palcoscenico su cui primeggiano i protagonisti, accusati e avvocati. Per il pubblico andare in tribunale è come andare a teatro, ci si mette il vestito buono e la collana di perle. Tutti novelli Hercule Poirot pronti a guardare in faccia l’assassino con le mani sporche di sangue. La stessa sensazione che si prova girando per la mostra, organizzata da Genus Bononiae, Criminis Imago, le immagini della criminalità a Bologna, nell’oratorio di Santa Maria della Vita, in corso fino al 10 gennaio.

Attraverso 100 fotografie in bianco e nero, a cui si aggiungono immagini tratte dagli archivi della polizia scientifica, il percorso espositivo racconta mezzo secolo di crimini e processi in Emilia-Romagna attraverso lo sguardo dei fotografi bolognesi Walter Breveglieri (dal 1949 al 1972) e Paolo Ferrari (per il periodo 1972-2000).

Un lavoro di documentazione puntuale, da reporter, che si sposta dai luoghi del delitto alle aule dei tribunali. C’è lo sguardo tronfio di Fabio Savi, uno dei sanguinari componenti della banda della Uno Bianca, durante una delle fasi del processo a Bologna nel 1994 e quello nascosto di Rina Fort, 31enne accusata dell’assassinio della moglie e dei tre figli del suo amante, processo che giunse in Corte di Cassazione a Bologna nel 1952. Un delitto che scosse profondamente l’Italia e su cui scrisse anche Dino Buzzati. “E voi parlatene pure, se vi interessa tanto, leggete i resoconti, contemplate le fotografie, andate pure, se non potete farne a meno, alla Corte d’Assise, discutetene alla sera. Però vi resti fitto nel cuore il ricordo di quei tre bimbi selvaggiamente uccisi, di quei tre faccini rimasti là, immobili per sempre, con l’espressione stupefatta, di quel seggiolone da lattante da cui colò il tenero sangue. Le anime dei tre innocenti sovrastano, con pallida e dolorosa luce, la folla riunita al tribunale e può darsi che vi guardino”.

È questo forse il senso della cronaca nera, un viaggio nelle pagine più buie della storia umana. Come la strage del 2 agosto 1980. Tra le fotografie spicca quella dei soccorritori. Al centro c’è un prete, Don Paolo Annoni che di quel giorno ha sempre avuto un vivido ricordo: “C’era un giovane, morto, con la testa aperta, spaccata. Gli ho dato la benedizione. Poi, con i primi volontari, ho cominciato a scavare. Con le mani, sì. Quando sono arrivati i soldati, mi hanno dato dei guanti”.

I fotografi Breveglieri e Ferrari – che anni dopo scherzosamente dirà “pensavo di lavorare per la cronaca e invece lavoravo per la storia” – riescono a illuminare delitti turpi e tragici anche grazie ai simboli. Come la siringa e il flacone di Sincurarina fotografati sul comodino della camera da letto in cui nel 1963 viene ritrovata morta Ombretta Galeffi, moglie del medico Carlo Nigrisoli. “Sono innocente”, disse lui. “Ergastolo” decisero i giudici. Fatale, ricostruirono le indagini, fu per Nigrisoli l’incontro con Iris Azzali, la “Kim Novak di Casalecchio di Reno”, 21 anni, durante una visita medica.

Storie oggi dimenticate dai più, come quella della Banda Casaroli. Un terzetto di bolognesi, ribattezzati dalla stampa degli anni Cinquanta “gangster di celluloide”, che si ispirava ai criminali americani: automobili veloci e fuoco a volontà. “Se veniva testa, continuavamo a cercare un impiego, invece era croce… e allora avanti con le banche”, racconterà Paolo Casaroli in un’intervista a Enzo Biagi. Al polso un braccialetto d’oro con inciso “Mamma, fu destino”.

Fabri Fibra, Gemitaiz, MadMan, Sick Luke e Guè Pequeno: il rap italiano canta con Izi

Se cercate su Wikipedia il rapper Izi troverete “fuggito di casa a diciassette anni iniziando a vivere un periodo di vagabondaggio”. “Dovrei rileggermelo” risponde Diego Germini, vero nome di Izi, “magari c’è qualche cazzata ma di esperienze ne ho fatte tante; ho dormito sui tetti e per la strada, ho rubato banane quando avevo bisogno di mangiare per il diabete”. Nato a Cuneo ma cresciuto a Cogoleto (Genova) Diego è un outsider del variegato mondo rap contemporaneo: i suoi testi taglienti sono introspettivi, nascono da uno sfogo, come spiega lui stesso: “Parte tutto così, uno sfogo. In una società frivola a cui interessa solo l’aspetto io cerco qualcosa all’interno di me, per capire chi sono veramente. Abbiamo tanti problemi irrisolti che dobbiamo affrontare. Con la scrittura e le canzoni butti fuori tutto e riesci a vedere i mostri che ti sei autocreato”. Tutto torna, Distrutto, Pianto, 4GETU sono stati i suoi cavalli di battaglia, liriche sincronizzate col desiderio di fare chiarezza interiore. Venerdì esce Riot, quarto album ricco di feauturing del calibro di Fabri Fibra, Gemitaiz, Madman, Guè Pequeno, Sick Luke e molti altri. Nasce dopo le collaborazioni con Ghali, Sfera Ebbasta, Salmo, Tha Supreme, Charle Charles, Tedua e un film sulla vita di un rapper (Zeta del regista Cosimo Alemà). Riot inteso come rivolta, ma non invito alla violenza: “Faccio mie le parole di Martin Luther King ‘la rivolta al linguaggio di chi non viene ascoltato’. Vedo le manifestazioni di questi giorni a Milano e in altre città e condanno la violenza, l’abuso di potere. Nei cortei pacifici vanno isolati i violenti, bisogna stare interconnessi e comunicare di più”. Nel brano di punta del disco, Pusher, il messaggio è duplice: “Ho girato il video dove son cresciuto a Cogoleto, nei luoghi dove sono successe vicissitudini che mi han fatto passare da delinquente, ma chi mi conosce sa che sono un ragazzo tranquillo. Dico che siamo trattati da pusher ma in realtà siamo reporter, spacciatori di verità. Io al massimo mi sono fumato due cannette”. Nel brano Izi invita il suo pubblico “a non scappare, a imparare a confrontarsi con la realtà, pretendendo rispetto, chiarezza e trasparenza”. Significativo il refrain del brano, quasi un claim: “Siamo nati spacciati, non spacciatori”. Izi è un personaggio o è tutt’uno con la persona Diego? “Izi e Diego sono connessi, forse anche troppo, dovrei staccare”. Salta in mente una foto postata ieri da Sfera Ebbasta, nella quale l’artista si posa sopra una lapide con l’epitaffio di Gionata Boschetti, suo vero nome: “Bellissima, anche io mi sento così”.

La valigia dell’attore Genet

“J’ai parlé de la violence” (Ho raccontato la violenza). Basterebbe questa nota manoscritta sul margine di un foglio di giornale dallo scrittore francese Jean Genet (1910-1986) per riassumere tutta la sua esistenza, sempre in malfermo bilico tra poesia e malvagia.

Per Sartre, era un bambino scacciato dalla propria infanzia; per Edmund White, un trasformista dalle diverse vite; per Georges Batailles, aveva un “orgoglio luciferino”. Tutti e tre lo conobbero dal vero e lo fotografano per ciò che fu. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge di Jean: da un lato è il figlio illegittimo di una serva; poi, l’omosessuale vizioso cui piacevano i rapporti occasionali con i giovani proletari prestanti (sull’immaginario dei marinai nei porti è costruito il perturbante Querelle de Brest); è ancora il ladro sfrontato che viene arrestato e dalla sua cella scrive la maggior parte delle sue opere. Dal 1925 al ’48 accumulò soggiorni tra riformatorio, manicomio e carcere. A tal proposito, Cocteau (che fu suo amico) racconta che, a processo per furto, di fronte al giudice che gli chiese “Cosa direbbe, se rubassero i suoi libri?”, il nostro rispose: “Sarei fiero”. Ma fu molto altro. Nella sua vita, come nei romanzi – un impasto infuocato d’immaginazione e autobiografia – il crimine è idealizzato, anzi di più, erotizzato, quasi fosse un rito religioso come ne Il Miracolo della Rosa.

Ma è soprattutto l’ultimo Genet che sfugge: a partire dal 1968 (ha 50 anni, è innamorato di un acrobata marocchino, Abdallah Bentaga, di felina bellezza) viaggia per il mondo, scopre che la sua rivolta interiore si annoda alla politica. Su un aspetto concordano tutti: se ne andava in giro (Africa, Asia minore, Usa) sempre con due valigie e una cartella nera. Dentro, diceva “c’è tutta la mia vita”. Così, vivendo con i diritti delle rappresentazioni teatrali delle sue pièce, ricerca “lo spirito di maggio”, la rivoluzione: abbraccia la contestazione delle Black Panters negli Stati Uniti – anche perché aveva un’ossessione per gli uomini di colore e ben dotati – e la lotta dei Palestinesi dell’Olp (fu il primo occidentale a Chatila). Per lui, la difesa dei neri o dei palestinesi giustifica posizioni come “la guerra, l’appello all’omicidio e perfino l’odio del nemico”.

Il contenuto di quelle valigie non è mai stato svelato, ma domani la mostra Le valigie di Genet all’Imec ne esporrà i segreti: quattordici anni di scrittura, tra camicie, sciarpe, un giubbotto blu e un solo libro feticcio, le Illuminazioni di Rimbaud, che leggeva e rileggeva. Una frase è sottolineata con veemenza: “Può esserci solo la fine del mondo, andando avanti”. Genet non aveva smesso di scrivere, dunque, ma solo di pubblicare. Due saggi sul jazz, un racconto sulla sua infanzia, testi incompleti, alcuni disegni di Jacky Maglia, il vagabondo che Genet aveva aureolato a compagno di vita, lo stesso che lo rinvenne il 15 aprile 1986 steso sul pavimento del bagno del Jack’s Hotel di Parigi esanime. In una di queste matite, Genet è steso sul letto e appare visibilmente malato, il cancro alla gola gli aveva leggermente imbolsito l’espressione . In un altro, firmato dall’amico Alberto Giacometti, siede sopra la scrivania del comune avvocato Roland Dumas, cui Genet consegna le valigie prima di morire, dicendogli “Fanne quello che vuoi”. Ma soprattutto, molte sceneggiature. Sul frontespizio di una, si legge “pour David”. Si tratta di David Bowie. Il cantante, infatti, affascinato dal primo romanzo di Genet Notre-Dame dei fiori gli aveva chiesto la riduzione cinematografica perché voleva interpretare il protagonista, Divina, un travestito. I due si incontrarono a Londra, in un ristorante. Genet entra e nota una bella donna sola al tavolo e le lancia: “Mr Bowie, I presume”. Il cantante si era preparato per quel ruolo, poi però il progetto fallì per mancanza di fondi. Infine, il manoscritto del suo ultimo libro uscito postumo, Un captif amoureux.

Ma c’è un reperto che ci consente di penetrare davvero il laboratorio dell’irregolare scrittore nomade: migliaia di note autografe, appunti che lo scrittore prendeva sui fogli più improbabili. Ritagli di giornali, cartine dello zucchero, fatture d’hotel. Sopra, vi appunta la vita. Leggiamone una: “Il gioco dell’opera d’arte è che non bisogna aspettarsi che un artista metta il suo gioco a disposizione di qualcosa che non sia l’arte stessa”.

Divieto di licenziare. Governo e sindacati ancora distanti

Il dialogo sì, quello c’è, spazio per venirsi incontro invece pare proprio di no: si parla di blocco dei licenziamenti e dell’incontro avvenuto ieri tra sindacati confederali e governo. Le posizioni non si sono mosse granché: l’esecutivo con l’ultimo decreto ha già prorogato, insieme alla cassa integrazione “Covid”, anche il divieto di cacciare i lavoratori fino al 31 gennaio, ma oltre quella data non sembra intenzionato ad andare. Cgil, Cisl e Uil, com’è noto, non l’hanno presa bene (a differenza di Confindustria, che fa solo finta di non gradire) e minacciano addirittura uno sciopero generale: opzione estrema, ma d’altra parte la fine del blocco dei licenziamenti sarà un’ecatombe, specie nelle piccole e medie imprese.

In mancanza di un reale spazio di trattativa, ieri i capi dei tre sindacati più grandi hanno ribadito a Giuseppe Conte – e ai ministri presenti (in video) Gualtieri, Catalfo e Patuanelli – la loro posizione: servono almeno 18 settimane di cassa integrazione con il “contestuale” blocco dei licenziamenti per arrivare a dare una copertura ai lavoratori “fino alla fine dell’inverno” – ha detto Maurizio Landini della Cgil –. “Serve dare un messaggio positivo” di fronte al “rischio di emergenza sociale”. In sostanza, la posizione dei confederali è che il divieto debba arrivare almeno fino a fine marzo. Anche Annamaria Furlan della Cisl ritiene che “in un momento complicato come questo non trovare un’intesa sul blocco dei licenziamenti sarebbe nefasto per il destino del Paese. Diventerebbe socialmente ingestibile, soprattutto per quello che può accadere nelle piccole imprese. Non abbiamo ancora riformato gli ammortizzatori sociali e non abbiamo ancora quelle politiche attive che accompagnino il lavoratore da una occupazione a un’altra. Per fare tutto questo ci vuole il tempo necessario”.

Alle imprese, ovviamente, non piace nemmeno la mini-proroga al 31 gennaio: passi, ha detto ieri il presidente di Confindustria Carlo Bonomi a Sky, per chi usa la cassa Covid, “però le imprese che non stanno facendo ricorso alla Cig o che potrebbero fare ricorso a quella ordinaria, pagata da loro, per quelle non è giusto che si metta un blocco ai licenziamenti”. L’unico punto di incontro tra le parti sociali è sulla necessità di usare i prestiti del Mes. Bizzarro.

Niente salario minimo europeo. Bruxelles consiglia solo di farlo

La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, l’aveva promesso il 16 settembre nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione: Bruxelles ha presentato la sua proposta di direttiva per istituire un quadro di salari minimi nella Ue. Ma la bozza, che dovrà essere approvata da Parlamento e Consiglio europei, secondo molti è una misura debole che non obbliga gli Stati membri a introdurre una base minima legale e non fa a sufficienza né abbastanza in fretta per proteggere i lavoratori poveri dalle conseguenze della pandemia.

La misura punta a rafforzare la contrattazione collettiva in quei Paesi dove non copre il 70% dei lavoratori. Questi Stati dovranno prevedere un quadro normativo e un piano d’azione per aumentare i contratti di categoria. Lo strumento, che prevede un nuovo sistema di monitoraggio della protezione stabilita in ogni Paese, tutela però l’autonomia delle parti sociali e la libertà contrattuale. Una volta adottata, gli Stati avranno due anni per recepire la direttiva. La Commissione effettuerà una valutazione dopo cinque anni. Nicolas Schmit, commissario Ue al lavoro, ha detto che i criteri indicati “dovrebbero essere sempre controllati” dalle autorità nazionali “per adeguare” i salari minimi praticati “e per garantire che i livelli” in vigore “non siano troppo bassi, perché i salari minimi in certi Stati rendono la vita impossibile”: il 70% di chi percepisce un salario minimo resta in difficoltà economiche.

La proposta piace a Brando Benifei, capodelegazione Pd all’Europarlamento, secondo il quale la Ue “fa un ulteriore passo avanti verso l’implementazione dei diritti sociali”. Ma i critici sono molti. Mounir Satouri dei Verdi la ritiene “non all’altezza della proclamata ambizione di combattere povertà e disuguaglianza. I lavoratori potranno ancora lavorare legalmente per 2 euro l’ora”. Secondo Daniela Rondinelli, europarlamentare 5 Stelle, “è positiva la scelta di una direttiva vincolante per gli Stati, ma restano maglie troppo larghe nella protezione dei salari e nella discrezionalità dei Governi. La convergenza dei salari rischia di restare sulla carta”. “Temiamo che impieghi troppo tempo per essere recepita e non basti per aumentare i salari”, ha detto Esther Lynch, vicesegretaria generale di Etuc, la Confederazione dei sindacati Ue.

Nel 2016 il 7,2% dei lavoratori Ue percepiva il salario minimo. Secondo Eurofound, quest’anno i salari minimi sono aumentati in tutti gli Stati che li applicano: dal +17% annuo in Polonia (a 611 euro mensili) al +1,2% in Francia a 1.539 euro. Il Lussemburgo ha il valore più alto della Ue (2.142 euro), la Bulgaria (312 euro) il più basso. Ieri il Governo tedesco ha deciso che entro il 2022 crescerà del 12% a 10,45 euro l’ora.

L’Italia, nonostante già prima della pandemia contasse 5 milioni di lavoratori sotto la soglia di povertà, è tra i sei Paesi Ue senza norme in materia, insieme ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. A settembre il governo Conte ha annunciato un piano per il salario minimo legale. Ad aprile 2019 il M5S presentò un disegno di legge, prima firmataria l’attuale ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, per introdurre una paga di 9 euro l’ora per i lavoratori con retribuzione minima inferiore al 50% del salario mediano, sollevando però obiezioni di Cgil Cisl e Uil che puntano invece sui contratti collettivi decisi “tra imprese e sindacati”.

Atlantia vuole più soldi, ma non chiude a Cdp

Come prevedibile, la telenovela Autostrade per l’Italia (Aspi) continua. Atlantia, la holding controllata dai Benetton che controlla a sua volta la concessionaria, ha respinto ieri la nuova offerta avanzata dalla Cassa depositi e prestiti in cordata con i due fondi esteri Balckstone e Macquarie perché troppo bassa. Allo stesso tempo, però, ha dovuto rinviare il suo progetto di procedere da sola e vendere Aspi al miglior offerente o quotandola sul mercato.

L’ultimatum di Atlantia al governo era chiaro: senza accordo, venerdì l’assemblea dei soci avrebbe dovuto votare sul piano. Ieri però il cda ha deciso che non ci sono le condizioni e ha riconvocato una nuova assemblea per il 15 gennaio prossimo.

È ormai un gioco delle parti. A causare il rinvio, ha spiegato una nota del Cda, è lo stallo sul nuovo Piano economico finanziario (tariffe, pedaggi etc.) presentato da Autostrade che però, dopo l’avallo del ministero delle Infrastrutture, è stato bocciato in più punti dall’Autorità dei Trasporti (Arti) perché troppo generoso per la concessionaria. Il Mit è stato quindi costretto a chiedere ad Autostrade di correggerlo alla luce dei rilievi dell’Art. Senza il Pef, dice il Consiglio di amministrazione di Atlantia, non si può procedere alla vendita.

Procedere in autonomia, in realtà, avrebbe comportato la rottura degli accordi col governo di luglio scorso, che prevedono l’uscita di Atlantia (e quindi dei Benetton) da Autostrade e la cessione del controllo a Cdp. Dopo uno stallo durato mesi e una serie di ultimatum, l’ultima offerta della Cassa e dei fondi era stata rispedita al mittente perché troppo bassa e con pochi impegni. Martedì Cdp e soci hanno inviato una nuova offerta, chiedendo 10 settimane per analizzare i conti, ma senza rialzare il prezzo di Autostrade, valutata tra gli 8,5 e i 9,5 miliardi, al lordo dei contenziosi legali. Ieri il cda di Atlantia ha spiegato che “le condizioni economiche sono ancora non conformi e non idonee ad assicurare una adeguata valorizzazione di mercato della partecipazione”. I fondi azionisti della holding vogliono molti più soldi. Il più bellicoso, l’inglese Tci, nelle scorse settimane è salito oltre il 10% del capitale di Atlantia ed è pronto a dare battaglia. Ieri ha spiegato che l’88% di Aspi in mano alla holding vale 11-12 miliardi, quindi valuta l’intera circa 13 miliardi. “Chiediamo una procedura trasparente, una gara di offerte in un’asta con la quale si possa trovare un prezzo”, si legge in una nota che definisce l’eventuale revoca della concessione “una procedura illegale” e si appella alla Commissione europea affinché intervenga.

Atlantia ieri però non ha chiuso la porta e ha dato a Cdp e compagnia tempo fino al 30 novembre per presentare “una nuova offerta vincolante e satisfattiva”. Problema: Cdp non può farlo, ma soprattutto i due fondi Blackstone e Macquarie ritengono che Aspi valga molto meno della forchetta ipotizzata. Tutto dipenderà dalla Cassa depositi e quindi dal governo. Senza strappi, la telenovela Autostrade andrà avanti ancora a lungo e con essa lo scontro aperto dopo il crollo del ponte Morandi di Genova. L’unica certezza è che a rimetterci davvero saranno gli automobilisti.

Da Garibaldi a Gelli, la rete di Bettino

Bettino Craxi andava pazzo per Garibaldi. Collezionava cimeli garibaldini e aveva un autentico culto per l’“Eroe dei due mondi”, il Che Guevara italiano che aveva combattuto in America latina e in Italia, che aveva tentato di strappare Roma al papa e aveva sgominato, con le sue mille “camicie rosse”, l’esercito regolare dei Borboni, per poi consegnare il Regno delle Due Sicilie – anche se a malincuore – al piemontese re Savoia, l’unico in quel momento in grado di unificare l’Italia.

Giuseppe Garibaldi era massone. Una massoneria risorgimentale, repubblicana, anticlericale e antipapalina. Rivoluzionaria. Segreta, come la Carboneria mazziniana, per difendersi dalle polizie segrete dei re e dei tiranni. Negli anni Ottanta, Craxi incontrerà sulla sua strada un’altra massoneria, quella della P2 di Licio Gelli. È Gelli che lo aiuta a risolvere la crisi finanziaria del partito, nel 1980, con i 7 milioni di dollari del conto Protezione che arrivano dal Banco ambrosiano di Roberto Calvi, il “ringraziamento” al Psi per i 50 milioni di dollari ricevuti da Calvi in prestito da Eni, che ha come vicepresidente Leonardo Di Donna e come direttore finanziario Florio Fiorini. Entrambi sono socialisti, ed entrambi iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Come pure il capo dell’Ambrosiano, Calvi, che con i soldi di Eni cerca di salvarsi dal dissesto in cui versa il suo istituto e invece si mette sempre più nelle mani del Venerabile e dei suoi soci in affari, fino a finire in bancarotta e poi, come sappiamo, appeso sotto un ponte a Londra. (…) Nel 1980, i soldi di Calvi ottenuti grazie all’intervento di Gelli sono i benvenuti. Un toccasana per il Psi oberato dai debiti, un aiuto necessario per mantenerlo nelle mani di Craxi, sconfiggendo la corrente di Signorile. (…) Ma segnano la strada, stringono rapporti, prefigurano alleanze, imprigionano in patti che non si possono più sciogliere. (…) Dopo la pubblicazione delle liste P2, scoppia lo scandalo e il sistema di Gelli è, per qualche mese, allo sbando. Il governo di Arnaldo Forlani si dimette, nasce un dicastero guidato per la prima volta da un laico, il repubblicano Giovanni Spadolini, che vieta le associazioni segrete, scioglie la P2 e istituisce la commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia di Gelli, presieduta da Tina Anselmi. Ma bastano pochi mesi: i poteri che avevano nella P2 il loro punto d’incontro iniziano a reagire e a riorganizzarsi. Primo obiettivo: abbattere il governo Spadolini.

Il caso che scatena la crisi – come succede spesso nella storia italiana recente – ha a che fare con Eni. Craxi e De Michelis, allora ministro delle Partecipazioni statali nel governo Spadolini, chiedono le dimissioni del presidente della compagnia petrolifera, il democristiano Alberto Grandi, e vogliono al suo posto Leonardo Di Donna, colui che da vicepresidente aveva fatto finanziare il pericolante Banco ambrosiano di Calvi, con conseguente “provvigione” di 7 milioni al Psi, sul conto Protezione. Ma ormai è noto che Di Donna è uomo P2, tessera numero 2086. Spadolini rifiuta di avallare la nomina. (…) Craxi e De Michelis non mollano. Vogliono Di Donna al vertice di Eni. L’11 novembre 1982 il governo Spadolini cade. Gli subentra un governo guidato da Amintore Fanfani, con De Michelis sempre alle Partecipazioni statali. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, prova a opporsi: “Mai cariche pubbliche a chi è implicato nella P2”. Ma i debiti da saldare sono evidentemente troppo forti. Di Donna è nominato presidente di Eni. Tina Anselmi il 1° dicembre 1982 scrive nei suoi diari: “Vedo Spadolini a Palazzo Chigi. […] Mi dice che la caduta del suo governo si può datare al 30 ottobre quando lui si è rifiutato di nominare subito Di Donna. Pertini pensa che ci sia stato un pactum sceleris fra Fanfani e Craxi”. (…) Ma Craxi ha vinto: Spadolini è fuori, Di Donna è dentro. Fanfani regge il governo fino all’estate del 1983. Poi, il 4 agosto, Bettino Craxi prende il suo posto ed entra a Palazzo Chigi. Con lui tornano al governo Giulio Andreotti, come ministro degli Esteri, e Arnaldo Forlani, come vicepresidente. E arriva, come ministro del Bilancio e della Programmazione economica, il leader del Partito socialdemocratico Pietro Longo (tessera P2 numero 2223). Presidente dell’importante commissione Affari costituzionali della Camera diventa il socialista Silvano Labriola (tessera P2 numero 2066). È la rivincita dei poteri che stavano dietro e dentro la P2, tagliati i rami secchi e mollato Gelli – per ora – al suo destino.

Craxi conosceva Gelli? Aveva rapporti con lui? Alla commissione Anselmi, Craxi riferisce di aver avuto un solo incontro con il Venerabile. Ma la storia politica di Craxi è piena di riverberi gelliani, di sostegni forse non richiesti, ma reali. Il nome di Craxi compare già nel Piano di rinascita democratica, il programma politico della P2, accanto a quelli di Andreotti e Forlani, indicati come i politici a cui affidare “gli strumenti finanziari sufficienti – con i dovuti controlli – a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti”. Alcuni dei tanti (secondo il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Lino Salvini) socialisti che sono anche massoni sono iscritti a quella loggia speciale e segreta che è la P2: sono otto parlamentari del Psi (Beniamino Finocchiaro, Francesco Fossa, Silvano Labriola, Enrico Manca, Luigi Mariotti, Amleto Monsellato, Ermido Santi, Michele Zuccalà). Il nono, Fabrizio Cicchitto, si affilia nel dicembre del 1980. Quando viene a saperlo, Riccardo Lombardi, il vecchio leader della corrente di sinistra del Partito socialista a cui Cicchitto apparteneva, lo schiaffeggia in pubblico.

L’ufficiale di collegamento tra Gelli e Craxi è Vanni Nisticò, capo ufficio stampa del Psi e iscritto alla P2. Organizza almeno due colloqui tra Craxi e Gelli. Il primo – quello ammesso da Bettino – avviene nell’autunno del 1979 all’Hotel Raphaël. Obiettivo del Venerabile: “Appianare il dissidio” tra Craxi e Andreotti. “Gelli – racconta Nisticò – mi disse che durante il colloquio, Craxi gli aveva detto che sarebbe stato un peccato che, per effetto della vicenda Petromin, quel petrolio andasse sprecato. Gelli mi fece capire che si sarebbe potuto concludere anche un affare per non sprecare il greggio di provenienza araba, che ormai non poteva più essere acquistato da Eni”. Non sappiamo se poi il petrolio saudita – bloccato dopo lo scandalo Eni-Petromin – sia diventato un affare per Craxi.

Il secondo incontro avviene nella primavera del 1980 nell’abitazione romana di Claudio Martelli. È lì che nasce la vicenda dei 7 milioni al Psi del conto Protezione.

 

Una modesta proposta

La settimana scorsa, presi com’eravamo nello scoprire cosa ci avrebbe combinato il governo col favore delle tenebre, abbiamo sottovalutato il ritorno in auge della cosiddetta “autonomia differenziata”, cioè il tentativo di alcune Regioni di sostituire il loro centralismo piccolino a quello grande dello Stato. Stefano Bonaccini, che va talmente di fretta da non riuscire ad abbottonarsi l’ultimo bottone della camicia da un paio d’anni, ha detto che non bisogna perdere tempo: va fatta subito, l’Emilia-Romagna lo chiede! Luca Zaia neanche a dirlo, mentre Attilio Fontana in questa fase pare – chissà perché? – meno ciarliero. Il ministro che si occupa della cosa, il dem Francesco Boccia, non s’è risparmiato, festeggiato dal Corriere del Veneto: “Il disegno di legge quadro sull’attuazione dell’autonomia differenziata è stato inserito nella Nota di aggiornamento al Def come collegato alla manovra (…) A tre anni dal referendum consultivo sull’autonomia differenziata in Veneto, il miglior modo per essere credibili è essere conseguenti con gli impegni reciproci presi”. Insomma, è ripartito il trenino dei granduchi elettivi solo che, in questi mesi di Covid, si sono viste alcune cosette: il sistema in cui il centro decide il quadro degli interventi e la periferia li implementa ha clamorosamente fallito da ambo i lati. A titolo di esempio: soldi stanziati e non spesi; assunzioni deliberate e non fatte; nessuna capacità – nemmeno amministrativa – di progettazione (rete ospedaliera, pronti soccorso, assistenza domiciliare); chiusure e aperture sottoposte a una contrattazione governo-Regioni che è stata spesso solo gioco politico e, per di più, ha ridotto il Parlamento a un ruolo ancillare. Il risultato è che qui si scia e lì no, qua si va a scuola e lì no, eccetera. Ecco, detto questo, come già Jonathan Swift qualche secolo fa, anche noi avanziamo la nostra modesta proposta: invece di dargli l’autonomia, abolite le Regioni e ridateci le Province, riportiamo il cacicco a misura d’uomo, così se – facciamo un esempio per assurdo – il ministro della Salute non fosse capace a fare il suo lavoro, non potrebbe più nascondersi dietro ai De Luca o ai Fontana.

Cina, una muraglia sui numeri da virus

Il mal comune non è mezzo gaudio, soprattutto quando si parla di guai come la pandemia in corso. Se si fa scorrere il dashboard pubblicato dall’OMS, possiamo notare che pressochè tutti i Paesi al mondo registrano simili percentuali di infettati e di deceduti. In pratica, si conferma quanto detto qualche settimana fa da OMS e cioè che almeno il 10% della popolazione mondiale abbia avuto contatto con il virus. Tenendo conto dei dati globali, la letalità si attesta tra lo 0,6–0,9%, secondo l’Imperial College di Londra, intorno all’1,4%, secondo l’Università di Oxford. Queste percentuali non sembrano valere per la Cina. Nel 2019 si stimano 1.401.586.000 abitanti. Fatti due conti elementari, avremmo dovuto aspettarci 14.015.860 contagi e 196.222,04 decessi. Ricordiamo gli ospedali costruiti in 10 giorni per ospitare migliaia di malati, attestanti la grande crisi. Per almeno tre mesi immagini di morti, malati nei corridoi di ospedali, palestre, ci hanno terrorizzati. Ma se andiamo al dashboard dell’OMS, restiamo stupiti. I casi totali riportati sono 91621, i decessi 4746 con 33 nuovi casi nelle ultime 24 ore. Ricordiamo che solamente in Italia, con circa 60.316.000 abitanti, abbiamo ad oggi 589.766 infettati totali e 37.905. Se i dati comunicati dalla Cina fossero reali, dovremmo studiare approfonditamente il fenomeno per capire come mai, sebbene sia stato il primo Paese ad essere colpito e quindi meno preparato, sia riuscito a tenere i numeri così bassi. Ma da più parti arrivano notizie che evidenziano che i numeri reali non siano mai stati comunicati. Da un database “segreto” dell’Università Nazionale di Scienza e Tecnologia dell’Esercito, in realtà i contagi sarebbero stati almeno 640mila e sparsi in circa 230 città. Sia il governo cinese sia l’Oms hanno negato l’esistenza di questo database, ma i dubbi restano ed appesantiscono le perplessità sulle responsabilità di chi possa essere complice delle bugie cinesi. Ricordiamo che a tutt’oggi, la commissione internazionale che dovrebbe indagare sull’origine della pandemia in Cina, non ha mosso un dito. Non è piacevole vivere “globalizzati” in queste condizioni.