Chiuse le scuole e le università (e pazienza se le mamme sono scese in piazza per protestare insieme ai gestori di scuola bus), vietati i ricevimenti nuziali e la vendita di alcolici di sera per stoppare la movida notturna, per contenere il contagio che viaggia spedito, il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, pensa di boicottare un’altra cosa cara ai ragazzi e ai giovani: la notte di Halloween, da stroncare con un blocco totale della mobilità. “Una festa che è un monumento all’imbecillità”, l’ha definita nella consueta diretta Facebook del venerdì durante la quale ha snocciolato i dati di giornata: reparti Covid vicini alla saturazione, posti letto ancora fermi a 820 complessivi, e 1.261 nuovi positivi, sia pure con soli 68 asintomatici. “Ma non bastano più le mezze misure, guai a noi se perdiamo il controllo sull’area metropolitana di Napoli, quella a più alta densità abitativa d’Europa”, dice il governatore. Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris è furibondo con lui. “De Luca ci sta portando verso il lockdown, ha alzato bandiera bianca contro il virus, in questi 8 mesi non ha fatto praticamente nulla per rafforzare la sanità pubblica e per impedire che si arrivasse a questo punto al primo momento serio di stress autunnale che tutti prevedevamo e gli ospedali sono già andati in stress”, il sunto delle esternazioni del sindaco, saltellando da un programma tv all’altro.
“Risento gli stessi discorsi. La gente rispetti il Dpcm”
“I segnali sono chiari. Il virus sta riprendendo forza. Il primum movens sono i contagi. Il resto sono conseguenze”, risponde da Gottinga (Germania), dove oggi insegna, Luciano Gattinoni, decano degli anestesisti rianimatori italiani.
Le misure adottate con l’ultimo Dpcm serviranno?
Se verranno rispettate, sì. Al di là di leggi e decreti, se io so che devo finire in un posto chiuso, affollato, poco areato, in mezzo a gente che parla, canta e balla, devo sapere anche che le probabilità di prendere il Covid se c’è un ‘super diffusore’ sono molto elevate. Non è questione di feste da 6, da 8 o 25 persone: bisogna creare queste piccole consapevolezze.
Come si fa?
Serve una campagna di informazione che spieghi alle persone cosa fare nella pratica.
Un esempio.
Bisogna dire alla signora che va a fare la spesa che se all’ingresso del supermarket vede dell’affollamento è meglio tornare dopo un po’. Questi comportamenti singoli non possono essere imposti, ma devono essere spiegati.
In Germania le autorità sono state più chiare?
Probabilmente sì. Prenda da noi la questione dell’uso delle mascherine e la distinzione tra corsa e attività motoria: siamo specialisti nel complicarci la vita. E non facciamo le cose che servono.
Quali?
Quante volte abbiamo sentito parlare di medicina del territorio? Cos’è cambiato? Nulla. Se oggi parliamo ancora dell’ospedale della Fiera non abbiamo capito niente.
Gallera dice che tornerà utile.
Non sono un letto o un respiratore che fanno una terapia intensiva. Se poi vogliamo fare un punto d’appoggio con pazienti clinicamente guariti ma ancora positivi, benissimo. Ma non chiamiamole T.I. Ogni letto ha bisogno di medici e infermieri che sappia come usarlo.
Per i sindacati mancano 4mila anestesisti.
Appunto. Ma il problema è a monte. Chi finisce in T.I. è una parte minima di chi si infetta.
In Germania ci sono stati 9mila morti a fronte di 350mila contagi. E anche in Regno Unito, Francia e Spagna si muore di meno.
Chi è partito prima come l’Italia ha commesso errori da cui gli altri hanno imparato. Un esempio: dopo un mese abbiamo capito che nel Covid le piccole trombosi hanno un ruolo fondamentale. Così abbiamo cominciato a usare l’eparina. Altri l’hanno imparato da noi.
Come affrontiamo questa seconda ondata?
Dobbiamo considerare i due estremi: valutare cosa si è fatto nella medicina di territorio, che serve per curare il prima possibile gli infetti, e contare quanti letti di T.I., che servono per salvare le vite, sono dedicati al Covid e quanto personale è stato assegnato a ognuno.
Rischiamo di tornare alla casella di partenza?
In un bellissimo romanzo, Nero Wolfe dice ad Archie Goodwin: ‘Ora esci e agisci con intelligenza alla luce dell’esperienza’. Quello uscì e andò a prendersi un hamburger. Temo che siamo a questi livelli.
Le pressioni del Pd per il coprifuoco: “Bisogna agire ora”
Inizia a tarda notte il vertice sul quale per tutto il giorno il Pd insiste e il premier fa muro. Giuseppe Conte resiste all’idea di restrizioni più gravi e passa la giornata di ieri, tra Bruxelles per il Consiglio europeo, Cosenza per i funerali di Jole Santelli e Genova per il Festival di Limes, dove ribadisce che il governo “non prevede nuovi lockdown”.
Il Pd, invece, con il capo delegazione Dario Franceschini in testa, si schiera fin dalla prima mattina sulla linea della necessità di un inasprimento. Posizione sulla quale il ministro della Salute, Roberto Speranza è fermo da giorni. A mediare c’è il capodelegazione del Movimento, Alfonso Bonafede, che ieri è tornato a mettere sul tavolo un’ipotesi di lockdown notturno, dall’una alle 6 del mattino, che possa limitare movida e feste senza interferire con le attività produttive. Quel che tutti ripetono è che il Dpcm fatto meno di una settimana fa non basta più rispetto a numeri fuori controllo. Tanto più che il rischio di fughe in avanti dei governatori – come in primavera – è di nuovo una variabile sul tavolo di Palazzo Chigi.
Vincenzo De Luca guida il fronte radicale, con la decisione di giovedì sera di chiudere le scuole e l’annuncio del coprifuoco ad Halloween.
Il clima che si registra nel Pd è di nervosismo crescente. Lo stesso Zingaretti si trova di fronte a una scelta: nel Lazio si oscilla tra seguire almeno in parte il modello De Luca e aspettare che le scelte le faccia il governo. Una valutazione, anche questa, in parte politica: il governatore-segretario da una parte non vuole prendere le distanze da Conte, dall’altra non vuol dare l’impressione che la sua Regione sia messa peggio di altre. Al punto che in serata sarà lo stesso Zingaretti a precisare che la Regione Lazio non prenderà “alcuna decisione autonoma” e “applicherà i provvedimenti che si decideranno insieme”.
Questa mattina i ministri Boccia e Speranza torneranno a incontrare i presidenti, tutti decisamente preoccupati dall’andamento della situazione e dalle responsabilità che portano addosso.
I ministri condivideranno con loro le decisioni del vertice di ieri sera, che all’ordine del giorno aveva sia le misure economiche che quelle sanitarie. Due lati della stessa medaglia, visto che ieri è ripartito il pressing sul Mes, da parte di sindaci, dem e renziani.
Quando si siedono a Palazzo Chigi, le due anime della maggioranza sono ancora divise, con il Pd che chiede “di valutare eventuali provvedimenti che possano evitare un futuro e drammatico nuovo lockdown”. L’ala dura vuole un coprifuoco nazionale, un lockdown di fatto che inizi tra le 21 e le 23, necessario – dicono i sostenitori – a evitare che la chiusura anticipata dei locali venga aggirata con feste private e assembramenti nelle piazze. L’altro fronte, quello attendista, invita a guardare i numeri dei ricoveri e dei decessi, ancora sotto controllo. E teme, come logico, la rivolta dei settori produttivi che un’altra volta dovranno pagare le conseguenze della crisi, tanto più che ieri i gestori dei locali di Berlino e di Tolosa hanno vinto i ricorsi contro le misure decise in Germania e Francia. In mezzo, la proposta di mediazione avanzata da Bonafede (il coprifuoco tra l’una di notte e le sei) che pure invita ad affidarsi alle indicazioni che arrivano dal ministero della Salute.
Tutti, anche i più prudenti, ammettono che sia tempo di agire, perché il trend della curva non lascia spazio a equivoci e la seconda andata va anticipata prima che sia troppo tardi.
Fuori discussione la chiusura delle scuole, almeno per quanto riguarda elementari e medie. Al massimo – d’accordo con le autorità regionali – si potrà prevedere una estensione della didattica digitale già prevista per le superiori. Anche perché, ragionano, chiudere le scuole e lasciare i ragazzi in giro, fa più danni che altro. Nelle chat della maggioranza, ieri, giravano le immagini dei centri commerciali campani, ieri: pieni di giovani a cui De Luca ha imposto di saltare le lezioni. Senza distanze, ça va sans dire.
Covid, ipotesi di nuove misure. Conte: “Il lockdown è escluso”
Chiusure anticipate di ristoranti e bar e non un coprifuoco con divieto di spostamento, smart working il più possibile nella pubblica amministrazione e in tutte le aziende che possono permetterselo, eventuali limitazioni per parrucchieri, palestre e sport di squadra, per le scuole ipotesi di didattica a distanza alle superiori e orari scaglionati. Queste sono le novità già annunciate se discusse dal governo nella notte passata o che lo potrebbero essere a breve. Ma per il premier Giuseppe Conte di più non si può: “Dobbiamo evitare il lockdown, non dico che è meno pericolosa l’ondata, ma abbiamo lavorato. Dobbiamo affrontare questa ondata con strategia diversa e nuova, che non prevede più il lockdown”. Nonostante anche la soglia dei 10 mila contagi sia stata superata.
Il bollettino quotidiano sull’epidemia in italia
Sono 10.010 i nuovi casi di ieri, contro gli 8.804 di giovedì, e addirittura con 12 mila tamponi in meno sul giorno precedente: 150.377 tamponi. Siamo sopra il 6% per la prima volta. Meno morti ma sempre troppi: 55 (83 giovedì). Sono entrate in terapia intensiva altre 52 persone, in totale ce ne sono 638. I ricoveri ordinari sono 382, 6.178 in tutto. Tanto che la Fimmg, federazione nazionale dei medici di base, propone ai cittadini un auto-lockdown: “È giunto il momento che si consideri la necessità di un auto-lockdown per limitare al massimo il rischio di contagio a fronte dei numeri in preoccupante crescita”.
Studenti in ansia dopo De Luca
Al centro del dibattito nel governo rimane la scuola dopo l’ordinanza della Campania con cui il governatore Vincenzo De Luca ha deciso di lasciare bambini e ragazzi a casa, con la didattica a distanza, fino al 30 ottobre. La ministra Lucia Azzolina dopo aver definito “gravissima” la decisione ieri ha ribadito: “Le scuole non devono chiudere”. Possibilità e posizioni che Azzolina porterà o, a quest’ora, avrà già portato in discussione sono queste: le Regioni che vogliono interventi sulla scuola non hanno saputo gestire trasporti e tamponi; Francia e Germania hanno già detto che le scuole non chiudono; per noi la chiusura di materne, elementari e medie non è negoziabile, la didattica digitale alle superiori è già prevista ma si può implementare passando dagli Uffici scolastici regionali e dai presidi; no alla didattica digitale orizzontale (intere classi a casa) perché “i ragazzi a scuola sono al sicuro, nei centri commerciali no”.
Il Pirellone anticipa come la Campania
La Regione Lombardia, da sempre epicentro di questa maledetta pandemia in Italia, ha anticipato con una propria ordinanza già in vigore da oggi alcuni provvedimenti: stretta sugli orari di bar e ristoranti, divieto di consumare alcolici in strada; didattica a distanza in alternanza con lezioni in presenza ma solo per superiori e università per ridurre la pressione sul trasporto pubblico; aperture spostate in avanti delle scuole; stop agli sport di contatto dei dilettanti (ma non degli allenamenti); chiusura di sale gioco, bingo, scommesse; impulso ad allargare lo smart working. Un’ordinanza resa necessaria dai numeri di ieri: 2.419 i nuovi positivi (con 30.587 tamponi effettuati), più della metà dei quali nella sola provincia di Milano, 1.319 (giovedì erano stati 1.053), di cui 604 a Milano città (contro i 515 del giorno prima), 7 i morti. Da un disastro all’altro, ieri in Campania i nuovi positivi sono stati 1.261 (3 i morti) e il governatore De Luca in conferenza stampa ha annunciato che gli ospedali oltre al Covid si potranno occupare solo di interventi salvavita e il coprifuoco totale per le notti del weekend di Halloween a fine ottobre, definendo la festa una “imbecillità americana”: “Queste sono misure di guerra”.
Gli opposti isterismi
Ieri mattina, appena due giorni dopo l’entrata in vigore dell’ultimo Dpcm anti-Covid, già dal Pd e dal ministero della Salute si levavano gridolini isterici su nuovi vertici di governo per nuovi giri di vite assortiti. Una prova d’orchestra felliniana, degno pendant agli opposti isterismi delle destre No Mask e dei giureconsulti No Dpcm. E che s’è fatta ancor più cacofonica nel pomeriggio, quando i dati sui contagi giornalieri hanno superato la soglia psicologica di 10mila. Per fortuna, Palazzo Chigi non pare intenzionato a varare nuove misure a breve: prima si misurano gli effetti delle nuove misure e della loro osservanza da parte dei cittadini, riscontrabili non prima di 10 giorni; poi si vede. Annunciare, invocare, far trapelare ora nuove strette serve solo ad aumentare il caos e a seminare il panico, oltre a svalutare i divieti e le raccomandazioni del Dpcm di martedì. Forse sarebbe il caso di ripristinare ogni pomeriggio la conferenza stampa della Protezione civile e del Cts che ci accompagnò nel lockdown: molti le imputavano un eccesso di allarmismo, invece era (e sarebbe) un’ottima occasione per fare il punto sulla pandemia e leggere correttamente i dati. Che, visti così, dicono tutto e il suo contrario. Viene spontaneo il confronto con quelli di sette mesi fa, che però è fuorviante. Il 21 marzo, giorno del picco massimo, i nuovi positivi erano 6.557: ieri 10.010.
Stiamo dunque peggio oggi? Al contrario: tutti gli altri parametri dicono che stiamo molto meno peggio. Il 21 marzo i tamponi furono 26 mila, ieri erano 150 mila, il sestuplo: più tamponi si fanno più positivi si trovano (il rapporto tamponi/positivi era del 25% e oggi è del 6,6). Il che significa che i positivi sommersi, all’epoca, erano molti più di oggi, quando il virus pare un po’ meno diffuso di allora. Ma allora si testavano solo i sintomatici: ora anche gli asintomatici. Che oggi sono la stragrande maggioranza dei positivi: infetti e contagiosi, ma non malati. I dati certi su cui giudicare e modulare le misure di contrasto sono altri. Anzitutto i morti: 793 il 21 marzo, 55 ieri (in forte calo rispetto a giovedì). E poi il numero di ricoverati (cioè di sintomatici malati e bisognosi di cure): sette mesi fa 17.708, di cui 2.857 in terapia intensiva; ieri 6.178, di cui 638 in terapia intensiva. Reparti Covid e rianimazioni sono lontani dal rischio di saturazione, almeno in media (52% il 21 marzo, 9% oggi, anche se alcuni sono semipieni e altri semivuoti). Ma siccome i ricoveri aumentano del 7-8% al giorno e la crescita è esponenziale, se non s’inverte la rotta si può arrivare in un mese all’overbooking. E qui si apre il capitolo delle colpe. Cioè di chi ha fatto e non ha fatto cosa da maggio a oggi.
Il governo si era impegnato a riaprire le scuole e l’ha fatto, anche se poi i ritardi sui trasporti della ministra De Micheli, delle Regioni e dei Comuni han messo a rischio arrivi e partenze. Il governo aveva promesso di raddoppiare i posti letto di terapia intensiva e ha fornito i fondi necessari, oltre alle attrezzature tramite il commissario Arcuri. Ma molte Regioni hanno dormito: malgrado i 3.059 ventilatori polmonari per terapie intensive e i 1.429 per sub-intensive già inviati da Roma, hanno attivato appena 1.500 posti letto, mentre gli altri 1.600 disponibili restano sulla carta. Arcuri ha pronti altri 1.500 ventilatori, ma attende che qualcuno glieli chieda, possibilmente per usarli. Tra le maglie nere, oltre alla solita Lombardia (che non riesce neppure a comprare i vaccini antinfluenzali), svetta la Campania del sedicente sceriffo De Luca, tutto chiacchiere e distintivo: “Prima del Covid – ricorda il ministro Boccia – aveva 335 posti letto di terapia intensiva. Il governo con Arcuri ha inviato 231 ventilatori per le terapie intensive e 167 per le sub-intensive. Oggi risultano attivati 433 posti, devono essere 566”. Così molti ospedali campani sono già al collasso e Don Vicienzo, anziché rivolgere il lanciafiamme contro se stesso, lo dirige sugli studenti, chiudendo scuole e università senza neppure avvertire il sindaco di Napoli. Lui che un mese fa voleva riaprire gli stadi. E trova a difenderlo pure Zingaretti. Altri sgovernatori, con la stessa (il)logica, insistono sulla didattica a distanza (già prevista dalla legge in casi di necessità) per sfollare i trasporti pubblici e coprire la propria e altrui incapacità di potenziarli e organizzarli meglio: sono gli stessi che a luglio riaprivano le discoteche, ad agosto si opponevano alle proposte dell’Azzolina sugli ingressi scaglionati nelle scuole e a settembre volevano riempire gli stadi di tifosi. A tutti sfugge un dato elementare: chiudere le scuole durante il lockdown aveva senso perché gli studenti restavano in casa, evitando i contagi attivi e passivi; ma senza lockdown chi non sta a scuola va a spasso o si assembra in locali molto meno sicuri delle aule (lì la percentuale di contagi è 0,08%). E aumenta le possibilità di contagiare e di essere contagiato.
Quindi, per favore, nervi saldi e basta isterie fondate su letture sbagliate dei dati. Il governo attenda qualche giorno per vedere se il Dpcm funziona, tenendo pronte misure più severe, ma sempre graduate all’evolversi della pandemia. E le Regioni facciano finalmente ciò che devono, stringendo le maglie del Dpcm dove serve, anche con zone rosse o arancioni nelle città e province più infette. Se poi qualcuna continua a dormire, si spera che stavolta scatti il commissariamento.
California, l’autodenuncia conviene solo a chi bara
Si sa che la California è molto attenta alla qualità dell’aria. Al punto da condurre, quasi da sola, una battaglia contro l’Amministrazione Trump, rea di aver praticamente cancellato i limiti alle emissioni nocive fissati in precedenza da Obama.
Ma ora il potente California Air Resources Board, che dal 2015 (anno in cui scoppiò il dieselgate proprio negli Usa) ha via via inasprito le sanzioni contro chi bara su limiti e defeat device, ha adottato un’iniziativa quantomeno singolare, spedendo una lettera ai costruttori in cui gli chiede sostanzialmente di autodenunciarsi. Avete capito bene: il controllore chiede ai controllati di dichiarare se hanno installato sulle proprie vetture dispositivi o software in grado di alterare le emissioni. Alle nostre latitudini un fatto del genere farebbe sorridere, il concetto di lealtà è molto più vincolante nel mondo anglosassone. Dalla parte della ragione, ovviamente, sono loro. Anche perché la voluntary disclosure, l’autodichiarazione di colpevolezza, è accompagnata da un premio: l’esenzione dalle indagini e la riduzione di eventuali sanzioni per i colpevoli. Che nel caso di omertà, invece, verrebbero aumentate. Meccanismo semplice, che richiama il concetto di premio per i meritevoli e della punizione per chi trasgredisce. Applicabile nondimeno dove vi è certezza della pena. Non è un caso che proprio dagli Usa siano arrivate e mazzate economiche più dure per chi ha sbagliato: Volkswagen, Daimler e Fca, ad esempio, che ci hanno rimesso rispettivamente 25, 2,2 e 800 milioni di dollari.
Q8 ibrida plug-in, il lusso “alla spina”
L’offensiva di prodotto della casa dei Quattro Anelli sembra non avere soste, e va senza dubbio in direzione di una mobilità a elettroni sempre più marcata. La novità questa volta consiste nell’allargare l’offerta commerciale dello sport utility di taglia grande Q8, che beneficia di due nuove varianti ibride plug-in, ovvero con meccanica endotermica elettrificata e ricaricabile alla spina.
Meccanica peraltro molto simile a quella delle omologhe versioni della Porsche Cayenne, con cui la Q8 condivide la piattaforma costruttiva e le tecnologie.
Le due nuove edizioni plug-in della Q8 sono accomunate da un powertrain che annovera un tradizionale motore termico turbobenzina e un’unità elettrica incorporata nella scatola del cambio automatico a 8 marce e alimentata a batterie. La potenza viene trasferita a terra dalle quattro ruote motrici.
Alla base della meccanica delle edizioni plug-in di Audi Q8 c’è il motore V6 di 3 litri – capace, da solo, di una potenza massima di 340 cavalli e di una coppia motrice di 450 Newtonmetri – e un motore elettrico sincrono a magneti permanenti, collegato ad accumulatori agli ioni di litio da 17,8 kWh. Due i livelli di potenza massima o coppia motrice a disposizione: 381 cavalli e 600 Nm, 462 cavalli e 700 Nm.
Le Q8 plug-in possono viaggiare in modalità 100% elettrica, ovvero a emissioni zero, per poco meno di 50 chilometri, a patto di non superare i 135 km/h di velocità, soglia oltre la quale si riattiva l’unità termica. Brillanti le prestazioni: la versione da 381 Cv scatta da zero a cento orari in 5,8 secondi, mentre per quella da 462 Cv ne bastano 5,4. Entrambe le Q8 elettrificate raggiungono una velocità di punta autolimitata di 240 chilometri orari e vantano un consumo omologato (con batterie cariche) che oscilla fra i 2,8 e i 3,1 litri ogni 100 chilometri.
Ricaricando le batterie con una Wallbox da 7,4 kW, bastano circa due ore e mezza per “fare il pieno”. Operazione che richiede quasi quattro ore se effettuata a casa, con una normale presa domestica a 2,3 kW. Le Audi Q8 ricaricabili saranno disponibili entro la fine dell’anno, con prezzi ancora da definire.
Stop ai motori termici, anche l’Italia adesso inizia a pensarci
Un giorno tutte le automobili saranno 100% elettriche. Ma quanti anni richiederà la rivoluzione a zero emissioni? Difficile stabilirlo, anche se nell’ultimo quinquennio si sono fatti passi da gigante verso l’elettrificazione di massa. Tant’è che dal 2035 Paesi come il Regno Unito metteranno al bando la vendita di auto termiche, incluse le ibride. Cosa che in Francia accadrà dal 2040.
C’è chi ipotizza qualcosa di simile anche per l’Italia, dove al riguardo è stato presentato un ordine del giorno che impegna il governo a valutare un possibile stop alla “commercializzazione di nuovi autoveicoli di categoria M1 (ovvero di autovetture fino a 3,5 tonnellate) con emissioni di CO2 superiori a 50 g/km” a partire dal 2035. Tradotto, significa che gli unici modelli commercializzabili in Italia potrebbero essere quelli elettrici e ibridi plug-in (questi ultimi, ricaricabili alla spina, possono viaggiare per decine di chilometri in modalità elettrica). Primo firmatario della proposta in questione è Giuseppe Chiazzese, deputato M5S, componente della commissione Attività produttive, commercio e turismo di Palazzo Montecitorio.
Per Chiazzese “i governi di molti Paesi europei stanno abbracciando l’idea della mobilità elettrica quale unica strada da seguire in futuro e per questo hanno definito date limite per porre fine alla commercializzazione di nuovi veicoli di categoria M1 a benzina e diesel (come per esempio Francia, Norvegia, Germania, Olanda, Irlanda, Paesi Bassi e Regno Unito)”. Il tutto è coerente col piano per ridurre di almeno il 40% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 – come prevede l’accordo di Parigi del 2015 – e azzerarle completamente entro il 2050.
Dal punto di vista tecnico, giova ricordare che le ibride plug-in sono effettivamente ecosostenibili solo se costantemente ricaricate. Infatti, mentre per le vetture 100% elettriche è impossibile viaggiare a pile scariche, le plug-in possono farlo adoperando il solo motore termico. Ma senza l’aiuto elettrico le emissioni di CO2 vanno ben oltre i suddetti 50 g/km e sono paragonabili a quelle di una normale auto a benzina. In altri termini o si trova un modo per obbligare alla ricarica, oppure le plug-in perdono di senso. A tutto ciò si aggiunge un’altra considerazione, che ridimensiona il ruolo dell’automobile in tema di impatto ambientale: l’Ue è responsabile del 10% delle emissioni mondiali di gas serra, di cui quelle derivanti dai trasporti ammontano a circa un quarto, cioè il 2,5% delle emissioni globali di CO2. Numeri che fanno riflettere sul rischio che la corsa all’elettrico alla fine possa penalizzare i già tartassati automobilisti, che delle nuove tecnologie pagheranno il prezzo.
Wittgens, direttrice Giusta: salvò uomini e arte dai nazi
“Non dette quasi all’usciere il tempo di annunciarla. E mi vidi davanti una donna diversa da tutte le altre. Un erudito classicheggiante avrebbe immaginato in lei ‘Pallade-Athena’: io pensai alla Walkiria. Il nome me lo ripetè lei, allungandomi la mano: ‘Sono Fernanda Wittgens!’”: in questo ricordo di Antonio Greppi, primo sindaco di Milano dopo la Liberazione, è come scolpito il ritratto della prima donna cui fu concesso di dirigere un museo statale italiano. E mi piacerebbe che lo leggessero le ragazze e i ragazzi degli ultimi anni delle Superiori, il romanzo che sulla Wittgens ha scritto Giovanna Ginex con Rosangela Percoco (L’Allodola, in libreria per Salani). Perché vi ci troverebbero – vivificato da una scrittura incalzante – un modello di vita senza “né riti né dogmi”: una vita libera, e liberamente spesa al servizio di una certa idea di mondo.
Un’idea perfettamente riassunta nelle parole (queste non letterarie, ma storiche) con cui la direttrice di Brera ammoniva i propri familiari, dal carcere in cui era rinchiusa per aver aiutato alcuni ebrei a espatriare: “Badate di non fare nulla, nessun atto men che rispondente al mio stile, se no lo smentisco e peggioro la situazione. Voi dovete capire che in tutta la mia vita quello che conta per me è di essere sempre coerente a me stessa, è la mia figura morale: tutto il resto – se volete anche la vita – viene dopo”.
Credo si capisca bene perché “la Wittgens” è ancora oggi una figura di donna, di storica dell’arte, di funzionaria delle Belle Arti, di servitrice dello Stato straordinariamente magnetica: e la narrazione in prima persona, come in un ininterrotto flusso autobiografico, scelta da Ginex e Percoco riesce a renderla viva e presente, come una voce della coscienza. Fin dalle prime pagine: “Io sono nata a Milano, il 3 aprile 1903, da questa abbondanza di incroci di cui sono sempre stata orgogliosa. Devo proprio alle diversità di cui sono portatori quegli incroci sia la mia libertà di pensiero sia il rispetto per l’altrui libertà: va da sé che difenderli è sempre stato un dovere morale per me”.
A colpire è l’“attualità inattuale” di una vita di successo che non aveva come obiettivo il successo ma la coerenza morale, non il duttile accomodamento allo stato delle cose ma una resistenza che può arrivare fino a mettere in gioco la propria vita: esattamente il contrario dei sette decimi degli attuali vertici delle soprintendenze, dei grandi musei, delle direzioni generali romane dei Beni Culturali, i cui titolari si riconoscono invece perfettamente nell’immortale ritratto schizzato da Antonio Cederna: “Grandi equilibristi, disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare”.
Al contrario, la Wittgens del romanzo, proprio come quella storica, ha un’idea molto chiara del potere, e dei potenti: “Mussolini andava a inaugurare mostre e scavi, andava anche nei musei, sì, ma si annoiava, attraversava le sale e camminava tra i capolavori in tutta fretta e quando usciva sembrava quasi sollevato. Per lui quadri e statue erano più che altro una questione di prestigio nazionale. Era stato così nel 1929 quando con la mostra di Londra voleva stupire gli inglesi ‘sommergendoli’ di bellezza, è stato così quando ha agevolato l’espatrio di numerose opere in Germania per suggellare l’amicizia con l’alleato nazista. Sommergere di bellezza era un fatto politico, l’arte abitava lontanissima dalle sue intenzioni, anzi probabilmente lui non sapeva nemmeno dove stesse di casa”.
Un’analisi perfetta anche per i tanti presidenti della Repubblica e del Consiglio, e per i tantissimi ministri, che ancora oggi, incuranti della Costituzione della Repubblica, usano esattamente nello stesso modo i “tesori nazionali” (il caso dell’Uomo Vitruviano di Leonardo spedito a Parigi l’anno scorso è, anche in questo, paradigmatico).
“Se dalla promulgazione delle leggi razziali e dallo scoppio della guerra l’anno dopo, ogni mio pensiero e ogni mia azione erano indirizzati, come imperativi morali, a due soli obiettivi, la salvezza delle opere d’arte e la salvezza dei perseguitati dal regime fascista, com’era possibile che non lo si leggesse nelle espressioni del mio viso o nel tono delle mie parole?”: era questo il segreto, uno stesso ardente e trasparente amore per le opere d’arte e per le persone; per la cultura, e per la giustizia e la libertà. La consapevolezza che tutta quella bellezza serviva a una cosa sola: diventare umani.
Vietnam, il nuovo miracolo d’Asia nel mondo post-Covid
Altoparlanti e manifesti per strada. Pubblicità in tv. Messaggi alla radio e annunci sui giornali. Ad Hanoi, da principio e ovunque, le autorità hanno deciso di ripeterlo giorno e notte ai quasi cento milioni di cittadini: bisogna fermare, isolare e annientare il Covid-19. E i vietnamiti ci sono riusciti: in tutto sono solo 35 le persone decedute per Corona dall’inizio della pandemia. Tra i 1.124 casi di infezione le guarigioni registrate sono state ufficialmente 1.030.
Superato il picco di fine luglio, la linea che tratteggia la diffusione dei contagi nel Paese si è abbassata fino a quasi sfiorare lo zero. Chiuso in gabbia il virus, evitate le sue catastrofiche conseguenze economiche, mercati ed aziende del Vietnam sono rimasti aperti. E hanno prosperato.
È stato il ritmo di crescita dell’economia che si è arroccato intorno a uno straordinario 3% annuale – mentre il resto del mondo annaspa e i mercati tremano – e le percentuali degli scambi commerciali nella regione asiatica e con il resto del mondo che raddoppiano di anno in anno, a generare la profezia degli specialisti finanziari: il Vietnam è destinato a diventare il Paese dalla crescita economica più veloce al mondo. Gode di un’economia “resiliente” e ha all’orizzonte “prospettive positive”, come si legge nel report del luglio scorso della Banca mondiale. Una nuova Cina, ma in scala minore. Come hanno scelto di fare gli autocrati del Dragone, i membri del politburo di Hanoi hanno varato in questi ultimi anni finanziamenti per istruzione, opere pubbliche ed infrastrutture, che a cascata hanno alimentato produzione e commercio. Come il Covid-19, però rimane assente nel Paese anche l’opposizione al potere rosso. Stretto tra Cina e Cambogia, lo Stato rimane gestito da ininterrotte decadi dal Partito comunista dalla fine del conflitto. Dopo Giappone, Sud Corea e Cina, potrebbe essere il Vietnam il nuovo “miracolo asiatico”, un miracolo che si prospetta già doppio, che si palesa in un’oasi rimasta quasi intatta in un mondo trasformatosi in lazzaretto per il virus.