Fuori fase

Mettiamo che all’inizio di settembre il governo avesse proceduto a un lockdown preventivo di un paio di settimane per interrompere sul nascere la famosa seconda ondata che tutti i virologi (a parte gli imbonitori da talk) sostenevano essere inevitabile. Alt, fermi tutti, le parole che avete appena letto sono del tutto insensate poiché adottare una misura del genere in Italia, ancorché preveggente, sarebbe stato del tutto impossibile. E ciò malgrado fossimo alla fine di un’estate spensierata (e abbastanza irresponsabile), e benché l’idea di togliere l’acqua dove il Covid-19 si andava rapidamente riproducendo fosse stata presa in considerazione da scienziati del calibro dell’immunologo Anthony Fauci. No, non si sarebbe potuto fare e perfino il solo parlarne sarebbe stato pericoloso per il semplice motivo che la formuletta secondo la quale il governo decide in base alle valutazioni del Comitato tecnico scientifico è rassicurante, ma abbastanza ipocrita. Il governo ascolta certamente il Cts, ma poi decide soprattutto sulla base di valutazioni (non diremo convenienze) politiche. Ai primi di settembre non si era forse alla vigilia di un fondamentale round elettorale, con la Toscana e la Puglia in bilico tra centrosinistra e Salvini&Meloni? Onestamente, soltanto un governo suicida avrebbe potuto seguire i consigli di Fauci, e non aggiungiamo altro. Infatti, qui da noi (ma non solo da noi) anche l’opposizione ha con il virus un rapporto squisitamente politico. Secondo la regola “non importa se faccia bene agli italiani, l’importante è che faccia male al governo Conte”.

Tanto è vero che il lockdown del 9 marzo il premier lo decise in quasi totale solitudine, e in forza di quei decreti “liberticidi” che permettono di prendere decisioni rapide proprio perché sommamente rapido è l’evolversi del morbo. Vengono i brividi se pensiamo a cosa sarebbe successo se il presidente del Consiglio avesse aperto un “confronto” in Parlamento con questa destra urlante sulle scelte da fare mentre i decessi si moltiplicavano. Dopodiché, nessuna meraviglia se di fronte all’ipotesi di un lockdown natalizio avanzata dal professor Crisanti, La Verità spari il titolo: “Ci vogliono rubare il Natale”. Nessuno nega (e lo abbiamo scritto) che sarebbe una misura choc, ma la domanda giusta non dovrebbe essere: vista la situazione, fermarci a Natale sarebbe utile o inutile? Altro esempio: circola l’ipotesi di lockdown limitati ai soggetti più a rischio causa età avanzata, sopra i 70 anni per intenderci. Poiché chi scrive di anni ne ha 74, la mia risposta è: se funziona ok (titolo de La Verità: “Ci vogliono rubare i vecchi”). Intanto, mentre i contagi salgono in modo esponenziale c’è chi si balocca con i principi della democrazia liberale, conculcati dalla dittatura sanitaria del pessimo Conte. Ma cari amici liberali, un liberale vivo non è meglio di un liberale morto?

La cellula delle ’ndrine a Roma: “L’incontro con Zingaretti e i suoi”

“Oggi tu hai fatto un incontro dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore… È inutile pure pensarci… Ti dai un bel pizzicotto sulla pancia e vai avanti”. A parlare, intercettato, è Alessandro Schina, uno dei 22 arrestati nell’ambito dell’operazione ‘Perfido’ condotta dalla Procura di Trento e dai carabinieri del Ros. I militari agli ordini del generale Pasquale Angelosanto, ieri mattina hanno sgominato un’intera cellula della ’ndrangheta nella Provincia di Trento, con al vertice Innocenzo Macheda, ritenuto contiguo al clan Serraino.

Schina, imprenditore capitolino nel settore del trasporto dei farmaci, secondo gli inquirenti era uno dei quattro referenti della diramazione romana dell’organizzazione. Ed è lui che parla di un presunto incontro (smentito da tutti gli interessati e per questo potrebbe trattarsi di una millanteria) che si sarebbe tenuto il 18 dicembre 2017 presso la sede della Regione Lazio, “incontrando Teodori e Zingaretti”, dice Schina a Massimo Lanata, ritenuto un suo sodale. Teodori sarebbe l’attuale vicepresidente e all’epoca presidente del Consiglio regionale. “Dice che il progetto gli è piaciuto, ma si sono riservati di capire se alle prossime elezioni saranno ancora al proprio posto (quelle del marzo 2018, ndr)”, afferma l’imprenditore. Schina, che “si muove con disinvoltura nei palazzi romani della politica” – scrive il gip – riferisce di aver anticipato il “progetto economico” qualche giorno prima “all’ufficio del gabinetto del segretario del presidente”, ottenendo l’appuntamento del 18. In quell’occasione Schina invita Lanata a “stappare una bottiglia di champagne”. Il “progetto”, che alla fine non si realizzerà, riguardava la digitalizzazione delle cartelle cliniche.

Prima di arrivare all’incontro in Regione, sono diversi i passi compiuti dall’imprenditore. Innanzitutto l’aggancio con Marco Vecchioni, nome noto della malavita romana e ritenuto vicino a Massimo Carminati. Attraverso Vecchioni, Schina contatta Fortunato Mangiola, “politicante romano ma di chiare origini calabresi, individuato da Schina quale soggetto idoneo per presentare il proprio progetto alla Regione Lazio”. Mangiola è stato consigliere municipale al Municipio V di Roma e riferisce di avere conoscenze con la famiglia ’ndranghetista dei Morabito, molto presente nel quartiere romano di Centocelle. L’altro contatto politico è quello con Antonio Pietrosanti, attuale consigliere Pd del Municipio V. Negli atti si legge che “Schina e Lanata incontrano Mangiola e Pietrosanti, con cui si recano alla Regione Lazio per la presentazione del loro progetto economico”. Mangiola e Pietrosanti non sono indagati, ma ieri mattina hanno subito una perquisizione presso i rispettivi domicili. Il Fatto ha provato a contattarli, senza riuscirci.

Il presunto incontro in Regione in ogni modo viene smentito da più parti. Nicola Zingaretti, che il 18 dicembre 2017 era presente a diversi appuntamenti istituzionali fra le province di Frosinone e Latina, fa sapere che “non conosco nessuno dei protagonisti di questa inchiesta”, che “non ho mai partecipato a quest’incontro” e che “non ho contezza del progetto di cui si parla negli atti”. In agenda, invece, c’è un incontro del 18 dicembre fra Leodori e il solo Pietrosanti, che però “ho incontrato per motivi politici, come successo in altre occasioni”, specifica l’attuale vicegovernatore, che aggiunge: “Non so nulla di questo progetto”.

La condanna di Profumo e Viola mette nei guai Mps

I derivati non portano bene all’ex presidente di Mps Alessandro Profumo, oggi amministratore delegato di Leonardo. Dopo indagini durate oltre due anni sui contratti Alexandria e Santorini, ieri la seconda sezione del Tribunale di Milano lo ha condannato insieme all’ex ad Fabrizio Viola a sei anni di reclusione e a una multa da 2,5 milioni ciascuno per aggiotaggio e false comunicazioni sociali in relazione alla semestrale 2015 della banca senese. Le stesse ipotesi di reato sono state considerate prescritte per i conti del 2012 mentre per i bilanci 2013 e 2014 i due manager sono stati assolti perché “il fatto non sussiste”. Condannato a 3 anni e 6 mesi per false comunicazioni sociali anche l’ex presidente del collegio sindacale, Paolo Salvadori, mentre per la legge 231 sulla responsabilità degli enti la banca è stata condannata a una sanzione di 800mila euro. La decisione arriva come uno schiaffo per la Procura di Milano, rappresentata dai Pm Stefano Civardi, Mauro Clerici e Giordano Baggio, che per tre volte aveva chiesto l’archiviazione di Profumo e Viola, tre volte bocciata dai Gip che li hanno rinviati a giudizio, e che il 16 giugno aveva chiesto l’assoluzione dei tre imputati.

L’accusa riguarda la contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini da 5 miliardi contratti dall’istituto senese con Deutsche Bank e Nomura e presentati a bilancio come BTp. Gli strumenti finanziari furono realizzati da Mps per coprire i costi e gli impatti patrimoniali dell’acquisizione di AntonVeneta, avvenuta il 28 maggio 2008 per un esborso di 17,2 miliardi tra prezzo (9,23) e rimborso di debiti (7,9). Per quelle irregolarità l’8 novembre 2019 Mussari, Vigni e una decina di altri imputati sono stati condannati in primo grado a Milano per manipolazione del mercato, falso in bilancio e in prospetto.

Profumo, che oggi è amministratore delegato di Leonardo, è stato presidente di Mps da 27 aprile 2012 al 6 agosto 2015, quando si dimise al termine del cda che varò proprio la semestrale per la quale ieri è stato condannato. Fabrizio Viola invece restò in carica dal 12 gennaio 2012 all’8 settembre 2016. Entrambi dal 22 febbraio 2014 sino a fine carica furono “vigilati” dall’allora ministro dell’Economia del governo Renzi, Pier Carlo Padoan, il quale nei giorni scorsi è stato cooptato nel cda di UniCredit, banca che potrebbe ora accettare le pressioni del Tesoro per convolare a nozze con Mps, rinazionalizzata nel 2017.

Durante la gestione Profumo e Viola gli azionisti di Mps furono chiamati a due aumenti di capitale, nel 2014 da 5 miliardi e nel 2015 da 3 miliardi. Su decisione dei vertici della banca oltre 4,1 miliardi di quei proventi, cioé più della metà dei fondi raccolti, servì a rimborsare i cosiddetti “Monti bond”. Ma i prospetti di quegli aumenti di capitale non sono entrati nell’inchiesta su cui ieri il tribunale di Milano ha emesso la sentenza di primo grado. Proprio il fatto che non si sia indagato per falso in prospetto, secondo alcune fonti legali, rende possibile la prescrizione: un’accusa di quel genere avrebbe invece allungato la vita utile dei processi.

Il problema ora rimbalza su Mps perché l’istituto deve affrontare 10.735 tra cause, richieste stragiudiziali e reclami per un petitum complessivo di 10,2 miliardi. Le sole richieste stragiudiziali di danni per le informazioni diffuse al mercato sono 1.125 e valgono 4,6 miliardi. Con la sentenza di ieri cresce la possibilità che le parti civili possano chiedere i danni in solido ai condannati, tra i quali c’è la banca, che però a bilancio ha coperture per i rischi legali per appena 500 milioni.

La sentenza premia gli sforzi degli avvocati delle parti civili Mauro Minestroni e Paolo Emilio Falaschi, il quale probabilmente presenterà comunque ricorso su alcuni punti della decisione. Adriano Raffaelli, difensore insieme a Francesco Mucciarelli di Viola e Profumo, ha dichiarato invece: “Leggeremo con attenzione le motivazioni e impugneremo la sentenza che riteniamo sbagliata”. Ma l’ad di Leonardo per ora non rischia la poltrona: secondo fonti legali, nonostante la pena accessoria di due anni di interdizione dalla rappresentanza di società e di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, poiché la condanna non è definitiva non ha impatto sui requisiti di onorabilità.

Viola e Profumo sono poi indagati a Milano anche per false comunicazioni sociali e manipolazione informativa nel filone di inchiesta sulla contabilizzazione dei crediti deteriorati nei bilanci di Mps. Sempre i Pm Civardi, Baggio e Clerici ne hanno chiesto l’archiviazione ma il Gip ha ordinato ulteriori indagini. La sentenza di ieri potrebbe avere dei riflessi sul procedimento, in fase di incidente probatorio.

Ma i derivati sono costati a Profumo anche un altro processo. Da febbraio l’ex ad di UniCredit è rinviato a giudizio a Bari con altre 15 persone per il ruolo che i contratti venduti a piene mani a migliaia di clienti dalla banca milanese durante la sua gestione ebbero nel causare il crac della società Divania. Dal 2000 al 2005 l’azienda pugliese sottoscrisse 203 contratti che, secondo l’accusa, l’avrebbero portata al fallimento nel 2011. L’ipotesi è che i derivati di UniCredit abbiano esposto Divania a perdite potenzialmente illimitate: il reato contestato è bancarotta.

Ricatto sul ccnl Riders: “non firmi? niente consegne”

Il contratto nazionale dei rider non è ancora in vigore, ma già miete vittime: Deliveroo sta in questi giorni mandando a casa i fattorini che non accettano di vedersi imposto l’accordo di comodo firmato da Assodelivery e Ugl. “Se non firmerai il nuovo contratto entro il 2 novembre, dal 3 non potrai più consegnare ”, si legge nella mail inviata agli addetti. Tra i primi “licenziati” c’è già chi ha fatto causa: con una prepotente azione giudiziaria, la Cgil vuole sia accertare la discriminazione nei confronti di chi rifiuta le nuove condizioni – in questo caso un gruppo di lavoratori di diverse città – sia dichiarare nullo il contratto poiché sottoscritto con un sindacato “giallo”. “Ci opponiamo ad azioni padronali lesive dei diritti dei rider – ha spiegato la segretaria Tania Scacchetti – per contrastare in toto l’applicazione dell’accordo”.

Quella inviata per email sarebbe una “comunicazione di recesso condizionata” secondo il ricorso curato dagli avvocati Stramaccia, Bidetti, De Marchis e Vacirca. In questo caso, diventerà reale perché il rider dirà no al nuovo contratto. Per i legali, Deliveroo non può costringere ad accettare perché quell Ccnl è illegittimo. La nascita dell’Ugl Rider (organizzazione inesistente prima di giugno 2020, ndr) risponderebbe “all’esigenza delle aziende di trovare una sponda sindacale alternativa” rispetto alle altre sigle più disposte a ottenere diritti. In sintesi, un sindacato che ha il solo scopo di allinearsi al volere delle imprese. Il contratto, poi, prevede una pioggia di soldi che le app di Assodelivery verseranno nelle casse Ugl: 18 mila euro all’anno di rimborsi sindacali per i delegati e 70 euro all’ora per chi parteciperà alle riunioni di una commissione paritetica prevista dall’accordo. Per la Cgil, è “un sostegno economico illecito” per cui “l’esistenza stessa di Ugl Rider” finisce per “dipendere da Assodelivery”. La rappresentanza, quindi, non è genuina. L’obiettivo è far applicare il contratto della logistica per via giudiziaria. Un tentativo di ottenere una sentenza che scolpisca un concetto: l’Ugl rider si è comportato come un sindacato amico dei padroni.

L’unica soluzione possibile è ridurre l’orario di lavoro

Se non fosse per la tragedia dei morti, un Coronavirus ogni paio d’anni sarebbe perfino auspicabile per una serie di ragioni. Fornisce una micidiale cartina al tornasole per svelare quanti reagiscono alla pandemia in modo infantile e ci metterebbe di fronte alla necessità di distinguere tutto ciò che è necessario da tutto ciò che è superfluo. Ad esempio, il primo marzo scorso c’erano in Italia meno di 600 mila telelavoratori e, dopo dieci giorni, sono schizzati a 8 milioni.

Ora l’attenzione si sta spostando sui licenziamenti e anche in questo caso il Covid-19 rivela deficienze antiche. In occasione del lockdown il governo ha introdotto il divieto di licenziare per l’ovvia ragione che il danno del Coronavirus si sarebbe scaricato tutto sui lavoratori, migliaia di famiglie sarebbero state travolte dal duplice danno della disoccupazione e della pandemia, con effetti disastrosi sulla salute, sull’economia e sull’ordine pubblico. Che molte aziende siano piombate in difficoltà impreviste è sotto gli occhi di tutti; che, nei limiti del possibile, lo Stato debba correre in loro soccorso è altrettanto evidente. Ma la vicenda dei licenziamenti deve farci riflettere sulla struttura del mercato del lavoro nella società postindustriale e sull’unica possibilità di risolverne i problemi in maniera strutturale.

Il mercato del lavoro è come un lago con affluenti e defluenti. Alcuni fattori fanno aumentare il numero di persone che cercano lavoro: la cosiddetta offerta. Altri fattori fanno diminuire i posti di lavoro disponibili: la cosiddetta domanda. Purtroppo questi fattori non sono in equilibrio e, da alcuni anni a questa parte, l’offerta aumenta molto più della domanda reale.

L’aumento di persone che offrono il proprio lavoro è dovuto a molti motivi: la vita media si allunga; arrivano immigrati da altri paesi; la salute migliora; anche le donne, i giovani, gli anziani, i disabili, categorie prima escluse dal mercato del lavoro, giustamente pretendono un’occupazione.

D’altra parte il fabbisogno di lavoro (la cosiddetta domanda) tende a crescere meno velocemente per almeno quattro fattori: la globalizzazione, lo sviluppo organizzativo, l’eccessivo addensamento della ricchezza in poche mani e il progresso tecnologico. Fermiamoci un attimo su quest’ultimo fattore. Da decenni le macchine hanno cominciato a sostituire gli operai; quelle digitali hanno cominciato a sostituire gli impiegati e i funzionari; ora, con l’intelligenza artificiale, sarà la volta dei manager e dei professionisti.

Stiamo imparando a produrre più beni e servizi con meno lavoro. Trent’anni fa noi italiani eravamo 57 milioni e, in un anno, lavorammo 60 miliardi di ore; lo scorso anno eravamo 60 milioni e lavorammo 40 miliardi di ore. Con 10 miliardi di ore di lavoro in meno abbiamo prodotto 600 miliardi di dollari in più.

È il jobless growth, lo sviluppo senza lavoro che, se gestito bene, è l’essenza del progresso; se gestito male provoca disoccupazione, disuguaglianze e conflitti sociali. Semplifico al massimo: se ho cento dipendenti che lavorano 40 ore alla settimana e introduco in azienda una nuova macchina che sostituisce venti lavoratori, o ne licenzio venti o li tengo tutti ma riduco l’orario settimanale in modo che ognuno lavori 32 ore.

Noi ci siamo comportati nel primo modo: da decenni, ogni italiano lavora in media 40 ore alla settimana e 1.723 ore l’anno per cui il nostro tasso di occupazione è del 58% e quello di disoccupazione è intorno al 10% . Invece un tedesco lavora mediamente 1.356 ore l’anno, per cui l’occupazione è al 79% e la disoccupazione al 3,8%.Dunque, se nei tempi brevi i licenziamenti vanno ridotti con i soliti incentivi alle solite aziende, nei tempi medi e lunghi l’occupazione può essere salvata solo riducendo drasticamente l’orario di lavoro.

Rivogliono licenziare per colpire poi i salari

Una prima indicazione dovrebbe arrivare in serata, quando il Consiglio dei ministri licenzierà il Documento programmatico di bilancio, una sorta di bozza della manovra, che l’esecutivo invierà a Bruxelles. Ma la guerra per superare il blocco dei licenziamenti è già partita. La campagna martellante della Confindustria, guidata dal neo presidente Carlo Bonomi – arrivata a punte di vero folclore tipo “il blocco dei licenziamenti è il blocco anche delle assunzioni” (lo ha detto davvero all’assemblea di Assolombarda) – ha ovviamente trovato ascolto sui media e in parti rilevanti del governo e riacceso le tensioni mentre salgono i contagi da Coronavirus.

Ieri è toccato alle parti sociali avvertire il governo. Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto di prorogare il blocco in vigore da marzo scorso, ma alleggerito nel decreto agosto, oltre la scadenza di fine anno e fino alla durata dello stato di emergenza. È la risposta all’uscita del ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli: “Ritengo che il percorso fatto fino adesso, Cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, non possa essere prorogato ancora”. Un atteggiamento “irresponsabile” per i sindacati, che annunciano battaglia. “Patuanelli immagina un futuro senza occupazione”, l’ha fulminato la leader della Fiom Francesca Re David. L’uscita del ministro divide la maggioranza (LeU e pezzi del Pd sono contrari) ma la strada sembra tracciata. Al ministero del Lavoro, guidato dalla grillina Nunzia Catalfo, puntano a prorogare il blocco dei licenziamenti solo per quelle aziende che useranno la cassa integrazione (come già accade oggi, d’altronde) o la decontribuzione targata “Covid”.

La norma e i numeri

Fino ad agosto scorso il divieto di licenziare era totale, a prescindere dall’uso della cassa integrazione con causale “Covid”, disposta dal governo per fronteggiare l’emergenza. Col decreto Agosto la Cig è stata prorogata per altre 18 settimane e il blocco è stato esteso fino a metà novembre per le aziende che hanno usufruito di tutta la Cig e fino a fine anno per le altre. Si può licenziare però in caso di fallimento, cessazione attività o accordo con i sindacati. Che può succedere da gennaio se salta il blocco? Stime attribuite alla Cgil, che però non le conferma, parlano di un milione di posti di lavoro a rischio. L’ufficio studi della Uil, a luglio, ha stimato che senza rinnovo del blocco sarebbero stati a rischio 850 mila posti nel solo 2020, mentre col blocco la stima scende tra 530 mila e 655 mila posti. Vale la pena ricordare che con la crisi del 2008 si è perso un milione di posti di lavoro in 5 anni. E la crisi attuale sembra, nel medio termine, peggiore (il crollo del Pil stimato nel 2010, -9%, non ha eguali in tempo di pace).

Le vere ragioni

Le stime della Uil sono al netto delle aziende che hanno aperto o apriranno procedimenti di crisi, che devono ricorrere alla Cig straordinaria. La voglia di licenziare sbandierata dalla nuova razza padrona della Confindustria, come se le imprese non potessero reggere senza, nasconde altre esigenze. Nel 97% dei casi, la Cig usata nel 2020 è quella con causale “Covid”, che non aveva costi per l’azienda (per le altre tipologie si paga una sorta di ticket) fino all’estate: insomma è stata usta la Cassa integrazione a costo zero, anche senza aver avuto cali di fatturato (è successo per un terzo delle ore autorizzate, dice Inps). Ad agosto, quando il governo l’ha resa (un po’) onerosa per quelle aziende che non sono in difficoltà è partita la campagna per poter licenziare.

La crisi morde, ma l’impressione è che Confindustria sia più interessata a scaricare sulle casse pubbliche la riduzione del costo del lavoro via esuberi. Bonomi lo ha detto chiaramente all’assemblea di Assolombarda lunedì: “Riorganizzare vuol dire ristrutturare: vuol dire mandare qualcuno fuori dall’impresa perché non è più compatibile coi nuovi processi e assumere chi è necessitato”. Cioè lavoratori con meno tutele (senza l’articolo 18 eliminato dal Jobs act) e, per così dire, “necessitati” ad accettare salari più bassi. Per chi esce ci sono i sussidi di disoccupazione. È questa la “ristrutturazione” di cui parla Confindustria ed è lo scontro speculare a quello che Bonomi ha ingaggiato coi sindacati sui rinnovi contrattuali, a cui non vuol concedere aumenti salariali. L’unica certezza è l’epilogo. Bonomi ha ammesso che dopo il 31 dicembre quel che verosimilmente avverrà sarà “un numero molto importante di licenziamenti”.

L’obiettivo finale

L’aumento dell’intensità dello scontro svela anche la seconda partita in campo. È probabile che l’andamento dell’epidemia costringerà il governo a tornare sui suoi passi prorogando in parte il blocco. Ad ogni modo nella prossima manovra il capitolo imprese si annuncia come la parte più corposa. La proroga per un anno del taglio del 30% dei contributi dei lavoratori dipendenti dovuti dalle imprese del Sud vale 5-6 miliardi nel 2021, altrettanto vale la torta degli incentivi alle imprese (cosiddetta “transizione 4.0”), a cui vanno aggiunti a 2-3 miliardi di sgravi sulle assunzioni. Sul fronte ammortizzatori sociali, il governo ha intenzione di prorogare di altre 18 settimane la Cig Covid (estendendo pure il blocco dei licenziamenti per chi la usa) con uno stanziamento di circa 5 miliardi: la cifra più o meno equivale ai risparmi che – salvo sorprese o nuovi lockdown – si registreranno sugli stanziamenti messi in campo finora (13 miliardi in totale).

In audizione sul dl Agosto Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità dei conti pubblici), aveva avvertito il governo di conservare sul capitolo ammortizzatori sociali gli eventuali risparmi proprio per fronteggiare gli aumenti di spesa in sussidi che saranno necessari dando alle imprese libertà di licenziare.

“Nel vertice 5S anche Grillo e noni eletti come Di Battista”

L’obiettivo, giura, è rimettere assieme i pezzi del M5S: “Lavoro per ricucire”. Così dice il presidente dell’Antimafia Nicola Morra nel giorno in cui esce il regolamento degli Stati generali. Un testo che per Morra, pur andando nella direzione giusta, “perché garantisce la partecipazione degli attivisti e degli eletti a livello locale”, presenta “incertezze sui meccanismi di voto che spero verranno chiarite al più presto”.

Lei ha preparato una proposta in vari punti, “Idee in Movimento”, un progetto aperto a contributi. È la sua mozione per gli Stati generali?

Fin dal 2014 ho osservato un’involuzione del M5S, che si è trasformato in una struttura governata in modo dirigistico. Eravamo nati con tutt’altro spirito, con il mito dell’intelligenza collettiva, per allargare la partecipazione dei cittadini. Ma con l’imposizione del capo politico tramite legge elettorale c’è stato l’accentramento.

Avevate sin dall’inizio due capi, Grillo e Casaleggio.

Era una diarchia di non eletti. E per me un eletto non può fare il capo degli eletti, per un evidente conflitto di interessi. Infatti per la guida del M5S propongo un organo collegiale, in cui possano entrare anche gli attivisti.

Difficile che i big lascino entrare in segreteria un non eletto, non crede?

(Sorride, ndr) A oggi, Alessandro Di Battista è un attivista.

Come vorrebbe costruirla la segreteria?

Con il meccanismo delle graticole sul web, ponendo al centro i temi e i valori, ciò che siamo. Dopodiché auspico che nell’organismo collegiale ci fosse di diritto anche Grillo.

Di Battista e Casaleggio ritengono intoccabile il vincolo dei due mandati per i parlamentari. Lei?

Dobbiamo decidere se continuare a inneggiare a Sandro Pertini e Enrico Berlinguer, che hanno svolto ben più di due mandati, oppure se rincorrere tesi che all’inizio potevano far presa ma che vanno ripensate.


Ergo
, via i due mandati.

Sì, a patto di reintrodurre il voto di preferenza e meccanismi di trasparenza come il politometro (per calcolare la differenza del patrimonio posseduto dai politici dalla loro nomina, ndr). Se un parlamentare che lavora e sa trasmettere le sue competenze è scelto dai cittadini, perché privarsene?

Lei vuole regolamentare il rapporto tra M5S e piattaforma Rousseau. Ma tra voi e Casaleggio è guerra.

Vorrei che Rousseau fosse lo strumento di una rivoluzione tecnologica, e nutro gratitudine per Davide. Serve una concertazione in cui una parte non si imponga sull’altra. Ma una società privata non può regolare una realtà che ha una vocazione pubblicistica. Ci sono stati evidenti problemi.

Ve ne siete accorti tardi.

Meglio tardi che mai. Penso che anche lo stesso Davide abbia capito di dover rinegoziare.

Per Di Battista l’alleanza strutturale con il Pd è “la morte nera”.

Lo schema dei due forni è stato un errore, perché ha rilegittimato il sistema bipolare. Dobbiamo tornare a dettare l’agenda, e vedere chi la condivide.

Allearsi con il Pd o con le destre è indifferente?

No. Noi abbiamo valori universalisti, che sono quelli di un certo mondo. Per me non fa differenza la provenienza o la fede religiosa di un essere umano.

Lei vorrebbe “una rete di spazi fisici interconnessi”, cioè una struttura. Ma mantenere sedi costa.

Non ci vedrei nulla di male se ogni attivista lasciasse un contributo, magari di un euro, per mantenere un luogo con un pc e un videoproiettore.

Complicato.

In media un “laboratorio di idee” in ogni provincia italiana costerebbe inizialmente 1.500 euro al mese. E nel primo periodo si potrebbe partire con i contributi dei parlamentari.

Tra Ue, Mise e interessi: l’uomo del fare (nulla)

L’annuncio arriverà a breve, forse già nel fine settimana. E la strategia è chiara: correre a sindaco di Roma presentandosi come “l’uomo del fare” come l’ha definito pochi giorni fa Il Messaggero, il giornale di Caltagirone che, dopo aver fatto la guerra a Virginia Raggi, ormai tifa apertamente per la sua discesa in campo nella Capitale. Insomma Carlo Calenda si presenterà nella veste dell’imprenditore di successo (“Ha lavorato in Ferrari” si vantano i suoi) e del politico che si è sporcato le mani nelle istituzioni. Un mix tra Adriano Olivetti e Charles de Gaulle de’ noantri. Peccato che la realtà sia ben diversa.

Da quando ha deciso di lasciare la poltrona di dg dell’Interporto Campano per abbracciare la politica “come servizio”, Calenda ha cambiato più partiti che mutande accumulando una serie infinita di poltrone. Coordinatore della lista di Montezemolo “Italia Futura”, candidato (non eletto) con Scelta Civica di Mario Monti, poi renziano ma non iscritto al Pd, quindi anti-renziano iscritto al Pd, infine candidato (eletto) con il Pd al Parlamento Europeo prima di uscire dal Pd per fondare il suo partitino “Azione”. Sicuramente avrà cambiato molte volte idea – “Per 30 anni ho detto cazzate sul liberismo” ha ammesso – ma certo, le poltrone sono state un bello stimolo: sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Letta, sottosegretario del governo Renzi che a sua volta lo nomina ambasciatore dell’Italia in Ue e poi ministro con Renzi e Gentiloni. Dopo le elezioni del 2018, in cui il Pd renziano crolla, Calenda sta un anno senza poltrona prima di essere eletto come capolista del Pd alle Europee del 2019. Eppure, probabilmente scordando il suo passato, lui continua ad accusare gli altri di “trasformismo”: “Conte è un trasformista privo di valori. Potrebbe governare con chiunque pur di governare” twittava il 6 ottobre. Chissà cosa avrebbe pensato di se stesso quando saltava da una poltrona all’altra.

Un altro mantra del Calenda “uomo del fare” è quello di dileggiare chiunque non la pensi come lui arrogandosi il diritto di mandare gli altri “a lavorare”. “Vai a lavorare Anna” twittava Calenda contro la viceministra alla Scuola Ascani il 10 giugno scorso, mentre il 20 agosto se la prendeva con il commissario Domenico Arcuri che doveva “andare a lavorare, possibilmente in silenzio”. Peccato che lui a lavorare ci vada ben poco. Secondo la piattaforma Vote Watch Europe che analizza il lavoro del Parlamento europeo, Calenda è il quartultimo europarlamentare italiano per presenze nei voti chiave con l’86%: è 72esimo su 75 e peggio di lui fanno solo Aldo Patriciello, Franco Roberto e Silvio Berlusconi. Considerando tutta l’Assemblea Calenda è messo ancora peggio: è 661esimo su 701 europarlamentari. Non proprio uno stakanovista.

E anche quando lavora, i risultati di Calenda sono tutt’altro che positivi. A Bruxelles diversi colleghi hanno storto la bocca per un ipotetico conflitto d’interessi: Calenda è relatore del Rapporto sulla Politica Industriale dell’Ue ma allo stesso tempo “Azione” è finanziata dai più grandi gruppi industriali italiani: gli Arvedi che controllano uno dei più importanti poli siderurgici ma anche Gianfelice Rocca di Techint, Luca Garavoglia di Campari e Almberto Bombassei di Brembo. Anche quando si è occupato di crisi industriali non è andata benissimo: nei due anni in cui è stato ministro, i tavoli al Mise sono aumentati da 148 a 165 a fine 2017 prima di tornare a 144 nel 2018, quando aveva già lasciato il ministero. Sua è l’eredità della crisi di Embraco (data per risolta) mentre dalla sua scrivania sono passate Mercatone Uno (fallita con 1.600 dipendenti cacciati), Alcoa (in vertenza da 11 anni), Alitalia (sull’orlo del fallimento) e l’Ilva di Taranto: Calenda ha aperto la strada ad Arcelor Mittal che non ha mai rispettato gli impegni.

Raggi va in Appello: candidatura al bivio e dubbi sulla deroga

La prossima settimana potrebbe essere decisiva per Virginia Raggi. Lunedì si terrà in Corte di Appello il processo alla sindaca di Roma. Accusata di falso, è stata assolta in primo grado con formula piena, perché il fatto non costituisce reato. Tra tre giorni, dopo le discussioni della Procura generale e delle difese, i giudici quindi potrebbero già arrivare a sentenza, a meno che la Corte non decida di risentire qualche testimone. Resta uno snodo fondamentale per la sindaca, visto che incide direttamente sulla sua ricandidatura alla guida del Campidoglio. Il Codice etico del M5S, infatti, considera “condotta grave e incompatibile con la candidatura e il mantenimento di una carica elettiva quale portavoce del M5S la condanna, anche solo in primo grado, per qualsiasi reato commesso con dolo”. Come il Fatto ha raccontato nei giorni scorsi, nel M5S si considera questa norma troppo rigida rispetto alle esperienze maturate in questi anni. Prova ne è il caso di Chiara Appendino, la sindaca di Torino condannata per falso, che ha appena annunciato di non ricandidarsi nel 2021. Il capo politico Vito Crimi ha spiegato come si debba valutare “l’attualità” del Codice etico, che vieterebbe ad Appendino anche di ricoprire incarichi nella futura segreteria M5S.

Vale lo stesso per Virginia Raggi? Il Movimento che ribadisce il suo sostegno al bis della sindaca si sta interrogando, consapevole che la Raggi potrebbe decidere di candidarsi comunque, anche in assenza di “deroghe” al Codice etico. Per ora in Campidoglio si dicono “sereni”, forti di un’assoluzione incassata in primo grado e con formula piena.

Al centro della vicenda c’è la nomina (poi revocata) di Renato Marra, fratello del più noto Raffaele (ex braccio destro della Raggi) a capo del dipartimento Turismo. I pm romani sono convinti che la sindaca abbia dichiarato il falso al Responsabile anticorruzione del Campidoglio – che doveva rispondere all’Anac – quando ha affermato che nella nomina di Renato Marra a direttore del Turismo, il fratello Raffaele – allora capo del Personale – aveva avuto un ruolo di “mera e pedissequa esecuzione delle determinazioni da lei assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali”. Una menzogna, secondo i magistrati, tanto che hanno chiesto una condanna a dieci mesi. Di diversa opinione Roberto Ranazzi, il giudice che l’ha assolta: “I fratelli Marra – scrive nelle motivazioni della sentenza – hanno chiaramente agito all’insaputa del sindaco, allo scopo di ottenere per Marra Renato un ruolo da dirigente di fascia stipendiale superiore”. Ma un errore la sindaca lo ha commesso: “L’affermazione che il Marra non ha partecipato alla fase istruttoria dell’interpello per le nomine da dirigente amministrativo non corrisponde alla realtà”. Tuttavia “l’imputata, in sede di esame, (…) l’ha spiegata come deformazione professionale: avrebbe ragionato da avvocato più che da Amministratore”. Durante il processo in primo grado, tra le prove, l’accusa annoverava una riunione del 26 ottobre 2016, durante la quale, secondo i pm, Raffaele Marra avrebbe gestito la nomina del fratello. Fu un incontro “informale” a cui parteciparono l’allora assessore Adriano Meloni e Antonio De Santis, delegato dalla Raggi per l’istruttoria. È un incontro, secondo la ricostruzione di Ranazzi, tenuto all’insaputa della sindaca che, per il giudice, non era a conoscenza neanche dell’aumento stipendiale di Renato Marra.

Altra questione è una email del 7 novembre 2016 inviata da Meloni per conoscenza anche alla Raggi, in cui c’era scritto: “Ciao Antonio, poiché Virginia ha chiesto di comunicare le nostre ultime volontà ti confermo quanto comunicato a voce a te e a Raffaele (…) Direttore Turismo Renato Marra. Vi complimento per avermelo suggerito…”. Mail che, si legge nelle motivazioni di primo grado, non fu mai aperta dalla sindaca né dai suoi collaboratori. Alla luce di questi elementi Ranazzi ha concluso: “Raggi è stata vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra”. Chissà se questa tesi sarà condivisa anche dai giudici d’Appello.

Renzi vuole il rimpasto Molti del Pd sono con lui

Salta il voto ai 18enni per il Senato, dopo che i renziani si sfilano, e in un attimo alla Camera la situazione è di “pre-crisi”. “Vogliamo dare ai diciottenni il diritto di votare i senatori? Bene. Ma prima decidiamo che cosa fa il Senato, quale legge elettorale, quale correttivo dopo il taglio dei parlamentari”. L’annuncio di Maria Elena Boschi, via Facebook, è una dichiarazione di guerra. I renziani si tirano fuori dal percorso delle riforme. “Renzi vuole il rimpasto”, è l’accusa che arriva sia dai 5Stelle che dal Pd. L’ex premier prima di tutto vuole contare, pesare. Si agita per non morire. Sul tavolo non ci sono solo le poltrone nel governo, ma anche l’ingresso nella giunta Giani in Toscana, così come un ruolo da recuperare su Roma, tramite Carlo Calenda. Ma il rimpasto lo vorrebbero anche un pezzo del Pd e qualche grillino.

Di certo ai 5Stelle è parsa sospetta la rapidità con cui il capogruppo Graziano Delrio ha convocato un’assemblea dei deputati dem chiedendo a Conte un “vertice di maggioranza per un chiarimento politico e il rispetto dei patti”. Così come la repentina dichiarazione del vicesegretario dem, Andrea Orlando: “Questo è un fatto politico di cui si deve fare carico tutta la maggioranza, a partire da chi la guida”. I due sono sospettati da mesi di agire in funzione di un ingresso al governo. Entrambi non hanno fatto mai mistero di considerare la squadra inadeguata, giudicando non brillante la gestione dell’emergenza Covid. Tra i ministri più “sotto tiro” ci sono le grilline Lucia Azzolina (Scuola) e Nunzia Catalfo (Lavoro) e la dem Paola De Micheli (Trasporti). Ma ci sono malumori anche sulle renziane Elena Bonetti (Famiglia) e Teresa Bellanova (Agricoltura) e sul 5Stelle Sergio Costa (Ambiente). Mentre in attesa degli eventi ci sono anche grillini come Stefano Buffagni e Giancarlo Cancelleri. In questo quadro il dem Andrea Romano accusa Iv di “cinismo politico”. Il nome dei renziani sarebbe Ettore Rosato, non più la Boschi. Perché tra lei e Renzi ora la distanza è massima. Anche a causa di “fattori” esterni: Gianni Letta sta cercando di costruire un progetto moderato e avrebbe sondato lei e Davide Faraone. Ma non Renzi.

Conte però sul no al cambio di squadra è stato sempre fermo. Nicola Zingaretti non vuole forzare, ma continua a registrare molte delle problematiche che va denunciando da mesi. Ieri lui e Delrio si sono parlati. Il livello di critica nei confronti del governo non è lo stesso (il capogruppo dall’inizio è tra i meno soddisfatti), ma i due sono d’accordo sulla necessità di un tavolo (come chiesto da Renzi) a cui partecipino tutti e che permetta alla maggioranza di andare avanti non a tentoni. A mediare dovrà comunque sempre essere Conte, ieri lontano per il vertice europeo a Bruxelles. Sa che anche il leader di fatto del M5S, Luigi Di Maio, non spinge per il rimpasto. E da lì ripartirà.