Non era semplice distinguere la messa in onda del documentario Unposted dedicato a Chiara Ferragni dalle interruzioni pubblicitarie, ma con un po’ di impegno ce la si poteva fare. Gli spot avevano qualche termine inglese in meno e qualche spunto di creatività autonomo rispetto all’estatico biopic dove si narra l’ascesa a colpi di blog e post “dell’italiana più conosciuta all’estero”, così ha dichiarato Alberta Ferretti. Come Peter Schlemihl, anche Chiara Ferragni è una donna senz’ombra, pura immagine, ma senza patti col diavolo, e senza alcuna punizione in cambio della ricchezza. La Rete è più magnanima di Mefistofele. Forse per la democrazia in diretta sognata della piattaforma Rousseau bisognerà aspettare, ma l’imprenditoria diretta è una realtà salutata da milioni di follower che aspettano di sapere da Chiara Ferragni cosa mettersi addosso. Siamo ben oltre le felpe di Salvini: il mezzo è ancora il messaggio, ma nel frattempo si è trasformato in merce.
“L’influencer elimina ogni mediazione”, perfino se viene intervistato da Simona Ventura. Complimenti e lodi supplementari a cui lei oppone uno stupefatto profilo basso: “Una volta mi hanno detto che non sono ironica, e ci sono rimasta malissimo” (reazione tipica degli ironici). Lunedì ha preso forma su Rai2 la fenomenologia di Chiara Ferragni settant’anni dopo quella di Mike Bongiorno. Un’everywoman di genio nell’era in cui il genio è di tutti, orgogliosa della propria normalità, della propria ironia e del proprio basic italian capovolto (Mike parlava un anglo-italiano da emigrato, lei sfoggia un italo-inglese very glamorous). Poi bastava premere un tasto del telecomando, vedere come sono ridotti i cosiddetti Vip, e si capiva perché Chiara si guardi dal coltivare progetti televisivi. La ragazza non è affatto scema. E perché dovrebbe, l’italiana più famosa nel mondo? (A proposito: un’ottima notizia per la Ferragni, forse un po’ meno per il mondo, per l’Italia vedete voi).