Ferragni, zero ombre: solo immagine

Non era semplice distinguere la messa in onda del documentario Unposted dedicato a Chiara Ferragni dalle interruzioni pubblicitarie, ma con un po’ di impegno ce la si poteva fare. Gli spot avevano qualche termine inglese in meno e qualche spunto di creatività autonomo rispetto all’estatico biopic dove si narra l’ascesa a colpi di blog e post “dell’italiana più conosciuta all’estero”, così ha dichiarato Alberta Ferretti. Come Peter Schlemihl, anche Chiara Ferragni è una donna senz’ombra, pura immagine, ma senza patti col diavolo, e senza alcuna punizione in cambio della ricchezza. La Rete è più magnanima di Mefistofele. Forse per la democrazia in diretta sognata della piattaforma Rousseau bisognerà aspettare, ma l’imprenditoria diretta è una realtà salutata da milioni di follower che aspettano di sapere da Chiara Ferragni cosa mettersi addosso. Siamo ben oltre le felpe di Salvini: il mezzo è ancora il messaggio, ma nel frattempo si è trasformato in merce.

“L’influencer elimina ogni mediazione”, perfino se viene intervistato da Simona Ventura. Complimenti e lodi supplementari a cui lei oppone uno stupefatto profilo basso: “Una volta mi hanno detto che non sono ironica, e ci sono rimasta malissimo” (reazione tipica degli ironici). Lunedì ha preso forma su Rai2 la fenomenologia di Chiara Ferragni settant’anni dopo quella di Mike Bongiorno. Un’everywoman di genio nell’era in cui il genio è di tutti, orgogliosa della propria normalità, della propria ironia e del proprio basic italian capovolto (Mike parlava un anglo-italiano da emigrato, lei sfoggia un italo-inglese very glamorous). Poi bastava premere un tasto del telecomando, vedere come sono ridotti i cosiddetti Vip, e si capiva perché Chiara si guardi dal coltivare progetti televisivi. La ragazza non è affatto scema. E perché dovrebbe, l’italiana più famosa nel mondo? (A proposito: un’ottima notizia per la Ferragni, forse un po’ meno per il mondo, per l’Italia vedete voi).

Calabria: addio alla presidente Santelli. La Regione in mano all’eccentrico Spirlì

Mercoledì pomeriggio aveva lavorato nel suo ufficio alla Cittadella, sede della Regione Calabria. Aveva incontrato anche un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel al quale aveva rilasciato la sua ultima intervista. Poi ancora incontri politici a Cosenza prima di rientrare a casa, in via Piave, e appoggiarsi sul divano. E lì è morta la presidente della Calabria, Jole Santelli. Su quel divano la governatrice è stata trovata senza vita dal domestico filippino alle 6 di ieri mattina. Inutile l’arrivo dei medici che non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso per arresto cardiocircolatorio. La Santelli sarebbe morta poco dopo essere rientrata in casa. I funerali si svolgeranno oggi pomeriggio nella chiesa di San Nicola a Cosenza.

Ammalata da tempo, l’esponente di Forza Italia era in cura nel reparto di oncologia dell’ospedale di Paola. Nonostante tutto, a dicembre aveva accettato la candidatura vincendo le Regionali con il centrodestra. Adesso il Consiglio regionale dovrà essere convocato entro 10 giorni ed entro 3 mesi dovranno svolgersi le nuove elezioni. In periodo di Covid i tempi potrebbero dilatarsi e si voterà nei primi mesi del 2021. Il momento è doloroso, ma è inevitabile che dopo il lutto si aprirà la questione di chi dovrà raccogliere l’eredità dell’esponente di Forza Italia. Intanto le funzioni di governatore saranno svolte dall’eccentrico leghista, Nino Spirlì.

Ex berlusconiano di ferro, oggi è lui in Calabria l’uomo forte di Salvini. Con il leader del Carroccio e “armato” di scapolare della Madonna del Carmine, a inizio ottobre Spirlì era sul palco di Taurianova, suo paese di origine, per festeggiare la vittoria del candidato leghista.

Il suo cordoglio per la scomparsa della Santelli ha già il sapore del testimone che è stato raccolto: “Lavoreremo senza sosta – dice – per portare a termine il progetto politico di Jole”. Giornalista, scrittore, editore, opinionista e autore televisivo, Spirlì è tutto questo e gestisce il blog “I pensieri di una vecchia checca”, sul sito de Il Giornale, dove si definisce “crudo, diretto, spregiudicato, tenace, sentimentale, passionale, tuttosessuale ed espansivo”. L’ultima sua performance è stata a Catania, in una manifestazione del Carroccio, dove ha rivendicato il diritto di usare termini come “negro”, “frocio” e “ricchione”.

Adesso sarà lui a guidare la Regione Calabria.

Favori e concerti: indagato Esposito, ex senatore Pd

Gare truccate per favorire amici, spintarelle per uscire dal mirino dell’Antimafia, e favori illeciti in cambio di biglietti per i grandi concerti. Il pm di Torino Colace ha chiuso un’inchiesta che vede 40 persone, tra politici, imprenditori, membri della pa e forze dell’ordine, indagate per turbativa d’asta, corruzione e altri reati. Tra queste Stefano Esposito, ex senatore del Pd, il suo amico imprenditore Giulio Muttoni e il consigliere comunale torinese Enzo Lavolta (Pd), che respinge ogni addebito. Da membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie, Esposito si sarebbe attivato per aiutare Muttoni, presidente della Set up live srl, colpito nel 2015 da un’interdittiva antimafia. In cambio avrebbe ricevuto, da Muttoni e da Roberto De Luca (indagato, presidente del cda di Live Nation), una cena da 539 euro, un Rolex, un tapis roulant. Indagati anche un maresciallo Gdf, che avrebbe rivelato particolari dell’inchiesta e l’ex capo della scorta del pm Andrea Padalino (quest’ultimo non è indagato).

Agnelli, Suárez e l’eterno ricorso su Calciopoli

“Abbiamo esperito tutte le azioni a tutela della Società per ottenere quanto dovuto”. A ogni assemblea degli azionisti della Juvetus, Andrea Agnelli è costretto a rispondere a qualche socio che chiede conto degli scudetti revocati causa Calciopoli. Tuttavia il presidente ha anche aggiunto: “Siamo in attesa dei ricorsi al Tar che abbiamo proposto contro le decisioni della giustizia sportiva e del Coni. Ogni tentativo di ottenere la riassegnazione degli scudetti sarà effettuato”. Insomma, a quanto pare, a 14 anni dallo scandalo, la Juve ha ancora ricorsi a disposizione contro il Collegio di garanzia del Coni, che nel gennaio 2020 ha definito “inammissibile” quello contro l’assegnazione all’Inter dello scudetto 2006, dichiarando esauriti tutti i gradi della giustizia sportiva. E all’assemblea c’è stato spazio anche per il caso Suárez: “Non rischiamo nulla, l’esame di lingua non lo abbiamo organizzato noi” sostiene Agnelli. “Casi così – ha tuttavia sentito il bisogno di rispondere il ministro dell’Università, Gaetano Manfredi – non li vogliamo più vedere”.

Il giudice Mastrandrea e il “vizio” di sedersi a tavola con l’arbitro e uno solo dei giocatori

Avolte ritornano. Gerardo Mastrandrea, il giudice sportivo che ha sentenziato il 3-0 a tavolino a favore della Juventus e un punto di penalizzazione al Napoli, non è un omonimo del capo dell’Ufficio legislativo dell’allora ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, che una dozzina di anni fa si sedette a tavola all’Harry’s Bar di Roma con Denis Verdini, per un incontro conviviale finito nelle carte dell’inchiesta fiorentina sulla “cricca” degli appalti della Protezione civile ai tempi del G8. È proprio lui quel Mastrandrea. Che, da persona informata sui fatti, rispose alle domande degli inquirenti sulla partecipazione al pranzo di Riccardo Fusi, titolare della Btp. La presenza allo stesso tavolo di Matteoli, Verdini e Fusi era quantomeno inopportuna. Perché, secondo l’accusa, al centro di quella frequentazione c’era l’appalto “Scuola dei marescialli” di Firenze. Lavori nel 2001 aggiudicati alla Btp di Fusi, ma poi passati alla Astaldi dopo un contenzioso con lo Stato. Seguì un “lodo arbitrale” che assegnò a Btp 34 milioni di euro di risarcimento e poi il tentativo di Fusi di riottenere l’appalto con il ritorno di Berlusconi al governo, attraverso la sua amicizia con Verdini. Quel tentativo, secondo la ricostruzione accusatoria, era passato per la nomina di Fabio De Santis a provveditore alle Grandi Opere della Toscana e poi la sospensione tecnica dei lavori di Astaldi che “De Santis considera strumentale all’estromissione della società del cantiere”. Mastandrea dirà ai pm che aveva avuto l’impressione che Verdini volesse farsi bello con Fusi dimostrando di aver “fatto un lavoro di messa in contatto”. Tra una pietanza e l’altra, Mastrandrea – che per conto del ministero si occupava della vicenda Astaldi-Btp-Scuola dei marescialli – si sentì rivolgere da Matteoli, e dinanzi a Fusi, questa domanda: “Mastrandrea, che cosa state facendo?”. L’illegittimità di Astaldi sull’appalto “Scuola dei marescialli” a Mastrandrea non pareva così evidente. Tanto che ai pm dichiarò: “Vado dal ministro e dico: ‘Guardi non ci sono le condizioni per sospendere il cantiere, a mio avviso… non me la sento di farle firmare alcun atto che comporti la sospensione dei lavori’”. Insomma, Mastandrea sedette a un tavolo con l’arbitro di una partita – il ministro Matteoli – ma con una sola delle squadre in campo, Fusi per la Btp. Un po’ come Juventus-Napoli.

Effetto Covid seconda ondata: medici “in fuga” dagli ospedali

Stanchi, stressati, demotivati. In molti casi anche pesantemente traumatizzati dalla necessità di aver dovuto scegliere, nel pieno dell’emergenza della primavera scorsa, chi ospedalizzare e chi no. Tanto da non voler ripetere una esperienza drammatica che ha lasciato cicatrici profonde. Così i medici specialisti lasciano le corsie degli ospedali. Scappano dal servizio sanitario pubblico per andare in pensione, utilizzando le finestre di Quota 100 o Opzione donna. Oppure si licenziano, per poi riciclarsi nella sanità privata, per avviare una carriera libero-professionale o per diventare medici di famiglia.

La fuga era già iniziata qualche anno fa. L’epidemia di Covid-19 non ha fatto altro che darle una poderosa spinta. Con il risultato che – secondo stime del sindacato dei medici dirigenti Anaao-Assomed – entro il 2023 potrebbero abbandonare il posto di lavoro circa 37 mila camici bianchi. “Molti – dice il segretario nazionale del sindacato, Carlo Palermo –, non vogliono affrontare un altro periodo di forte stress fisico e psicologico”. Seppure con dimensioni diverse il fenomeno riguarda un po’ tutto il Paese. Anche se ci sono regioni come il Piemonte dove l’esodo ha raggiunto picchi allarmanti. Qui l’anno scorso, secondo uno studio condotto dallo stesso sindacato, ogni giorno dagli ospedali pubblici si è dimesso almeno un medico. Una resa quotidiana. Con una corsa a lasciare il servizio che ha riguardato soprattutto i reparti in prima linea, tra pronto soccorso, rianimazione, chirurgia, medicina generale: l’era Covid l’ha accelerata. Mentre quelli che hanno usufruito di Quota 100 od Opzione donna, in un solo anno, dal 2019, potrebbero essere stati 1.500, in base alle prime stime. Numeri che in Piemonte, dove ci sono quasi 8.500 medici ospedalieri, dovrebbero replicarsi nel 2020. “Anche volendo prendere in considerazione solo il 15% tra chi ha i requisiti per anticipare l’uscita dal servizio, saremmo comunque a quota 600”, spiega Chiara Rivetti, segretaria regionale di Anaao. Per esempio: ha scelto di andarsene A. (chiede l’anonimato), per 25 anni chirurgo all’ospedale di Bra, in provincia di Cuneo. “Non c’erano più le condizioni per lavorare serenamente – racconta –, e appena ne ho avuto l’opportunità sono passato alla medicina territoriale. Dalla chirurgia ce ne siamo andati in tre. Adesso sono medico di famiglia, come un’altra mia collega. Il terzo è andato in una casa di cura privata”.

Sul fenomeno incide anche il fatto che l’età media dei medici ospedalieri è sempre più alta. Se ne contano in totale, in tutto il Paese (con un contratto a tempo indeterminato), oltre 106mila. Di questi, quasi 21mila hanno tra i 55 e i 59 anni, oltre 30mila hanno superato i sessant’anni, e tra questi più di 5mila i 65. Condizione che riguarda anche gli infermieri. Tanto che si assiste a un paradosso: in alcuni casi – nonostante le Regioni abbiano provveduto a ingaggiare medici per far fronte all’emergenza – gli operatori sanitari sono diminuiti invece di crescere. Il caso del Lazio è emblematico. Qui sono andati in pensione circa 3.500 persone tra medici e infermieri. Vale a dire più dei tremila scarsi reclutati dalla Regione. Così oggi ce ne sono 500 in meno. E va considerata la carenza di 5mila unità ereditata da dieci anni di commissariamento.

In realtà, secondo i medici ospedalieri, la pandemia ha solo scoperchiato una situazione che era già insostenibile da tempo – tra organici sottodimensionati, turni massacranti, ricorso costante agli straordinari, eccessiva burocratizzazione nella gestione dei pazienti – portando a galla quanto denunciavano da anni. Con la conseguenza che l’impatto sul sistema sanitario, sotto la fortissima pressione esercitata dalla pandemia, potrebbe essere devastante, soprattutto per i piccoli ospedali.

“La verità è che la rete ospedaliera finora ha retto sul nostro sacrificio”, dice Esther Pasetti, psichiatra e segretaria Anaao Emilia-Romagna, vale a dire una di quelle regioni dove se fino all’anno scorso il ricorso alla pensione o alle dimissioni scattava sì ma non frequentemente – tanto da poter parlare di casi quasi isolati – oggi assiste a un fenomeno che si sta strutturando. “È come uno stillicidio, lento ma costante: c’è chi si licenzia e chi cerca di andare in pensione in anticipo”, conferma Pasetti. “Del resto – prosegue –, ormai tutti gli ospedali sono diventati come un grande pronto soccorso, dove si lavora molto e in emergenza, con poco tempo da dedicare ai pazienti e alla formazione. È per questo che tanti giovani colleghi preferiscono andare all’estero, in Paesi dove ci sono condizioni di lavoro diverse, migliori”. C’è poi l’aspetto economico. L’indennità di esclusività – istituita nel 1999, vale circa 10mila euro lordi all’anno – non è mai stata incrementata e ha perso circa il 50% del valore. Mentre ai medici del Pronto soccorso da tre anni non viene pagata l’indennità Inail. L’epidemia ha messo a nudo il re.

Reparti Covid già pieni al 90% e De Luca chiude ancora le scuole

Scuole e Università chiuse fino al 30 ottobre e fino ad allora solo didattica a distanza, vietate le cerimonie e le feste con invitati estranei al nucleo familiare, sospensione dell’attività dei circoli ricreativi, stop all’asporto dopo le 21. Nei giorni scorsi, il governatore Vincenzo De Luca aveva annunciato chiusure a tappeto in Campania se il differenziale tra contagiati e guariti avesse superato quota 800. E ieri il bollettino, impennato a 1.127 casi di Covid a fronte di 317 guariti, ha segnato un più 810 da far tremare i polsi in una regione che a giugno era arrivata a contagi zero. Di qui l’ordinanza particolarmente restrittiva. Sembra passato un secolo da fine settembre, quando De Luca voleva riaprire lo stadio San Paolo al 25%, su input di uno dei suoi grandi sponsor, Aurelio De Laurentiis.

Per provare ad addolcire la pillola, per la prima volta l’Unità di Crisi regionale ha precisato la cifra degli asintomatici: ben 1.055, a fronte di soli 72 sintomatici. Scovati grazie a numeri di tamponi che in altre regioni a popolazione simile sono la normalità, ma che qui sono un record: 13.780.

Magre consolazioni, perché a preoccupare sono altri dati, quelli relativi ai report dei posti letto. Secondo la fase C del piano messo a punto nelle scorse settimane dai tecnici dell’unità di crisi, la Campania avrebbe dovuto affrontare il previsto aumento dei contagi passando dai 559 della fase B (media diffusione) a 1.095 posti letto Covid (per la seconda ondata) entro metà ottobre. Non ci sono riusciti. Si è fermi da qualche giorno a 820 posti letto. Ieri ben 762 erano occupati. Meno allarmante, ma comunque seria, la situazione delle terapie intensive: ne sono disponibili 110, di cui “solo” 66 occupati. Il problema sono gli indici di crescita: i ricoverati sono aumentati di 27 unità in un giorno, i malati in rianimazione sono 5 in più del giorno prima. Con questi ritmi la saturazione degli ospedali avverrà in una settimana. Il Cotugno, l’avamposto della lotta al Covid-19, è pieno da giorni. Il virus sta correndo più velocemente dell’incremento dei posti letto. E tra i comunicati di De Luca non c’è traccia di tempi e modi di come accelerare su questo versante.

Su un altro versante, quello dei tamponi e del contact tracing, ieri il sindaco di Caserta, Carlo Marino, in qualità di delegato dell’Anci nell’Unità di Crisi, ha fatto sua la rabbia dei primi cittadini: “Ritardi inconcepibili nei test e nella comunicazione dei risultati, siamo allo sbando”, con chiaro riferimento alle file chilometriche di poveri cristi davanti ai laboratori pubblici. L’Asl Napoli 1 ha intanto deciso di rimodulare il servizio dei laboratori del Frullone: tamponi solo con la prescrizione del medico curante. Finora era sufficiente dichiarare sul posto di aver avuto un contatto con un positivo.

A Milano indice Rt superiore a 2. Al Sacco soltanto malati Sars Cov-2

Una corsa verso l’alto. È quella dei contagi in Lombardia che ieri hanno toccato quota 2.067 – 1.844 mercoledì e già era stato un record –, 72 le persone in terapia intensiva (+8), 726 in altri reparti (+81). Ventisei morti, tamponi analizzati 32.507. La più colpita, la provincia di Milano, con 1.053 casi, 515 in città.

Numeri che hanno fatto scattare l’allarme, non ancora l’emergenza. Ieri il sindaco Sala, dopo l’incontro col Prefetto, ha escluso “interventi radicali”, sottolineando come eventuali chiusure ci saranno “solo se la situazione dovesse aggravarsi”. Ma ha evidenziato come “da due giorni l’indice Rt nella Città metropolitana ha superato 2 e preoccupa la tendenza”.

Ogni decisione è rinviata a oggi, quando si terranno sia l’incontro Comune-Regione, sia la riunione del Cts. Intanto però iniziano le difficoltà: l’ospedale Sacco ha chiuso il pronto soccorso ai pazienti non Covid. La struttura è “invasa”, ha dichiarato il cardiologo Maurizio Viecca, “abbiamo pregato il 118 di non portare urgenze qui, anche se ovviamente chi si autopresenta viene curato”. Stessa scelta per il Fatebenefratelli. Comprensibile quindi l’appello lanciato da Vittorio Demicheli, ds dell’Ats Città metropolitana: “Se siamo veloci possiamo ancora fare provvedimenti più restrittivi senza arrivare a bloccare tutto. Ma ciascuno deve rinunciare a qualcosa”.

Attilio Fontana ha escluso lockdown (“Non siamo a quel punto”), ma mira a inasprire le misure del Dpcm. A partire dalla scuola, con la differenziazione degli orari di inizio delle lezioni, scelta condivisa dal ministro Azzolina. I passi li ha spiegati il Dg Welfare, Marco Trivelli: “Orari differenziati per l’ingresso per poter differenziare i percorsi e l’affluenza sui mezzi pubblici; anticipare la chiusura di alcuni esercizi pubblici; incentivare lo smart working; dove possibile tornare a lavorare a domicilio; limitare per qualche settimana gli spostamenti”. Senza escludere una nuova stretta alla movida. Per il dottor Gianluigi Spata, presidente Omceo Como e membro del Cts, “in questi 2/3 giorni qualcosa è cambiato. A Como l’infettivologia è chiusa, le intensive non sono piene, ma le semi-intensive sì”. Per Spata le armi per fermare i contagi sono aumento dei tamponi e test rapidi. “Noi medici di base siamo pronti a farli in ambulatorio, ma servono spazi e strutture adeguate. Un’organizzazione che ora manca”. A complicare le cose, l’avvio della campagna vaccinale: “Se faccio arrivare un sospetto Covid in ambulatorio per il test, devo poi sanificare tutto. Ma, insieme, devo anche organizzare la vaccinazione di oltre 500 pazienti, seguendo rigidi protocolli. E siamo già in grande ritardo”. E di una cosa Sparta è sicuro: “I lockdown locali non servono. Le decisioni devono essere omogenee, non ha senso chiudere Seregno, se poi lascio aperta Rovellasca!”.

“Per ora possiamo solo stabilizzare la crescita”

Il 25 agosto aveva previsto: “Rischiamo 4 mila casi in poche settimane”. Aveva ragione, per difetto.

Claudio Mastroianni, direttore delle Malattie Infettive del Policlinico Umberto I e ordinario alla Sapienza. Si aspettava questo aumento?

Non me lo aspettavo così presto. Pensavamo che l’aumento delle scorse settimane fosse legato al rientro dalle vacanze. Poi, invece, con la riapertura delle attività nelle grosse città, delle scuole (dove tuttavia il rischio è minore) e il ritorno in massa sui mezzi pubblici, è ripartito tutto. Ora la cosa più preoccupante è la diffusione all’interno delle famiglie.

La prima ondata è arrivata poco prima della primavera. Ora davanti abbiamo l’inverno.

Paradossalmente ci potrebbe aiutare, perché rispetto a 6 mesi fa abbiamo anticipato le misure di contenimento. Se riuscissero a stabilizzare i casi sarebbe già un risultato.

Le misure sono sufficienti?

Sono misure iniziali. Al momento non è facile dire se basteranno.

Abbiamo raddoppiato i casi in una settimana: la prima volta che abbiamo raggiunto quota 4mila è stato l’8 ottobre. La situazione ci è sfuggita di mano?

Sta partendo un andamento esponenziale, ma il 4 ottobre non c’erano le nuove misure.

Ne vedremo gli effetti tra 10-15 giorni. E se non bastassero?

Dovranno intervenire le Regioni con lockdown localizzati.

Nel frattempo?

Supereremo i 10mila casi in pochi giorni. Al momento i contagiati sono in gran parte ancora giovani e asintomatici. Nel frattempo però crescerà inevitabilmente la pressione sugli ospedali. E gli operatori sono sempre gli stessi.

Siete in pochi?

Servono degli innesti. L’assistenza in ospedale e a domicilio è molto impegnativa. Sul fronte diagnostico al Policlinico facciamo 900 tamponi al giorno. Poi c’è tutta la parte clinica. Ora, in vista dell’aumento dei ricoveri, abbiamo aperto altri reparti.

Quanti?

Ora siamo arrivati a oltre 170 letti. Abbiamo aperto una subintensiva, e abbiamo altri 4 reparti di malattie infettive per degenza ordinaria oltre a quelli che avevamo prima. Il problema è che abbiamo l’intensiva praticamente piena. Siamo al limite, ma ancora reggiamo.

Quanto reggerete?

Non dipende solo da noi. Bisogna organizzarci con il territorio. Al momento la situazione è diversa da quella di marzo ma la pressione sta aumentando, così come i decessi. Il che è un indicatore chiaro del modo in cui sta evolvendo la malattia.

Ieri ce ne sono stati 83, quasi il doppio in 24 ore.

La malattia sta tornando a colpire i più fragili. E non è cambiata come qualcuno aveva detto quando i contagi erano molto diminuiti. Ora sta aumentando di nuovo l’età media delle nuove infezioni. È anche vero però che a marzo la letalità era più alta.

Il 20 marzo con 6.500 casi i morti erano 793.

Vede? 83 morti su 8mila casi è un dato che paradossalmente ci tranquillizza, significa che la situazione è ancora sotto controllo. Ma se i casi continuano ad aumentare il controllo non potrà durare.

I contagi verso quota diecimila “Così si rischia il coprifuoco”

Nessuno indica una soglia in chiaro, ma nei palazzi governativi a mezza bocca si dice: “Se nei prossimi giorni i nuovi contagi schizzassero a 15/20 mila al giorno un altro Dpcm con una sorta di coprifuoco sarà preso in considerazione. Per scongiurare questo scenario, entro due settimane le ultime misure dovranno aver dato frutti”. Per ora i numeri allarmano: +8.804 (+1.472 rispetto a mercoledì), nuovo record di tamponi a 162.932 (+10.736 sul giorno precedente) e 83 morti, dato raddoppiato in 24 ore. E arriva il quasi-lockdown di De Luca che fa infuriare la ministra Azzolina con la chiusura di scuole e università in Campania.

L’altro numero sotto osservazione è quello delle terapie intensive, ovviamente, che ieri ha registrato un +47 pazienti portando il totale a 586. In reparti ordinari +326 e un totale di 5.796 malati di Covid-19. Le persone in isolamento domiciliare sono 92.884 (+6.448), mentre guariti e dimessi sono 245.964, con un incremento di 1.899 persone: quindi di nuovo decisamente di meno rispetto ai nuovi infetti. E anche il monitoraggio settimanale Gimbe uscito ieri pare un bollettino di guerra: +61% terapie intensive e +40% ricoveri, + 39,4% decessi, +104,2% nuovi casi col +14,4% di nuovi tamponi.

La parola lockdown – chiusura di quasi tutte le attività produttive e delle scuole con la straordinaria limitazione della possibilità di spostamento dei cittadini – ritorna quindi di moda nel dibattito e rimane come uno spettro sull’Italia, ma il premier Giuseppe Conte, ieri impegnato a Bruxelles nel Consiglio europeo, non vorrebbe prendere in considerazione un nuovo blocco totale generalizzato, auspicando chiusure a macchia di leopardo concordate con le Regioni. E ieri proprio il presidente della conferenza delle Regioni, il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini ha avvalorato questa ipotesi: “Le cose fatte in intesa con il governo, hanno sempre funzionato da quando è iniziata la pandemia, con il governo che emana decreti e le Regioni che hanno poteri restrittivi. La diffusione del virus non è omogenea”. Come da copione il primo a muoversi è Vincenzo De Luca: in Campania ieri +1.100 positivi e saldo superato di 800 persone tra nuovi contagi e guariti che lo stesso De Luca aveva indicato come limite prima di “chiudere tutto”. La nuova ordinanza regionale prevede feste in casa solo per “il nucleo familiare convivente”, cibo da asporto non oltre le 21, e soprattutto scuole e università serrate con didattica a distanza fino al 30 ottobre. “Una decisione gravissima e profondamente sbagliata – per la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina intervenuta ieri sera su Radio1 Rai –. La scuola è sicura, le scuole dovrebbero essere le ultime a chiudere in questo Paese. Vogliamo togliere agli studenti un diritto costituzionalmente sancito perché i problemi stanno da altre parti? Cosa faranno ora i ragazzi? De Luca pensa che rimarranno a casa? Il governatore dovrebbe tenerle aperte le scuole per capire meglio da dove arrivano i contagi. In Campania solo lo 0,075% degli studenti è risultato positivo al Covid e di sicuro il virus non è stato contratto in classe. La media nazionale degli alunni che hanno contratto il coronavirus è dello 0,080%, la Campania è al di sotto anche della media nazionale. Capisco la preoccupazione di De Luca per la crescita dei contagi, ma sicuramente non è colpa della scuola. Lo dicono i dati”. E la ministra non esclude neppure il braccio di ferro legale: “Un eventuale ricorso? Si leggerà l’ordinanza e poi il governo deciderà tutto insieme”.

Anche a Milano c’è l’ipotesi di una nuova stretta locale conseguente a un indice di contagio Rt superiore a quota 2. Si vedranno oggi il governatore Attilio Fontana e il sindaco Beppe Sala: “Bisogna agire in fretta. Ma non prevedo interventi radicali rispetto al Dpcm”. Brutti numeri anche in Toscana: di nuovo vietate le visite alle Rsa; e a Piacenza: la Ausl chiude tutti gli ospedali alle visite dei parenti.