Sembra ieri

Sembra ieri che tutti dicevano: sacrifichiamo tutto tranne la scuola, smart working per tutti ma non per gli studenti, la didattica a distanza non esiste, pensiamo anzitutto ai nostri ragazzi, non rubiamogli il futuro, l’hanno detto Greta e Draghi! Poi il vituperato governo Conte con i putribondi Azzolina e Arcuri, ha garantito la didattica di presenza. Ma chi ieri la invocava oggi chiede di tornare alla didattica a distanza. E Sala, che demonizzava lo smart working, oggi invoca lo smart working.

Sembra ieri che tutti chiedevano la testa della ministra dell’Istruzione che mai avrebbe riaperto le scuole, e del commissario Arcuri, che mai avrebbe trovato i banchi, mentre il Fatto solitario segnalava che la ministra inefficiente era quella dei Trasporti, la De Micheli, oltre alle solite Regioni. Oggi tutti scoprono che il disastro non sono le scuole, ma i trasporti.

Sembra ieri che le Regioni che ora rivogliono la didattica a distanza aprivano le discoteche chiuse dal governo e volevano riempire gli stadi di tifosi. Oggi accusano il governo di non fare abbastanza contro il Covid, come se non avessero già fatto abbastanza, a favore del Covid.

Sembra ieri che tutti chiedevano il Mes come panacea di ogni male, emorroidi incluse (l’altra sera, per dire, l’ha chiesto pure Cristina Comencini). Ora si scopre che i rendimenti dei titoli di Stato sono così bassi che, se il Tesoro ha bisogno di soldi, può raccoglierli sul mercato ai tassi del Mes. Ma non ne ha bisogno, infatti le emissioni di titoli sono in calo, malgrado l’aumento delle spese per il Covid. Dunque il Mes, oltre a non servire a una mazza, non ha più neppure alcuna convenienza.

Sembra ieri che tutti si scagliavano contro l’ultimo Dpcm di Conte: assurdo, incomprensibile, roba da meme, anzi da Stasi, ti entrano in casa, sarà la morte per bar e ristoranti, e poi perché 6 persone e non 5 o 7? Ora si scopre che Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Irlanda del Nord, Danimarca, Catalogna, Paesi Bassi e Grecia hanno imposto divieti identici, o più stringenti.

Sembra ieri che virologi, giuristi, politici, giornalisti e opinionisti un tanto al chilo facevano a gara a escludere la seconda ondata, anzi la sopravvivenza stessa del Covid, ormai estinto, mutato o indebolito (il famoso Sars Cov Pippa), incitavano la gente a gettare le mascherine, ad ammucchiarsi e godersi la vita: se il governo osava citare il virus era per terrorizzarci e conservare il potere, la dittatura sanitaria e il regime della paura, a suon di stati d’emergenza e Dpcm. Memorabili le filippiche di Cassese contro “lo stato di emergenza senza più emergenza”. Ora rieccoci a contare 8mila contagi e 80 morti al giorno: invece del Covid, si è estinto Cassese.

Sembra ieri perché era ieri.

Festa del Cinema: tra Covid e assenze, è l’anno da “io speriamo che me la cavo”

Anima o, serve ancor più, animo! La XV Festa del Cinema di Roma s’inaugura oggi con Soul, l’animazione Disney-Pixar diretta da Pete Docter, e non ci potrebbe essere partenza più puntuale, perfino simbolica. Il film viene da Cannes, ovvero ne conserva l’etichetta: l’annullamento causa Covid-19 del festival francese l’ha traslocato dalla Croisette sul Tevere, con il regista – premiato alla carriera – in collegamento da Los Angeles e gli esercenti italiani sugli scudi per la decisione della Casa di Topolino di levarlo dalle sale, dove era atteso il 19 novembre, e metterlo sulla piattaforma Disney + a Natale. Insomma, un titolo in cui coagulano problemi e tensioni dell’audiovisivo ai tempi della pandemia: confidiamo sia bello, ché non è aria.

La Festa sta appesa ai bollettini dei contagi e agli ospiti che forse ci saranno e forse no, primus inter pares Francesco Totti: ieri si è celebrato il funerale del padre Enzo, la bandiera della Roma è atteso all’Auditorium Parco della Musica sabato 17 ottobre per l’anteprima del documentario diretto da Alex Infascelli, Mi chiamo Francesco Totti, e domenica 18 per l’incontro con il pubblico moderato da Pierfrancesco Favino. Outlook stabile, la sua assenza assesterebbe un duro colpo alla manifestazione, presieduta da Laura Delli Colli e diretta da Antonio Monda, già provata dall’emergenza Covid: accessi contingentati, prenotazioni obbligatorie, misurazione della temperatura corporea, tracciamento (molto più raffinato quello della Mostra di Venezia, per esempio, alle proiezioni stampa qui non ci sono posti assegnati…), red carpet oscurato e, core business dell’autonoma e parallela sezione Alice nella Città, scolaresche a ranghi assai ridotti. Se Venezia ha dimostrato di essere stata un’isola felice e nulla più, con la retorica della ripartenza cinematografica prima azzoppata al botteghino e poi giubilata dallo slittamento del film di 007 No Time to Die, a Roma che si può chiedere, se non un “io speriamo che me la cavo”, un tot di assistenza – contano ad Alice – ai film in uscita, il radicamento territoriale e un po’ di risonanza oltre il Raccordo? Meglio puntare sulle cose belle, che confidiamo di qui al 25 ottobre non mancheranno: gli incontri, a meno di defezioni, con il re del trash John Waters (sabato 17) e il frontman dei Radiohead Thom Yorke (sabato 24); l’elogio del bicchiere di Thomas Vinterberg, Un altro giro, con un Mads Mikkelsen ad alta gradazione; il pluripremiato documentario di Francesca Mazzoleni, Puntasacra, ad Alice; la love story carceraria Time di Garrett Bradley, in programma oggi e predestinato agli Oscar; i primi due episodi della serie spin-off del Primo re, Romulus di Matteo Rovere; l’esordio alla regia tragico, low-cost e pariolino di Gipo Fasano, Le Eumenidi; il sequel di Train to Busan Peninsula, campione d’incassi del sudcoreano Yeon Sang-ho; Lockdown 2020 – LItalia invisibile, un corto in Realtà Virtuale di Omar Rashid sulle nostre città d’arte.

Vicidomini, “Il più grandecomico morente” è tra noi

Quando sentirete parlare di Nicola Vicidomini sarà tardi. Non perché lui è “il più grande comico morente”, dunque già morto nel futuro prossimo. Sarà tardi perché era obbligatorio accorgersene prima, capire che nella selva dei comici gnè gnè, titolare di quella tristezza televisiva del sabato sera, Vicidomini, con la sua carica animalesca, il ronzio dei suoi verbi imperfetti, l’indagine acustica sui rumori dell’uomo, è una creatura assolutamente fuori registro, fuori passo dai tempi che corrono.

Vicidomini è l’energia primordiale dell’homo ridens. La sua carica belluina, il suo rap gutturale, le sue battute non lo fanno assomigliare a nessuno dei suoi colleghi (colleghi?) in attività. L’unico uomo di teatro sconosciuto ai più, che ha raccolto su di sé una vasta e forbita opinione critica. È in libreria il libro (Il più grande comico morente, Mimesis edizioni) che raccoglie una vastità abbastanza spettacolare di pareri illustri, di competenze tecniche che descrivono le capacità indiscutibili e per lo più cavernicole, con le quali il nostro Vicidomini racconta i piani bassi dell’umanità, le vicende con le quali l’uomo deve fare i conti. Ora Fauno, ora Scapezzo (titoli dei suoi spettacoli, dati in piccoli teatri ma sempre andati sold out) il nostro Nicola conta la realtà assegnandole posti visionari, dirupi esistenziali, sgarrupati, scapezzati.

Lui disorienta, rimuove, reinventa la fonetica e la lingua. Non è un Benigni del sud, qualità che gli deriverebbe dall’essere nativo di uno dei luoghi più belli della Costiera amalfitana, cioè Tramonti, un paesino che ha i suoi piedi sul culmine della collina e guarda il mare dall’alto, estraneo a esso, immerso nella civiltà rurale della propria tradizione.

Cochi Ponzoni e Nino Frassica, che lo omaggiano di una riverenza particolare, di una devozione singolare verso le sue performance comico-fisiche, al suo bagaglio verbale di contumelie contadine che riversa sul palcoscenico dove lui e il suo corpo, ora vestito di stracci e ora anche di niente, affronta la filosofia della vita. Ecco brevemente – per capirci – cosa fa dire a Fauno, un suo fortunato personaggio: “La persona più distante da me stesso sono io. Odio le sensazioni che provo. Ho gusti molto differenti dai miei. Politicamente la penso diversamente. Nonostante tutto non riesco ancora a dormire in camere separate (…) Mi seguo pure quando vado in bagno. L’unica cosa positiva di questo rapporto è che non siamo riusciti ad avere figli”.

Direte: è puro non sense! È di più, secondo me: perfida ma sottile linea che illustra, nel caos delle simulazioni impossibili, la vita di tanti, lo scoramento di tanti.

Vicidomini non è solo ancestrale, non emette solo mugugni per assomigliare a quell’uomo di Neanderthal che la sua postura riesce a offrire. Mugugna, irride, spoetizza, sviscera, slabbra perché racconta la piccolezza dell’uomo, la sua a volte oscena esistenza. Nei testi critici raccolti da Enrico Bernard, ciascuno degli studiosi aggancia a Vicidomini un aggettivo, o anche una definizione di specie. Chi lo vede amorale, chi solo umoristico, chi visionario, chi anche animale. Chi filosofo, chi sociologo del caos, chi scimpanzé di teatro, saltimbanco, procuratore di risata.

Vicidomini, che dentro di sé ha una carica esplosiva di vitalità e forza fisica, si danna l’anima per farsi vedere, notare, per far sorridere ma anche ragionare.

Si uccide di fatica sul palco, e alla fine, stramazzando di gusto, muore di felicità.

Sono io il Padrino, Mario Puzo. Lui, Coppola e la leggenda

Invece che di due ragazzi desiderosi di maritarsi a dispetto dei tanti guai – I Promessi Sposi – la storia narrata dall’Alessandro Manzoni della Little Italy, ovvero Mario Puzo, è quella di un Re, don Vito, con tre figli maschi cui affidare il proprio regno: Santino, Michael e Fredo.

Mario Puzo, scrittore americano di origini italiane, raggiunge una fama planetaria con la pubblicazione del libro The Godfather, nel 1969 e con la successiva trilogia di film tratta dal suo lavoro. Il titolo da cui prende avvio l’epopea della famiglia Corleone, per sessantasette settimane, resta in vetta nelle classifiche del New York Times.

Un Re, dunque, e tre figli. Forse il lavoro non è venuto bene. Dopo tre anni di scrittura – fermentato in un seminterrato, all’ombra di un grande biliardo – ne viene fuori sformato ma, confezionato al meglio del pop con in copertina la mano nera che agguanta i fili dei pupi, va via come il pane.

Lui stesso, “un contadino italiano che si è fatto un pezzetto di terra”, lo ripeteva alla moglie e ai suoi bambini: “Sto scrivendo un best-seller”. Autore di discreto successo, rispettato dalla critica letteraria, già dal suo primo titolo The Dark Arena, Puzo – nato a New York il 15 ottobre 1920, morto a Long Island nel 1999 – ne ricava un ruolo importante ma non risolutivo.

“Avevo 45 anni”, racconta, “dovevo decine di migliaia di dollari a parenti, banche, società finanziarie, allibratori e usurai, era arrivato il momento di diventare adulto e fare fortuna”. E la fortuna gli si mette accanto quando gli arriva un’offerta di quattrocentomila dollari per la prima sceneggiatura del Padrino e per i diritti. Telefona alla madre per darle la notizia e lei gli risponde così: “Forse sono quaranta?” “No – precisa il figlio – proprio quattrocentomila”. La madre, Maria Le Conti, forgiata nella tipica diffidenza contadina, sentenzia: “Troppi, allora c’è sotto qualcosa”. Il vecchio odore della miseria delle sue origini riaffiora da Hell’s kitchen, la cucina dell’inferno, come Puzo ha ribattezzato il quartiere della sua infanzia, insieme al senso di vuoto e di diffidenza causato dall’abbandono del padre. Un inferno dal quale ne esce trasformando in successo tutto quel Sud d’Italia che lo plasma già dalle budella.

Il Padrino è la trasfigurazione dell’esistenza di un ragazzo deciso di fare della letteratura un mestiere e che a sedici anni va solo per biblioteche. La vita a Little Italy non è facile per una famiglia numerosa come la sua. Anthony Puzo, il padre, operaio alle ferrovie, arrivato con la moglie da Pietradefusi, sperduto paesino in provincia di Avellino, lascia la famiglia quando Mario è un ragazzino di dodici anni. La madre si trova a crescere da sola i figli nell’America della grande depressione dove è appena arrivata. In una bellissima intervista a Vittorio Zucconi, Puzo racconta questa sua spontanea intersezione col Padrino per tramite della madre: “Il mio modello è stata lei donna bellissima e silenziosa ma implacabile contro chiunque facesse un torto alla sua famiglia. In quel caso, andava in un’osteria del quartiere a parlare con un vecchio signore distinto, seduto sempre allo stesso tavolo. Dopo quella conversazione, giustizia era fatta”.

Francis Ford Coppola non ha ancora trent’anni quando, incaricato dalla Paramount, sta leggendo quello che a una prima impressione è solo una vicenda di “stupidità e sesso” ma anche lui, come Puzo, ha una famiglia di tre figli cui procurare il pane e perciò si fa piacere il libro per farne una storia classica, quella di un sovrano in cerca di degni eredi per il proprio regno.

Un re con tre figli, allora. Un canovaccio shakespeariano, una tragedia della lirica greca, un cuntu della tradizione orale siciliana: “Ho amato Mario come si ama lo zio preferito”, annoterà Coppola, “era divertente stare con lui, era caldo, saggio, divertente e affettuoso, parlava sempre di sua moglie e dei suoi figli”. Insieme preparano le sceneggiature dei tre film, e per i primi due ottengono l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale. Per preparare le scene, Coppola e Puzo s’incontrano a casa del regista, lavorano con il rumore dei bambini in sottofondo e pranzano con pasta al pomodoro e vino rosso. A Puzo tocca la sintesi delle corpose note di sceneggiatura di Coppola. Nella scena in cui Clemenza descrive una ricetta di Michael, “Prima fai rosolare la salsiccia…”, Puzo corregge: “I gangster non rosolano, friggono”. Puzo ama le mozzarelle, le salsicce, i cannoli e il gioco d’azzardo. Quando a volte se ne vanno a lavorare in un palazzo al cui interno c’è una bisca, Puzo, ridacchiando, dà di gomito a Coppola e gli dice: “Perdo migliaia di dollari giù e ne faccio milioni di sopra”.

S’è favoleggiato che nel personaggio di Don Vito Corleone, ci sia il boss Vito Genovese mediatore con le forze armate americane per l’invasione della Sicilia del 1943. Un altro boss, Joe Gallo, chiede di conoscerlo per appropriarsi della maschera di don Vito ma Puzo garbatamente si nega. Il padrino del terzo volume della trilogia, L’ultimo Don si chiama Clericuzio, il soprannome di famiglia della madre e così “don Mario” chiude il cerchio d’immedesimazione con se stesso e con la propria storia. Non senza un abbellimento rispetto alla realtà quando per don Vito, per assomigliare alla migliore delle trasfigurazioni e dire finalmente, con Flaubert, “Madame Bovary sono io”, Puzo vuole Marlon Brando. Così da poter dire, “don Vito sono io”.

Giovani addio, sotto i trent’anni solo il 5,8% di tutti gli impiegati

Negli stabilimenti di Fca, Cnh e Marelli sei lavoratori su 10 (il 59,7%) sostengono che negli ultimi anni le condizioni di lavoro sono peggiorate. Solo l’11,9% le giudica migliorate.

A pesare sono soprattutto i carichi di lavoro, dei quali il 43,1% dei dipendenti esprime un giudizio negativo a fronte del 9,7% che vede un netto miglioramento. A 40 anni dalla “marcia dei quarantamila” che avrebbe dato inizio alla grande ristrutturazione produttiva della Fiat contro i sindacati e a 10 anni dal piano di rilancio dell’automobile italiana firmato Marchionne (che subordinava gli investimenti allo stravolgimento dell’organizzazione del lavoro), è un’inchiesta operaia a fare luce sulle condizioni lavorative imposte agli operai.

Nel libro Lavorare in fabbrica oggi. Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Fca/Cnh/Marelli, edito dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a cura delle Fondazioni Claudio Sabattini e Giuseppe Di Vittorio, sono stati raccolti i dati di circa 10mila questionari a cui ha risposto nel biennio 2015-2017 il 20% della platea di riferimento operaia di 54 stabilimenti (solo 1 su 5 sindacalizzato Fiom).

Emergono numerose criticità sulla condizione dei lavoratori e sul modello produttivo adottato dal Gruppo, che cerca di mantenere alta la competitività nei mercati globali sfruttando, ben oltre i limiti, la fatica fisica dei lavoratori, con notevoli impatti negativi sulla loro salute. Così a pesare di più per gli operai sono gli alti carichi imposti, tanto che i tempi di lavoro sono poco o per nulla sostenibili secondo il 46,2% del campione, con una parte degli intervistati che ritiene migliorata solo la situazione ergonomica. Un fattore determinante è l’età media dei lavoratori Fca: il 40% va dai 40 e 49 anni, il 34% tra 50 e 59, mentre gli under 29 anni rappresentano il 5,8% del totale e il 2% di quelli Cnh. Sotto accusa c’è il modello produttivo: strategie che non riescono a coniugare le esigenze di sviluppo con la sostenibilità ambientale e sociale, mentre la piena occupazione resta un miraggio con troppi stabilimenti che vanno avanti a turni di cassa integrazione. E la nuova Stellantis (Fca-Psa) non risolverà automaticamente la crisi strutturale del sistema automotive italiano.

“Il fatto che stiamo parlando della prima grande inchiesta operaia che si fa dagli anni 80 la dice lunga su come è stato poco valorizzato in questi anni il lavoro industriale”, ha commentato la segretaria della Fiom Francesca Re David. “In Fca – ha aggiunto – la contrattazione è stata messa fuori dagli stabilimenti e la pressione sul lavoro e quella dettata dalle macchine mette l’organizzazione del lavoro ai margini”.

Fca adesso è nuda, l’inchiesta operaia nella fabbrica in crisi

“Parlano ancora di divisioni in classi: una sciocchezza. Mi fanno ridere quando ci chiamano padroni”. Era l’aprile del 1988 quando Cesare Romiti, con tono sprezzante, consegnava questa sentenza definitiva a Giampaolo Pansa, nel libro-intervista Questi anni alla Fiat subito balzato in vetta alle classifiche. Il manager romano che nell’autunno 1980 aveva sbaragliato i sindacati dopo i 35 giorni di resistenza operaia a Mirafiori, non si presentava solo in veste di condottiero della riscossa aziendale, ma per ciò stesso come salvatore della nostra economia, portavoce di un modello virtuoso da applicarsi anche alla gestione della cosa pubblica.

Oggi che possiamo verificare sul lungo periodo l’esito di quel conflitto sociale, culminato nella cosiddetta “marcia dei quarantamila” (non erano più di un quarto) del 14 ottobre 1980, la realtà ci appare ben diversa. L’equazione secondo cui “ciò che va bene alla Fiat va bene per l’Italia”, si è rivelata una grande bugia. Usufruendo di mano libera nella sua ristrutturazione e godendo di un decennio di enormi profitti, la multinazionale torinese scelse di impiegarli in operazioni di diversificazione finanziaria. Insieme al costo del lavoro, sacrificò la qualità dei prodotti e arretrò nell’innovazione tecnologica fino a ridursi sull’orlo del fallimento. Il Gruppo Fiat, che nel 1980 aveva in Italia 350 mila dipendenti, oggi ne conta meno di 80 mila. Ha dovuto far ricorso a ingenti finanziamenti pubblici, mentre il reddito dei suoi lavoratori subiva una netta decurtazione.

Conosciamo le conseguenze sociali e politiche della stagione in cui la sinistra ripudiava come anacronistico il ruolo di centralità assegnato alla classe operaia: un divorzio dal suo mondo d’origine che ne avrebbe più che dimezzato il peso elettorale. Ma quel distacco esistenziale, il progressivo disinteresse per le condizioni di vita e di lavoro di una classe falsamente descritta come in via di estinzione, ha prodotto anche un guasto culturale: in troppi si sono illusi che sacrificare la dignità e il valore del lavoro manuale fosse un prezzo inevitabile per garantire una crescita economica che, viceversa, ne ha subito un colpo letale.

Benvenuta, dunque, l’inchiesta operaia (esperienza desueta, ma preziosa) che oggi ci offrono la Fondazione Di Vittorio e la Fondazione Sabattini, a fotografare la presenza in Italia della Fiat divenuta Fca e prossima alla fusione con Peugeot. L’età media dei dipendenti supera i 45 anni, cioè l’età media del nostro già troppo vecchio Paese. Ben il 34% degli operai Fiat hanno fra i 40 e i 49 anni. Quanto al livello di istruzione, il 34,2% ha fatto solo la scuola dell’obbligo. Gli iscritti al sindacato sono meno di un terzo dei dipendenti.

Le circa diecimila interviste effettuate (il 20% della componente operaia) rivelano che solo il 12% dichiara di aver migliorato la propria condizione. Il 60% ne denuncia invece il peggioramento. Se il rinnovamento degli impianti ha prodotto, per fortuna, un calo degli incidenti gravi, si registra però il fenomeno dell’occultamento degli incidenti meno gravi, mascherati come eventi di natura diversa (malattia, ferie e permessi, infortuni in itinere). Negli ultimi tre anni solo il 57,9% degli episodi risulterebbero “regolarmente denunciati”.

Spostata ad Amsterdam la sede legale e a Londra la sede fiscale, l’azienda sotto la guida di Marchionne ha inaugurato il metodo Wcm (World Class Manufacturing) che in teoria dovrebbe superare l’organizzazione tayloristica e fordista della produzione. Ma i diecimila intervistati rilevano che ciò non ha incrinato il tradizionale modello gerarchico: spesso il team leader dei gruppi di lavoro tende a sostituire il delegato nel rapporto diretto con i vertici. Mirando a tagliare fuori i sindacati. In particolare la Fiom Cgil, che pure resta il sindacato con più tesserati, ha vissuto una lunga stagione di emarginazione dopo il suo rifiuto di sottoscrivere nel 2011 gli accordi aziendali. Tra gli intervistati ce n’è uno che, facendo strage della sintassi ma con notevole chiarezza, sintetizza così la situazione: “Gli operai vivono secondo me troppo la Fiom come se all’azienda fai un torto”.

Chi avrà ancora il coraggio di sostenere che tutto ciò abbia fatto il bene dell’Italia?

Un girone infernale: chierichetti del Papa tra abusi e omertà

L’immagine che è emersa nella prima udienza del processo sugli abusi sessuali nel pre seminario vaticano, è quella di un girone infernale dove violenza e lussuria convivevano indisturbate all’ombra del Cupolone. Al centro dello scandalo, i chierichetti del Papa che ogni giorno, al mattino presto, servono la messa ai prelati che celebrano nella Basilica di San Pietro. Nel 2017, a rompere questo muro di omertà è Gianluigi Nuzzi col suo libro Peccato originale che raccoglie la testimonianza di uno dei seminaristi che, quasi ogni sera, assisteva agli abusi sessuali commessi da un ragazzo poco più grande sul suo compagno di stanza. Seguì un’inchiesta de Le Iene che insospettì il Papa che volle vederci chiaro. Dopo 2 anni di indagini, nel settembre 2019 i pm vaticani hanno rinviato a giudizio due preti: don Gabriele Martinelli, all’epoca dei fatti seminarista, che è accusato di abusi sessuali, e don Enrico Radice, ex rettore del pre seminario San Pio X, accusato di favoreggiamento. Un provvedimento che è stato possibile proprio per volontà di Bergoglio. Come ha precisato il Vaticano, infatti, “nonostante i fatti denunciati risalgano ad anni in cui la legge all’epoca in vigore impediva il processo in assenza di querela della persona offesa da presentarsi entro un anno dai fatti contestati, il rinvio è stato possibile in virtù di un apposito provvedimento del Santo Padre, che ha rimosso la causa di improcedibilità”. Anche perché il pre seminario è un istituto di orientamento vocazionale, all’interno dello Stato più piccolo del mondo, voluto da Pio XII e affidato, nel 1956, a don Giovanni Folci, un prete di Como. È tra quelle mura che sono nate, nel corso dei decenni, numerose vocazioni di ragazzi che hanno potuto servire la messa ai Papi che si sono succeduti, ma anche a numerosi cardinali, vescovi e preti della Curia romana.

Ieri mattina si è tenuta la prima udienza che ha sancito anche il debutto in aula di Giuseppe Pignatone come presidente del Tribunale vaticano. Misure di sicurezza anti contagio rispettate al massimo: termoscanner all’ingresso, oltre al consueto metal detector, mascherine obbligatorie e distanziamento per tutti i 13 presenti. Il primo imputato ad arrivare è stato don Martinelli, oggi 28enne. Vestito con una polo nera a mezze maniche e un maglioncino anch’esso nero poggiato sulle spalle, ha ascoltato in silenzio, seduto e con le braccia conserte, tutte le fasi dell’udienza durata appena 8 minuti. Quando il cancelliere ha letto ad alta voce tutti i suoi capi di imputazione, il suo viso tradiva un’espressione di stupore. Per anni, quei sacri palazzi sono stati la sua casa e ora, divenuto prete e poi anche parroco, si è ritrovato sul banco degli imputati nel luogo dove ha vissuto gran parte della sua adolescenza. Cinque minuti prima dell’ingresso in aula dei giudici, è arrivato don Radice, classe 1949, vestito con un clergyman nero.

Don Martinelli è accusato di aver usato violenza e minaccia, abusando della sua autorità e approfittando delle relazioni di fiducia in qualità di frequentatore anziano del pre seminario, tutore e coordinatore delle attività dei seminaristi, costringendo la sua vittima, di un anno più piccola, a subire ripetuti abusi all’interno del Vaticano. Violenze, che sempre secondo l’accusa, sono avvenute dal 2007 al 2012. Don Radice è accusato, invece, di avere più volte, come rettore del pre seminario, in Italia e anche all’estero, aiutato Martinelli a eludere le investigazioni dopo i reati di violenza carnale e libidine. Nella prima udienza del processo è, infatti, emerso che il 3 ottobre 2013 il sacerdote ha inviato una lettera al vescovo di Como, monsignor Diego Coletti, da cui dipende il pre seminario vaticano, in cui smentiva la denuncia della vittima di Martinelli, definendola fumus persecutionis.

Ma non solo. Don Radice ha inviato successivamente una falsa lettera a nome del presule, su carta intestata della diocesi di Como, in cui annunciava l’imminente ordinazione sacerdotale di Martinelli. Lettera che è stata disconosciuta da monsignor Coletti. Nel 2018, durante un interrogatorio con i pm vaticani, don Radice ha anche sostenuto “con certezza assoluta” di non essere a conoscenza di atti omosessuali o di libidine nel pre seminario di cui era rettore. In questo modo, secondo i magistrati, ha intralciato le indagini insabbiando le accuse. Per anni, le violenze che avvenivano in quella scuola dove maturano tante vocazioni, sono state sapientemente occultate. Fu proprio il Vaticano ad ammetterlo, nel 2017, dopo le inchieste di Nuzzi e de Le Iene. Le prime denunce, anonime e non, arrivarono, infatti, già nel 2013 sulle scrivanie degli uomini più potenti della Curia romana: i cardinali Angelo Sodano, ex Segretario di Stato e all’epoca decano del Collegio cardinalizio, il suo successore Tarcisio Bertone e Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro e vicario generale del Papa per la Città del Vaticano. Tutto però fu archiviato troppo in fretta. Fino a oggi.

Barrett, la giudice “sfinge” che manda in tilt la politica

Sarà pure una Figlia di Maria, anzi una ancella del Signore, come si chiamano le fedeli del People of Praise, la comunità ecumenica di cui fa parte; ma non è per nulla politicamente sprovveduta. Anzi, Amy Coney Barrett, la giudice di 48 anni scelta da Donald Trump per colmare il vuoto creato nella Corte Suprema dalla morte di Ruth Bader Ginsburg, ha finora messo nel sacco, nelle audizioni in Commissione Giustizia del Senato, sia repubblicani che democratici: delude i primi, che tanto ne voteranno lo stesso la conferma; ed elude le domande dei secondi, che vogliono metterla in difficoltà.

È stata, fin qui, una battaglia dialettica, anzi una partita a scacchi, soprattutto fra donne: la Barrett, cattolica, conservatrice, sette figli, di cui due adottivi, e le senatrici democratiche della California, Kamala Harris, candidata vice-presidente, e Dianne Feinstein. Rappresentano facce femminili di un’America spaccata, consapevole che spetterà alla Corte Suprema dirimere alcuni dei nodi che dividono il Paese, l’aborto, l’Obamacare, le armi, forse l’esito del voto in caso di contestazioni, come ha già ventilato Trump. Il quale trova che la Barrett “sta facendo molto bene”. E, in effetti, quand’è già in dirittura d’arrivo – le audizioni, iniziate lunedì, si concludono oggi –, la Barrett è riuscita a dribblare le domande, specie su aborto e Obamacare. Non si sbilancia sulla sentenza del 1973 su cui poggia il diritto di abortire negli Usa – “Non è opportuno che mi pronunci prima di insediarmi”, risponde alla Feinstein –. Assicura che sarà “obiettiva”, senza farsi condizionare nelle sue decisioni dalle convinzioni religiose: “Il mio faro è la legge”. E nega di avere preso impegni con Trump: “Sarebbe una madornale violazione dell’indipendenza giudiziaria se l’avessi fatto”. La Harris la interroga nel puro stile procuratore – lo fu in California –, e la incalza ancora su aborto e Obamacare. La Barrett replica, decisa, che non sapeva, prima d’essere designata, che Trump volesse un giudice per abolire l’Obamacare – cosa poco verosimile, visto che lo sapevano tutti – e torna a rifugiarsi nella recita dei principi appresi dal suo mentore alla Corte Suprema, Antonin Scalia. Nel novero delle donne contro, s’inserisce con un tweet Hillary Clinton, che non apprezza la Barrett giudice ‘originalista’, che intende cioè richiamarsi alla Costituzione “come fu ratificata”: “Quando la Costituzione fu ratificata – nota Hillary – le donne non potevano votare. Né essere giudici”. Contro la Barrett, del resto, i democratici evitano d’usare l’argomento dell’integralismo religioso. E con l’elusione e il richiamo ai principi, la Barrett evita pure le trappole che le creano i repubblicani a caccia di trofei – vorrebbero impegni contro aborto e Obamacare –. Se arriverà fino in fondo con un percorso netto, la giudice vedrà vicina la conferma. Le due defezioni finora annunciate, di Susan Collins e Lisa Murkowski, non compromettono la loro maggioranza, restano loro 51 voti su 100.

Alba Dorata, 13 anni al leader che sdoganò i neonazisti

Ora i genitori del giovane rapper e attivista di sinistra, Pavlos Fyssas, accoltellato a morte nel 2013 ad Atene da un membro di Alba Dorata, potranno finalmente cercare di metabolizzare il proprio lutto. A pochi giorni dalla storica sentenza del Tribunale d’appello di Atene in cui si è stabilito oltre ogni ragionevole dubbio che il partito neonazista antisemita Alba Dorata è una vera e propria organizzazione criminale, sono state rese note le condanne. Al leader nonché fondatore, il sessantenne Nikos Michaloliakos, sono stati inflitti 13 anni di prigione, ovvero la pena quasi massima prevista per la guida e gestione di una banda di delinquenti incalliti accusata di numerosi crimini tra cui l’odio politico e razziale. L’ascesa di Alba Dorata, nata nei primi anni 80, cominciò con l’aggravarsi della crisi economica greca nel 2012. Il “partito” allo scopo di ottenere voti e arrivare in Parlamento finse di avere abbandonato le istanze neonaziste e di essere diventato sovranista e anti euro. Peccato che ad Atene da allora furono registrati decine di attacchi violenti contro ambulanti stranieri, pescatori di varie nazionalità e militanti di sinistra, tra cui Fyssas. Il cantante, 34 anni, fu ucciso davanti a un bar della zona periferica del Pireo dopo essere caduto in un’imboscata tesa da una squadraccia di Alba Dorata. A sferrargli le coltellate mortali al cuore fu Giorgos Roupakias di cui Fyssas fece il nome a coloro che lo soccorsero. Dopo ben cinque anni tra processo di primo grado e audizioni, i tre giudici della Corte d’appello hanno confermato che l’esecutore materiale dell’omicidio è stato effettivamente Roupakias e lo hanno condannato all’ergastolo più altri 10 anni per associazione a delinquere. La Corte non ha accolto la sua richiesta di uno sconto di pena perché “seriamente pentito.” In generale per le attività criminali di Alba Dorata sono state portate alla sbarra 68 persone.

Negli anni “dorati”, l’ex partito aveva ottenuto quasi il 10 per cento dei voti nelle varie elezioni legislative diventando il terzo partito greco. La sua discesa agli inferi è cominciata dopo il primo processo per l’omicidio di Fyssas. Nelle ultime consultazioni Alba Dorata non ha raggiunto la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento.

Anche undici ex parlamentari sono stati condannati al carcere: alcuni a cinque anni, altri a sette, per appartenenza a un’organizzazione criminale.

Nostalgia canaglia: l’“Evonomics” pesa sulle Presidenziali

L’Argentina ha battuto la Bolivia 2-1 in casa nel secondo turno delle qualificazioni ai Mondiali del 2022. Chissà per chi avrà tifato l’ex presidente boliviano Evo Morales, in esilio dallo scorso novembre in Argentina e in attesa, in questi giorni, di altri risultati: quelli che domenica prossima potrebbero riportare alla guida del Paese, non lui, ma almeno il suo partito, Movimento per il Socialismo. Il candidato di Mas – quella di Evo al Senato è stata rigettata perché residente da meno di due anni nella circoscrizione in cui si presentava – ex ministro dell’Economia del suo governo, Luis Arce, infatti, è dato tra il 42 e il 44% dei voti. Se fosse in vantaggio del 10% sul candidato di Comunidad Ciudadanas, Carlos Mesa, al 33%, eviterebbe il ballottaggio. Una vittoria schiacciante, secondo i sondaggi, quella di Morales e della “Evonomics” che Arce rappresenta, contro la crisi a cui la pandemia in Bolivia ha dato il colpo di grazia. La disoccupazione all’11,8% contro la crescita costante del Pil annuo di 4-5 punti negli ultimi sei anni di presidenza Morales, la Caritas ha spinto i partiti contendenti a indicare nel programma un piano contro la povertà visto l’aumento di indigenti in Bolivia, dopo la diminuzione del 23% nell’ultima decade del governo Mas.

Le elezioni del 18, rinviate per due volte dall’inizio della pandemia e considerate le più rilevanti degli ultimi decenni, si svolgono in un clima di forte tensione sociale e politica, dopo il precedente del novembre 2019 in cui Morales venne accusato di brogli e costretto a lasciare il Paese. Il presidente indigeno continua la sua battaglia chiamando alle elezioni i boliviani fuoriusciti come lui e residenti nell’Argentina guidata da Fernandez; il 2% degli elettori, 145 mila dei 300 mila sparsi per il Continente sudamericano degli oltre 7 milioni che hanno diritto di voto: “Numeri che potrebbero essere l’ago della bilancia perché Mas raggiunga una maggioranza schiacciante”, sostiene Morales in video. Una maggioranza “necessaria per fare in modo che gli oppositori non gridino di nuovi ai brogli”, chiosa. Ma più dei fuoriusciti, contano a La Paz le schede dei “pititas”, i manifestanti anti-governativi nati nel 2016 contro il referendum di Morales che introduceva il terzo mandato presidenziale. Gli stessi che con le proteste dello scorso novembre hanno tenuto in scacco per 21 giorni il presidente, giovando dell’alleanza dell’esercito, e spingendolo così all’esilio dopo 13 anni e 9 mesi di presidenza. “Un colpo di Stato”, secondo Morales, su cui ha messo il cappello l’allora vicepresidente del Senato e tuttora presidente ad interim della Bolivia, Jeanine Áñez – che però non si è ricandidata – che ha tentato di guadagnarsi il consenso dei manifestanti chiamando Pitita il suo cane. I “pititas”, centinaia di migliaia di voti della classe media e bianca del Paese potrebbero essere la sorpresa dalle urne, pur essendo diventati silenti in questi ultimi mesi anche a causa della pandemia. Il Covid in Bolivia ha segnato 139 mila contagi e 8 mila morti, di cui 3 mila recuperati dalla polizia per le strade di La Paz e Santa Cruz anche per colpa di un sistema sanitario in tilt al punto che tra la popolazione si era diffusa la pratica di ingerire candeggina per curarsi dal virus. Per strada hanno resistito invece i militanti di Mas ammutinati contro un secondo rinvio delle elezioni, prima fissate per il 7 settembre, accusati di aver causato la morte di almeno 30 persone per aver ostruito con le barricate l’arrivo di ossigeno negli ospedali. Tornando ai “pititas”, domenica sceglieranno tra Carlos Mesa, già presidente della Bolivia dal 2003 al 2005 e a capo della coalizione Comunidad Ciudadana, guidata dal Fronte Rivoluzionario de Izquierda (Fri) e Luis Camacho ultraconservatore della coalizione “Creemos” che potrebbe arrivare al 16,7%, obbligando al ballottaggio.