È con una certafelicità che, in mezzo a una congerie di velate minacce sul tema “divieto agli aiuti di Stato”, abbiamo letto le parole della commissaria Ue Margrethe Vestager a La Stampa a proposito delle sue prossime mirabolanti iniziative: pare che sia in arrivo un “Digital Market Act” per stabilire alcune regole e poi per creare “uno strumento che ci consentirà di avviare indagini su un determinato mercato, non più quindi sulle singole società, e imporre rimedi in caso di criticità”. Una bella indagine sul mercato, hai voglia, sarebbe la prima. D’altronde conoscere per deliberare, per carità, anche se all’Ocse, ad esempio, sanno già tutto, ma sulla cosiddetta web tax non vogliono deliberare: se ne parla quasi dai tempi in cui Internet andava a 56k e questa settimana s’è capito che se ne parlerà anche l’anno prossimo. “La speranza è trovare un’intesa entro la metà del 2021”, scriveva Il Sole 24 Ore martedì, e la speranza si sa è l’ultima a morire, molto dopo il senso del ridicolo. Sempre ieri, invece, le agenzie riportavano il contenuto dell’annuale studio di R&S Mediobanca sui bilanci delle multinazionali, un capitolo del quale è dedicato ai giganti del web e del software (Microsoft, Google, Facebook, eccetera), aziende il cui fatturato è salito del 17% nei primi sei mesi dell’anno, quelli del lockdown: “Circa la metà dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, come l’Irlanda e Singapore, con un conseguente risparmio fiscale di oltre 46 miliardi nel quinquennio 2015-2019. Il tax rate effettivo delle multinazionali WebSoft è pari al 16,4%” (Ansa). Se avete visto recentemente una vostra busta paga potete considerarlo uno scherzo. Ma di quanti soldi sottratti al fisco parliamo? Prendendo in considerazione tutte le multinazionali, anche quelle “tradizionali”, una stima della Commissione Ue sostenne che per il solo 2015 si parlava di 50-70 miliardi di euro; un successivo rapporto dell’Europarlamento ha criticato quella stima e sostenuto che 160-190 miliardi l’anno siano “una stima conservativa delle mancate entrate fiscali per l’elusione delle multinazionali”. Questo per dire: ma una bella lotteria dello scontrino multinazionale, no?
De Laurentiis, l’alieno del calcio nell’età dell’oro di “90° minuto”
Negli anni 70 e 80, per lo sport in tv, in Italia c’era solo la Rai. Mediaset, o meglio Fininvest, stava completando l’allestimento della sua scuderia: nel 1980 Canale 5, nell’82 Italia 1, nell’84 Rete 4. Le pay tv (Tele +, la prima) erano ancora di là da venire, lo sport e il calcio erano di casa solo in Viale Mazzini 146, Roma. Erano, quelli, gli anni d’oro di 90° Minuto, il programma di Paolo Valenti che faceva del tratto folkloristico dei corrispondenti dai campi il suo punto di forza: mezzibusti dichiaratamente tifosi, a volte seriosi, a volte permalosi, spesso goffi ma alla fine, a dispetto di gaffes e sfondoni, irresistibilmente simpatici. Necco da Napoli e Vasino da Milano, Carino da Ascoli e Giannini da Firenze, Castellotti da Torino e Bubba da Genova: era il pallone raccontato alla Peppone & Don Camillo, oggi ho vinto io, prendi, incarta e porta a casa, Napoli che sfotte Milano, Milano che promette vendetta. Il calcio di Rai1.
Se poi, maneggiando con cura l’antidiluviano telecomando dell’epoca, provavi a premere il tasto 2 e a spostarti su Rai2, non finivi su un altro canale: finivi su Marte. A farti gli onori di casa trovavi un vero alieno, Gianfranco De Laurentiis, giornalista sportivo come quelli di 90° Minuto, ma avanti anni luce. Dotato di un senso del ritmo unico, competente, professionale, sobrio ed essenziale, De Laurentiis, che con Giorgio Martino conduceva Eurogol (un sogno per gli appassionati: mostrava i gol di tutte le partite europee), e poi Domenica Sprint, Dribbling, Gol Flash e Numero 10 (con Platini), ti portava nelle galassie del nuovo millennio. Se Tonino Carino, esperto di calcio internazionale, a 90° Minuto chiamava l’Osasuna “O Susana” (non avendola mai sentita nominare prima), De Laurentiis no. De Laurentiis era solo bravura e preparazione vere. Una rarità, nella Rai di allora. Se n’è andato ieri, a 81 anni, silenzioso e leggero. Con il suo stile.
Mail Box
Dovreste far nascere una scuola di giornalismo
Bisogna riconoscere la bontà del suo giornale che non viene finanziato con soldi pubblici. Allora perché non creare delle scuole di giornalismo anche attraverso lo smart working considerato che il Fatto Quotidiano ha giornalisti che si chiamano Padellaro, Gomez, Lillo, Barbacetto, Scanzi, Montanari, Cannavò, Oliva, Lucarelli per citarne solo alcuni. Questo per poter incidere ulteriormente in questo Paese, considerato che la conoscenza è la chiave di volta per cercare di superare i molti problemi che ci affliggono.
Michele Guadagno
Caro Michele, negli anni scorsi l’abbiamo fatto. E, Covid permettendo, lo rifaremo.
M. Trav.
Tra l’eletto e l’elettore non c’è molta differenza
Se, come giustamente lei dice, in Campania, in Liguria, a Eboli e, aggiungo io, in Lombardia (qualche anno fa), hanno vinto i peggiori, significa anche che i peggiori sono quelli che li hanno votati. Vuoi perché non si informano, vuoi perché sono quelli del “Tanto sono tutti uguali”. L’ignorante non è quello che non sa le cose, nessuno conosce a memoria i sette libri della saggezza. L’ignorante è quello che le cose non le vuole conoscere. Ricordo che una volta lei lo ha negato, ma io ritengo che l’eletto sia lo specchio dell’elettore, in senso lato.
Umberto Alfieri
Gallera è l’assessore all’“insanità” lombarda
Travaglio se la prende con l’assessore lombardo alla insanità Giulio Gallera. Troppo facile se non si tiene conto dell’ambiente nel quale deve operare. Nessuno dice che in quell’assessorato gira un virus da decine di anni che si chiama amici di vacanze e di merende e che può degenerare in “cognatite insaputa”. Facile accusare il buon Giulio senza tenere conto che negli ambienti nei quali si è formato politicamente succedono cose strane come sparizione di soldi che compaiono poi alle isole Caiman di camici che cambiano destinazione e vengono fatturati e sfatturati ad libitum. L’ultima sono i vaccini cinesi, senza tenere conto che le scatole cinesi sono un gioco che ti fa vedere e pagare cose che sono tutt’altro di ciò che era stato garantito. Comunque, nella malaugurata ipotesi che dia le dimissioni, mi faccio parte diligente con Travaglio affinché proponga una figura istituzionale di grande spessore, “predecessora” nell’esporre di santi, crocifissi e rosari, Irene Pivetti, che sa trattare con i cinesi e i loro prodotti.
Franco Novembrini
I cardinali non hanno paura dell’Inferno?
La sera che Bergoglio ha cacciato su due piedi Becciu (con ignominia e senza avvertire Parolin) mi sono ingenuamente chiesto (alla mia età) di tal bizzarro comportamento del Santo Padre; che Dio lo conservi. Adesso che ha sollevato il Segretario di Stato dalla commissione di vigilanza sullo Ior, ho capito tutto! Ora, stante che: la figura cardinalizia e associata al titolo “Principe della Chiesa”, ovvero statura assoluta dal punto di vista teologico e che si contano infiniti cardinali fra nipoti, fratelli, congiunti stretti di pontefici, tutti senza cv, oltretutto poi, in tempi recenti porporati d’ogni latitudine sono stati protagonisti di spaventosi crimini, la domanda vien spontanea: qual persona di virtù e funzione, che possiede il numero di cellulare del Padreterno, si macchierebbe di orrendi delitti sulla certezza delle pene dell’Inferno?
Paolo Mazzuccato
I problemi della scuola rimangono gli stessi
Siamo tornati a scuola esattamente come prima, le classi pollaio restano, non si è fatto quel po’ di necessaria edilizia leggera o di ricerca di spazi esistenti, benché il tempo ci fosse, per potere scindere le classi. Di diverso c’è solo il ridicolo metro tra le rime buccali e i banchi a rotelle. La scuola deve essere in presenza, siamo d’accordo, è relazione, sguardi e dialogo. Eppure, ciò di cui nessuno si rende conto è che il protocollo emergenza Covid non garantisce sicurezza nè agli alunni nè agli insegnanti: i ragazzi non sono automi e si voltano, si muovono quando sono seduti, ed ecco che il metro non esiste più! Le aule sono quindi potenziali bombe di contagio, essendo luoghi chiusi nei quali insistono 25/30 persone in spazi ristretti. Gli alunni dovrebbero avere sempre la mascherina. Le scuole sono vettori insuperabili, e lo stiamo vedendo giorno dopo giorno. Nessuno nell’opinione pubblica ha chiaro il problema.
A. R.
Il Pd vuole il ritorno all’ancien régime a Roma
Mentre si susseguono i nomi più improbabili per la corsa al Campidoglio, il Pd pretenderebbe un passo indietro del sindaco Raggi. Si invoca una discontinuità nel più bieco solco della restaurazione. Sarebbe, cioè, necessario riportare indietro le lancette dell’orologio della “Torre della Patarina”. Tornare a spalancare le porte del Comune ai palazzinari; affidare gli appalti secondo i criteri “dell’estrema urgenza”; delegare le attività pubbliche ai lavoratori delle cooperative; cedere i marciapiedi alle arbitrarie invasioni degli esercenti; chiudere gli occhi di fronte alle prepotenze malavitose. La politica non riesce affatto a perdonare alla Raggi i suoi pochi meriti.
Carmelo Sant’Angelo
Costo mascherine. Le “usa e getta” restano quelle più pratiche (e sicure)
Leggo che il costo previsto delle mascherine (usa e getta) per la scuola è di circa 2.700 milioni di euro! Mi sembra una follia, uno spreco assurdo. Ho acquistato per me e i miei una mascherina FPP2 lavabile fino a 500 volte che alle farmacie viene a costare poco più di 6 euro (io le ho pagate poco più di 10 euro). Perché non acquistarle anche per ciascun alunno, a cui affidarle per l’intero anno scolastico, responsabilizzandolo?
Guido Rapalo
Gentile Guido, la scelta del governo e del commissario Domenico Arcuri è caduta sulle mascherine chirurgiche, sull’onda di quel che era accaduto durante la prima ondata della pandemia, quando le mascherine fino ad allora vendute a 20-30 centesimi l’una erano salite a prezzi incredibili. Non si trovavano nemmeno per gli ospedali e le Residenze sanitarie assistite: migliaia di medici e infermieri sono stati contagiati, migliaia di anziani sono morti da soli nelle strutture chiuse. Sembrava impossibile riportare il prezzo al dettaglio a 50 centesimi, ma invece l’obiettivo è stato centrato e peraltro, come spiegava Marco Palombi sul Fatto lo scorso 8 giugno, non senza margini di profitto per intermediari e rivenditori.
Affidare ai bambini e ai ragazzi delle scuole mascherine lavabili avrebbe esposto tutti al rischio che le perdessero, le dimenticassero a casa o non le lavassero, mettendo a rischio la salute loro e altrui e creando ulteriore confusione in un anno scolastico che più difficile non si può. È parso più ragionevole, per quanto discutibile, che a distribuirle fosse lo Stato, sia pure a un costo tutt’altro che irrilevante. Lo stesso Comitato tecnico scientifico ha preferito che fossero quelle chirurgiche certificate, anziché quelle di stoffa, dette di comunità, che non hanno tutte lo stesso potere filtrante. Lo Stato ha scelto di sostenere la produzione nazionale dopo una fase in cui le mascherine venivano per lo più importate, con tutte le truffe milionarie di cui abbiamo scritto. Naturalmente anche gli argomenti degli ecologisti vanno tenuti in considerazione: smaltire le mascherine “usa e getta”, che sono tecnicamente rifiuti speciali, è un problema che si aggiunge ai tanti altri del ciclo dei rifiuti. La contraddizione, indubbiamente, c’è. Forse a torto, è apparsa come il male minore.
Alessandro Mantovani
Galasso e quest’Italia di passioni civili e morti ammazzati
C’è un nordista, nella storia che sembra tutta del Sud raccontata in prima persona da Alfredo Galasso. La mafia che ho conosciuto (edito da Chiarelettere) è un libro che si legge come un romanzo di Emmanuel Carrère, ma certamente vero, fatto dopo fatto, pagina dopo pagina. È la cronaca di una vita, quella di Galasso, avvocato, docente universitario, uomo politico, membro del Consiglio superiore della magistratura. È, nello stesso tempo, la storia collettiva di anni esaltanti e terribili, che cominciano con un 1982 raccontato attraverso gli incontri e le discussioni che l’autore ha avuto con uomini che si chiamano Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. È una storia d’Italia cadenzata di passioni civili e di morti ammazzati, come in una serie americana inventata dal più scintillante e splatter degli sceneggiatori, ma reale, insopportabile, con il sangue vero di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Pio La Torre, di Rocco Chinnici e via via di tanti altri. Troppi.
Il nordista all’inizio di questa storia è Giuliano Turone. Giudice istruttore a Milano, aveva scoperto le liste della P2 e aveva indagato (insieme a Gherardo Colombo) Michele Sindona, incriminandolo come mandante dell’omicidio mafioso di Giorgio Ambrosoli, l’eroe borghese. Galasso, dopo un incontro con Chinnici al Palazzo di giustizia di Palermo, prende l’impegno di organizzare presso il Csm un seminario di studi sulla mafia, in anni in cui di mafia non si parlava, neanche al Csm. A Falcone viene chiesto di partecipare con un intervento sulle tecniche d’indagine. Il magistrato suggerisce di coinvolgere anche Turone, quel magistrato che viene da Milano. La relazione firmata dai due resta un pezzo di storia della letteratura giudiziaria sulla mafia. Prospetta “un percorso graduale d’indagini”, scrive Galasso, “che muovendo dal primo livello (costituito dai reati per così dire di base della criminalità e dei ‘picciotti’ di mafia: le estorsioni oppure i danneggiamenti intimidatori) consente di giungere” ai reati di secondo livello, quelli che riguardano la vita interna delle cosche e le loro lotte per la supremazia. Fino ad arrivare ai reati del terzo livello, quelli che incrociano mafia e politica, quelli che – scrivono Falcone e Turone – “mirano a salvaguardare il perpetuarsi del sistema mafioso in genere. Si pensi per esempio all’omicidio di un uomo politico”. Era appena stato ucciso Pio La Torre.
Nelle pagine del romanzo nero dell’Italia – dove il Sud si intreccia con il Nord realizzando una tremenda unità nazionale criminale – si susseguono la puntata (il capitolo) sul maxi-processo di Palermo, in cui Galasso patrocinava Nando dalla Chiesa, che termina con la sentenza storica che decreta l’esistenza di Cosa Nostra e ne condanna boss e gregari. La puntata sul “giudice ragazzino”, Rosario Livatino, magistrato e santo. E poi “il tempo della discordia”, le lettere velenose del Corvo, le “menti raffinatissime” dell’attentato all’Addaura, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio. E l’eterna, vergognosa trattativa tra la mafia e uno Stato che in nome dei rapporti di potere scende a patti con il crimine.
Galasso racconta anche il suo assistito forse più famoso, quell’Angelo Siino che era detto il “ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra”. Racconta il processo Pecorelli, con imputato (infine assolto) Giulio Andreotti. L’ultima puntata della serie mozzafiato è dedicata al processo di Mafia Capitale, in cui l’avvocato Galasso ha rappresentato la parte civile Confindustria e l’Associazione antimafia Antonino Caponnetto. Da Palermo a Roma, la linea della palma è salita. Ma, come aveva capito Turone, era salita già fino a Milano. La mafia che Galasso ha conosciuto, e che ci racconta facendoci trattenere il respiro, è il filo nero della storia nazionale.
Ai giovani non è stato vietato di ballare, ma niente scuola
Gira e rigira, la questione è sempre quella: stabilire una scala di priorità. Lo si è detto e ripetuto tutta l’estate, mentre si tornava a ballare in discoteca, “perché non si può penalizzare l’intero comparto” e “perché non possiamo impedire ai giovani di divertirsi”. Stupisce dunque che oggi si prenda anche solo in considerazione di vietare a quegli stessi giovani di andare a scuola. Sì sì, proprio agli stessi, perché l’ipotesi ventilata da alcuni presidenti di Regione è di ripristinare la didattica a distanza per gli ultimi anni delle superiori: parliamo degli studenti più grandi, quindi quelli che non renderebbero obbligatoria la presenza a casa del genitore, e quelli ai quali a luglio e agosto non si poteva impedire di andare a divertirsi. Ballare sì dunque, ma andare a scuola no? Per carità la proposta si fonda su esigenze concrete: i trasporti pubblici non sono ancora all’altezza di garantire spostamenti in sicurezza e si è nuovamente considerata l’idea di ridurre la capienza al 50%, così rendendo praticamente impossibile assicurare la mobilità a tutti. Ma, se c’è una cosa che abbiamo imparato in questa convivenza col virus, con un perimetro di regole spesso arbitrario proprio perché fondato unicamente sul buonsenso, è che la graduatoria dell’imprescindibilità spetta a noi. Non dobbiamo stupirci se quasi tutti i provvedimenti ci appaiano tanto opinabili quanto incompleti: perché a cena nella propria casa si possono invitare 6 persone e non 7 o 5? Per nessun motivo: semplicemente perché meno persone trascorrono il tempo insieme in uno spazio chiuso, minori sono le possibilità d’incontrare qualcuno infetto e d’infettarsi a propria volta. Lo stesso ragionamento, e non un misterioso criterio di virologia applicato alla socialità umana, vale per il limite di 30 persone alle cerimonie: certo che avrebbero potuto essere 25 o 35, ma si è fissato un numero preciso e comune a tutti per provare a mettere un ordine dove l’ordine, per la natura stessa del fenomeno che stiamo vivendo, non può esserci. Se c’è un compito sugli altri che la politica può assumersi (dopo aver potenziato le terapie intensive, reso accessibili i tamponi e aver procurato il vaccino antinfluenzale per tutti: il minimo sindacale) è quello di stabilire una serie di convenzioni, il più possibile larghe, razionali e condivise, per arginare il caos e non aggiungere insicurezza all’insicurezza. L’altro dovere di chi governa è considerare tutti gli elementi, sanitari economici, culturali, e stabilire un ordine d’importanza, una gerarchia tra ciò che può essere temporaneamente sospeso e ciò che non può esserlo. Il dovere della scelta: sempre lì si torna. La solitudine del capofamiglia che deve assumersi la responsabilità della decisione per il bene collettivo. I cittadini sono esonerati da questa incombenza: alcuni sono autonomamente più orientati al bene della comunità per senso civico o sensibilità personale, altri lo sono meno e anteporrebbero il proprio interesse individuale o di categoria a quello generale. È un lusso che possono permettersi. La politica non può, a costo di scontentare alcuni e risultare impopolare. Chi amministra la cosa pubblica ha il dovere di caricarsi il peso della decisione e di assumersene i rischi. Gettare la spugna sulla scuola, rinunciando alla didattica in presenza, avrebbe un significato preciso: quello di subordinare la formazione dei giovani agli esercizi commerciali, alle fabbriche, alle palestre. Sarebbe grottesco – in un Paese che si dichiara profondamente preoccupato per il futuro dei giovani, ripetendo in loop che si troveranno sulle spalle tutto il debito pubblico che abbiamo accumulato e ancora accumuliamo – metterli in secondo piano anche questa volta.
Facciamo almeno in modo che sulle spalle, prima del debito, possano metterci la cartella o lo zainetto.
Elezioni all’Anm: scheda bianca per cambiare
L’ ex pm Luca Palamara, già componente del Csm, già presidente del- l’Anm e di fatto, leader indiscusso della corrente Unicost, è stato, con delibera del Csm del 9.10, rimosso dall’Ordine giudiziario essendo stato ritenuto il regista del patto occulto per la nomina di Procuratore di Roma (e di Perugia) in una riunione all’Hotel “Champagne”, alla presenza dei parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti e 5 consiglieri del Csm (poi costretti alle dimissioni).
Il Lotti era, al momento della riunione, indagato dalla Procura di Roma mentre il Palamara era indagato per corruzione da quella di Perugia. Nel corso dell’inchiesta a suo carico era emerso che una moltitudine di magistrati si rivolgeva al Palamara per ottenere il suo appoggio per trasferimenti, promozioni, incarichi. Il Palamara si era posto, quindi, come uno dei terminali di un diffuso fenomeno di censurabile clientelismo, in realtà già da tempo imperante, che, attraverso i capi corrente, investiva i singoli componenti togati del Csm.
Illuminante è la dichiarazione resa dal Palamara a un quotidiano il giorno stesso della sentenza: “Non dimenticherò mai che ci sono stati periodi, nella mia consiliatura, in cui i consiglieri uscenti continuavano a ‘eterodirigere’ i neo eletti. Per non parlare dei capi delle correnti che venivano al Csm per discutere insieme ai consiglieri i candidati da sostenere”.
La sentenza della destituzione, inflitta al Palamara, appare giusta e commisurata all’estrema gravità di fatti che hanno leso grandemente il prestigio della magistratura.
Ma ciò non basta. La Anm – a parte l’espulsione di Palamara anche dall’Associazione – nulla ha fatto a distanza di oltre un anno dallo scandalo del “marcato delle nomine”. I vertici non hanno ritenuto – come imponeva la gravità della situazione – di convocare l’assemblea degli iscritti onde dibattere i rimedi da adottare per mettere fine al deprecabile fenomeno, ivi compreso quello di sciogliere le correnti diventate, e da tempo, non più “gruppi sulle diversità di opzioni culturali e ideali”, non più “luoghi di confronto tra le diverse concezioni della giurisdizione”, bensì gruppi clientelari e di potere.
Ora, per il 18 ottobre, sono state indette le elezioni per nominare i membri del comitato direttivo centrale (e conseguentemente della giunta e del presidente dell’Anm) e naturalmente sono scese in campo le correnti con le liste dei loro rappresentanti (tra cui ancora molti “soliti noti”). Orbene, se la stragrande maggioranza dei magistrati vuole davvero porre fine allo sconcio clientelare, ha un’occasione irripetibile: astenersi in massa dal voto mettendo in crisi quel sistema che ha consentito alle correnti di impadronirsi, prima dell’Anm e poi del Csm. Il disconoscimento di tale sistema costringerà i vertici a convocare finalmente l’assemblea generale dei soci in cui ciascuno di essi, nel libero confronto di idee, potrà esprimere la propria opinione, così concorrendo, nella sede a ciò deputata, a formare la volontà dell’Associazione in ordine a regole che disciplinino ex novo (al di fuori della invadenza e immanenza delle correnti) la vita e il funzionamento dell’Anm. Solo così, e non con sterili proclami di improbabile pluralismo culturale, sarà possibile per la magistratura associata riacquistare quella autorevolezza che, in tempi oramai lontani, caratterizzò la sua azione a difesa dell’autonomia e indipendenza (anche interna) dei magistrati.
La nozione di plagio viene sempre data per scontata. Non lo è
Vi ringrazio per aver “riabilitato” Luttazzi. Volevo ringraziarvi pubblicamente per aver ridato spazio a Daniele Luttazzi. Potrei abbonarmi al Fatto solo per questo. Lo trovo un fatto molto simbolico, dopo l’editto bulgaro del Caimano che lo esiliò insieme a Biagi e Santoro, e dopo la campagna di fango nei suoi confronti per aver rubacchiato, reinterpretandole, alcune battute di comici stranieri, come fanno tutti. Bravi. Luca Salvi (FQ, 14 ottobre 2020)
Il problema di questo elogio, alla cui ingenuità voglio credere, consiste nell’implicare che fossero fondate le accuse della campagna di fango organizzata contro di me nel 2010: fomentata in Rete da anonimi dopo il mio monologo a Raiperunanotte, fu amplificata con gusto da giornalisti berlusconiani e pidini, ben felici di sputtanare chi aveva accusato di complicità Berlusconi e il Pd. Mi tacciavano di “plagio” fingendo di aver “smascherato” una cosa che tenevo “nascosta” (invece, la notizia delle citazioni da trovare era in home page sul mio blog fin dalla sua apertura nel 2005, e i fan ne disquisivano in chat e forum da anni: tutto en plein air). Nel 2007, del resto, giornali e tv avevano sostenuto che pure la mia battuta su Giuliano Ferrara (pretesto con cui La7 chiuse d’arbitrio il mio Decameron) fosse un plagio (da Bill Hicks). La7, nel farmi causa, mi accusò dunque anche di plagio, ma la sentenza del 2012 diede ragione a me, specificando che non si trattava affatto di plagio. Il problema è che la nozione di plagio viene data per scontata, ma non lo è: per giudicare nel merito occorrono competenze giuridiche e letterarie che i più, per forza di cose, non hanno. La questione, dunque, merita di essere affrontata con criterio, in modo che la si smetta di prendere cantonate, più o meno convenienti, e di propalare il falso, più o meno interessato. L’errore di tanti è dovuto a un concetto ambiguo, quello dell’originalità, la cui connotazione positiva ha solo un carattere ideologico/pregiudiziale. La superstizione dell’opera originaria come opera originale, dotata di una certa sacralità, nasce con le traduzioni bibliche: il concetto di testo ‘definitivo’ corrisponde soltanto “alla religione o alla stanchezza” (Borges, 1975). La cultura orale incoraggiava la creazione di testi per incorporazione e adattamento di altri testi, considerati patrimonio comune: l’arte era un’impresa collettiva. “Omero cucì insieme parti prefabbricate” (Ong, 1982). La scrittura fece sorgere il concetto di originalità, che la stampa rafforzò per difendere i propri privilegi: si arrivò a considerare l’autore un genio che crea ex nihilo. La poetica modernista rifiutò questa ideologia romantica, e tornò ai metodi intertestuali dell’oralità impiegando il collage e il pastiche. L’Ulisse di Joyce, con il suo doppio movimento retorico (un’epopea ridotta alla cronaca della giornata di un impiegato, la giornata di un impiegato amplificata a epopea, con echi di Omero, Dante, Shakespeare, e brani di giornale) mostra come collage e pastiche producano effetti nuovi (omaggio, affrancamento, umorismo, parodia, satira). Joyce si diceva contento di passare alla storia come un paste and scissor man, uomo colla e forbici, uomo copia-e-incolla. “Le ripetizioni, quando sono volute, non sono affatto tali (anche se redatte esattamente con le stesse parole), ma sono l’espediente più adatto per provocare un raffronto” (Melandri, 1968). È uno dei motivi principali per cui “non esiste l’originalità letteraria: tutta la letteratura è intertestuale” (Eagleton, 1997). Da quando mi sono accorto di quanta parte abbia, negli argomenti dei profani, il pregiudizio dell’originalità, scrivo “originario” per sottolineare che la precedenza di un testo è solo cronologica, non valoriale.
(1. Continua)
Il lockdown potrebbe non servire più
Il numero dei contagi non cede il passo, un dato che fa alzare il livello di attenzione. Sarebbe già un buon risultato se rimanessero costanti, ma non è così. Purtroppo le previsioni non sono confortanti, visto che dobbiamo ancora aspettare l’effetto prodotto dall’apertura delle scuole, che potrebbe aver dato un inevitabile contributo ai contagi. È un quadro preoccupante? Un grafico pubblicato dall’ISS illustra la composizione della popolazione positiva da marzo a oggi. Salta agli occhi una situazione totalmente diversa dalla prima fase: una fascia più ampia dei positivi, non sintomatici, un numero minimo di sintomatici e una percentuale veramente esigua di casi molto severi. I decessi, in numero minore, restano confinati ai soggetti particolarmente fragili. Nel frattempo arrivano nuove restrizioni. Comprensibili se l’obiettivo unico resta il fattore virologico, ma sempre più incompatibili con il benessere sociale e psicologico. È ormai evidente che abbiamo perso la sfida al virus, che resta comunque con noi. Se la situazione è migliorata è solo grazie al fatto che abbiamo imparato molto. Il virus non è cambiato, continua la sua diffusione, mentre l’economia e il benessere psico-sociale crollano. È lecito chiederci se sia possibile continuare con la stessa strategia perdente, con lockdown, totali o circostanziati, che distruggono l’economia e stressano la popolazione mentre il virus riprende subito la sua corsa, alla prima apertura. Potrebbe essere il momento di una coraggiosa svolta strategica, passare alla difesa di chi può essere colpito severamente e lasciar tornare alla normalità produttiva gli altri? Non è facile deciderlo, ma credo sia un’ipotesi da prendere in considerazione. Abbiamo superato il limite di sopportazione sociale, ce lo dice il pandemic fatigue, che coinvolge il 60% della popolazione. La maggior parte della popolazione è oggi demotivata a seguire le indicazioni istituzionali, un vuoto comportamentale che non possiamo permetterci. Le vetrine si stanno spegnendo, i licenziamenti sono alle porte. Un cambio di strategia potrebbe forse venire in soccorso. Non va scartata nessuna ipotesi.
“Nell’ordine delle cose”, ma mica tanto
Purtroppo, Natale con il lockdown non è (ancora) un cinepanettone, ma è la miccia accesa da Andrea Crisanti per un botto atteso, a cui preferivamo non pensare. “Credo che sia nell’ordine delle cose”, ha sentenziato il virologo con quella sua espressione un po’ così del mettetevi l’anima in pace. Poi ha spiegato che “in questo modo si potrebbe resettare il sistema, abbassare la trasmissione del virus, aumentare il contact tracing”, che è il famoso tracciamento. Tutte cose di straordinaria importanza, ma nessuno può dubitare che in questo modo si distruggerebbe, forse alla radice, quel poco di commercio che era riuscito in questi mesi tremendi a sopravvivere. A colpire al cuore il grosso dei consumi natalizi che vivono, non di Amazon, ma di quella particolare, irripetibile atmosfera. Oltre, naturalmente, a oscurare le festività e la tradizione che neanche le guerre sono riuscite mai a oscurare. A separare le famiglie nei giorni che più di tutti riuniscono le famiglie. A mettere i bambini in un immeritato castigo, e tante altre tristi conseguenze (e non osiamo neppure immaginare la rissa politica e televisiva che si scatenerebbe).
Sarebbe ridicolo e irresponsabile, ovvio, se scrivessimo ciò in contrasto con lo scienziato Crisanti, ma la portata della sua proposta, “nell’ordine delle cose”, va valutata in tutta la gravità. Del resto, la sua non è una opinione solitaria. Ne parlarono alla fine di settembre su Le Monde due economisti premi Nobel, Ester Duflo e Abhijit Banerjie che davanti all’espandersi del virus proposero di chiudere la Francia dal 1° al 20 dicembre, chiedendo alle famiglie di fare gli acquisti natalizi a novembre. Immediata fu la risposta del ministro della Sanità, Olivier Véran: “Non vogliamo riconfinare il Paese e vogliamo che i francesi possano passare le feste di fine anno in famiglia”. La tesi del governo Macron, che comprensibilmente non vuole essere il Grinch che ruba il Natale, è che le predizioni non funzionano quando si è costretti a valutare la situazione giorno per giorno. Anche il governo italiano, a quanto si sa, esclude misure antinatalizie. “Tra 15 giorni non vorrei trovarmi a discutere di 10-12mila casi al giorno”, osserva sempre più cupo Crisanti. Che è lo stesso timore dei due Nobel quando sostengono che il governo francese “sta navigando a vista tra le barriere coralline”. Che nessuno sia mai costretto a decidere tra la salute e il Natale è l’augurio, natalizio, che ci sentiamo di rivolgere. Soprattutto a noi stessi.