Etruria, Unicredit, le venete e Mps: i flop di Mr Padoan

La punta dell’iceberg è il dossier Montepaschi, ma bastano i crac bancari a illuminare il conflitto d’interessi che dovrebbe sbarrare all’ex ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan la presidenza di Unicredit. Il caso più emblematico e, per così dire, più in continuità tra i due ruoli dell’economista prestato alla politica è però rappresentato da un termine tecnico: Dta, cioè Deferred tax asset, in sostanza svalutazioni su crediti che si trasformano in sconti fiscali. Sono una manna per i bilanci bancari e Unicredit è sempre stata la banca che ne ha di più. Sulle Dta Padoan fu al centro di uno scontro che contribuì alla cacciata nel 2016 all’allora ad Federico Ghizzoni.

Andiamo con ordine. Ex ministro del Tesoro dal 2014 a giugno 2018, oggi deputato del Pd, Padoan è stato cooptato nel cda di Unicredit per volere dell’ad Jean Pierre Mustier: ne diverrà presidente ad aprile. La scelta è cruciale per Mustier, che vuole spacchettare in due il colosso bancario e creare una sub-holding delle attività estere quotata in Germania, preludio all’uscita del cuore di Unicredit dall’Italia. Per placare la politica italiana, l’ipotesi è quella di risolvere al Tesoro la grana Monte dei Paschi di Siena. Padoan – manco a dirlo, eletto a Siena – è perfetto: da ministro ha nazionalizzato l’istituto in crisi e ora presiederà la banca che offre al suo ex ministero di prendersi Mps facendosi pagare (si parla di 3-4 miliardi di dote pubblica).

Padoan è però anche il ministro che ha all’attivo più disastri bancari, esito costante di estenuanti e infruttuosi kamasutra diplomatici con le autorità europee. Con lui al ministero a novembre 2015 arrivò la dilettantesca liquidazione delle quattro banchette (Etruria, Chieti, Marche e Ferrara), con annessa tosatura dei risparmiatori, mossa che ha terremotato il settore bancario italiano. Poi nell’estate 2017 è toccato prima alle due Popolari venete – liquidate e regalate con dote pubblica di 5 miliardi a Intesa – e poi al Montepaschi. Sommando tutto, anche il crollo di Borsa del settore, sono andati in fumo circa 70 miliardi di valore.

Il caso Unicredit è il più emblematico. La banca milanese nell’estate 2017 fece infuriare il Padoan ministro perché si rifiutò di accollarsi, insieme ad altri istituti, le Popolari venete traballanti. Ma prima ancora fu protagonista di quello che, a piazza Gae Aulenti, fu vissuto come un ricatto. La vicenda risale al 2014-2015, quando all’ad Federico Ghizzoni arrivarono le gentili richieste di “interessarsi” a Banca Etruria, già nei guai e allora vicepresieduta dal padre di Maria Elena Boschi. Come rivelato da Ferruccio de Bortoli, la ministra incontrò Ghizzoni a dicembre 2014. Come noto, il manager aprì il dossier Etruria per cortesia istituzionale, ma poi non ne fece nulla: a febbraio 2015 la Popolare aretina viene commissariata e a novembre mandata in liquidazione. Da allora inizia uno strano balletto. Magari è un caso, ma nel 2015 e poi nel 2016 la banca di Ghizzoni chiede una norma interpretativa per poter utilizzare più agevolmente le Dta (a bilancio ne aveva per 14 miliardi) e tenta di farla infilare in vari provvedimenti trovando sempre le porte sbarrate da Palazzo Chigi. Comportamento che dentro la banca alcuni imputarono al rifiuto opposto al salvataggio di Etruria.

Alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, pressato dal deputato Andrea Augello, Ghizzoni spiegò di essere rimasto colpito dall’ostruzionismo: “Ero incavolato, tanto che io stesso chiamai il ministero dell’Economia e chiesi spiegazioni per questo cambio di rotta che per Unicredit voleva dire pagare una cifra tra i 250 e i 300 milioni. Mi dissero che era prevalsa un’altra linea e non c’era nulla da fare”. Il ministero, cioè Padoan, non fece nulla. La norma arrivò solo nel 2017. Sempre alla commissione, Padoan spiegò cosa era cambiato nel frattempo: “Era cambiato il governo…”.

Nel luglio 2016 Ghizzoni fu cacciato. Chissà cosa pensa oggi del Padoan presidente di Unicredit, banca che, se inglobasse Mps, potrebbe beneficiare nel suo bilancio dei 3,6 miliardi di Dta in pancia a Siena.

Dai politici ai boiardi, tutti ai piedi delle banche

Pier Carlo Padoan, un ministro dell’Economia diciamo non fortunato quanto a vicende bancarie (vedi qui accanto), si accomoda con scelta di dubbio gusto e ancor meno senso dell’opportunità, alla presidenza di Unicredit. La scelta dell’attuale deputato del Pd non è però l’eccezione, ma quasi la regola tanto in Italia quanto all’estero: basti dire, a questo proposito, che ben due Segretari al Tesoro negli Stati Uniti – Robert Rubin con Clinton ed Henry Paulson con Bush jr – erano stati fino a poco prima ai vertici di Goldman Sachs.

I consulenti “vip” Lo scouting di Goldman

A proposito della regina delle banche d’affari e del suo rapporto con la politica, lasciamo parlare un giornalista non certo ostile al mondo degli affari come Ferruccio de Bortoli: raccontando della irrituale e contestatissima scelta dell’ex presidente della Commissione Ue José Manuel Barroso di lavorare per la banca d’affari Usa, scrisse – nel suo Poteri forti (O quasi), La nave di Teseo – di quando dieci anni prima “avevano un contratto con Goldman Sachs sia Mario Monti sia Gianni Letta. Io venni invitato a un lunch in un albergo romano, lo Splendide Royal. Era il 26 settembre 2007. Vederli al tavolo con Blankfein (il gran capo di Goldman, ndr), quasi fossero suoi impiegati, mi fece un certo effetto. Una sensazione di disagio”. Non solo il Gran Visir di Berlusconi, però, fu advisor della banca americana, anche il suo antagonista più famoso: Romano Prodi lo fu all’inizio degli anni Novanta (e dal 2014 presiede, gratis, l’Internationl advisory board proprio di Unicredit, carica precedentemente appannaggio di Giuliano Amato, oggi alla Consulta). Un finanziere vicino all’ex premier dell’Ulivo, Massimo Tononi, fece il percorso inverso, cioè dalla sede di Londra della banca Usa a sottosegretario all’Economia nel 2006 e ritorno in Goldman nel 2008. Per non fare che un altro esempio Augusto Fantozzi, che fu ministro anche col centrosinistra, è stato senior advisor della banca d’affari francese Lazard dal 2008 al 2013.

“Abbiamo una banca?” L’ultimo dei romantici

Il politico o il grand commis che diventa dipendente o consulente di grandi banche private in Italia è una creatura tutto sommato recente. Sia chiaro, la politica si è sempre occupata del mondo del credito, ma col sistema in gran parte pubblico – e spartito quasi in amicizia tra democristiani e partiti laici – fino agli anni Ottanta dava le carte, oggi al massimo raccoglie le briciole. Nel 2005 l’allora segretario Ds, Piero Fassino che s’informa col numero 1 di Unipol Giovanni Consorte – “Abbiamo una banca?” – della scalata alla Banca nazionale del Lavoro è l’ultimo dei romantici: uno che pensa ancora che le operazioni finanziarie siano un pezzo del lavoro politico e non il contrario. D’altra parte lo stesso Consorte al telefono con Massimo D’Alema la buttava sui sentimenti: “Se ce la facciamo abbiamo recuperato un pezzo di storia: la Bnl era nata come banca per il mondo cooperativo”. E l’altro: “Vai, facci sognare”. Teneri, tanto più che dovevano sognare in compagnia dell’immobiliarista Stefano Ricucci (il signor “furbetti del quartierino”), nel frattempo impegnato pure sul fronte Rcs, che telefonava al dalemiano Nicola Latorre per informarlo dei progressi dell’operazione (“mi dovete dare la tessera”). Sull’estate delle scalate si potrebbe andare avanti per ore, ma il buco nero bancario della sinistra politica – vera parvenu al tavolo della finanza – si chiama Monte dei Paschi, della cui sorte ora si occuperà Padoan, eletto a Siena. Non è peraltro detto che l’ex ministro non torni poi alla cosa pubblica: Sergio Chiamparino fu deputato e sindaco di Torino fino al 2011; poi presidente, grazie al suo successore Fassino, della Compagnia di San Paolo (la fondazione azionista di Banca Intesa) finché, nel 2014, non fu eletto presidente del Piemonte. Nulla comunque rispetto ai grandi burocrati per cui le porte girevoli sono un’abitudine.

Draghi & C. Ovvero porte girevoli al Tesoro

Tornando a Goldman, non si può non citare uno dei suoi dipendenti italiani più famosi. Mario Draghi era stato dal 1991 al 2001 direttore generale del Tesoro, poltrona da cui aveva gestito in prima persona la complessa e non certo felice stagione delle grandi privatizzazioni: nel 2002 diventa vice chairman e managing director della banca Usa a Londra; lascerà quel posto nel 2005 per diventare governatore di Banca d’Italia e poi della Banca centrale europea. Un destino che condivide con tutti gli ultimi direttori generali del Tesoro: Domenico Siniscalco, che fu pure ministro con Berlusconi, andò in Morgan Stanley; Vittorio Grilli – anch’egli dg e poi ministro con Monti – in Jp Morgan; Vincenzo La Via, dg per sei anni coi governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, aveva lavorato in Intesa e dal 2019 anche lui ha imboccato le porte girevoli per entrare in Promontory Financial Group, società del gruppo Ibm.

Regole – et pour cause – non ce ne sono e bisogna affidarsi al senso di opportunità di ognuno: una di quelle buone cose di pessimo gusto rimaste nel salotto di Nonna Speranza.

Pazza editoria: le fantasie di Renzi e gli azzurri in fuga dal “Riformista”

La notizia di Matteo Renzi interessato a comprarsi un suo giornale, e nella fattispecie a mettere le mani sul Foglio di Claudio Cerasa e Giuliano Ferrara (edito dall’immobiliarista Valter Mainetti), ha fatto molto più rumore della smentita del diretto interessato, che ha negato seccamente.

L’indiscrezione, lanciata da La Verità, ormai è entrata nel circuito mediatico: l’interesse dell’ex premier per l’avventura editoriale è molto chiacchierato negli ambienti fiorentini; si sostiene che Renzi avrebbe individuato come compagno d’avventura l’ex senatore di Forza Italia (e imprenditore) Vittorio Pessina. Ci sono in effetti alcuni elementi suggestivi, a partire dall’eccellente rapporto tra Renzi e Cerasa, e con Il Foglio in generale: nel suo momento di massimo splendore, che oggi sembra lontano decenni, il giornale di Ferrara era stato una delle più accese e vivaci piattaforme del renzismo rampante. E non sorprenderebbe poi tanto se alla poliedrica natura del personaggio (già politico, scrittore, documentarista, conferenziere) si aggiungesse pure l’attività editoriale. Non fosse altro che Renzi un po’ editore lo è già stato: ricorderete forse il tristissimo epilogo dell’Unità durante la sua segreteria del Pd. Il toscano dapprima promise di salvarla, poi la fece ristrutturare a sua immagine e somiglianza – con una linea editoriale che faceva sembrare la Pravda un fulgido esempio di libertà intellettuale – infine ne accompagnò la chiusura definitiva, insieme a un editore privato che curiosamente si chiamava pure lui Pessina (solo omonimo dell’ex forzista). Non resta che prendere atto della smentita di Renzi e sperare – per il Foglio – che sia davvero sincera.

Intanto si agitano le acque in un altro grande baluardo della stampa liberal italiana: il Riformista perde pezzi. E nella fattispecie perde la preziosa collaborazione dei due parlamentari di Forza Italia che ne avevano entusiasticamente abbracciato le sorti: Deborah Bergamini e Renato Brunetta. La prima era addirittura condirettrice del giornale di Piero Sansonetti (e Alfredo Romeo), il secondo aveva di recente assunto la guida del settimanale Il Riformista Economia (una breve esperienza, appena 4 numeri). Entrambi hanno firmato garbate lettere d’addio, adducendo la motivazione – non proprio convincente – di non avere abbastanza tempo (“c’è un mandato elettorale da rispettare”). Gran riserbo invece sulle ragioni reali del divorzio (Brunetta ridacchia: “Se mi racconta i problemi dei collaboratori al Fatto le dico quelli del Riformista”).

Pd: “Con Calenda vinciamo”. Il sondaggio arma anti-Raggi

Carlo Calenda è l’arma di pressione che Nicola Zingaretti sta utilizzando per cercare di spingere Luigi Di Maio a far fuori dalla corsa per Roma Virginia Raggi. A questo punto della storia, la fotografia è questa. Il leader di Azione continua a non sciogliere la riserva sulla sua corsa a sindaco. Ma sono in molti a pensare che è solo questione di giorni. Ieri, intercettato in via del Tritone, a domanda diretta se scenderà in campo rispondeva spontaneamente così: “Vediamo, direi di sì”. Nel frattempo, ieri sera sulla sua scrivania sono arrivati i sondaggi che stava aspettando. Circolano ancora in via informale, ma i numeri di Euromedia Research danno una direzione chiara: il leader di Azione da solo è costantemente sopra il 20% e sempre sopra la Raggi. Con lui, viene “sondato” il consenso di Fabrizio Barca (come candidato del centrosinistra) e i due vengono contrapposti ai vari possibili sfidanti di centrodestra.

Nel dettaglio. Se la candidata del centrodestra fosse Giorgia Meloni, lei prenderebbe il 44,6%, Calenda il 22,2%, la Raggi il 16,9% e Barca il 16,3%. Giletti, viceversa, avrebbe il 31%, Calenda il 26,5%, la Raggi il 23,1% e Barca il 19,4%. Se a correre fosse Tajani, questi guadagnerebbe il 30,3%, Calenda il 27,7%, la Raggi il 22,7% e Barca il 19,7%. La fiducia dello stesso Calenda sarebbe del 42,7%, dietro Giorgia Meloni con il 45,9%, ma avanti a tutti gli altri (la Raggi arriva al 30,8%). Insomma, il leader di Azione è un candidato decisamente forte. “Sono interessato a fare un ragionamento col Pd”, ribadisce lui al Fatto. Mentre continua a dire di no a eventuali primarie. Il Pd, per ora, lo usa più che altro come elemento di pressione. Perché al Nazareno non sfugge che come candidato di coalizione sarebbe più che competitivo. “Con la decisione della Appendino di non ricandidarsi si è sbloccata la trattativa a Torino. Ora aspettiamo il ritiro della Raggi per Roma”, ragionano i vertici dem. L’equazione, a questo punto, è facile: se Virginia corre, corre anche Carlo. Un modo, per Zingaretti, non tanto per appoggiare il leader di Azione, quanto per cercare di far fuori in un colpo solo lui e la sindaca. L’operazione riuscirà? Nessuno può dirlo allo stato dei fatti. Molto dipenderà anche da quanto cresce in casa M5S la fronda contro la Raggi. Lei, che il 19 ottobre affronterà il processo d’appello sulle nomine dopo l’assoluzione in primo grado, ha fatto sapere di non avere nessuna intenzione di fare un passo indietro.

In questo clima, la riunione della coalizione per Roma (con Pd, Azione, Iv e i partiti della sinistra) convocata dal segretario romano, Andrea Casu, è rimasta interlocutoria. Ufficialmente si lavora ancora per i gazebo. La segreteria romana ha portato all’incontro una posizione chiara: le primarie sono imprescindibili anche se più che una gabbia – è stato fatto notare – saranno uno spazio aperto a contributi. Un riferimento non esplicito proprio a Calenda.

Ma, al netto della politica, nessuno crede davvero che il Covid permetterà alle consultazioni di svolgersi, visto che la data indicata è all’inizio di dicembre.

Zingaretti, ieri, nel corso di una diretta Facebook, ai microfoni della nascente radio del Nazareno, Immagina, per celebrare i 13 anni dalla fondazione del Pd ha ancora una volta rilanciato “l’apertura di un processo” con il M5S per la scelta dei candidati alle prossime comunali: “Continuo a dire, non per forma ma perché ci credo, che ogni città deciderà in piena autonomia. C’è in tutta Italia una novità: è caduta la pregiudiziale da parte dei 5 Stelle sul provare a fare alleanze con gli alleati di governo. È aperto un processo”.

Insomma, la trattativa va avanti anche nelle altre città. A Milano il Pd si dice certo di chiudere su Beppe Sala. A Napoli, Bologna e Torino si cerca un nome condiviso tra dem e M5S. Per molti, l’accordo sarebbe già chiuso. E all’appello mancherebbe solo Roma.

Mozione Di Battista: no alleanze

L’ex di lusso ancora indeciso tra guerra e tregua lancia la sua agenda per gli Stati generali. Di fatto una mozione congressuale che difende come un totem il vincolo dei due mandati, predica “l’autonomia” del M5S alle elezioni e ribadisce la centralità della piattaforma web Rousseau. Su Facebook, Alessandro Di Battista mette nero su bianco la sua idea di Movimento e la sua vicinanza a Davide Casaleggio.

Ma tra il M5S e il patron di Rousseau ormai volano stracci. Al punto che nelle ultime ore, da Roma, hanno lanciato un ultimatum a Casaleggio: dovrà riattivare in fretta alcune funzioni della piattaforma in vista degli Stati generali. Altrimenti, come anticipato giorni fa dal Fatto, il Movimento è pronto a fare ricorso a un piano b. Ossia a ricorrere “ad account alternativi via Zoom e ad altri strumenti informatici” spiegano fonti qualificate. Scelta nodale, visto che le assemblee regionali e provinciali, previste tra il 23 e il 25 ottobre, saranno tutte via web. Nell’attesa, ecco Di Battista, con la sua agenda, “che spero vi sarà la possibilità di presentare agli Stati generali”, scrive paventando blocchi e ostacoli. Costruita con eletti del M5S ed esperti “anche non del Movimento”. Un testo che sa di candidatura. “Ma a me interessano i temi, nel post non parlo di capi politici o segreterie” risponde a chi lo chiama. Vuole che al centro ci siano le proposte: da “una corposa riduzione del carico fiscale” per piccole e medie imprese, alla legge sull’acqua pubblica. Per passare poi al salario minimo garantito e a una legge sulla prevenzione del suicidio, fino allo “stop ai finanziamenti pubblici alle scuole paritarie” e al ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan. Ma ci sono anche cinque proposte “per il rafforzamento del M5S”, che misurano la distanza dalla gran parte dei big grillini. Perché l’ex eletto vuole “massimo due legislature per consiglieri regionali, parlamentari nazionali ed europarlamentari”. Proprio come Casaleggio.

L’ex deputato e il manager sono d’accordo su un altro punto: “Collocazione autonoma del M5S rispetto a destra e sinistra: a prescindere dalla legge elettorale, nel 2023 il Movimento si presenterà da solo alle Politiche”. E a celebrare l’asse con Milano, Di Battista chiosa: “Rousseau è il cuore del M5S, e va rafforzata per continuare a diffondere la democrazia diretta e permettere agli iscritti di pressare i portavoce”. Questa l’agenda, che fa rima con mozione. Dalla sua parte, Di Battista ha sicuramente Barbara Lezzi, Ignazio Corrao, Max Bugani e diversi eletti a livello locale. In serata, gli arriva il sostegno di alcuni parlamentari, come i deputati Alvise Maniero, Raphael Raduzzi, Francesco Berti e la senatrice Luisa Angrisani. Quasi una scelta di campo, nel M5S che ribolle.

Dopo il Recovery, la Nadef. La destra si astiene ancora

Poco dopo le 17, il ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, si alza in piedi e fa partire l’applauso nell’emiciclo di Palazzo Madama prima di risedersi sugli scranni del governo con il viso molto più sereno. “È andata bene” dice soddisfatto ai colleghi alzando entrambi i pollici. Nessuno scossone, nessun sostegno esterno dall’opposizione di cui si parlava da giorni: la maggioranza giallorosa supera agilmente lo scoglio dello scostamento di Bilancio da 24 miliardi (che richiedeva la maggioranza assoluta) e della Nadef con 165 voti a favore, 121 astenuti e soli tre voti contrari. Il Sì è arrivato anche dai senatori a vita Mario Monti e Elena Cattaneo e dalla moglie di Mastella, Sandra Lonardo, e dai tre ministri Teresa Bellanova, Stefano Patuanelli e Nunzia Catalfo che hanno coperto le assenze (“in disaccordo con la maggioranza”) delle grilline Tiziana Drago e Marinella Pacifico. Il tutto nonostante all’appello mancassero 4 senatori tra positivi e in quarantena fiduciaria: 2 delle Autonomie e 2 del M5S.

E prima di cena buone notizie per i giallorosa arrivano anche dalla Camera dove, seppur acciaccata dai molti deputati in isolamento, la maggioranza approva lo scostamento e la Nadef con 324 voti favorevoli. Tanto basta per far esultare Giuseppe Conte: “È stata una grande prova di tenuta della maggioranza”. Il centrodestra si è astenuto sullo scostamento di bilancio in entrambe le Camere anche se al Senato conta come voto contrario: “È stato così anche nelle scorse votazioni” fanno dall’opposizione. Ma tant’è: l’autosufficienza della maggioranza ha neutralizzato il potere di ricatto del centrodestra.

Eppure la giornata non era partita con i migliori auspici per le defezioni causate dal virus. Martedì sera il capogruppo del M5S al Senato Gianluca Perilli era preoccupato e aveva chiesto ai suoi di “essere tutti presenti alla votazione di domani” arrivando a precettare ministri e sottosegretari. La paura era causata da tre possibili assenze tra i 5 Stelle, tre nel Maie e altre due in Italia Viva. Senza considerare ulteriori malati dell’ultim’ora e la grillina Marinella Pacifico che ha già un piede e mezzo fuori dal M5S per le mancate restituzioni. A metà mattina, durante la discussione, il senatore Antonio Saccone dell’Udc sogghigna: “Non hanno i numeri”. Perilli si agita, fa la spola tra l’aula e la buvette chiamando uno per uno i colleghi per assicurarsi che arrivino al momento del voto. La paura è palpabile ma non certo per il Covid: tutti indossano rigorosamente la mascherina (lo impongono le regole) ma il distanziamento, dentro e fuori dall’aula, è pura teoria: abbracci, pacche sulle spalle, il senatore della Lega Simone Pillon azzarda addirittura un baciamano. Brividi. I conciliaboli sono inevitabili: “Ma prima di 15 minuti non siamo contatti stretti” assicura un gruppetto di leghisti riuniti in corridoio. Alla buvette invece è tana libera tutti: una cronista chiede a Maurizio Gasparri di mettersi la mascherina e lui, non solo si rifiuta, ma si irrita. “Non mi faccio dare lezioni” inveisce. Alla fine, dopo il secondo tampone negativo, tornano in Aula anche i senatori Marco Croatti e Francesco Mollame del M5S che erano risultati positivi due settimane fa. “I numeri ci sono” esulta Perilli prima di scontrarsi con il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo: “Non ci avete coinvolti, ora sono problemi vostri”, dice pensando di poter contare sui numeri a rischio nella maggioranza. Ma non sarà così.

Sequestro Shalabayeva, tutti condannati: 5 anni ai superpoliziotti Cortese e Improta

Cinque anni di carcere e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Fa impressione leggere queste parole associate al nome di Renato Cortese, oggi questore di Palermo, una carriera da super poliziotto e nel curriculum le manette messe ai polsi del capo dei capi di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Stessa pena per un altro nome eccellente della Polizia di Stato: Maurizio Improta, oggi a capo della Polfer, ex questore di Rimini. È questa la condanna giunta ieri in primo grado a Perugia: quello di Alma Shalabayeva – la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov che nel 2013 fu espulsa dall’Italia insieme alla figlia – fu un sequestro di persona. Ed è per questo che sono stati condannati a 5 anni Cortese e Improta – rispettivamente, nel 2013, capo della Squadra mobile e responsabile dell’Ufficio immigrazione di Roma – insieme con i due poliziotti Francesco Stampacchia e Luca Armeni. Per quest’ultimo l’accusa, nella sua requisitoria, aveva chiesto l’assoluzione per tutti i capi d’imputazione tranne che per un falso. “Alla luce dell’istruttoria dibattimentale e delle richieste della pubblica accusa – ha commentato il suo legale Luigi Giuliano – la decisione del tribunale ci lascia perplessi. Aspettiamo le motivazioni per proporre appello”. Il punto è che i giudici del Tribunale di Perugia, dopo otto ore di camera di consiglio, hanno emesso una sentenza molto più dura di quanto avesse proposto la stessa accusa – rappresentata dal pm Massimo Casucci – che per Cortese aveva chiesto una condanna a 2 anni e 4 mesi e per Improta due mesi in meno.

Una sentenza tanto più clamorosa se consideriamo che, di questo sequestro di persona, non v’è traccia di alcun mandante. “È stata fatta giustizia ma nessuno degli imputati aveva un interesse personale in questa vicenda” ha commentato il legale di parte civile di Shalabayeva, Astolfo d’Amato. “Vuol dire – ha aggiunto – che hanno obbedito a degli ordini e chi li ha dati l’ha fatta franca”. Soddisfatta delle condanne la donna che ha commentato: “Nel mio Paese non sarebbe andata così”.

Due anni e 6 mesi di reclusione è la pena inflitta al giudice di pace Stefania Lavore (non condannata per il sequestro), 4 anni per il poliziotto Vincenzo Tramma e 3 anni e 6 mesi per il collega Stefano Leoni. “Sono una persona per bene – ha commentato Improta – che ha sempre aiutato gli ultimi e gli invisibili. Come mi hanno insegnato i miei genitori e come insegno ai miei figli . Questo non è un problema. I problemi veri sono altri”. Tutti i condannati attendono ora le motivazioni per ricorrere in appello. L’interdizione perpetua dai pubblici uffici è una pena accessoria alla condanna definitiva e quindi non è operativa.

Concussione, Roma archivia l’indagine sul procuratore di Avellino D’Onofrio

Sono state archiviate le accuse di concussione e corruzione a carico del procuratore reggente di Avellino Vincenzo D’Onofrio. Lo ha deciso il Gip di Roma su richiesta della Procura capitolina, competente per i magistrati di Napoli. D’Onofrio, difeso dall’avvocato Mario Terracciano, era finito nelle maglie delle dichiarazioni di alcuni testimoni e coindagati di un’inchiesta dei pm di Napoli Woodcock e Cimmarotta su un presunto giro di favori intorno agli armatori Salvatore Di Leva e Salvatore Lauro. Inchiesta che coinvolse un altro magistrato, Andrea Nocera, dimessosi dall’incarico di capo degli ispettori del ministero di Giustizia dopo aver appreso di essere indagato. Il lavoro inquirente si è sviluppato intorno alle conversazioni intercettate dal trojan sul cellulare di Di Leva. Questo fascicolo è ancora aperto a Napoli.

D’Onofrio era accusato di avere usato la sua posizione per ottenere biglietti gratis per una partita in trasferta del Napoli e la riparazione, sempre gratis, di una barca di proprietà di un amico, il vicesindaco di Piano di Sorrento.

Juve-Napoli 3-0. Agli azzurri anche un punto in meno

Che la Figc volesse difendere il suo protocollo, l’unico strumento per salvare il campionato, era scontato. Che la Juve avrebbe dovuto vincere a tavolino la partita saltata lo scorso 4 ottobre per non creare un precedente devastante, verosimile. Tutto stava a dimostrare come il parere dell’Asl, che ha vietato al Napoli di partire per Torino, non fosse la causa di forza maggiore prevista per il rinvio. In questo la sentenza del giudice Mastrandrea è un piccolo capolavoro di diritto sportivo: con logica disarmante, ammette che la comunicazione dell’Asl era un “ordine dell’Autorità” a cui non ci si poteva sottrarre, ma aggiunge che quando è arrivata il Napoli aveva già deciso di non giocare. Quindi non c’è Coronavirus o sicurezza sanitaria che tenga: la colpa è di De Laurentiis, che si merita il 3-0 a tavolino e un punto di penalizzazione. E il Napoli rischia pure un’altra penalizzazione per il mancato rispetto del protocollo: oltre al danno la beffa.

Dopo dieci giorni il giudice sportivo è giunto all’unica conclusione accettabile per la Serie A: dare una lezione al Napoli, che ha osato mettere in dubbio il protocollo Figc per cui bisogna giocare sempre, e premiare la Juventus che l’ha rispettato fedelmente. Nel ripercorrere le tappe la sentenza sottolinea come i pareri di Asl e Regione siano arrivati “sulla base di specifiche richieste di chiarimenti della società”, ammiccando un po’ alla tesi che sia stato il Napoli a “farsi dire” di non giocare. Ma non è questo il punto, quanto la tempistica: solo l’ultima comunicazione è davvero una causa di forza maggiore. Sabato il Napoli avrebbe potuto partire, come da protocollo, domenica alle 14 il divieto c’era ma ormai il volo era stato cancellato e quindi la responsabilità è sua. Interpretazione affascinante che dovrà reggere in almeno altri due gradi di giudizio, se non di più: scontato il ricorso in appello, poi ci sarebbe il Coni, infine l’iter della giustizia ordinaria. Juve-Napoli rischia di durare qualche mese.

Altantia-Cdp, perché riparte la trattativa

La riapertura della trattativa con la Cassa Depositi e Prestiti per chiudere il dossier Autostrade fa volare Atlantia in Borsa (+10,2%). Martedì in tarda serata la holding controllata dai Benetton ha fatto sapere di aver concesso un’esclusiva a Cdp per trattare, fino a domenica, la cessione della quota dell’88% in Autostrade per l’Italia. La decisione, a quanto filtra, è maturata nel weekend, dopo che dal governo era stata fatta arrivare l’indicazione che, senza novità, martedì ci sarebbe stato il Consiglio dei ministri con al centro la decisione di revocare la concessione di Autostrade. A quel punto sono stati riallacciati i contatti, mettendo in minoranza la linea dura col governo tenuta finora dal plenipotenziario dei Benetton, Gianni Mion. Una svolta, pare, decisa proprio in seno alla famiglia veneta, stanca del braccio di ferro.

C’è tempo fino a domenica. Cdp tratta in cordata con i fondi Blackstone e Macquarie. L’acquisto diretto dell’88% di Aspi era una delle due ipotesi previste dall’accordo del 14 luglio col governo, ma poi sconfessati da Atlantia dopo che Cdp ha chiesto una manleva legale per gli effetti del Morandi. L’idea iniziale è che Cdp entrasse con aumento di capitale riservato, in questo modo invece pagherà direttamente Atlantia, quindi anche i Benetton. Una scelta politicamente delicata, ammesso che la trattativa non naufraghi di nuovo.