Consip, Bonifazi ai pm: “Incontrai Russo e Romeo”

L’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, ha incontrato l’imprenditore Alfredo Romeo con Carlo Russo il 4 marzo 2015 a Roma. Lo si apprende dai verbali di Bonifazi che si trovano negli atti depositati dopo la chiusura indagine a carico di 11 persone, tra cui Tiziano Renzi, accusato di turbativa d’asta della gara Fm4 di Consip e traffico di influenze illecite. Per il padre dell’ex premier, la Procura aveva chiesto l’archiviazione respinta in parte dal gip Gaspare Sturzo che ha disposto altre indagini. Così i pm hanno sentito due volte Bonifazi come persona informata sui fatti su indicazione del Gip. I pm gli chiedono di spiegare un messaggio a lui diretto trovato nel cellulare dell’indagato Carlo Russo. Il 4 marzo 2015 Russo scrive a Bonifazi su Telegram: “Solo per evidenziarti i passaggi fondamentali dell’incontro di stamani: lui deve capire che io sono il suo unico interlocutore e che ho rapporti privilegiati, senza che venga fuori il nome di T. Grazie, è davvero importante per noi, a dopo”. Il gip Sturzo, nella sua ordinanza di rigetto della richiesta di archiviazione, ricordava che ‘T.’ era la sigla usata in altri casi – secondo i Carabinieri – da Russo per indicare Tiziano Renzi. Per questo chiedeva di sentire sul punto Bonifazi anche perché “balza all’evidenza (…) come il messaggio del Russo a Bonifazi è del 4 marzo 2015, quindi ad appena una settimana dall’apertura delle buste della gara a più lotti della FM4 Consip”.

Quando i pm gli chiedono di quel messaggio, Bonifazi racconta l’incontro a tre, durante il quale fu Russo a portargli Romeo ma non si parlò di appalti e di Consip. L’ipotesi contestata dai pm è che Russo in cambio dell’istigazione sull’Ad di Consip Luigi Marroni ad aiutare Romeo nella gara Fm4 si faceva “promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi”.

Adesso grazie al deposito dei nuovi atti si scopre anche che l’ex Ad di Consip, Domenico Casalino, anche questi indagato per turbativa d’asta e traffico di influenze, sentito dai pm (come svelato da Il Domani), ha detto di aver incontrato Russo. Questi però gli raccomandò non Romeo ma la Omnia Abrutia dell’imprenditore Antonio Colasante, parte del consorzio Innova che correva per la gara Fm4, come Romeo. Colasante al Fatto spiega: “Ho conosciuto Russo perché lavorava con Uberto Canaccini e stavo cercando di fare affari insieme in Kazakistan. Non ho mai parlato con lui di Consip e ho vinto due lotti della gara Fm4 solo perché altre società sono state escluse. Non conosco Casalino né Tiziano Renzi. Non ho mai chiesto a Russo di sponsorizzarmi a Casalino”. Colasante è stato sentito dai pm che hanno acquisito anche i contenuti del suo pc dal quale non è emerso nulla di rilevante e non è indagato. L’incontro Casalino-Russo risale a quando Casalino era Ad di Consip, quindi prima del giugno 2015.

In un colloquio del gennaio 2016 Italo Bocchino e Alfredo Romeo dicono, secondo gli investigatori, che proprio Casalino avrebbe ‘mandato’ Russo da loro. Chissà se sia vero. Di certo il 27 febbraio 2015 per la prima volta Romeo parla al telefono di uno che gli è andato a parlare e che è amico del “papà”. E appena 5 giorni dopo quella telefonata c’è l’incontro Russo-Romeo-Bonifazi, preceduto dal messaggino Telegram in cui Russo cita ‘T.’, alias Tiziano. I magistrati inoltre ritengono che il 16 luglio 2015 Russo e Romeo abbiano incontrato Tiziano Renzi a Firenze. Incontro smentito dai protagonisti.

Passa un anno e nel settembre 2016 Russo viene intercettato negli uffici romani della Romeo Gestioni mentre l’imprenditore campano, secondo i pm, offre a lui 5 mila euro a bimestre e a Tiziano Renzi (a sua insaputa millantando secondo la richiesta di archiviazione dei pm rigettata dal Gip) 30 mila euro al mese. Russo in quel contesto chiede a Romeo un aiuto per salvare L’Unità. Il 16 settembre Russo incontra di nuovo Bonifazi.

I Carabinieri collegano l’incontro ad alcuni messaggi precedenti, su Telegram, tra Russo e Tiziano in cui proprio Tiziano fissa un incontro per Russo con qualcuno che potrebbe essere Bonifazi. Poi il 20 settembre 2016 Russo lascia all’ufficio di Bonifazi un appunto in cui magnifica il curriculum di Romeo come editore. Alla fine il 26 settembre 2016 Russo scrive un messaggio a Tiziano Renzi per chiedergli se “puoi sentire se ci sono novità (…) sulla nota che ho lasciato a Francesco”. Tiziano replica “Io non ho rapporti con lui e non so di cosa parli meglio se fai da solo scusa”.

Trasporti a rischio, ma restano all’80%

Più di otto ragazzi su dieci raccontano di assembramenti all’ingresso e all’uscita dalla scuola, nonostante quasi il 70 per cento degli istituti abbia introdotto orari scaglionati: a raccontarlo è skuola.net, il sito che ormai ha un occhio privilegiato sulle dinamiche scolastiche grazie all’esteso campione di studenti. “Per chi prende i mezzi pubblici – spiegano – la sensazione di essere a rischio è palpabile: per 9 su 10 è difficile se non impossibile mantenere le distanze. Il 43 per cento dice di dover viaggiare attaccati. Circa quattro su dieci sono costretti ad arrivare in anticipo a scuola perché le corse sono limitate e non coincidono con i vari orari d’ingresso. Eppure, da quanto emerso dall’incontro di ieri tra la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, le Regioni e le associazioni degli enti locali, pare che tutto vada bene, nonostante le foto che circolano da settimane e gli allarmi degli uffici scolastici. Qualcuno, insomma, sta mentendo.

Anche perché non più di un paio di giorni fa, alcune Regioni, Veneto in testa, hanno chiesto di ricorrere alla didattica a distanza esclusiva per le superiori proprio per evitare di pressare il trasporto pubblico locale. Soluzione esclusa da tutto il governo (anche dalla ministra De Micheli) ma ribadita di nuovo dalla regione nell’incontro di ieri. A domanda della ministra, se qualcuno ritenesse necessario ridurre invece la capienza dei mezzi dall’80 al 50 per cento (come spesso suggerito dal Cts), la risposta è stata no. E ci mancherebbe. I disagi ricadrebbero sulle amministrazioni locali e – secondo i numeri di Asstra, l’associazione delle imprese del Tpl – già solo nelle ore di punta mattutine coinvolgerebbero 275mila persone che non potrebbero viaggiare. Regioni, Provincie e Comuni, però, ora possono fare ben poco, I mezzi non possono essere acquistati senza gare dai tempi biblici e i privati non bastano. Per questo dal tetto dell’80 per cento non si smuove neanche la De Micheli, sia perché ritiene sia una percentuale a cui si è arrivati dopo “un lungo approfondimento anche scientifico” sia perché “rispetto ai 16 milioni di viaggiatori quotidiani pre-Covid, a settembre l’utilizzo dei mezzi di trasporto si attesta a -50% sul 2019 ”. Il pienone, insomma, sarebbe solo occasionale. Ma è più probabile che sia, come in realtà sanno tutti, la situazione che si presenta nelle ore di punta e nelle aree metropolitane. Inoltre, del piano che a inizio maggio prevedeva uno scaglionamento degli orari dei lavoratori non s’è fatto nulla, se non iniziative autonome. Il problema, con le scuole chiuse, infatti non si poneva. L’idea, però, ora è evitare di pressare ancora di più la scuola e di introdurre ulteriori scaglionamenti, potenziando invece lo smartworking per tutti i lavoratori. Come questo si farà, però, non è molto chiaro. Quello che è chiaro è che in molti casi è mancata la comunicazione tra i responsabili dei trasporti e quelli della scuola a livello di enti locali. Ritardi inspiegabili, visto che se ne parla almeno dalla primavera. Per questo adesso si apriranno dei tavoli a cui parteciperanno anche i due ministeri (Istruzione e Trasporti), per coadiuvare la comunicazione tra gli enti, spesso assenti negli incontri organizzativi di luglio e agosto. Ma non solo. “Abbiamo chiesto un maggior raccordo tra gli istituti scolastici e le aziende di trasporto per evitare situazioni di maggior sofferenza”, ha detto ieri Antonio Decaro, presidente dell’Anci.

Per i tamponi rapidi lo Stato paga un decimo dei privati

Oscilla tra 2,5 e 20 euro il prezzo unitario dei test antigenici offerti al Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, quelli che dovrebbero sostituire almeno in parte i tamponi molecolari tradizionali. La procedura non è ancora chiusa, nessuno sa quali saranno effettivamente acquistati, in quale numero e a quali prezzi. Ma è già abbastanza per immaginare che i cospicui margini di profitto dei laboratori privati, che naturalmente sostengono anche i costi del personale e delle strutture in cui si fanno i prelievi, siano destinati a ridursi. Solo per fare un esempio il “Centro di medicina”, che ha ambulatori e laboratori in tutto il Veneto, a Pordenone e a Ferrara, offre i tamponi antigenici rapidi ai privati a 50 euro “con metodo in fluorescenza e immunocromatografico”.

Si infila il bastoncino nel naso, 15-30 minuti al massimo e si conosce il risultato, cioè se è presente l’antigene, la proteina del Covid-19. Se l’esito è positivo si consiglia il tampone molecolare, che dev’essere processato in laboratorio e rivela la presenza dell’Rna del virus: al “Centro di medicina” costa 80 euro, altrove – dove i privati sono autorizzati – fino a 200 e oltre. Nel Lazio, suscitando vibranti proteste dei centri privati, la giunta regionale ha fissato un prezzo massimo per gli antigenici: inizialmente indicato in 13 euro, è poi lievitato fino a 22, che sono pur sempre meno della metà di 50 euro e dei prezzi anche più alti praticati dai privati a cui si rivolgono soprattutto le aziende per testare i dipendenti. Ma anche chi vuole evitare la trafila del tampone o chi non è classificato “contatto stretto” di positivo e quindi non ha la ricetta del medico.

L’antigenico rapido è la nuova frontiera, la risposta del governo alla crisi dei tamponi, alle code ai drive in, al sostanziale tracollo delle aziende sanitarie locali e all’affanno dei laboratori accreditati. Si lavora per validare anche il salivare, che rende il prelievo più facile e meno fastidioso, soprattutto per i bambini, ma ci vuole ancora un po’: secondo molti specialisti l’orizzonte è quello. In Italia il tampone rapido antigenico è stato sperimentato per la prima volta quest’estate, negli aeroporti. È ritenuto meno affidabile del tampone molecolare, ma nel frattempo i produttori hanno potenziato sensibilità e specificità. Il ministero della Salute, sulla scorta del parere favorevole reso domenica dal Comitato tecnico scientifico (Cts) che si riunisce alla Protezione civile, nei giorni scorsi ha autorizzato le aziende sanitarie locali a sostituire il tampone molecolare con l’antigenico, purché già validato in uno o più Paesi dell’Unione europea, almeno per testare i contatti dei positivi al termine dell’isolamento, che ora è stato ridotto a 10 giorni. L’aveva già autorizzato per le scuole, così quando i test rapidi saranno disponibili non finiranno più in quarantena intere classi con genitori e fratelli al seguito per un solo positivo. L’incubo di milioni di famiglie. Il commissario straordinario Arcuri ha pubblicato il 29 settembre una “richiesta pubblica di offerta” per “cinque milioni di test rapidi per la rivelazione qualitativa di antigeni specifici di SarS-Cov-2 presenti su tampone nasofaringeo o campione salivare”.

Alla chiusura, l’8 ottobre, sono pervenute 39 offerte da altrettante aziende (di cui 38 formalmente valide) per un totale di 115 milioni di test, secondo quanto riferito al Cts. Oggi dovrebbero compiersi le verifiche tecniche, affidate al professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani, al professor Franco Locatelli che presiede il Consiglio superiore di Sanità e al professor Achille Iachino, direttore generale dei Dispositivi medici al ministero della Salute.

Nessuno può sapere quali offerte saranno accolte, probabilmente in misura superiore ai cinque milioni di unità richieste, ma i prezzi unitari variano appunto dai 2,5 ai 20 euro. Alcuni prodotti ritenuti validi sono sui 4 euro al pezzo, meno di un decimo del prezzo finale dei centri privati. I kit non sono tutti uguali, alcuni richiedono attività di laboratorio e altri no, c’è solo una bacchetta che cambia colore come un test di gravidanza a contatto con il materiale organico prelevato.

Ora Crisanti evoca il lockdown a Natale. Conte cauto, ma c’è chi è per la linea dura

“Non faccio previsioni su lockdown a Natale, faccio previsioni delle misure più idonee e sostenibili per evitare il lockdown”. A fine giornata ieri il premier Giuseppe Conte prova a mettere ordine al dibattito impazzito fin dalla mattina dopo le parole del microbiologo Andrea Crisanti a Rainews24: “Un lockdown in Italia durante le feste di Natale potrebbe essere necessario per bloccare la diffusione del coronavirus e aumentare l’efficienza del tracciamento dei contagi sul territorio”. La terribile parola in inglese lockdown – divenuta di uso comune per indicare la chiusura quasi totale delle attività produttive con limitazioni straordinarie alla possibilità di movimento dei cittadini – è ritornata sull’agenda politica da qualche giorno, cioè da quando il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato: “Lavoriamo giorno e notte per evitare un nuovo lockdown”. E proprio Speranza (Leu), insieme con il ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini (Pd), rappresenta nel governo l’ala più intransigente e pronta a restrizioni più dure come il coprifuoco di Macron in Francia magari già la prossima settimana. Conte cerca di mediare tra questa posizione e quella dei più “aperturisti a ogni costo”, come le ministre Teresa Bellanova (renziana) e Paola De Micheli (Pd), nella “convinzione – spiegano fonti vicine a Palazzo Chigi – che un nuovo lockdown generalizzato sarebbe un tracollo per il Paese ora che, al contrario, si stanno avendo importanti segni di ripresa”. E su questo punto sono d’accordo anche al ministero della Salute: “La macchina si è appena rimessa in moto, fermarla sarebbe disastroso”. Conte non esclude, invece, i lockdown locali per province e città, come il governatore Nicola Zingaretti ha fatto nel Lazio, o addirittura regionali: “Lo schema è molto chiaro – annuncia Conte –: continueremo ad aggiornarci con le Regioni. La formula vincente è collaborare, collaborare, collaborare. Per le regioni abbiamo predisposto la possibilità per i presidenti di introdurre misure restrittive non appena se ne presentasse la necessità, per quelle di allentamento occorre invece un’intesa con il ministro della Salute”. E ancora: “È chiaro che molto dipenderà dal comportamento dei cittadini”.

E proprio su questo tema, lo stesso Crisanti, contattato in serata dal Fatto, esprime disappunto: “Il comportamento dei cittadini senz’altro, ma l’epidemia si controlla su due fronti e manca da questi discorsi quello del sistema di tracciamento che in Italia, lo dicono i numeri, non funziona. Dobbiamo avere l’onestà di ammetterlo come gli inglesi: il tracciamento non è più sotto controllo. La giornata di ieri con più di 7 mila contagi e solo sei mila isolati è la Caporetto del contact tracing: ogni persona incontra in un giorno mediamente 15/20 persone. Se il sistema funzionasse dovremmo avere 150 mila persone in isolamento e non è così. Ho ipotizzato di fermare tutto a Natale perché il danno economico sarebbe minore, ma se continuiamo di questo passo si renderà necessario molto prima”.

La figlia di Fontana e le tre consulenze per gli ospedali

Ieri i camici al cognato, oggi le consulenze alla figlia. Per il presidente Attilio Fontana i guai sembrano non finire. Sul tavolo, incarichi dati da due ospedali pubblici di Milano all’avvocato Maria Cristina Fontana, figlia del governatore lombardo la cui giunta decide le nomine dei direttori generali nelle strutture sanitarie. E così dopo l’affidamento diretto per mezzo milione ad Andrea Dini e dopo il caso dell’ex consigliere regionale Luca Marsico, già ex collega dello studio legale di Fontana che, come emerso dall’inchiesta Mensa dei poveri, fu nominato nella commissione regionale del Nucleo di valutazione degli investimenti, la storia sembra ripetersi. Nel caso Marsico, Fontana è stato indagato per abuso d’ufficio, accusa archiviata su richiesta della Procura di Milano. In quella dei camici è accusato di frode in pubbliche forniture. Ecco allora la nuova storia che a oggi nulla ha di illegale. Dagli atti dell’ospedale Sacco e dell’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) Milano nord che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e di Sesto San Giovanni emergono tre consulenze affidate all’avvocato Maria Cristina Fontana.

Dalla metà del 2018 la figlia di Fontana è titolare dello studio dopo che il padre, eletto governatore, si è dimesso. A oggi, va detto subito, la vicenda non ha rilievo penale. Resta invece il rilievo politico e di trasparenza. Tra il 6 e il 20 settembre 2018, con Fontana presidente, l’area affari legali dell’Asst Milano nord affida all’avvocato Maria Cristina Fontana due incarichi professionali. Il primo inizia il 6 settembre e viene pagato 6.383 euro. Il secondo è del 20 settembre. Stessa voce: incarico professionale, ma nessun riferimento al costo che, si comprende dall’atto, viene pagato da una delle compagnie assicurative dell’ospedale. In quel settembre, Fontana è già governatore (il mandato inizia il 26 marzo) e sulla poltrona di direttore generale dell’Asst Milano nord siede Fulvio Odinolfi nominato dalla giunta di Bobo Maroni. La cronologia prosegue con un documento dell’ospedale Sacco di Milano, diventato noto a livello mondiale dopo l’inizio della pandemia. Qui il direttore generale è Alessandro Visconti nominato a inizio del 2019 da Fontana. Nomina di cui la Procura chiede conto al presidente durante l’interrogatorio per l’inchiesta Mensa dei poveri. In quel caso il governatore conferma la nomina, ma spiega la scelta non dal punto di vista dell’appartenenza politica ma delle capacità professionali. Maria Cristina Fontana sotto la direzione di Visconti ottiene una consulenza dal Sacco. Il documento è del 31 gennaio 2019.

Nell’oggetto si legge: “Costituzione nel giudizio promosso inanzi al tribunale di Milano (…) e conferimento dell’incarico a difesa dell’ente all’avvocato Maria Cristina Fontana”. Costo della consulenza pagata dal Sacco: 5.836 euro. Cifra che sommata alla precedente del 2018 porta a un totale di 12.246 euro pagati da due ospedali pubblici alla figlia del governatore, il quale decide sulle nomine dei direttori generali. Dal Sacco si torna all’Asst Milano nord, è il 29 aprile scorso. Qui il dg, dopo il valzer delle nomine di fine 2018, è la dottoressa Elisabetta Fabbrini. Il documento firmato anche dal dg è la delibera 284 che segue un verbale del 27 aprile della Commissione per la valutazione delle domande di iscrizione all’elenco degli avvocati esterni agli enti. I nomi dei legali vengono divisi per categorie. In due, quella fallimentare e quella sulla medical malpractice, compare l’avvocato Maria Cristina Fontana. Qui non vi sono costi perché le consulenze saranno affidate solo se l’ente ne avrà necessità.

Boom di contagi. Lombardia: Milano fa paura. “Inevitabili nuove chiusure”

Neanche a marzo, nel pieno della pandemia, si erano registrati in Italia tanti contagi in sole 24 ore: 7.332 nuovi casi (martedì erano stati 5.901), a fronte del record di 152.196 tamponi. Per trovare un dato analogo, bisogna risalire al 21 marzo, quando i nuovi casi furono 6.557, ma con soli 26.336 tamponi. Maglia nera, ancora una volta, la Lombardia, con i suoi 1.884 contagi totali (a fronte di 29.048 tamponi), 1.032 dei quali nella Provincia di Milano, 504 solo in città. Nonostante il direttore generale Welfare, Marco Trivelli, faccia professione di cautela – “Il 92% dei positivi manifesta pochi sintomi o addirittura nessuno” – è lui stesso aggiunge che “Insieme ai direttori generali delle Ats e Asst, e con gli ospedali privati accreditati, stiamo lavorando per disporre un rapido incremento della disponibilità di posti letto dedicati ai pazienti Covid”. In regione, i posti di TI sono 150, quindi ancora c’è disponibilità, ma se si dovessero riempire tutti, “il progetto è quello di riaprire l’ospedale della Fiera”, ha spiegato Antonio Pesenti, coordinatore dell’Unità di crisi della Regione per le terapie intensive.

L’impennata nella curva dei contagi degli ultimi giorni, col picco di ieri, ha spinto in serata il governatore Attilio Fontana a recarsi dal prefetto Roberto Saccone: sul tavolo la richiesta di misure più stringenti di quelle previste dall’ultimo Dpcm. A partire dagli ingressi scaglionati nelle scuole scuola. A preoccupare è la “crescita esponenziale dei contagi”, come dice il dottor Enea Marinoni, membro del Cts regionale, che già oggi si riunirà probabilmente per varare nuove misure restrittive. E se la situazione di Milano sfuggisse completamente di mano, “potrebbe essere possibile un nuovo lockdown”, non lo nasconde Fabrizio Pregliasco, direttore dell’Irccs Galeazzi. “Immaginiamolo come scenario”, ha detto ieri a Radio Popolare. “Lo ha fatto Boris Johnson in Inghilterra per le principali città, ma anche la Francia lo sta immaginando. Perché noi dovremmo essere esentati? Bisognerà, io temo, fare delle ulteriori restrizioni, spero localizzate, legate all’individuazione di focolai particolari e magari lockdown di un quartiere, di un contesto. Purtroppo è qualcosa che dobbiamo tenere in conto come opzione”.

Milano “brucia”. E brucia, come raccontato anche ieri dal Fatto, perché sta saltando il sistema di individuazione dei focolai e di tracciamento dei contatti dei positivi. “Da settembre – racconta sotto anonimato un addetto al contact tracing dell’Ats di Milano – abbiamo oltre 2.500 casi-inchiesta in sospeso, frutto dei contagi avvenuti in estate. Ciascun caso è diverso, ma se un positivo è una persona che gioca a calcetto e va all’università, allora ricostruire la sua rete di contatti diventa una caccia al tesoro… E con le nostre forze ridotte, siamo solo 7 addetti qui, stiamo perdendo il controllo”. E il fatto che i nuovi contagi di ieri siano nel 65% dei casi di età compresa fra i 18 e i 49 anni, certo non aiuta. “Siamo pochissimi – prosegue – se si pensa che da febbraio a oggi abbiamo gestito oltre 85mila chiamate”. Altro ostacolo è che è un sistema pensato a compartimenti stagni: “La telefonata arriva al centralino e da lì al livello successivo, dove lavorano solo 4 persone, le quali la smistano ai vari dipartimenti. È un imbuto”. Il Pirellone sta cercando di recuperare almeno 150 persone in più per questo servizio, ma si non riescono a trovare. E il rischio è che ormai sia già troppo tardi.

A pesare sono anche le carenze organizzative. A partire dal mancato potenziamento della medicina territoriale, penalizzata dalla scelta di puntare sempre sugli ospedali. Il Pirellone, grazie al piano del ministro Speranza che permetteva l’assunzione di medici e infermieri, ha immesso in servizio 5.026 sanitari, ma 4.560 di questi sono stati dirottati alle strutture ospedaliere (le Asst), mentre alle Ats, che dovrebbero essere le strutture di raccordo con i medici di base, sono arrivati solo 340 rinforzi. Alla Ats di Milano città, che sovraintende a 1,4 milioni di persone, il “rinforzo” è consistito in solo nove unità.

E proprio i medici lombardi ancora una volta hanno lanciato il loro grido d’allarme. Online circola da giorni una lettera diretta alle istituzioni – migliaia i firmatari, tra medici e infermieri bresciani e bergamaschi, il cuore della prima ondata – che esprime preoccupazione per la tenuta del sistema regionale. “Lo scenario prevedibile – si legge – sarà caratterizzato da un notevole aumento di richieste di prestazioni e di azioni sanitarie. Il rischio è che l’intero sistema venga messo ancora una volta sotto stress e ridotto allo stremo”, sostengono i firmatari. “Per arrivare a una gestione efficace e ordinata degli eventi non può bastare la sola disciplina della popolazione, che ci ha consentito di uscire dal lockdown, ma serve una coordinata e lungimirante risposta delle istituzioni preposte. Quella messa in campo sinora non è sufficiente”.

Orgasmi&ganasce

Per la prima volta, ho provato sentimenti di umana pietà per Monica Cirrinnà. È stato quando ho letto sul sito di Repubblica che “Calenda schiaccia gli altri candidati nella corsa per il Campidoglio”. Il pensiero dell’esile deputata pidina che stramazza al suolo esanime sotto il peso del corpulento leader di Azione mi ha fatto riflettere sulle dure e impietose leggi della politica e sull’esigenza di porvi qualche limite di cristiana misericordia o di laica solidarietà. Anche perché le primarie romane del centrosinistra sono talmente affollate che non ci si meraviglierebbe di veder piovere dal cielo pure Mario Adinolfi. E lì sarebbero cavoli amari per tutti, non solo per la Cirinnà. Ma almeno si smetterebbe di chiamarle “le primarie dei sette nani”. Per fortuna, al momento, di schiacciante c’è solo la maggioranza dei giornaloni e dei retrostanti padroni del vapore che fanno il tifo per Calenda ancor prima che si candidi a sindaco. Anzi, più che un tifo, è una serie di orgasmi multipli a mezzo stampa, pari a quelli che si registravano ai tempi del Giubileo, dei Mondiali di Nuoto e delle candidature olimpiche (fortunatamente sventate da Monti e dalla Raggi). Con una particolarità: invece dei tradizionali sospiri e gridolini di piacere, gli orgasmi capitolini hanno come colonna sonora un sinistro rumore di ganasce, che va da Repubblica degli Agnelli-Elkann al Messaggero di Caltagirone. Per la serie: daje che se rimagna.

Repubblica spaccia per “sondaggio” una consultazione fra i lettori del sito su chi preferiscano fra Calenda e nove “potenziali candidati” al Campidoglio: Cirinnà, Fassina, Zevi, Ciani, Caudo, Magi, Ciaccheri, Alfonsi e De Biase. Naturalmente è arrivato primo Calenda col 50%, mentre gli altri nove si dividono il 32 e il restante 18 li detesta tutti. Bella forza: Calenda sta sempre in televisione anziché al Parlamento europeo (dove, secondo i dati ufficiali di Votewatch, è il 72° italiano su 75 per numero di voti e presenze: peggio di lui fanno solo Roberti, Patriciello e B.), mentre gli altri nessuno sa chi siano. Il campione, peraltro, è piuttosto striminzito, visto che in quattro giorni han risposto appena 25mila lettori del sito e 13.100 han votato Calenda. Ma Rep ha già deciso che questo “successo travolgente”, questo “straordinario consenso” basta e avanza a garantirgli “buone chance di arrivare primo”: basterà un emendamento per limitare il diritto di voto ai romani che leggono il sito di Rep. Inutile fare le primarie, un tempo orgoglio e vanto del Pd veltroniano e dunque di Rep, oggi degradate a “concorso di bellezza per sconosciuti” e “coperta di Linus cui aggrapparsi in mancanza di idee migliori”.

Del resto, Carletto è un “city manager più che un politico di professione”, e ciò è bene se lo dice Rep (se lo dicono gli altri, è male, è qualunquismo, peronismo, antipolitica, fascismo). Lui sa “cosa vuol dire amministrare una macchina da 30 mila dipendenti”, anche se non ha amministrato nemmeno un condominio. Lui sa “condurre in porto un appalto senza farsi imbrigliare per mesi o anni da cavilli”: basti pensare alla brillante gestione di dossier come Ilva, Alitalia eccetera. Lui sa “far ritrovare alla parte sana dei dipendenti comunali l’orgoglio delle cose realizzate”, anche grazie alla proverbiale fermezza e alla tetragona continuità: nel 1998 in Ferrari, nel 2003 a Sky, nel 2004 in Confindustria, nel 2008 all’Interporto Campano, nel 2012 in Italia Futura con Montezemolo, nel 2013 candidato trombato nella Lista Monti e viceministro al Mise con Letta, nel 2014 confermato da Renzi, nel 2016 rappresentante permanente dell’Italia presso la Ue per ben due mesi, poi di nuovo al Mise come ministro, nel 2018 nel Pd, nel 2019 fondatore di Siamo Europei, ma candidato ed eletto eurodeputato col Pd, abbandonato tre mesi dopo per fondare Azione, e ora forse candidato a sindaco di Roma confidando nell’appoggio del Pd che ha appena cercato di far perdere alle Regionali, insultandone i dirigenti e persino gli elettori (“indegni”). Sono soddisfazioni.
Ma l’orgasmo repubblichino è niente al confronto delle fregole caltagirine. Il Messaggero titola: “La tentazione dei dem: ‘adottare’ Calenda per fermare la Raggi. L’idea di replicare l’operazione Bonino nel 2010”. Infatti l’operazione Bonino nel 2010 riuscì a consegnare il Lazio alla Polverini. Ma la notiziona è un’altra: dopo aver passato quattro anni a dipingerla come un’incapace che i romani non rivoterebbero neppure sotto tortura, adesso il Messaggero registra orripilato “la paura, non solo di Calenda ma di buona parte della città, che Virginia possa arrivare al secondo turno, per poi avere l’appoggio sicuro del Pd”. Un “timore che rovina il sonno anche al Pd”. Ma come fa la Raggi ad arrivare al ballottaggio e poi a rivincerlo se “buona parte della città” è terrorizzata dalla sola prospettiva? E perché mai l’insonne Pd dovrebbe darle l’“appoggio sicuro” al ballottaggio se non dorme la notte all’idea che rivinca? L’unica spiegazione alternativa al manicomio è che forse non è vero che la Raggi ha sbagliato tutto e tutti i romani la maledicono. E forse non è vero che Roma è piena di sindaci in pectore capacissimi di rifarla più bella e superba che pria: altrimenti qualcuno di questi fenomeni si candiderebbe per farcelo vedere. Cioè: i giornaloni ci han raccontato un sacco di balle. Tanto per cambiare.

“Non dire addio ai sogni”, la tratta dei giovani calciatori africani vede la luce nel libro di Riva

Non è facile, e forse nemmeno utile, decidere se Non dire addio ai sogni sia un romanzo di formazione, un trattato di storia contemporanea, un libro-inchiesta su una delle più ignorate e spietate forme di schiavitù inventate dall’uomo bianco europeo a scapito dell’uomo nero, anzi dei giovani di colore africani. Il secondo romanzo di Gigi Riva – autore de L’ultimo rigore di Faruk, già noto inviato del Giorno e de L’Espresso nei teatri di guerra più sanguinari a partire da quelli balcanici fino a quelli mediorientali, oggi editorialista e sceneggiatore – è tutto questo tenuto assieme dalla passione per il calcio che ha portato lo scrittore a immedesimarsi, senza inutili pietismi, nella tragedia dei giovani africani vittime della tratta del pallone. Nelle 217 pagine che raccontano la storia di Amadou, anzi dei tanti Amadou, adolescente senegalese vittima del falso procuratore francese George e del suo compare africano Idrissa, nulla viene tralasciato. E Riva, volutamente, non porta però a galla solo le miserie della razza umana (“conosco solo una razza: quella umana”, disse Einstein) ma anche la sua capacità di resilienza. Specialmente quando si è ancora giovani e non si riesce, come è giusto, a dire addio ai sogni nonostante tutto. E non si deve dire addio ai sogni, suggerisce attraverso una trama mozzafiato l’autore, anche quando tutto sembra spingere verso il realismo più spinto, verso l’accantonamento delle proprie legittime aspirazioni a favore di un pragmatismo remunerativo, ma scevro da dubbi morali che, alla fine, rende tutti nient’altro che vuoti consumatori.

Ragazzini che non possono nemmeno chiedere aiuto alla polizia e alle autorità dei paesi dove nascono e dove finiscono, spesso a delinquere per sopravvivere, perché queste autorità sono corrotte o cieche, meglio indifferenti. Non c’è infatti a oggi un programma per mettere in guardia, aiutare questi giovani “sognatori” e i loro genitori incaricati di fare l’ennesimo sacrificio per trovare i soldi con cui pagare i falsi procuratori ladri di tutto, persino dei sogni . La nota in apertura del libro (Mondadori) ricorda che “sono quindicimila i ragazzi africani – stima per difetto l’Ong francese Foot Solidaire attiva dal 2000 – che arrivano ogni anno in Europa col sogno di diventare calciatori, ma solo uno su mille ce la fa”.

Non dire addio ai sogni è declinato attraverso una scrittura alta, estremamente avvincente e spesso poetica pur rimanendo basato sulla denuncia di questa nuova forma di schiavitù e ancorato alla storia, tra realtà e fantasia, di uno di questi giovani illusi. Abbandonati subito al loro destino, questi ragazzi finiscono quasi sempre nelle grigie banlieue-alveari delle Capitali europee, in questa Odissea del Terzo millennio in quelle di Marsiglia, Nizza e Roma, diventando facile manovalanza della criminalità che li sfrutta proprio perché minorenni. In Francia e Belgio, il paese dove andrà Gino uno dei pochi amici di Amadou, i pericoli ora si chiamano anche reclutamento islamico a causa dei tanti iman che indottrinano questi giovani senzatetto né affetti mandandoli a farsi esplodere dopo aver promesso loro quel paradiso che sulla terra non hanno trovato per l’avidità di un mondo che dietro il Mulino bianco nasconde orchi di ogni genere.

“Vincerà Biden e così finirà quell’incubo di nome Trump”

Broadway, esterno notte, 2018. Bruce Springsteen esce dal Walter Kerr Theatre dopo lo show. I fan lo attendono. “Questo ragazzo mi porse una chitarra. Voleva regalarmela. Era di ottima fattura. La portai a casa. Aveva un suono fantastico. È stata una magia: quella chitarra conteneva tutte le canzoni dell’album. In dieci giorni era pronto”. È nato così, dal dono di un fan italiano, Letter to you, che vedrà la luce il 23 ottobre, accompagnato da un documentario del fido Thom Zimny. Registrato un anno fa nello studio casalingo del Boss, in presa diretta con la E Street Band. “Due pezzi ogni 24 ore, senza provini, con gli arrangiamenti che si materializzavano in corsa. Al quinto giorno avevamo finito!”, ride Springsteen.

“Volevo fare un album con la E Street Band, ma erano sette anni che non scrivevo per loro. E ogni volta ti chiedi, con ansia, se ne sarai ancora capace”. Letter to you, spiega, “affronta i temi della perdita, della gioia e della bizzarra fratellanza che ti fa ritrovare ancora insieme, per 45 anni, in un gruppo rock. Una vita con loro, nella buona e nella cattiva sorte”. La scintilla di un’opera che spazia “dai miei 17 anni fino ai 70” è il commiato a George Theiss, il chitarrista nella sua prima band, i Castiles. “Andavo a visitarlo in estate, era già molto malato. Eravamo gli unici due dei Castiles ancora vivi, gli altri se erano andati tutti prematuramente. George morì poco dopo. Fu strano sentirsi lasciati soli. Così composi il primo pezzo dell’album, Last man standing”.

E poi ecco gli altri spettri: i pilastri della E Street Band Clarence Clemons e Danny Federici, omaggiati nella cavalcata di Ghosts, il secondo singolo pubblicato. Ma il più insidioso dei fantasmi è lo stesso Springsteen, che oltre ai dieci brani nuovi, in Letter to you ripesca tre oscuri gioielli dal suo passato remoto, e non è un caso se If I was a priest (eseguita nella prima audizione del ’72 davanti all’onnipotente John Hammond) avesse sin dall’origine un’illuminazione dylaniana. “È accaduto per caso. Avrei dovuto far uscire un vecchio brano risuonato con la band per il Record Store Day, ma era venuto troppo bene. Così ho pensato di conservarlo e di provarne un altro paio. È stato come ritrovare la voce di quando avevo 22 anni, aggiungendovi la forza e l’esperienza maturate fino a oggi”.

E sono qui, le altre due perle dagli anni ruggenti, Song for orphans e Janey needs a shooter, quest’ultima nota per un mezzo “scippo” da parte del compianto Warren Zevon. “Diventammo amici nel ’78”, spiega Bruce. “Una sera Warren venne a casa mia mentre cantavo Janey needs a shooter. Restò folgorato, ma solo dal titolo. Gli dissi: ‘Se ti piace usalo’. E così fece. Ma questa è la mia canzone”.

Tra gli inediti, la stoccata per Trump, Rainmaker. “Avrei potuto scriverla già per Bush”, riflette Bruce, “ma calza meglio per quel demagogo dell’attuale presidente. Vi indago sul rapporto fra Trump e i suoi seguaci”. Alle prossime elezioni, garantisce il Boss, il tycoon sarà sconfitto. “Biden vincerà e con Trump si dissolverà anche quest’incubo nazionale. Prego che non vengano messi in atto trucchi sul risultato del voto, ma ho fede che il Paese dimostrerà unità”. Anche la musica ha un senso etico, sottolinea Bruce. “In House of a thousand guitars definisco la relazione tra me e il pubblico. Un mondo di valori, gioia e moralità. Come se dicessi: ‘Nella casa che abbiamo costruito insieme contano queste cose’. Non vedo l’ora di suonarla dal vivo”. Il tour è in agenda per il 2022. Virus permettendo.

L’essere umano? “È zoppo”

Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah, allievo di Lévinas… “No, no, eviti il curriculum ché fa sorridere. Al massimo lasci ‘psicoanalista’”. Haim Baharier è uno degli intellettuali più originali d’Europa – filosofo e biblista, maestro di polenta e Qabbalà –, amato dal grande pubblico che affolla le sue lezioni in teatri (tra poco al Parenti di Milano con Eterna e attuale: il paradosso della saggezza ebraica) e festival. Ospite di “Filosofi lungo l’Oglio”, il professore affronta il tema “Essere umani” parlando di Neanderthal e Adamo.

Ci spiega meglio, prof.?

Ci sono due modi di narrare la storia umana: con Neanderthal, ovvero la scienza, e con Adamo, ovvero il percorso memoriale. Cosa porta di più Adamo rispetto a Neanderthal? Attraverso la memoria si dà un nome al primo essere vivente che ebbe il coraggio di diventare uomo: “Adamo”, appunto, che, in ebraico, ha almeno tre significati. Il primo è “uomo rosso”, rosso come il primo colore del prisma. Il secondo significato è legato alla “terra”: la madre dell’uomo, a differenza dell’acqua della scienza. Terra è, innanzitutto, responsabilità. L’habitat originario dell’uomo, tradotto in modo ridicolo come “giardino dell’Eden”, è invero un “rifugio”. La terza traduzione viene dalla gematria (scienza che assegna valori numerici alle parole, ndr), uno strumento ermeneutico che studia l’energia numerica, oltre a quella semantica. “Adamo” è il 45, associato a “mà”, “che cosa?”, la prima domanda che fa l’essere umano; la seconda è “mì”, cioè “chi?”. La dignità dell’essere umano è il domandare. Nel percorso biblico, le risposte non contano tanto: ci arricchiscono le domande che facciamo.

Per alcuni, come Nietzsche, la memoria è il fardello dell’uomo…

La memoria si fa fardello quando cerca di diventare storia: la Shoah, per esempio, è stata trasformata, purtroppo, prematuramente in storia, con tutte quelle celebrazioni che rischiano di ucciderne la memoria… La storia ha un contenuto di fatalità: è per questo che non insegna nulla. La memoria invece dovrebbe essere un insegnamento perché ci costringe a interrogarci continuamente.

La memoria – le disse suo padre – non è tanto della persecuzione, ma della liberazione dalla schiavitù. La memoria quindi è vitale e ha a che fare col futuro?

Questo frammento di memoria – l’Esodo – è fondamentale: come ebrei dovremmo ripetere tre volte al giorno di essere usciti dalla schiavitù d’Egitto. Di fatto, non vi era un progetto: fino all’ultimo, il popolo d’Israele non voleva uscire. Noi lo ricordiamo ancora oggi per acquisire maggiore consapevolezza e capire che l’uscita dalla schiavitù va conquistata, è una necessità da sviluppare dentro di sé. La prima “fuga” memoriale ebbe luogo quasi senza il nostro consenso: durante l’ultimo tratto di percorso nella tenebra, morirono i 4/5 dei figli di Israele, i 4/5 sono quelli che non volevano uscire, i 4/5 dell’ebraismo d’Europa sono finiti nella Shoah. Io non bene che cosa pensare di questa coincidenza, di questo numero 4/5, che ha duemila anni.

C’è chi dice che Dio ha inventato i numeri naturali: che legame c’è tra i due?

Corro il rischio di divagare. Il problema è non sostituire il nome con il numero, per la Torah questo rappresenta un pericolo: contare, censire il popolo non può che far sfuggire dalla mano del creatore l’epidemia. Quando successe, il maestro Mosè disse ad Aronne: “Prendi subito l’incenso e corri fra i morti e i vivi”. L’incenso è l’essenza, cioè ristabilire il nome.

Quindi mai confondere matematica e religione…

Io la religione non la sopporto: la decadenza del Dio di Israel si manifesta in questi orpelli. Io parlo di percorso identitario.

Lei è molto affezionato al tema della “claudicanza”: è una cifra dell’Occidente, da Edipo a Claudio, fratello assassino di re Amleto?

Cronologicamente questo concetto arriva dall’ebraismo antico: la claudicanza non c’entra col pietismo, è la condizione umana, la nostra identità. Con Caino e Abele, la claudicanza si esplicita così: da una parte Caino, figlio dell’uomo, dall’altra Abele, fratello di Caino. La claudicanza è la nascita di questa identità inattesa: il “fratello di”, che non ha posto. Il problema è l’accoglienza di Abele, ma di contro Abele ha il dovere di spiegare a Caino che, se lo accoglie, non è una rinuncia.

Ci racconti del suo maestro, il clochard parigino Monsieur Chouchani…

Purtroppo non è stato mio maestro, ero solo un bambino. Ma è lui che mi ha spiegato che Isacco è claudicante e che Abramo è grande nel sentire la voce della vita: Isacco invece ha fiducia assoluta nell’uomo, non si muove, è convinto che il padre non lo sgozzerà… C’è un fumetto in Francia bellissimo: Ce n’est pas toi que j’attendais (“Non sei tu quello che aspettavo” di Fabien Toulmé, ndr). Racconta di quando ti nasce un bambino diverso, con la sindrome di down, o l’autismo… a quel punto hai davanti agli occhi la claudicanza.

Lei ama divertire: spesso spiega il monoteismo con Star Trek

Tutto ha dignità intellettuale; non esistono alto e basso: noi non siamo quello che diciamo, ma quello che esprimiamo, quello che passiamo all’altro. Io vado sui 73: non sono più alla ricerca di chi mi dice che sono molto colto. Io sono anche queste storielle yiddish, come quella del Tacchino pensante. Vuole che gliela racconti?…