Bombe sui civili: Putin punta su Erdogan per la tregua

Continuano a piovere bombe sul Nagorno Karabakh e sull’Azerbaigian, dimostrando che la tregua non tiene sebbene stipulata a Mosca la settimana scorsa. I tiri incrociati di artiglieria pesante sono andati ben oltre la linea del fronte per colpire città distanti anche 60 chilometri sia in Armenia (che sostiene i separatisti del Nagorno K.) sia in Azerbaigian (nel cui territorio si trova la minuscola enclave armena del Nagorno K.) seppellendo intere famiglie e più in generale decine e decine di civili di ogni età.

Il Cremlino ieri ha fatto appello a Yerevan e Baku affinchè aderiscano al cessate il fuoco concordato. “Speriamo che entrambe le parti attuino rigorosamente le decisioni”, ha detto lunedì il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov dopo un incontro con la sua controparte armena Zohrab Mnatsakanyan. Ma entrambi i paesi per ora fanno muro contro muro. A detta del ministro Lavrov sulla tregua è d’accordo anche la Turchia, alleata di Baku, che ha fomentato fin dallo scorso luglio la ripresa del conflitto, sedato nel 1994 con una pace fragile sotto la supervisione del Gruppo Osce di Minsk composto da Russia, Francia e Stati Uniti. Finora l’unico attore politico in grado di imporsi nel Caucaso è stato il presidente russo Vladimir Putin ma poi è apparso il sultano turco Erdogan che sta riuscendo a farsi ascoltare dal Cremlino approfittando del fatto che Mosca ha legami con entrambi i paesi in guerra. Del resto sia l’Armenia sia l’Azerbaigian sono stati Paesi membri dell’Unione Sovietica fino a quando non è collassata. Con Yerevan, Mosca condivide l’appartenenza alla religione cristiana ortodossa, mentre con Baku deve mantenere aperto il dialogo per evitare che i suoi corridoi energetici (che servono anche la Turchia) danneggino il proprio export petrolifero. Non è un caso che la crisi tra Armenia e Azerbaigian sia iniziata infatti subito dopo l’imposizione di sanzioni statunitensi sul gasdotto Turkstream.

Un messaggio molto chiaro partito da Mosca che intende così ricordare che gli oleodotti del Caucaso devono essere gestiti sulla base delle esigenze del Cremlino.

Brexit, BoJo alle strette cerca la vittoria simbolica

L’ultimatum di Boris Johnson scadrebbe domani, 15 ottobre, termine ultimo imposto dallo stesso primo ministro britannico per trovare un accordo con Bruxelles sui rapporti commerciali post Brexit.

“Deve esserci una intesa con nostri amici europei entro il Consiglio europeo del 15 ottobre, se vogliamo che sia ratificato per la fine dell’anno” aveva dichiarato il 7 settembre scorso, che ora sembra un millennio fa. “Se non troviamo la quadra per quella data, non vedo come possa esserci un accordo di libero mercato fra noi, e dovremmo entrambi prenderne atto e andare ognuno per la propria strada”. Senza un accordo, i rapporti commerciali fra Regno Unito e Ue sarebbero regolati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, diventando più complessi e costosi di quanto siano ora.

Nel frattempo Johnson ha reso i negoziati politicamente irrespirabili, presentando a Westminster quell’Internal Market Bill che riscrive importanti parti del trattato di recesso firmato a gennaio. Bruxelles ha reagito con fermezza, anche stavolta senza venire meno alla rara unità di intenti fra stati membri che ha caratterizzato questa trattativa: condanna unanime per la violazione degli obblighi di un trattato internazionale; avvio della procedura legale prevista per quella violazione: rifiuto di muovere un passo se il Regno Unito non ritirerà il Bill. Che invece è passato facilmente ai Commons e ora si avvia all’esame dei Lords. E però non si è mai smesso di trattare. Nei giorni scorsi Johnson ha sentito la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Macron. Sono chiamate molto simili, con Downing Street che “conferma l’impegno del Regno Unito a esplorare ogni possibilità per raggiungere un’intesa,” ma si dice pronto anche ad andarsene senza.

Servono progressi sui due dossier rimasti: i diritti di pesca nella Manica, contesi fra i pescherecci inglesi, francesi, olandesi e spagnoli, e il level playing field, cioè le regole per evitare che dalla Brexit il Regno Unito esca con un vantaggio competitivo che l’Europa non può accettare né sul piano economico né su quello politico. Pubblicamente Bruxelles ha scelto di trattare l’ultimatum di Boris come un bluff. Ma è servito, come si dice qui, a focus some minds, sbloccare volontà politiche: mercoledì scorso il capo negoziatore Ue Michel Barnier, rivolto agli ambasciatori europei, ha accennato che sarà necessario concedere maggiori quote di pescato al Regno Unito. La Francia si oppone fermamente. Ma se dovesse cedere Boris porterà a casa una potente vittoria simbolica: la pesca vale solo lo 0,1 del Pil britannico ma è un forte catalizzatore del sovranismo inglese. E domenica il ministro francese per gli Affari europei, Clément Beaune, ha suggerito che la scadenza dei negoziati sia spostata ai primi di novembre: sembra un segnale di disponibilità da parte di Macron, da sempre il più fermo antagonista di Londra. Quanto a Johnson, molti commentatori osservano come abbia un disperato bisogno di un accordo: la sua popolarità è al minimo dopo solo 10 mesi dal trionfo elettorale di dicembre; la gestione del Covid gli è di nuovo sfuggita di mano; deve affrontare la rivolta anche di un pezzo del suo partito, furibondo per l’arbitrarietà delle nuove restrizioni imposte per fronteggiare la seconda ondata. E il paese, malgrado l’ostentata sicumera dei suoi vertici, non è pronto allo choc di un no deal . Ora, per il premier in caduta libera è fondamentale portare a casa almeno la percezione di una vittoria.

Trump show ai comizi: “Sono guarito, vi bacerei tutti”

Risultato negativo al Covid-19 per la prima volta dal 1° ottobre, il presidente Donald Trump torna in campagna elettorale senza freni e senza precauzioni, mascherina addio: “Vinceremo”, grida, suscitando l’entusiasmo dei suoi fan in Florida e in Pennsylvania; oggi sarà in Iowa. “Va a caccia di guai”, sentenzia in televisione il virologo Anthony Fauci, ormai apertamente critico del magnate. Trump fa spallucce ai consigli del saggio come alle previsioni dei guru: l’Economist dà al suo rivale Joe Biden il 91% delle chance di conquistare la Casa Bianca e il 99% d’imporsi nel voto popolare. Per vincere la presidenza occorrono 270 voti del collegio elettorale: per gli esperti del giornale che assegna anche Stati per altri ancora in bilico, l’ex vicepresidente sarebbe già sicuro di aggiudicarsene 347, Trump 191. Ma The Donald mostra il suo solito entusiasmo: “Sono immune ora. Mi sento forte. Vi bacio tutti…”, afferma sul palco mentre i suoi fan scandiscono “Four more years!”, altri quattro anni (alla Casa Bianca): “I democratici vogliono rimpiazzare il sogno americano con un incubo socialista … Aprite gli Stati, il lockdown vi sta uccidendo”. “Trump è un irresponsabile – gli replica Biden – ha mentito sulla pandemia e non ha un piano per combatterla”. Il sostegno dei repubblicani al presidente continua a sfaldarsi. Mitt Romney, senatore dello Utah, sempre critico verso il magnate, denuncia una “campagna elettorale ignobile e piena d’odio”, estendendo la critica alla speaker della Camera Nancy Pelosi, ma non a Biden. Pure la scelta del test per decretare la negatività di Trump suscita perplessità fra gli esperti. Intanto, davanti alla Commissione Giustizia del Senato, la giudice Amy Coney Barrett è stata impegnata, per il secondo giorno della sua audizione fiume, che si concluderà domani, a dribblare le domande più che a rispondere, specie sull’aborto e l’Obamacare. Barrett, una cattolica conservatrice, non si sbilancia sulla sentenza del 1973 ‘Roe vs Wade’, su cui poggia il diritto d’abortire negli Usa: “Non è opportuno che io mi pronunci prima di essermi insediata”, risponde alla senatrice democratica Dianne Feinstein. Barrett insiste che ascolterà sempre “entrambe le parti” e sarà “obiettiva”, lasciando in un canto le convinzioni religiose nelle sue decisioni: “Il mio faro è la legge”, e nega di avere preso impegni con Trump su aborto, Obamacare e regolarità del voto: “Sarebbe una madornale violazione dell’indipendenza giudiziaria che io prendessi impegni di sorta”.

Haftar e il traffico d’oro. Libia, per un pugno di lingotti

C’è traffico nel cielo sopra Istanbul: rotta assai contesa ultimamente dai due leader libici: il premier Fayez al-Sarraj e il suo avversario, il generale Khalifa Haftar. Se i voli da Tripoli del primo non stupiscono – il premier turco, Recep Tayyip Erdogan è alleato e sostenitore del Governo nazionale libico – sorprendono invece le ripetute visite del Dassault Falcon 900 P4RMA del generale della Cirenaica. A bordo dell’aereo noleggiato da un’impresa con sede negli Emirati Arabi e atterrato all’aeroporto Ataturk nel mese di luglio, ci sarebbe stato il figlio di Haftar, Saddam, dedito alla vendita dell’oro libico in cambio di valuta con cui sostenere la guerra di suo padre.

A rivelarlo è Radio France Internationale (Rfi) che – come il Fatto ha potuto verificare – svela anche che nello stesso periodo il Falcon 900 è atterrato pure ad Abu Dabhi e poi all’aeroporto privato emiratino di Al Batine, riservato agli uomini d’affari. Si tratta dello stesso velivolo che nel mese di aprile e poi a giugno è decollato dalla base aerea di Benina, vicino a Bengasi, per raggiungere l’aeroporto Simón Bolívar Maiquetía di Caracas, secondo lo scoop del Wall Street Journal; anche in quel che caso si parlò di scambi commerciali di oro, petrolio e dollari tra il presidente Nicolas Maduro e il ribelle Haftar. Poche settimane dopo il Falcon atterra in Turchia con lo stesso intento, scrive Rfi, di “concludere affari” attraverso cui “finanziare e preservare l’entità politico militare” fondata da Haftar nella Libia orientale. “Attività imprenditoriali”, scrivono i francesi. Se non fosse che Erdogan è tra i peggiori nemici del generale contro il cui esercito (Lna) ha inviato forniture e specialisti militari prendendo le parti del governo di accordo nazionale di Al Sarraj. Eppure, stando a fonti di Bengasi raccolte da Rfi, è proprio al Sultano turco che i figli di Haftar insieme ai suoi emissari sarebbero andati a vendere l’oro libico. Così come l’avrebbero ceduto in cambio di mercenari, armi e dollari anche agli “amici” degli Emirati Arabi Uniti, attraverso le cui banche passano gli accordi bancari dell’Lna. E non sarebbe la prima volta, né la prima missione. Saddam Haftar è già noto alle autorità internazionali per aver commerciato illegalmente oro e petrolio in Turchia. Stando al rapporto delle Nazioni Unite del 2018, da questo traffico avrebbe ricavato 1,5 miliardi di lire turche e “già prima dell’offensiva del padre nel 2019 per prendere Tripoli, aveva incontrato il capo dell’intelligence turca”. L’oro – trafugato dai fratelli Haftar dopo l’attacco alla Banca centrale libica di Bengasi, poi ripresa da Sarraj nel 2017 – sarebbe andato perduto nell’inondazione delle acque reflue, evento all’epoca comune nella città libica. In realtà l’oro sarebbe stato trasferito assieme al denaro sottratto in un luogo noto a pochi. In tutto si tratterebbe di 640 milioni di dinari libici, 160 milioni di euro e 2 milioni di dollari, più 6.000 monete d’argento. Di questi, 20 mila euro sono saltati fuori la settimana scorsa, ammuffiti, in casa di una coppia di Limoges, in Francia. Tornando al traffico su Istanbul, i viaggi degli Haftar in Turchia per piazzare l’oro libico stupiscono più che per ragioni militari, per ragioni diplomatiche. In questi giorni infatti, un altro Falcon 900 viaggia verso l’aeroporto Ataturk, ed è quello del governo libico di Al-Sarraj, la cui Banca centrale ha stipulato con l’omonima entità turca un “memorandum di intesa che definisce i termini di una cooperazione in alcuni settori economici e finanziari”. A spingere per l’accordo sarebbero stati il ministro degli Interni di Sarraj, Fathi Bashagha e Khaled al-Mishri, il capo del Consiglio di Stato libico.

Peccato che Bashagha sia stato allontanato dal premier e poi reintegrato perché accusato di concedere la piazza ai manifestanti anti-governativi per fomentare un colpo di Stato contro di lui e che le sue visite a Istanbul si siano verificate proprio in piena crisi dell’esecutivo. “Sembrerebbe – ha dichiarato l’ex ambasciatore libico negli Emirati Arabi, e leader del Libyan Revival Bloc, Aref al-Nayedh a Arab News – che Bashaga e i capi delle finanze di Misurata stiano lavorando già per accordarsi con i turchi mettendo da parte Sarraj (che ha annunciato le dimissioni entro ottobre, ndr) e l’accordo fa parte del prezzo che deve pagare”.

La Turchia, se così fosse, starebbe rinforzando sul doppio fronte il ruolo svolto nel conflitto e sancito dall’accordo dello scorso novembre con Sarraj a seguito del quale Erdogan ha intensificato la presenza di forniture e specialisti in Libia.

Pro&contro, scuola

Cancellato il voto numerico dalla pagella delle elementari, torna il giudizio “a parole”. C’è chi ritiene che valorizzi i percorsi individuali degli alunni senza “bollarli” con cifre inappellabili e chi ritiene importante dare valore alla conoscenza, misurarla, soprattutto in un percorso di crescita. Chi ha ragione?

 

Pro “Si potranno valorizzare gli alunni per quel che sono”

“Costanti sono stati in questo primo quadrimestre l’interesse nelle attività scolastiche, l’impegno a far bene, a superare le difficoltà e abbastanza buoni i risultati. Corretta è la lettura e buona la capacità di riferire i contenuti. Si esprime con discreta chiarezza e partecipa attivamente alle conversazioni. Sa operare correttamente con i numeri, conosce e sa applicare le regole dell’aritmetica. Studia con interesse storia, geografia, scienze. È un po’ birichino nel comportamento, ha la lingua un po’ lunga e deve raggiungere più autocontrollo”.

Correva il 1986 e la maestra Teresa scriveva così nella mia pagella di quinta alla primaria “Alessandro Manzoni”. Oggi se un maestro dicesse “la lingua un po’ lunga” finirebbe al centro di una polemica, ma quelle schede senza “6”,“7” o “4”, raccontavano i traguardi del bambino, il suo percorso, le sue conquiste. Dopo trent’anni la scheda di valutazione del primo e secondo quadrimestre tornerà a essere così. Via gli inappellabili numeri, via gli “ottimo”, “buono” e “scarso” (li dovranno usare ancora i docenti di religione) e anche le lettere “A”, “B”, “D”. Il maestro ora dovrà scrivere un giudizio sulla realtà del bambino. Nulla di oscuro e incomprensibile, promettono dal ministero dell’Istruzione. Dovranno essere capiti anche dalle famiglie non italiane che faticano ancora con la lingua. È una rivoluzione.

Con l’introduzione dei numeri (ministro Mariastella Gelmini) si era fatto un passo indietro nel sistema d’istruzione. Ora si rimettono al centro il bambino e le sue competenze (non i contenuti), tenendo conto dei percorsi individuali, con buona pace di insegnanti e presidi appassionati del voto che ha mortificato migliaia di ragazzi. Ricordo ancora Marco. Quando arrivai nella sua classe non studiava. I suoi voti erano 5, 4. Mi rifiutai di mettere i numeri sulle poche prove che facevo. Iniziai a valorizzarlo, a dargli fiducia anche quando apriva bocca per dire pochissime parole. Iniziò ad alzare la testa dal banco. Aveva davanti finalmente un insegnante che non lo giudicava. A fine anno si alzava al mattino presto per ripassare storia e geografia. Non avevo fatto nulla di straordinario: avevo dato fiducia. Basterebbe leggere Lettera a una professoressa per capire. Don Lorenzo Milani scriveva: “Giorno per giorno studiano per il registro… Tutto diventa voto e null’altro”. Ora mi resta un sogno, vorrei mettere sulle pagelle il timbro del maestro Manzi: “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Forse è troppo ma so che basterebbe perché come diceva il conduttore di Non è mai troppo tardi: “Mettere un giudizio a un bambino, relativo a un momento specifico della sua vita, significa bollarlo”.

Alex Corlazzoli

 

Contro “I bambini devono misurare il loro percorso”

Nel suo libro Ragazzo Italiano (edito da Feltrinelli) ha raccontato dei primi, terribili, anni in una scuola elementare di Gallarate: “Tremendi, sono capitato malissimo – spiega Gian Arturo Ferrari, una vita trascorsa ad altissimi livelli nell’editoria al timone di Mondadori – Sono stato torturato, venivo preso per scemo. Quindi so cosa voglia dire capitare male, può succedere nella scuola: è una esperienza decisamente soggettiva. Poi, però, negli ultimi due anni a Milano ho trovato una scuola straordinaria, con un maestro bravissimo. E ho capito che conta molto la fortuna ma anche che gli insegnanti devono avere una grande preparazione, pedagogica e anche psicologica e capire gli alunni. Posso dire che, da ciò che vedo, oggi è già così. Certo, non si può generalizzare”.
Ferrari, cosa pensa della decisione di non utilizzare più i voti numerici alle elementari?
Credo che la scuola abbia un preciso e specifico compito: favorire l’apprendimento da parte di tutti quelli che la frequentano, senza distinzioni. Il fatto che la costruzione di questo apprendimento possa essere misurata mi sembra una cosa logica, che appartiene alle finalità specifiche. La scuola stessa deve essere misurata sulla sua capacità di trasmettere apprendimento, naturalmente e soprattutto per i bambini più piccoli.
C’è chi ritiene che così non si valorizzino gli alunni.
È chiaro che l’apprendimento può sembrare una è nozione vaga e misurarla unicamente e ritmicamente con i voti, numericamente, può apparire come una forzatura. Forse si potrebbe evitare la valutazione numerica nei primi anni delle elementari, ma negli ultimi due dovrebbe esserci. Ho un nipotino in quinta elementare e una nipotina in prima, noto la differenza: verso la fine è bene che i bambini inizino a capire ciò che sanno o non sanno e che il loro lavoro, nel percorso scolastico, è misurato e ha una sorta di obiettività. L’idea che il sapere o non sapere sia un dato obiettivabile è, in sè e di per sè, importante da trasmettere ai bambini e agli alunni insieme alla consapevolezza che esistono diversi gradi di apprendimento. E va fatto a partire dalla scuola. Io sono un po’ contrario all’idea che la scuola debba occuparsi di tutto, essere una sorta di assistentato sociale: l’apprendimento è centrale, gli alunni vogliono imparare.

Gian Arturo Ferrari

Vitalizi: la Casta vuole tenersi il malloppo, ma nessuno vuole decidere sul ricorso

L’imbarazzo è palpabile ché il rischio è quello di fare la parte del tacchino nel Giorno del Ringraziamento. Ma di aria di festa, a Palazzo Madama, ce n’è ben poca tra i membri del Consiglio di Garanzia presieduto da Luigi Vitali (forzista tra i fondatori della creatura totiana “Cambiamo”) e composto da Ugo Grassi e Pasquale Pepe della Lega, Valeria Valente del Pd e Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Tutti in una posizione assai scomoda: Balboni medita di astenersi, qualcun altro non scarta l’opzione ammutinamento, ma va trovata una scusa che stia in piedi. Perché altrimenti l’alternativa è da Thanksgiving: disobbedire ai loro capi politici, Salvini in testa, ma pure a Zingaretti e a Giorgia Meloni che hanno promesso di fare coriandoli della sentenza del collegio presieduto da Giacomo Caliendo che in giugno ha cassato il taglio dei vitalizi degli ex senatori. O assumersi la responsabilità di far scucire sull’unghia al Senato, con la crisi che morde e milioni d’italiani in ginocchio causa Covid, oltre 33 milioni di euro per ripristinare i vecchi assegni, sforbiciati dal 1º gennaio 2019 per ragioni di equità sociale. Di cui i 776 ex che hanno fatto ricorso non vogliono sentir parlare benché non se la passino affatto male, come Francesco Rutelli, Alessandra Mussolini o Denis Verdini in compagnia di molti altri che ne fanno una questione di principio e di quattrini.

L’Amministrazione del Senato guidata dal segretario generale Elisabetta Serafin, si è precipitata a fare ricorso per difendere il taglio deciso dopo una lunga istruttoria condotta con il conforto del Consiglio di Stato e la consulenza dell’Inps e pure dell’Istat, che è servita ad adottare “la metodologia migliore possibile” per rendere il trattamento degli ex parlamentari il più possibile omogeneo alle regole contributive introdotte nel nostro ordinamento pensionistico a metà degli anni Novanta per tutti gli altri contribuenti italiani”. E per segnalare la gravosità dell’esborso di circa 33 milioni di euro, anche rispetto alla quota di competenza della Camera (per quei senatori che sono stati anche deputati) che saranno difficilmente recuperabili dato che l’altro ramo del Parlamento non ha rimesso in discussione, almeno per ora, il taglio dei vitalizi. Senza contare che pagare subito e poi, nel caso di una sentenza favorevole all’Amministrazione in appello dover inseguire gli ex parlamentari o i loro eredi col “gravoso compito di recuperare” il malloppo, potrebbe rivelarsi una missione impossibile.

Termini, chiude Chef Express: quasi 80 esuberi

Il restyling previsto per la stazione Termini sta per colpire quasi 80 lavoratori, che rischiano di perdere il posto nel giro di pochi mesi. La società Grandi Stazioni ha deciso da tempo di chiudere i locali che servono cibo nel corridoio centrale e lasciare solo i negozi di abbigliamento. Questo significa che chiuderanno le catene McDonald e Chef Express. Per quanto riguarda i 90 lavoratori in servizio presso McDonald’s non dovrebbero esserci problemi per il riassorbimento negli altri punti sparsi per la Capitale. Per 78 addetti di Chef Express, invece, le prospettive sono molto scarse. La chiusura è prevista per il 31 ottobre, giorno in cui con ogni probabilità inizierà un periodo di cassa integrazione che però sarà solo il preludio al licenziamento in programma per gennaio, quando cadrà il divieto imposto dal governo con i decreti anti-Covid. Per questo domani Fisascat Cisl e UilTucs manifesteranno in piazza dei Cinquecento. L’enorme crisi occupazionale che pende sul commercio partirà proprio dalla principale stazione della Capitale.

Il Csm prova a cacciare il pensionato Davigo, ma le correnti sono spaccate: il 19 si vota

La bilancia che sembrava pendere in questi giorni un po’ di più verso Piercamillo Davigo e la sua permanenza al Csm anche dopo il 20 ottobre, quando per i suoi 70 anni andrà in pensione da magistrato, adesso “si è riequilibrata”, ci dice più di un consigliere. Dunque, sarà un voto sul filo di lana quello del plenum fissato ieri per il 19. Saranno pesanti se non addirittura dirimenti per le leggi della matematica e per il ruolo, le posizioni dei membri del Comitato di presidenza: David Ermini, vicepresidente ancorato al Colle, il presidente della Cassazione Pietro Curzio e il Procuratore generale Giovanni Salvi. E se fosse vero uno spiffero soffiato, chissà se ad arte, nei corridoi di Palazzo dei Marescialli, che dalle parti del Quirinale sarebbero per una decadenza, allora la via d’uscita per Davigo si avvicinerebbe. Ieri, intanto, ha votato la Commissione verifica titoli, che propone al plenum la decadenza, ma per gli equilibri di corrente e dei laici, quel voto non è l’anticamera certa dell’esito del plenum. Per la decadenza, in linea con il parere dell’Avvocatura generale dello Stato, due membri su tre: la presidente Loredana Miccichè e la consigliera Paola Braggion, entrambe di MI. Come anticipato dal Fatto, la corrente conservatrice, che ha tre togati, pensa che Davigo debba andarsene. Esattamente all’opposto dei 5 togati di Area, i progressisti, che sono per la permanenza anche se, fuori dal Consiglio, Md (che con i Movimenti costituisce Area) è per la decadenza. Sempre in Commissione, si è astenuto il laico M5S Alberto Benedetti: ci risulta dibattuto tra il convincimento che Davigo debba restare perché per la decadenza dovuta alla pensione ci vuole una modifica di legge e il timore che la permanenza possa provocare ricorsi contro sentenze disciplinari, prima di tutto, dato che Davigo è uno dei giudici. Ma ci sono giuristi per la permanenza: non solo per quanto dice la Costituzione ma anche per la legge attuale che non inserisce tra i motivi di decadenza la pensione. Al di là delle contrapposte tesi giuridiche, però, siccome Davigo è Davigo, cioè magistrato fortemente divisivo, la realtà – fuori dalle ipocrisie – è che quello del 19 sarà anche per molti un voto “politico”. Al momento, per Davigo, oltre i 5 di Area, tre togati di Aei e almeno due dei tre laici 5S. Per la decadenza oltre MI anche Nino Di Matteo, i due di Unicost, i due laici di FI e almeno uno su due laici della Lega.

SuI marmi Torlonia nascerà un museo

Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è finalmente aperta ai Musei Capitolini, lunedì 12 ottobre, la grande mostra I marmi Torlonia. Collezionare capolavori,inizialmente prevista per il 3 aprile e rimandata a causa della pandemia.

La collezione Torlonia è la più grande raccolta di scultura antica in mani private, e non era visibile da molti anni: questa mostra è il frutto di un accordo fra la Fondazione Torlonia e il ministero dei Beni culturali stipulato il 15 marzo 2016 (Direttore generale all’Archeologia era allora Gino Famiglietti).

La mostra dei marmi Torlonia riporta alla pubblica attenzione una straordinaria serie di sculture greche e romane che da troppo tempo erano diventate ‘invisibili’. L’hanno voluta il principe Alessandro Torlonia, che anche a tal scopo ha costituito qualche anno fa la Fondazione Torlonia, e il Ministero dei Beni culturali, e vi hanno contribuito decine di persone, dai curatori ai restauratori, dai funzionari del Ministero e dei Musei Capitolini a Bvlgari che ha sponsorizzato le operazioni di restauro, da sofisticate ditte specializzate nel trasporto e allestimento di opere d’arte come Artería e Articolarte allo Studio Chipperfield che ha progettato il design delle sale al grafico Leonardo Sonnoli, al maestro delle luci Mario Nanni, agli archeologi e storici dell’arte che hanno scritto in catalogo, a Electa che ha contribuito in modo decisivo all’organizzazione e alla stampa del catalogo. Tanto impegno è giustificato non solo dalla mostra, ma da quel che dovrà venire dopo. L’accordo del 2016 prevede infatti che, dopo la mostra, tutte le opere del Museo Torlonia “saranno stabilmente destinate alla pubblica fruizione (…) negli spazi a tal fine individuati” secondo “un programma organico incentrato sulla esposizione ragionata e stabile (…) in una struttura espositiva da individuarsi congiuntamente” dal Ministero e dalla Fondazione Torlonia. Il fine ultimo di questa mostra, dunque, va oltre la mostra, e punta sulla ricostituzione, seppure in altro luogo e con diverso criterio, del Museo Torlonia che un altro principe Alessandro fondò nel 1875, appena cinque anni dopo che Roma era diventata capitale dell’Italia unita.

Era fresca la memoria della Breccia di Porta Pia (va ricordato che la capitolazione dell’esercito pontificio il 20 settembre 1870 fu firmata a Villa Albani, già allora in proprietà Torlonia), quando si apriva questo museo privato, che celebrava i fasti di una grande famiglia, ma al tempo stesso offriva un ambizioso spaccato di quella vitale presenza di arte classica che alla storia di Roma appartiene da sempre. Nei primi anni di Roma capitale d’Italia il governo nazionale appena insediatosi controllava sì una città di impareggiabile ricchezza monumentale, ma non aveva nessun museo paragonabile al Louvre, al British Museum, al Prado, i Musei Capitolini essendo di spettanza municipale, mentre i Musei Vaticani erano rimasti al Papa. Il Museo Torlonia arricchì allora il novero dei musei romani con una larghezza di mezzi e di visione senza paralleli, pescando dalle spettacolari raccolte che Alessandro Torlonia e il padre Giovanni avevano messo insieme nel corso dell’Ottocento, mediante scavi nelle proprie tenute o con cospicue acquisizioni, a cominciare dalla prestigiosa collezione Giustiniani, dalle sculture appartenute a Bartolomeo Cavaceppi, dalla stessa Villa Albani.

Le coordinate storiche e culturali del Museo Torlonia al momento della sua fondazione poterono forse sfuggire ai contemporanei, ma non possono eludere oggi la nostra analisi. Era, quella, l’ultima e la più vasta fra le collezioni principesche di antichità in Roma, e dunque segnava in certo modo la fine di una lunga stagione. Era un’impresa interamente privata, eppure mediante la costituzione in Museo dichiarava l’ambizione di esercitare una funzione pubblica, sottolineata anche dalla qualità degli archeologi che ne curarono i cataloghi, Pietro Ercole Visconti e poi il nipote Carlo Ludovico. Era l’esito di assidui scavi recenti nella campagna romana, e al tempo stesso di sapienti e fortunati acquisti di collezioni più antiche, rispecchiando così la duplice origine delle raccolte romane di antichità sin dal Quattrocento. Si proponeva insomma come una collezione di antichità, ma soprattutto come una collezione di collezioni.

Di fronte a una storia così significativa, la mostra Torlonia non poteva rinunciare a raccontarne la genealogia e lo spirito, ma nemmeno a evidenziarne l’esemplarità nel percorso dell’arte antica dalle rovine al museo che caratterizza l’Europa intera trovando in Roma il suo più alto esempio. Il Campidoglio si è proposto, per così dire da solo, come la miglior sede possibile di una mostra come questa, grazie alla piena convergenza coi progetti della direzione dei Musei Capitolini, ai quali, come primo Museo pubblico del mondo, ben si addice esplorare le origini dell’istituzione-museo.

Nel VI secolo, secondo Cassiodoro, l’Urbe era piena di un populus copiosissimus statuarum (furono contate in quegli anni 3.890 statue di bronzo esposte in luogo pubblico), ma ben presto la città e il suo patrimonio artistico andarono in rovina, e per molti secoli migliaia di statue giacquero indisturbate nei ruderi della città. Ma dal principio del Quattrocento, dopo il definitivo ritorno dei Papi da Avignone a Roma, l’orgoglio civico dei “Romani naturali” li spinse a raccogliere nelle rovine testimonianze della gloria trascorsa, dando inizio a un collezionismo disordinato e diffuso. Ad esso il papa Sisto IV rispose nel 1471 con un gesto di calcolata generosità sovrana, trasferendo in Campidoglio i bronzi del Laterano (fra cui la Lupa e lo Spinario), “restituiti e assegnati in perpetuo al popolo romano, dal cui seno esse erano sorte”, come dice la famosa iscrizione, ancora conservata. Su questo nucleo andrà poi a innestarsi la fondazione ad opera di Clemente XII dei Musei Capitolini, primo museo pubblico d’Europa, e dunque del mondo (1734). Si erano intanto moltiplicate in Italia e in Europa le collezioni private e sovrane, sempre intese come appannaggio di chi le possedeva, che avrebbero dato più tardi origine a grandi musei pubblici, dagli Uffizi al Louvre all’Ermitage.

Per singolare destino, le collezioni del Museo Torlonia, avendo inglobato nel tempo prestigiosi materiali di antiche raccolte romane, si prestano come poche altre ad offrire al visitatore uno spaccato di questa storia : ed è lungo questa linea che è stato configurato il percorso della mostra. Essa allinea sculture che sono, una per una, di altissima qualità e interesse, ma al tempo stesso raccontano, procedendo all’indietro nel tempo, la storia esemplare della nascita e dello sviluppo del collezionismo di antichità, e dunque (indirettamente) il formarsi dell’istituzione-museo in quella sua culla privilegiata che è Roma. Cinque le tappe di questo racconto : la prima sezione propone un’evocazione del Museo Torlonia com’era a fine Ottocento; la seconda offre una scelta di marmi scavati nelle proprietà di famiglia nel corso del secolo XIX; la terza mostra preziose sculture provenienti da raccolte settecentesche (Cavaceppi e Albani); la quarta restituisce una scelta dalla collezione Giustiniani, fra le più celebrate del Seicento; seguono, nell’ultima sezione, opere da collezioni del Quattro e Cinquecento (come Cesi, Pio da Carpi, Cesarini). Infine, il percorso si conclude nell’esedra dei bronzi di Sisto IV, ristabilendo il nesso fra il primo collezionismo privato del secolo XV e l’ “immensa benignità” di quel Papa, che volle il popolo romano titolare unico delle proprie antichità.

Un percorso come questo è stato studiato anche per lanciare un messaggio e un auspicio: che questa mostra dei Marmi Torlonia, realizzata in pieno accordo fra la Fondazione Torlonia e le istituzioni pubbliche, ma anche in armonia fra la Soprintendenza di Stato e la Sovrintendenza Capitolina, col contributo di finanziamenti, esperienze, professionalità, ricerca di tanti, sia il degno avvio di un più lungo percorso, al termine del quale l’insigne Museo Torlonia possa tornare a nuova vita in questa nostra Roma del secolo XXI.

 

Seconda linea, chiuso talk cerchiobottista

Vantiamo un’ampia scelta di talk show faziosi, ma ci mancava un talk cerchiobottista. Il salotto di Seconda linea (Rai2, giovedì sera) pareva voler colmare questa lacuna, considerato che in Rai nessuno sa dove andremo a parare, domani è un altro cda, ma il tentativo è naufragato sul nascere. Il direttore di rete Ludovico Di Meo ha deciso di sospenderlo dopo due sole puntate. Menu doppio, come cerchiobottismo comanda, ma ascolti decimati. Doppia la conduzione di Francesca Fagnani e Alessandro Giuli – lei botticelliana, profilo da medaglione romano lui –, bella coppia, ma l’esperienza insegna che se non sei alla Cnn, la conduzione in coppia ha vita dura. L’unica possibilità di successo è essere una coppia comica, sia volutamente (tendenza Ficarra e Picone), sia a propria insaputa (tendenza Costamagna-Telese), sia volutamente e involontariamente (tendenza Corona-Berlinguer).

Si diceva dei rischi connessi al cerchiobottismo. Fagnani e Giuli hanno imbarcato quasi il doppio degli ospiti di un talk medio, dove metà tempo è preso di solito da Salvini. Loro invece avevano Bonaccini ma anche Musumeci; Mario Sconcerti ma anche il capo degli ultras dell’Atalanta; Pregliasco ma anche Bassetti; Fortunato Cellino ma anche Umberto Broccoli (una variante del diavolo e l’acqua calda). Ognuno dei due ospiti veniva interrogato dai due conduttori, doppio tampone proprio ora che non è più obbligatorio. Poi intervengono gli opinionisti. Due anche loro: uno pro cerchio, l’altro pro botte. Un effetto domino difficile da governare dal punto di vista matematico, mediatico e virologico (il cerchiobottismo ha una carica virale tra le più potenti). Peccato, perché il tono distaccato, la forma destrutturata, la durata non oscena sarebbero stati da incoraggiare. È un momento di strette, di lotta agli assembramenti: forse anche in tv dovrebbe essere consentito un numero massimo di presenze. Allo stadio non più di mille? Nei talk show non più della metà di mille.