Il boss all’amico neomelodico: “Tatuati Falcone e Borsellino”

“Un consiglio spassionato, tra gentiluomini legati a Cosa Nostra: fatti un tatuaggio di Falcone e Borsellino, così la smettono di romperti le palle”… Il suggerimento intercettato dalla Dda di Palermo, è del capomafia Jari Ingarao al cantante Niko Pandetta, artista la cui spiccata attitudine criminale è stata già omaggiata con 9 anni di galera. Un bel tipo con solide amicizie nella mafia siciliana, tristemente noto per la canzone dedicata allo zio, il boss Turi Cappello, “purtroppo al 41 bis”. Pandetta aveva raccontato la venerazione per Turi anche in tv, nella trasmissione Realiti

su Rai2: “Per me è come un padre”. Ora il nome del cantante ritorna in un’indagine della Dda di Palermo, che ha fatto scattare l’arresto per 20 affiliati di Cosa Nostra del Borgo Vecchio. Spicca tra le carte la conversazione con Ingarao, re del traffico di droga. Il boss voleva il neomelodico sul palco della festa rionale, ma l’exploit televisivo di Pandetta gli aveva attirato attenzioni indesiderate e le autorità avevano vietato la sua esibizione. Quindi ecco il consiglio di Ingarao: fatti il tatuaggio di Falcone e Borsellino, così non ti scassano più. La risposta di lord Pandetta? “Sei un figlio di p… non mi dire queste cose, ti levo l’amicizia”.

Cecità burocratica: la mascherina calata, il Cappotto e Gogol

Ne Il cappotto – il film di Alberto Lattuada tratto dall’omonimo, meraviglioso, racconto di Gogol – Renato Rascel si cala nei panni infreddoliti dello scrivano Carmine: gran lavoratore ma povero in canna, è l’oggetto preferito dello scherno dei colleghi. Finalmente però riesce a comprarsi un cappotto nuovo, di cui ha molto bisogno, ma che gli viene rubato quasi subito. L’uomo prova a denunciare il furto, scontrandosi con l’indifferenza di vigili, poliziotti e del sindaco: disperato, Carmine si ammala e muore. Lattuada disse di aver scelto il soggetto, perché i caratteri del racconto sono universali. E dunque “i valori della storia raccontata da Gogol, la tirannia e la cecità burocratica, sono validi in qualunque tempo”. Il film è girato tra le nebbie di Pavia e anche per questo ci è tornato alla mente leggendo la storia di Ilenia, la ragazza che questa settimana ha, suo malgrado, inaugurato la seconda ondata di cecità burocratiche al tempo del virus. Ilenia lavora in un caffè della piazza centrale di Pavia e qualche sera fa si trovava all’esterno del locale insieme alla sua datrice di lavoro per fare una piccola pausa. Sono arrivati i vigili che le hanno fatto una multa perché aveva la mascherina abbassata visto che stava fumando una sigaretta. Una multa di 400 euro, cioè quasi la metà del suo stipendio. Per pagarla dovrà fare come il povero protagonista del Cappotto? Cioè risparmiare su tutto: “Bandire il consumo di tè alla sera; non accendere la candela durante le ore notturne; camminando, muovere i passi il più leggermente possibile e con la massima precauzione su pietre e lastroni, anzi quasi sulla punta dei piedi, per non consumare le suole nuove troppo presto; fare a meno, sino all’estremo, della lavandaia; e perché la biancheria non si logorasse, spogliarsene ogni volta, appena rientrato, e rimanere come Dio lo aveva fatto, in una veste da camera di cotonina”. Per fortuna no: la titolare del locale ai giornali ha spiegato che ci penserà lei.

Non c’era, secondo i testimoni, alcun assembramento e la ragazza si era allontanata di un paio di metri dalla titolare apposta per fumare la sigaretta, cosa che le era possibile fare solo abbassando la mascherina. “Faremo ricorso e mi farò carico io di tutte le spese legali, che non voglio gravino su una mia dipendente, peraltro sempre molto precisa e attenta alle regole. Lavoriamo nella piazza principale di Pavia ed è ovvio che ci sia un notevole passaggio, ma non c’era nessun assembramento. Ilenia non toglie la mascherina neppure quando va in bagno, né alle due di notte, dopo la chiusura, mentre è impegnata nella pulizia del locale”. Alcuni clienti abituali si sono detti disposti a fare una colletta, una manifestazione di solidarietà che è certamente una bella notizia. Però, se quello che scrive Ilenia sui social risponde al vero, i vigili si sono messi a discutere perfino della “legittimità” della sua pausa insieme alla titolare. Chissà come gli è venuto in mente: del resto, sempre con Gogol, conoscere l’animo umano fino in fondo non è proprio possibile. Comunque significa che dall’emergenza della primavera scorsa non abbiamo imparato molto. Tornare a scene miserabili tipo l’inseguimento di runner solitari sulla spiaggia non è decisamente una buona idea: è irrazionale da un punto di vista scientifico (lo dicono i medici) e controproducente perché crea un clima d’isteria di cui non c’è per niente bisogno. Naturalmente non vogliamo dire che bisogna ignorare il virus e le norme anti-contagio, anzi; solo che le autorità preposte alla repressione di comportamenti sbagliati devono sanzionarli con ragionevolezza, aiutando i cittadini a sostenere una situazione pesantissima, fatta di sacrifici e limitazioni mai viste alle nostre libertà personali. È già abbastanza difficile così.

 

Non solo Calenda. Da Nonna Papera a Tom Cruise, tutti i candidati a Roma

Gli esami non finiscono mai, ma anche le rotture di palle non scherzano. Così, appena usciti dal tunnel delle elezioni regionali, eccoci entrare in quello delle elezioni comunali, con lo psicodramma di Roma in primo piano, dove per ora ballano il twist solo gli autocandidati, Carlo Calenda in primis. Il tentativo è quello di mettere i partiti davanti al fatto compiuto: o sostenete me o vi faccio perdere, che è un po’ lo schema che non ha funzionato in Puglia con Scalfarotto, Italia Viva e Azione uniti nella lotta e arrivati finalmente in doppia cifra (purtroppo con una virgola in mezzo, 1,7 per cento, come si dice, manco i parenti). Insomma, il calendismo malattia infantile dello scalfarottismo (semicit), con tutto il contorno che sappiamo da sempre: primarie sì, primarie no (Calenda non vuole: o lui o la guerra), candidati deboli o sconosciuti, tranne Monica Cirinnà, il cui nome è stato quasi immediatamente oscurato sui media dalla discesa in campo dei calenderos. Si immagina l’entusiasmo dei romani di fronte a un ipotetico ballottaggio Calenda-Giletti, ma vediamo il bicchiere mezzo pieno: ci sono sempre il Tevere e l’Aniene in cui buttarsi. Per ora si tratta di mero clamore mediatico, ma va detto che l’accavallarsi delle due candidature (una fai-da-te, l’altra appena ventilata ma non smentita dall’interessato) oscura ingiustamente altri ottimi candidati al Campidoglio. Vediamone velocemente i profili.

Dinamite Bla. Personaggio minore dei fumetti Disney, ben radicato sul territorio, che difende sparando a chiunque si avvicini, pone la sua candidatura da indipendente, né di destra né di sinistra, con il segreto obiettivo di mettere in difficoltà il Pd. In ticket con Ciccio di Nonna Papera potrebbe avere qualche soddisfazione e persino arrivare al ballottaggio.

Tom Cruise. Per vederlo sfilare in macchina, in moto, in missile, in deltaplano, in monopattino, in carrozza a cavalli mentre gira Mission Impossible 37, i romani hanno sfidato assembramenti e gomitate. Punta tutto sulla viabilità: è l’unico essere vivente a essere riuscito a compiere un tragitto urbano di più di due chilometri senza stare in coda, e questo è un elemento del programma che i cittadini apprezzano molto. La candidatura metterebbe un po’ in difficoltà il Pd, che non trova un candidato in grado di percorrere il Muro Torto a 270 all’ora caricando una Glock 9 millimetri.

Vittorio Sgarbi. Sindaco di alcuni paesi e cittadine italiane nel corso degli anni (Sutri, Salemi, Sanseverino Marche) cerca lavoro vicino a casa. È sostenuto da un’agguerrita compagine il cui esponente di punta è Vittorio Sgarbi, a cui Vittorio Sgarbi dà spesso ragione, il più delle volte urlando.

Rossella O’Hara. Gradita alla destra per la sua impostazione di difesa strenua delle tradizioni, non dispiacerebbe a Confindustria, data la sua teoria della piena occupazione favorita dallo schiavismo. In questo caso ci sarebbero forse problemi con la componente meloniana dello schieramento, che potrebbero però risolversi nel ticket con una personalità più forte e decisa: si cercano febbrilmente lontani parenti di Mussolini (nipoti, pronipoti, biscugini di nono grado) che tengano viva la tradizione democratica di Fratelli d’Italia.

I Sopranos. Italianissimi, attenti alle tradizioni famigliari e con esperienze all’estero (New Jersey) potrebbero continuare la tradizione ingiustamente interrotta dei Buzzi e dei Carminati, ma questa volta con un respiro più internazionale e migliore organizzazione nel ramo cooperative.

 

Papa Francesco e i giusti valori del “pauperismo”

Nell’Udienza generale del 30 settembre Papa Francesco ha affermato che è importante trovare una cura per il Covid, ma ancora più importante è trovare una cura, ben più difficile, per “i grandi virus umani, sociali ed economici”. E ha aggiunto che dire “torniamo alla normalità non va, perché questa normalità era malata di ingiustizie, disuguaglianze e degrado ambientale”.

In altre occasioni il Sommo Pontefice si era scagliato contro la frenesia del profitto, cioè in pratica contro l’economia com’è intesa nel mondo attuale e il devastante ingresso della tecnologia, in particolare quella digitale, nelle nostre vite. Discorsi coraggiosi perché Economia e Tecnologia sono i grandi idola del mondo contemporaneo. Dopo il disastroso pontificato di Papa Wojtyla (crollo delle vocazioni, crisi del sacerdozio e degli ordini monacali) che troppo si era occupato di politica e aveva usato a manetta gli strumenti di comunicazione della Modernità (Tv, jet, viaggi spettacolari, creazione di “eventi”, gesti pubblicitari, “papamobile, “papaboys”) finendo per identificarsi con essa, Francesco sembra voler ritornare, sia pur con qualche concessione al moderno, a quella che è la ragione in ditta della Chiesa e per la verità di qualsiasi confessione religiosa: la cura dell’uomo e delle sue esigenze non solo spirituali ma esistenziali.

L’uomo non si identifica né con l’Economia né con la Tecnologia, cioè col Progresso. Su questa strada era stato preceduto dal più esile e fragile Ratzinger che quando era ancora cardinale aveva affermato: “Lo sviluppo non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”. In realtà quello di Ratzinger, in modo esplicito, e quello di Papa Francesco, in modo più sfumato, è un attacco al modello di sviluppo occidentale. Se si continua su questa strada non ci potrà essere alcuna riduzione delle disuguaglianze sociali perché è proprio questo modello che le ha ingigantite.

È un dato di fatto che nel mondo che noi chiamiamo “sviluppato” le disuguaglianze sociali sono aumentate esponenzialmente. I ricchi sono diventati sempre più ricchi, in un modo che non esito a definire offensivo, e anche un poco più numerosi, ma contestualmente i poveri sono diventati molto più numerosi con la graduale scomparsa del ceto medio. L’Italia ne è un buon esempio. Nel contempo è anche aumentata di gran lunga la distanza fra i Paesi sviluppati e quelli del cosiddetto Terzo mondo. È inutile e ipocrita che l’Onu e le sue agenzie si affannino a dichiarare che la miseria nel Terzo mondo è diminuita. Ne fanno testo, scontata la percentuale di chi fugge dalle guerre, le migrazioni, migrazioni non emigrazioni, di chi cerca di arrivare al mondo opulento (“E sì che l’Italia sembrava un sogno/ steso per lungo ad asciugare/ Sembrava una donna fin troppo bella/ che stesse lì per farsi amare/ Sembrava a tutti fin troppo bello/ Che stesse lì a farsi toccare/ E noi cambiavamo molto in fretta/ il nostro sogno in illusione/ Incoraggiati dalla bellezza/ vista per televisione/ disorientati dalla miseria/ e da un po’ di televisione”, Pane e coraggio, Ivano Fossati). Né si potrà porre alcun argine al “degrado ambientale” già ampiamente in atto (secondo un appello firmato da un migliaio di scienziati su Le Monde il 20 febbraio siamo già vicinissimi all’ora “X”, cioè alla ventitreesima ora sulle ventiquattro di cui è costituita la giornata della nostra specie).

Se si continua sulla filiera ossessiva produzione-consumo-produzione, dove ormai noi non produciamo più per consumare ma siamo arrivati al paradosso che consumiamo per poter produrre, non c’è via d’uscita, se non produrre di meno e consumare di meno, questa è la dura sentenza. Non è un caso che Papa Francesco abbia preso il nome dal fraticello di Assisi che predicava l’amore per la natura e la ricchezza della povertà (che si porta dietro molti altri valori a cominciare dalla solidarietà). È il pauperismo, temutissimo da Berlusconi e da tutti i Berlusconi della Terra, a cui il Covid potrebbe ricondurci dandoci una lezione emblematica e, paradossalmente, meritoria.

 

I “Beatles” jihadisti: lo strillo di Yoko Ono diventa una tortura

Finisce così la parabola jihadista di Alexander Kotey ed El Shafe Elsheikh, entrambi miliziani inglesi dello Stato Islamico (Isis) e conosciuti come due dei “Beatles”. (Benedetta Argentieri, FQ, 8 ottobre 2020)

Stanno volando verso gli Stati Uniti dopo essere stati caricati su un aereo militare in Iraq. Finisce così la parabola jihadista di Paul McCartney e Ringo Starr, entrambi miliziani inglesi dello Stato Islamico (Isis), conosciuti come due dei “Beatles”. Verranno processati per l’uccisione di quattro ostaggi americani in Siria. Il via libera è stato dato il mese scorso da una Corte britannica, dopo che il Dipartimento di Giustizia americano aveva escluso la pena di morte. A entrambi è stata cancellata la cittadinanza inglese. Con il loro trasferimento ad Alexandria, Virginia, comincerà uno dei processi per terrorismo più importanti degli ultimi anni. I due infatti facevano parte di una cellula di quattro persone, soprannominata “Beatles”, che ha gestito quasi due dozzine di rapimenti, molti dei quali critici musicali delusi dai Wings. I sopravvissuti hanno raccontato di torture quotidiane con canzoni suonate al contrario a tutto volume, waterboarding, finte esecuzioni sui tetti dei palazzi e sadismo (cuffie con uno strillo di Yoko Ono in loop acca 24). Era loro la responsabilità di trattare con i diversi governi per chiedere i riscatti. I loro videoclip, come quello di Strawberry Fields Forever, hanno contribuito a costruire l’immagine terroristica dello Stato Islamico. Venivano ripresi in piedi e vestiti in modo stravagante: spesso gli ostaggi erano inginocchiati di fianco a loro, che con il coltello in mano minacciavano l’occidente con l’accento di Liverpool. Poi l’esecuzione. Il più famoso dei quattro, John Lennon, soprannominato “Jihadi John”, ha tagliato la testa in mondovisione a James Foley: è stato ucciso da un drone nel 2015, mentre il quarto, George Harrison, è in una prigione in Turchia. Nel 2012 McCartney e Starr si erano trasferiti in Siria da Londra per unirsi allo Stato Islamico. Sei anni dopo sono stati catturati dalle Forze Democratiche Siriane (DHL) e consegnati ai militari americani. “Non ho mai visto nemmeno un briciolo di rimorso nei loro occhi”, racconta Shed Zan, la giornalista curda che ha intervistato entrambi nella prigione siriana. Durante i diversi colloqui, Zan ha chiesto delle loro attività terroristiche. “Hanno sempre risposto con freddezza e calma a ogni domanda, spesso improvvisando un motivetto; e non hanno mai raccolto nessuna provocazione, come quando mi sono presentata con la pettinatura a caschetto che avevano negli anni 60” continua. “Hanno ammesso di aver gestito gli ostaggi, ma di averli torturati solo per divertimento”. Durante le interviste non la guardavano mai negli occhi, essendo lei una donna con due gambe che levati. Ma per due miliziani che riescono a essere trasferiti oltreoceano e processati, migliaia restano ancora in un limbo giuridico in Siria. Nella regione autonoma del nord est della Siria sono detenuti almeno 13mila uomini, fra cui i Rolling Stones, Antoine e la Premiata Forneria Marconi: un tempo erano parte dell’Isis, ora sono in attesa che i rispettivi governi prendano una decisione. Da mesi l’Amministrazione Autonoma, impegnata nella lotta contro i jihadisti, chiedi ai Paese occidentali di aiutarli a formare un tribunale internazionale in loco, anche perché i detenuti continuano a fare rivolte, cercano di scappare, e la violenza nei campi di detenzione è quotidiana. In più l’Isis si sta riorganizzando, grazie al caos portato dall’invasione turca: le cellule dormienti sono sempre più attive, e si stanno dotando di chitarre e amplificatori.

 

Mail box

 

 

I cittadini comuni non fanno certo festini

Ma diciamola tutta. A chi disturba la semplice “raccomandazione” del governo di non tenere festini in casa con più di sei persone? Solo ai ricchi con ville sfarzose dove è possibile fare ricevimenti affollati dai quali può partire il contagio di centinaia di persone all’esterno. Non certo a chi lavora tutto il giorno e la sera torna in una casa dove a malapena si può dormire in tre o quattro e che ha ben altro per la testa che improbabili “festini” numerosi. Addirittura abbiamo sentito urlare, senza vergogna, della solita destra a trazione leghista alla violazione delle “libertà costituzionali” (sic!) e all’arrivo della dittatura “comunista” (?!). Invece non è sicuramente “violazione della liberta” lo stillicidio di telefonate pubblicitarie che imperversano quotidianamente sui nostri apparecchi nei pochi momenti in cui chi lavora può vedersi con i propri familiari a casa.

Carlo de Lisio

 

La riforma Quota 100 è giusta: non va abolita

Difficile sostenere che sfruttare anche gli anziani, magari malati, facendoli lavorare oltre il limite di 40 anni di attività possa garantire, un domani, le pensioni dei più giovani. È evidente che, se non vengono liberati con i pensionamenti i posti di lavoro, difficilmente questi si renderebbero disponibili per i giovani medesimi. Non si comprende quindi l’accanimento da parte di politici e conduttori televisivi contro “quota 100” che semmai andrebbe migliorata con minori penalità. Se poi si continuerà a consentire che la maggior parte delle persone venga assunta “a partita Iva”, difficilmente vi saranno fondi sufficienti per pagare le pensioni negli anni a venire. Le risorse destinate alle pensioni non devono venir dirottate su vie improprie che nulla hanno a che vedere con le legittime aspettative delle future generazioni. Il rischio è quello di aggiungere al danno del logorio lavorativo prolungato oltre ogni ragionevole limite di età pure la beffa dei giovani che comunque resterebbero lo stesso senza pensione.

Albarosa Raimondi

 

Dopo la Regione, Rossi diventa assessore a Signa

Scendere dalle stelle alle stalle è un vecchio adagio ma sempre attuale ed efficace in molti fattispecie. Infatti pur se in misura assai modesta, questo adagio ritengo applicabile anche ad Enrico Rossi che dal prestigioso incarico di governatore della Toscana, ha ottenuto la nomina ad assessore di un piccolo comune della piana fiorentina. Ma anche curiosa questa nomina sotto un altro profilo al pensiero esistente tra il collegamento della medesima e il ruolo che ancora svolge nel Comitato Europeo delle Regioni, ruolo che non potrebbe mantenere se non avesse un incarico da pubblico amministratore.

Nicodemo Settembrini

 

È necessario intervenire per i contratti dei rider

Tralasciando, per amore di patria, i deliri del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, evidentemente nostalgico delle contrattazioni sindacali dei primi anni della Rivoluzione industriale, sarebbe ora che ci si occupi seriamente, a livello sia sindacale, che governativo, di mettere finalmente un po’ d’ordine nei rapporti di lavoro nei settori dei cosiddetti “new jobs” tipo i rider che consegnano il cibo a domicilio, e i corrieri che recapitano i pacchi di Amazon (e simili). Sono categorie essenziali, come ha dimostrato il lockdown, eppure non hanno praticamente nessun tipo di garanzia e previdenza, sono lasciate sole davanti all’arroganza e all’ingordigia del padronato che li sfrutta senza ritegno pagandoli una miseria e rubandogli addirittura le mance. Se viviamo ancora in un Paese civile, questa vergogna deve finire al più presto.

Mauro Chiostri

 

Legge sui partiti: ha ragione Provenzano

Leggo il secondo intervento di Morello e Paganini relativamente ai nove punti da loro proposti, dopo la vittoria del Sì, al fine di rendere effettiva la partecipazione attiva dei cittadini. Aggiungerei quello indicato nell’intervista al bravissimo ministro Giuseppe Provenzano: “Tra i correttivi di cui non si parla c’è la legge sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sul ruolo dei partiti” . L’attuazione del suddetto articolo farà si che i partiti non saranno più libere associazioni private che concorrono a determinare la politica nazionale, ma saranno soggetti di diritto pubblico sottoposti ai controlli di legge. Sono un convinto cittadino che, il primo atto indispensabile ad un vero cambiamento sistemico della nostra società, sia proprio attuare questo articolo per combattere la partitocrazia.

Giuseppe Moncarda

 

Vi ringrazio per aver “riabilitato” Luttazzi

Volevo ringraziarvi pubblicamente per aver ridato spazio a Daniele Luttazzi. Potrei abbonarmi al Fatto solo per questo. Lo trovo un fatto molto simbolico, dopo l’editto bulgaro del Caimano che lo esiliò insieme a Biagi e Santoro, e dopo la campagna di fango nei suoi confronti per aver rubacchiato, reinterpretandole, alcune battute di comici stranieri, come fanno tutti. Bravi.

Luca Salvi

Confindustria Bonomi, l’avversione epidermica alla questione sociale

 

Gentile Direttore, saprebbe darmi un’interpretazione della linea politica – non si può chiamare in altro modo –, della Confindustria guidata da Bonomi? Al di là della scelta del rappresentante, Bonomi appunto – che trovo già di per sé esplicativa, dato che di “imprenditoriale” ha poco, visto che non rischia il proprio capitale –, la linea scelta porta a critiche distruttive e si fa vivace solo quando si parla degli aiuti, drizzando le orecchie sul Recovery fund. Ma non sarà per caso il sempreverde modello capitalistico nostrano che si riassume nel “gli utili sono miei, le perdite son di tutti”? Francamente come classe dirigente che dovrebbe trainare il Paese oggi e soprattutto pensare all’Italia di domani e lasciare asset alle generazioni future, non mi pare che Confindustria stia facendo una grande figura. O no? Lei cosa ne pensa? Grazie.

Marco Cortellari

 

La risposta l’ha data in larga parte lei e come giornale abbiamo da subito individuato in questa posizione la nuova linea di Confindustria. Alzare la voce per poter avere il massimo possibile, soprattutto in presenza di un governo di cui gli industriali non si fidano del tutto. La Confindustria italiana è stata una maestra nei decenni nel dare lezioni alla politica di giorno, per poi accordarsi sottobanco di notte, usufruendo di aiuti di Stato, sovvenzioni, incentivi, defiscalizzazioni in quello che in una nostra inchiesta abbiamo definito il vero “Sussidistan”. Lo Stato invasore denunciato nei convegni pubblici è lo Stato-mammella da cui attingere nel corso dei decenni. Facendo finta di rimuovere una realtà evidente a tutti: proprio la crescita industriale veicolata nel dopoguerra dai colossi di Stato coordinati dall’Iri o dall’Efim, prima della crisi degli Anni 80, ha consentito all’impresa privata di prosperare e trovare un supporto solido. Oggi Confindustria grida al pericolo dell’invasione dello Stato nell’economia, ovviamente perché teme di perdere posizioni di privilegio e perché teme misure sociali come il blocco dei licenziamenti o il salario minimo. Il governo Conte non è un governo socialista, ma un governo che si occupa della questione sociale. Basta questo a far saltare sulla sedia Bonomi e i suoi associati.

Salvatore Cannavò

Sallusti & C. vanno a caccia della Stasi

L’altra sera, a Otto e Mezzo, Alessandro Sallusti ha evocato la dittatura “comunista” modello Stasi, incaricata di spiare ed eventualmente incarcerare le famiglie italiane non rispettose dei famigerati Dpcm. Se il direttore del Giornale – in buona compagnia con Libero e LaVerità – avesse pazientato appena qualche ora, avrebbe facilmente accertato che l’Italia trasformata in uno Stato di polizia che si affida alle delazioni dei vicini come nella Germania Est, non esiste. E ciò, aggiungiamo, purtroppo per lui e per i suoi colleghi del partito del partito preso contro il governo impegnati nella quotidiana, spasmodica ricerca della sia pur minima traccia di Stato totalitario pur di spedire, metaforicamente, Giuseppe Conte in piazzale Loreto.

In questo caso lo scatenato trio può invocare come parziale attenuante l’improvvida dichiarazione del ministro della Salute, Roberto Speranza, sulla possibilità di “segnalare” alle forze dell’ordine coloro che, malgrado il crescente contagio, non rinunciassero a organizzare affollati festini casalinghi. Ipotesi assurda di cui infatti non si trova traccia nel decreto “bolscevico”. Sono i guai dello schermo ideologico precostituito attraverso il quale, a furia di cercare la dittatura che non c’è si tralasciano le magagne che ci sono. Due in particolare. Il caos tamponi con i cittadini costretti ad attese interminabili in condizioni inaccettabili quando (vero commissario Arcuri?) c’era tutto il tempo per organizzare la tamponatura rapida di massa. Quella richiesta dal virologo Andrea Crisanti che oggi, in piena emergenza, non si sa ancora quando sarà attivata. Il secondo problema, colpevolmente irrisolto, è quello dei trasporti pubblici, “situazione sicuramente critica” come ammette il premier. Che senso ha infatti proibire movida e assembramenti davanti ai locali pubblici quando su bus e metro i passeggeri viaggiano stipati come sardine per la gioia del Covid? Sembrano emergere in sostanza due opposizioni, parallele e diverse. La prima è quella delle Regioni, in maggioranza di centrodestra, che pur tra le scintille cercano di risolvere i problemi in un confronto continuo col governo. La seconda opposizione è quella orchestrata dalla destra parlamentare, con la grancassa di giornali e talk. Demagogica. parolaia e sostanzialmente inutile.

Il processo sui bilanci del Montepaschi che può dare un altro colpo al gruppo

I processi su Mps domani approderanno a un passaggio chiave. Dopo un’istruttoria durata oltre due anni, a Milano si terrà l’ultima udienza e arriverà la sentenza di primo grado nei confronti di Alessandro Profumo, ex presidente dal 2012 al 2015, e Fabrizio Viola, ex amministratore delegato dal 2012 al 2016, per le accuse di false comunicazioni sociali e manipolazione informativa per la contabilizzazione dal 2012 alla semestrale 2015 di derivati per 5 miliardi presentati a bilancio come BTp. Ma in ballo c’è il futuro stesso dell’istituto.

I derivati Santorini e Alexandria, realizzati da Mps con Deutsche Bank e Nomura per coprire i costi dell’acquisizione di AntonVeneta, avvenuta il 28 maggio 2008 per un esborso di 17,2 miliardi tra prezzo (9,23) e rimborso di debiti (7,9), furono presentati a bilancio dal Monte come BTp. La presentazione contabile, svelata dal Fatto nel 2012, avvenne durante la gestione del presidente Giuseppe Mussari e del direttore generale Antonio Vigni. Ed è proseguita poi nella gestione di Profumo e Viola con l’ok della vigilanza. La Procura di Milano, rappresentata dai pm Stefano Civardi, Mauro Clerici e Giordano Baggio, per tre volte ha chiesto l’archiviazione di Profumo e Viola, tre volte bocciata dai gip che hanno disposto il rinvio a giudizio, e il 16 giugno ne ha chiesto l’assoluzione. Profumo e Viola sono poi indagati a Milano per false comunicazioni sociali e manipolazione informativa per la contabilizzazione dei crediti deteriorati. I pm Civardi, Baggio e Clerici anche qui hanno chiesto l’archiviazione ma il Gip ha ordinato ulteriori indagini. Il procedimento è in fase di incidente probatorio.

La decisione di domani non riguarderà solo gli ex vertici dell’istituto rinazionalizzato nel 2017 dopo quattro aumenti di capitale che dal 2011 sono costati 18,5 miliardi. In ballo c’è la credibilità delle autorità di vigilanza e il futuro stesso della banca. Come la Cassazione ha stabilito il 4 luglio 2019, assolvendo dall’accusa di ostacolo alla vigilanza perché “il fatto non sussiste” Mussari Vigni e l’ex direttore dell’area Finanza Gianluca Baldassarri, Banca d’Italia ha di fatto sempre saputo di Alexandria e Santorini. Il che però non ha salvato l’8 novembre 2019 Mussari, Vigni e una decina di altri imputati dalle condanne di primo grado a Milano per manipolazione del mercato, falso in bilancio e in prospetto. L’accusa era retta sempre da Baggio, Civardi e Clerici. In attesa dell’appello, il 22 giugno la Cassazione ha condannato in sede civile Vigni a pagare danni per 50 milioni a Mps.

Ma in ballo c’è la stessa sopravvivenza del Monte. Alla Commissione parlamentare sulle banche, il nuovo ad Guido Bastianini ha spiegato che Mps deve affrontare 10.735 tra cause, richieste stragiudiziali e reclami per un petitum complessivo di 10,2 miliardi. Le sole richieste stragiudiziali per le informazioni diffuse al mercato sono 1.125 e valgono 4,6 miliardi. Ma la banca ha coperture contro i rischi legali per appena 500 milioni. Se i processi dimostrassero che dal 2008 al 2015 l’istituto ha mentito ad azionisti e obbligazionisti, le cause civili avrebbero la strada spianata e la banca sarebbe a rischio. Ecco perché molti credono che Profumo e Viola saranno assolti.

Le vertenze però non finiscono qui. Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners e parte civile nel processo, il 17 luglio ha presentato un esposto al Consiglio superiore della magistratura contro i pm contestando loro di aver usato le stesse argomentazioni per condannare Mussari e Vigni e chiedere l’assoluzione di Profumo e Viola. Dal 25 agosto al 15 settembre, poi, in una serie di esposti alla Procura di Brescia Bivona ha chiesto di indagare sui tre Pm e di procedere per falsa testimonianza contro Carmelo Barbagallo e Mauro Parascandolo di Banca d’Italia, Guglielmina Onofri di Consob, Sergio Vicinanza, successore di Baldassarri a capo dell’area Finanza di Mps, Roberto Tasca e Francesco Corielli, consulenti della Procura, Andrea Resti e Giovanni Petrella, consulenti di Mps, Riccardo Quagliana, capo dei legali di Mps, e Marco Morelli, che dal 2009 e 2010 fu capo della finanza e preposto alla redazione dei bilanci e poi dal 2016 al 2020 ad di Mps.

Padoan, l’uomo che salvò Mps va in Unicredit (a trattare Mps)

La migliore tradizione vede sempre il vigilante assunto dai vigilati. Stavolta si supera la pur grande fantasia dei banchieri: l’ex ministro dell’Economia, oggi parlamentare del Pd, Pier Carlo Padoan sarà il prossimo presidente di Unicredit. Ieri, a sorpresa, il Cda della seconda banca italiana, guidata dal francese Jean Pierre Mustier, lo ha cooptato in consiglio con l’obiettivo, al rinnovo del board ad aprile, di designarlo alla presidenza dove andrà a sostituire Cesare Bisoni (che aveva raccolto il testimone dell’allora presidente Fabrizio Saccomanni, scomparso nell’agosto 2019, già Grand Commis di Bankitalia ed ex ministro del Tesoro pure lui).

L’arrivo di Padoan, che ha annunciato le dimissioni da parlamentare, non è il segnale che Unicredit vuole diventare il buen retiro degli ex ministri, ma risponde a logiche precise. La prima è che Mustier risolve lo scontro in atto con il Cda sulla nomina del presidente. Il board aveva individuato quattro nomi di peso: l’ex presidente della Cassa depositi, Claudio Costamagna; due ex ministri dell’Economia oggi banchieri come Vittorio Grilli e Domenico Siniscalco, e Stefano Micossi, membro del cda e direttore di Assonime, l’associazione delle società quotate. Mustier voleva una figura meno ingombrante. Padoan risolve l’impasse: è un nome a cui il cda non può dire di no e, da tecnico prestato da 20 anni alla politica, è noto per la sua incapacità di saper dire di no, come dimostrato quando era al ministero e doveva assecondare i desiderata di Matteo Renzi, buon ultimo quello di silurare nel 2016 l’allora ad del Montepaschi Fabrizio Viola, che il fiorentino voleva fuori per far posto a Marco Morelli. E qui subentra la seconda logica.

Padoan potrebbe trovarsi presto in una situazione grottesca. Da ministro ha salvato Mps nazionalizzandola con una spesa complessiva di 8 miliardi. Oggi il Tesoro, con al vertice il suo fedelissimo Alessandro Rivera, deve liberarsi del Montepaschi, di cui ha il 68% e pensa a Unicredit, che però vuole essere pagata per farlo. Mustier ritiene che Mps le vada più che regalata e Padoan dovrebbe convincere il ministro Roberto Gualtieri che l’istituto che ha salvato non vale un bel niente. Il guadagno di Mustier non è però una banca svenduta.

L’ad di Unicredit ha in mente da mesi una sola cosa: staccare dalla holding italiana tutte le attività estere di Unicredit più pezzi di rilievo del gruppo e creare una sub-holding quotata a Francoforte, in Germania. In teoria questa sarebbe controllata dalla holding italiana, ma Mustier ambisce a fondere la sub-holding con un’altra banca europea. Da quando è arrivato, nel luglio 2016, ha varato un aumento di capitale monstre da 13 miliardi e venduto tutti i gioielli del gruppo, dal risparmio gestito di Pioneer alla banca online Fineco. Oggi Unicredit vale in Borsa metà di un anno fa e metà dei ricavi arrivano da Germania, Austria ed est Europa. La holding estera non piace molto al Cda, ma soprattutto deve avere il placet della politica italiana. Padoan e Mps servono a questo?