Sgarbi sindaco: al posto della Lupa metterà la Capra

Perché è successo? Perché Roma che, malgrado tutto, resta la Capitale d’Italia e un discreto luogo della beltà del mondo, debba essere il teatro politico per una sorta di Grande Fratello Vip non è dato sapere. Tra qualche mese, si vota e per la successione a Virginia Raggi, cui verrà conteso il Campidoglio, e c’è il nulla oltre la commedia televisiva di chi la fa e di chi la subisce. E dal nulla, immancabilmente, sbuca Vittorio Sgarbi, l’unico del quale si sappia più di ciò che sarebbe necessario e anche utile sapere. Utile anche per lui, intendiamoci. Purtroppo l’ultimo confronto a cui si è sottoposto è stato, secondo le notizie di agenzia, con la modella Franceska (con la kappa) Pepe alla trasmissione della D’Urso. Lei l’ha affrontato: “Non te l’ho data”. Lui ha replicato: “Non te l’ho neanche chiesta e comunque sei stata con me un quarto d’ora dietro la porta di un bagno”. L’effetto sgarbeide della sua inverosimile candidatura, che al novantanove per cento finirà com’è nata, rende purtroppo, per l’oggettiva proprietà transitiva, la Lupa una Capra. La capra è infatti il segno iconico della truppa sgarbiana, quel confuso popolo di acclamatori del critico d’arte e pluri-deputato, pluri-genitore (due figli riconosciuti, un terzo in forse, altri trentasette, a suo dire, effettivamente generati in convegni amorosi di breve, brevissima e anche media intensità, sparsi immaginiamo per l’universo), pluri-odiatore, e pluri-condannato, pluri-contabile della sua lucrosa e fascinosa attività di affabulatore.

Sgarbi è Sgarbi. E nell’amoralità sia personale che politica (nel 2013, per fermarci solo alle ultime proposte attive dall’infinita lista dei simboli coniati, fonda una specie di partito col democristiano abruzzese Catone, e fa splash. Nel 2017 con Giulio Tremonti compone il simbolo Rinascimento, e rifinisce male), in questo unicum identitario che lo assolve da ogni peccato e lo fa sembrare buono anche quando è cattivo, generoso quando invece è micragnoso, e leale nella slealtà che pure lo insegue in ogni angolo della sua vita, arriva Roma.

Finora si era tenuto lontano dalle città, aveva saltellato tra paesi (San Severino Marche, Salemi, Sutri) facendo l’assessore o il sindaco. Promuovendosi, dimettendosi e anche, forse, molto annoiandosi.

Ora siamo a Roma. Al set principale della prossima disfida politica. Ma da Roma, che è città straordinaria ma disgraziata, si fugge. Il Partito democratico ancora non riesce a trovare nessuno che accetti la disgrazia di essere il candidato. Cosicché l’unico che si fa avanti, Carlo Calenda, è anche un suo eletto che subito l’ha tradito, promuovendo un’opa ostile. E il centrodestra? Non pervenuto. Un mezzo giro di campo di Massimo Giletti, capofila del giornalismo narciso, rumoroso e dunque inquadrabile nella categoria sociale oggi affluente dei fantuttoni, lascia il progetto sospeso. Non dice né sì né no. E vabbè.

Resta dunque in campo, almeno per queste prossime due settimane, il programma sgarbiano per la Roma delle capre da rieducare: musei gratis per tutti. C’è anche un’apertura di credito per gli studenti, si andrà a scuola alle dieci del mattino per ridurre il traffico, e per gli spericolati della strada: zero multe stradali perché gli autovelox hanno stufato.

Raggi bis e Appendino big: il doppio colpo di Di Maio

L’ex capo che è ex per modo di dire passerà (anche) da loro, per costruire un pezzo di futuro. Innanzitutto dalla dimaiana Chiara Appendino, sindaca di Torino che ieri ha ufficializzato ciò che tutti sapevano, cioè che non si ricandiderà. Ed è proprio lei il nome su cui Luigi Di Maio vuole puntare forte per la segreteria prossima ventura del Movimento. Ma poi c’è anche la non proprio dimaiana Virginia Raggi, sindaca di Roma che invece correrà ancora per il Comune, come ha messo nero su bianco già in agosto. E Di Maio non vuole ostacolarla, perlomeno non ora. Da qui a breve le esprimerà il pieno sostegno, dopo quel “Raggi? Non mi fossilizzerei sui nomi” di domenica scorsa che l’aveva costretto a una rapida smentita. “Oggi come oggi non c’è alternativa, e Luigi da buon pragmatico lo sa” conferma un big grillino. Tradotto, Di Maio è conscio del fatto che “il Pd non trova nomi davvero spendibili” come dicono dal M5S.

Soprattutto, il ministro degli Esteri ragiona anche in chiave Stati generali. Sa che fare muro alla Raggi la spedirebbe dritta nelle braccia di Alessandro Di Battista, che lunedì nella conference call con la sindaca, Paola Taverna e oltre 500 tra eletti e attivisti romani ha definito “non negoziabile” la sua ricandidatura. Raggi e l’ex deputato potrebbero fare asse a livello nazionale, facendo leva sul loro notevole consenso tra gli iscritti (e sull’appoggio di Davide Casaleggio). Il fastidio di diversi eletti per l’intervento di Di Battista (“Ha fatto un discorso da congresso nazionale, e invece si doveva parlare solo di Roma” accusano) conferma indirettamente certi timori e le conseguenti valutazioni. Quindi, sostegno a Raggi, come l’ex capo scandirà in questi giorni.

È invece già evidente la sua vicinanza nei confronti di Appendino, che ieri ha confermato di non volersi ripresentare: un annuncio di cui Di Maio sapeva da settimane. “Non mi ricandido per coerenza” ha spiegato la sindaca, facendo riferimento alla recente condanna a sei mesi di carcere subìta per falso in atto pubblico. “Le tempistiche per arrivare alla sentenza di appello vanno oltre la scadenza elettorale del 2021” fa notare. E allora Appendino si fa di lato: “La condanna, anche se di lieve entità e per i motivi che conoscete, resta tale. E in politica bisogna essere coerenti con i propri principi, anche se è doloroso”. Ma con ogni probabilità non avrebbe comunque cercato il bis: stanca di un impegno che trova estenuante, e consapevole che serva un nome diverso per favorire un accordo tra Pd e M5S nel 2021.

E da domani? “Non sempre si fa un passo indietro perché c’è già qualcosa d’altro” assicura Appendino. Ma Di Maio la celebra guardando già avanti: “Chiara è una risorsa per tutto il M5S”. Il reggente Vito Crimi suona la stessa nota: “Risorsa insostituibile”. E il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni va dritto al punto: “Chiara serve qui a Roma”. Ergo, nella segreteria. Prima però sarà necessario modificare il codice etico che attualmente le sbarra la strada, proprio per quella condanna per cui si è anche autosospesa dal Movimento.

Come raccontato dal Fatto sabato scorso, il M5S lavora già alla modifica della normativa. “Come organi ci stiamo interrogando sul caso di Appendino e sull’attualità delle norme che la riguardano” aveva confermato il presidente del comitato di garanzia Crimi. Troppo draconiano il codice di fronte a condanne lievi, “oltretutto per reati legati al profilo amministrativo” come ribadiscono dal Movimento. Sullo sfondo, gli Stati generali. Nonostante le voci, ieri dal M5S hanno ribadito che l’assemblea del 7 e 8 novembre si farà a Roma con persone fisicamente presenti (mentre quelle locali dal 23 al 25 ottobre saranno via web). Per cautelarsi in tempi di Covid, si pensa di dividere i 300 rappresentanti in tre sale diverse di un ampio spazio (tra le possibili sedi, la Fiera di Roma). L’obiettivo di Crimi è di riunire esponenti di ogni ordine e grado, dagli attivisti ai 5Stelle di governo.

Tra Bce e Bruxelles crollano i tassi sul debito pubblico

Un vecchio adagio di Wall Street recita di non combattere la Federal Reserve. Se guardiamo all’andamento dei tassi d’interesse nella zona euro potremmo estendere l’adagio anche alla Banca centrale europea. Chi avesse speculato alla metà di marzo contro la possibilità della Bce di comprimere i rendimenti dei titoli di Stato avrebbe perso una montagna di soldi. Tecnicamente, l’obiettivo della Banca centrale era quello di tenere i rendimenti dei debiti pubblici a un livello tale da non compromettere “la trasmissione della politica monetaria”. Nella sostanza si è tradotto in un programma di acquisto di titoli di Stato, il cosiddetto Pepp (Programma di acquisto per l’emergenza pandemica), di dimensione tale da assorbire il diluvio di nuove emissioni di titoli di Stato usati per fronteggiare gli effetti della pandemia. Complice poi l’introduzione del Piano di Ripresa e Resilienza della Commissione Europea (il cosiddetto Recovery Fund) il mercato ha sempre più scontato il fatto che esista ormai da parte degli organismi europei una sorta di ombrello protettivo sopra il debito degli Stati.

I dati contenuti nella Nota di aggiornamento al Def che sta per esser approvata mostrano questo ombrello. Il fabbisogno per i prossimi due anni è di 340 miliardi di euro, un fabbisogno imponente, che per dimensione è superiore a quello cumulato in tutto il periodo dalla crisi dal 2011 al 2019. In tempi normali sarebbe stato complicato far assorbire tutte queste nuove emissioni al mercato senza che vi fossero tensioni sui rendimenti. Ma questi non sono tempi normali. Il mercato dovrà assorbirne infatti una minima parte. La gran parte, 270 miliardi, verranno acquisiti dalla Banca centrale. Se a questi aggiungiamo la quota finanziata tramite il programma di prestiti europeo “Sure” e l’arrivo della prima tranche di prestiti del Fondo per la Ripresa e Resilienza, la stima è che il mercato dovrà assorbirne 25 miliardi quest’anno e 27 nel 2021. Per fare un raffronto basti pensare che il mercato lo scorso anno, sempre al netto dell’intervento della Bce, ne ha dovuti assorbire 58 miliardi. In pratica, nonostante le enormi spese per fronteggiare la pandemia, nei prossimi due anni le emissioni nette del Tesoro, cioè i soldi che il tesoro dovrà effettivamente raccogliere sul mercato, saranno più basse di quanto è avvenuto nel solo 2019.

Il mercato, come normale aspettarsi, sta via via scontando questo scenario di ampia liquidità e ridotte emissioni nette, prezzando i titoli di Stato con rendimenti sempre più bassi. E questo senza considerare che se le pessime aspettative di inflazione verranno confermate anche nei prossimi mesi, la Bce aumenterà di nuovo la dimensione dei programmi di acquisto. I tassi d’interesse sono quindi destinati a scendere ancora. Se dovessero farlo al ritmo degli ultimi mesi è lecito aspettarsi un rendimento nullo sul titolo a 10 anni entro fine anno. Anche perché, sotterrato qualsiasi rischio di uscita dell’uscita dell’eurozona e introdotto un meccanismo di redistribuzione fiscale tra gli Stati, la compressione degli spread (che per l’Italia è ancora intorno i 120 punti base) sul Bund tedesco potrebbe esser l’atto finale di stabilizzazione finanziaria della zona euro. In questo scenario le discussioni sul fatto che non ci siano i soldi per finanziare un capitolo di spesa piuttosto che un altro, sembrano uscite da un altro mondo. I soldi ci sono. Le discussioni sul Mes dal punto di vista finanziario non hanno senso. Lo Stato ha pieno accesso ai mercati e se necessita di qualche decina di miliardi può raccoglierli sul mercato a tassi che nell’immediato futuro saranno in linea con quelli offerti dal Mes. Uno scenario inedito.

Il problema rimane come spendere questi soldi. Il dubbio, per un Stato che da diversi anni ha smesso di fare investimenti, anche a causa dei tagli, è se sia adesso preparato con strutture e procedure adeguate, se abbia cioè la capacità organizzativa per spenderli in modo efficace ed efficiente. Solo e soltanto su questo si gioca il futuro del Paese.

Nadef: numeri a rischio. Appello all’opposizione

“Non mi puoi chiedere un voto di supporto, senza renderti conto che il problema è istituzionale”. Paolo Romani, al momento senatore del Gruppo Misto, nella componente Idea-Cambiamo, ha risposto così a Federico D’Incà, ministro per i Rapporti con il Parlamento, che gli chiedeva il suo voto per la Nadef.

Lo scostamento di bilancio arriva oggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Con l’incognita numeri: secondo la Costituzione, per approvarlo ci vuole la maggioranza assoluta dei componenti (dunque 321 alla Camera e 161 al Senato). I giallorosa ieri si dicevano praticamente certi di averli a Montecitorio (dove gli assenti per Covid sono 20, ma i deputati in missione complessivamente in questi giorni hanno sfiorato i 150). Mentre a Palazzo Madama per tutto il giorno i numeri hanno ballato: le voci più ufficiali sostenevano che gli assenti erano per Covid erano solo 3 (2 del Maie e uno di M5S), quelle ufficiose 7 (3 malati, 4 in quarantena).

La maggioranza, sulla carta, conta 168 voti, ai quali bisogna togliere gli assenti per Covid e aggiungere i senatori a vita Mario Monti e Elena Cattaneo, che potrebbero essere presenti. Chiaro che la situazione è sul filo di lana, visto che poi non è davvero prevedibile quanti saranno oggi i positivi costretti ad assentarsi. Tanto è vero che se la Camera voterà oggi, il Senato potrebbe farlo o stasera o domani, proprio a seconda dei conti. Quel che è certo è che D’Incà ha interpellato tutti, da Romani a Emma Bonino, passando per Matteo Richetti. Ancora Romani: “Non è mai accaduto che dei senatori eletti si assentassero per loro volontà. Questa è una situazione senza precedenti, che la Costituzione non poteva prevedere”. Finora è montata la richiesta del voto a distanza. D’Incà – che si era sempre detto contrario – ieri mattina a Sky ha aperto: “Nel voto di mercoledì scorso sono mancati 45 deputati, numero che mette in difficoltà qualsiasi maggioranza nel nostro Paese. I numeri questa settimana ci sono, ma è chiaro che se ora scoppia un caso si mette in difficoltà un voto come quello sullo scostamento”. Il voto a distanza? “Io di solito sono contrario, poi è chiaro che in questo momento così particolare, pensando all’emergenza che dura fino al 31 gennaio, prevedere un voto a distanza soltanto per chi è in quarantena o per i malati di Covid sarebbe opportuno”.

Domani ci sarà una nuova Giunta per il Regolamento alla Camera. La questione potrebbe essere affrontata. Ma intanto sulla Nadef le incognite restano. Non a caso Conte intervenendo in aula ha esplicitamente richiesto l’aiuto dell’opposizione: “Mi auguro che il clima di collaborazione si possa conservare anche sul voto sul prossimo scostamento di bilancio”. La sintesi finale potrebbe essere quella di Gaetano Quagliariello (anche lui nel Misto, nella componente Idea-Cambiamo): “La maggioranza non ci sarà. I voti sì. D’altra parte, questo è un momento storico senza precedenti”.

L’ora del recovery. Conte fa strike: giallorosa compatti e destra astenuta

Per il governo Conte si apre una finestra di opportunità. Il voto con cui ieri Camera e Senato hanno approvato le Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), cioè il quadro di proposte italiane per il Recovery fund europeo ripropone la centralità della Ue nella politica italiana. Le opposizioni si sono astenute, praticamente nessun contrario, Matteo Salvini ha imboccato di gran carriera la strada delle “Capitali europee”, dove si recherà in compagnia del suo responsabile Esteri, Giancarlo Giorgetti, come ha annunciato proprio ieri. Segno di un cambio di passo nella strategia del leader leghista, frutto delle varie sconfitte dell’ultimo anno. Il governo è riuscito anche a fare un’operazione di ascolto del Parlamento che, a parte qualche espressione da “scaricatore di porto” (come ha sottolineato la senatrice M5S, Patty L’Abate, rimproverata dalla presidente di turno, la compagna di Movimento, Paola Taverna), ha dato il suo contributo, ben raccolto dal ministro degli Affari europei, Vincenzo Amendola, che si sta guadagnando un ruolo di pivot in questa partita. Molto apprezzato dall’opposizione, Amendola ha potuto evidenziare, con malcelata soddisfazione, che il nostro è “il primo Parlamento in Europa a discutere del Recovery plan” e che nessun altro Paese ha finora presentato alcun piano.

Le sei missioni In effetti la supercitata Francia – utilizzata dagli opinionisti che si stracciano i capelli per il Mes – ha presentato la propria legge di Bilancio e domani, 15 ottobre, l’Italia, in linea con il crono-programma, presenterà le sue Linee guida per poi presentare i progetti veri e propri entro gennaio.

Punti concreti, quindi, ancora non se ne hanno. Finora occorre accontentarsi di 4 linee strategiche – capacità di ripresa dell’Italia; riduzione dell’impatto sociale ed economico della crisi pandemica; sostegno alla transizione verde e digitale; aumento del potenziale di crescita dell’economia – articolate su 6 missioni: “1) digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2) rivoluzione verde e transizione ecologica; 3) infrastrutture per la mobilità; 4) istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5) equità sociale, di genere e territoriale; 6) salute”.

La task force Già si capisce – dagli interventi in aula, ma anche dalle rassicurazioni del premier – che una partita importante sarà quella della governance di questo piano, di chi lo gestirà. Giuseppe Conte ha assicurato che ci sarà un dispositivo normativo ad hoc, Italia Viva ha insistito per garantire che si individui la task force e quindi vedremo ancora dei movimenti.

Ma il cambio di passo si vede. Lo si era visto a inizio settimana con quell’ampio articolo a firma Giuseppe Conte, che campeggiava sul settimanale economico diretto dal berlusconiano Renato Brunetta (molto attivo per portare Forza Italia nell’area di discussione e gestione del Recovery), lo conferma la svolta che Giorgetti sta imprimendo alla Lega e a cui Salvini ieri si è adeguato pur confermando che il suo partito non cambierà gruppo politico nel Parlamento europeo. Per ora.

Scaricatori Il passaggio ha influito sugli interventi della Lega al Senato, oscillanti tra sghignazzate e parole senza senso – “siete dei bugiardini” ha detto Marco Centinaio, “Nelle trappole per topi il formaggio è sempre gratis” ha straparlato Simone Bossi – e la dichiarazione di astensione finale di Stefano Candiani. Più composto il comportamento di Forza Italia, mentre Fratelli d’Italia si adegua, ma appare poco convinta.

Digital green Nella maggioranza, invece, se il governo vorrà ascoltare, a poco a poco è emerso un filo conduttore con la gran parte degli interventi centrati su transizione ecologica, idrogeno, green deal e cambiamento climatico (soprattutto da parte del M5S, compatto su questo punto con gli interventi di Michela Montevecchi e ancora L’Abbate ad esempio), ma anche del Pd (Andrea Ferrazzi). E poi Digitale e Salute. L’asse tra Italia Viva e Lega ha fatto riapparire il sempreverde Ponte sullo Stretto, ma non sembra questo, oggi, il punto di equilibrio. Tanto che una super-critica come Emma Bonino ha dovuto prendere atto della buona discussione e del buon documento anche sull’importanza data al genere femminile, “l’inizio di un cambio culturale molto importante”. Per Conte, un’ampia finestra di opportunità.

Il sonno delle Regioni e il virus

Pronte al puntiglio quando in gioco c’è il confronto con il governo, meno quando si tratta di fornire dati certi sulla riorganizzazione sanitaria e sulla risposta del sistema all’aumento dei contagi. Nelle Regioni si avverte il caos, come se fossimo di nuovo impreparati a fronteggiare una seconda ondata. “Hanno dormito”, ha detto pochi giorni fa Walter Ricciardi, consigliere del ministro alla Salute Roberto Speranza, in un’intervista alla Stampa. Più o meno tutte, tranne Emilia-Romagna e Veneto, “che si sono attrezzate”. Ma com’è effettivamente la situazione? Abbiamo analizzato alcune delle Regioni che preoccupano per il livello di incremento della curva dei contagi, secondo una griglia di 8 indicatori. Ecco cosa abbiamo scoperto.

1. Dai tamponi al Test&Track

“Col contact tracing siamo in arretrato di almeno 2.500 inchieste dal mese di settembre, solo a Milano. Chi doveva organizzare, non si aspettava il picco di agosto e ora si trova spiazzato. Stanno cercando personale per potenziare il servizio”. A parlare sotto stretto anonimato è un operatore del servizio di tracciamento della Lombardia. Un sistema andato in tilt, incapace di risalire la catena dei contatti di ogni singolo positivo segnalato dall’Ats di Milano, solo per fare un esempio. Una falla comune a tutte le Regioni, le quali si sono rifiutate di comunicare al Fatto i risultati dei rispettivi servizi di contact tracing. Andrea Crisanti, il microbiologo inventore del modello Veneto, lo dice da mesi: bisognava aumentare la capacità di fare tamponi fino 300mila al giorno. Le Regioni, chi più e chi meno, si sono mosse: secondo la Fondazione Gimbe, i laboratori che processano i tamponi da aprile a oggi sono passati da 152 a 270. Oggi la Lombardia, dove i laboratori sono passati da 19 a 47, arriva a farne 25mila al giorno. Il Lazio è passato dai 1.300 di marzo ai 12.400 di media tra il 4 e il 10 ottobre. La Sardegna, invece, non va oltre i 1.700. Per Altems-Univcersità Cattolica, la Campania è quella che ne ha fatti di meno: solo il 7,19% dei residenti è stato sottoposto al test contro una media nazionale dell’11,98%. La Regione di Vincenzo De Luca ha un altro problema: per l’88% fa tamponi diagnostici, cioè a chi ha già i sintomi, e solo il 12% del totale lo usa per fare screening, cioè per andare a cercare gli asintomatici. La più virtuosa in questo senso è la Puglia: passata da una media di 1.730 test al giorno di marzo ai 3.730 di oggi, è quella che fa più screening (70%).

A misurare la reale diffusione del virus sono i casi testati, ovvero i tamponi che hanno individuato il positivo, senza quelli che ne certificano la guarigione: se fino alle riaperture del 3 giugno se ne facevano 35mila al giorno, tra il 5 e l’11 ottobre si è arrivati a 67mila. Rapportato alla popolazione, il valore dà un’idea chiara delle differenze tra le Regioni: si va dagli 8.002 casi testati per 100mila abitanti del Lazio ai 3.232 della Sicilia. Nel complesso “le attività di testing non sono state potenziate in misura proporzionale all’aumentata circolazione del virus – spiega Gimbe – determinando un netto incremento del rapporto positivi/casi testati a livello nazionale che da metà luglio a metà agosto è salito dallo 0,8% all’1,9%, per raggiugere tra il 5 e l’11 ottobre il 6,2%”. Tra le maglie nere, spiccano Liguria (12,1%) e Campania (8,9%).

2. Terapie intensive

Ne avevamo poco più di 5mila in fase pre-pandemica. E oggi, al Sud in particolare, “non abbiamo contezza che ci sia stata un’effettiva implementazione proporzionale alla densità di popolazione. L’obiettivo del governo erano 8.700 posti, ai quali aggiungere circa 4.000 di sub-intensiva, però stiamo parlando di un piano ancora sulla carta”. È l’allarme lanciato ieri da Alessandro Vergallo, presidente nazionale dell’Aaroi. A oggi, la disponibilità dei posti di TI, a livello nazionale, è ferma a 6.458 letti totali. Con grandi differenze tra le regioni. Differenze dovute alla presenza o meno di Covid Hospital, o a piani sanitari che hanno sì stabilito l’aumento delle postazioni, ma che ancora non sono compiuti. Così, molti posti letto sono ancora da attivare. In Lombardia i posti disponibili “fissi” sono 983, ma grazie ai due Covid Hospital di Milano e di Bergamo (oggi in disarmo), si arriva a 1.260. In Veneto, che è stata l’unica Regione ad aver mantenuto gli stessi letti creati durante la prima ondata, i posti sono 825. Va molto peggio in Sardegna dove i letti di intensiva, col nuovo piano sanitario, dovranno arrivare a 236, ma i lavori sono in corso. In Piemonte, è previsto un incremento di 299, per raggiungere i 610 totali. Discorso a parte merita la Campania, dove le TI sono solo 427, con il rapporto più basso d’italia tra letti e abitanti: 7,3 letti per 100mila abitanti. Il Lazio, invece, ha adottato una strategia “a fisarmonica”: attiva i posti in TI in base alle necessità. Quelli attuali sono 200. Variegata anche la soluzione scelta per i “posti letto covid”. Per la Sicilia i numeri sono un mistero: lo staff dell’assessore alla Salute, Ruggero Razza, ha riferito al Fatto che “in emergenza c’erano circa 2mila posti letto”, oggi però “non è in grado di rispondere”. Così come non ha risposto la Liguria.

3. Medici e sanitari

Il Piemonte, dopo l’emergenza, ha reclutato 2.503 operatori (387 medici e 1.807 infermieri). L’Emilia-Romagna di medici ne ha ingaggiati 803, di infermieri quasi 2.800. Il Lazio, tra rapporti libero-professionali e assunzioni, ha inserito oltre 750 medici e 1.341 infermieri. Circa in 3mila sono andati invece a potenziare il sistema sanitario siciliano. La Campania ha fatto leva su 800 nuovi infermieri e solo 150 medici in più. Quanto alla Lombardia, ha potenziato con 4.900 tra medici e infermieri, destinandoli in buona parte agli ospedali.

4. Numero di Usca

E le Unità speciali di continuità assistenziale? C’è chi le ha diminuite, chi aumentate. L’Emilia-Romagna nel picco dell’emergenza, in primavera, ne aveva 80, con 440 medici, oggi ne ha 56. In Campania, sono 60 per 330 medici. La Sicilia ne aveva 68, le ha portate a circa un centinaio. La Puglia sulle Usca non risponde, mentre in Piemonte sono 90.

5.Dpi

Oltre 859 milioni di pezzi. A tanto ammontano le mascherine fornite alle Regioni dalla Protezione civile da marzo, in piena pandemia, al 9 ottobre. Quasi 89 milioni sono arrivate all’Emilia-Romagna, più di 125 milioni alla Lombardia. La Sicilia ne ha avute oltre 35 milioni, la Campania 29, il Lazio 67, il Piemonte 23. Sono in molte le Regioni che dicono di aver fatto poi ordinativi aggiuntivi. Ma per quale ammontare non è dato sapere. Si hanno solo i numeri sulle giacenze attuali: la Campania ha 3,5 milioni di mascherine, la Sicilia 7,5. La Puglia e il Veneto non rispondono. Una cosa è certa. Nelle Rsa, alle quali sono state girate in totale in Italia 40,3 milioni di mascherine, in Lombardia – dove nelle case di riposo ci sono circa 70mila posti letto – ne sono arrivate poco più di 13,5 milioni, mentre in Campania appena 191mila.

6. Vaccini anti influenzali

La maglia nera spetta sicuramente alla Lombardia, che, secondo i dati elaborati da Gimbe, si è assicurata solo 2.282.465 di dosi vaccinali, a fronte di una popolazione target (cioè il 75% degli aventi diritto, over 60, cronici e bambini da 6 mesi a 6 anni) pari a 3.442.296 unità. Un deficit causato da un’errata politica degli acquisti, con cinque gare andate fallite su dieci. L’ultima, per 500mila dosi, è stata bloccata perché le due società vincitrici non erano in regola con Anac e Aifa. Ma non ride neanche il Molise, dove le 56.370 dosi stoccate coprono solo il 29% della popolazione target (194.185 persone). Anche l’Abruzzo stenta: 228.000 dosi, popolazione target 465.768. Esempio positivo la Puglia, che a fronte di una popolazione di 1.353.822 unità, si è assicurata 2,1 milioni di dosi.

7. Piano per Rsa

In ordine sparso, a livello locale, alcune Regioni si sono mosse d’anticipo, bloccando le visite agli esterni. Decisione che, da indicazioni del nuovo Dpcm, è estesa a tutto il livello nazionale. In Lombardia, dopo la mattanza dei nonni, il 2020 si chiuderà con due milioni di giornate in meno di presenza, per gli ospiti che non ci sono più. Bene ha fatto l’Emilia-Romagna, disponendo 4,6 milioni di mascherine per gli ospiti degenti. In Sicilia, per avere un paragone, siamo a quota 620mila.

8. Piani pandemici

Una buona notizia: il Piemonte lo ha adottato a settembre 2020. La Lombardia, invece, nonostante si sia scoperta priva di un Piano pandemico regionale durante la prima fase della pandemia, è ancora ferma. L’ultimo documento ufficiale al riguardo è del 2010: “Conclusione fase 6 pandemia influenzale da virus A/H1N1” (giunta Roberto Formigoni), affinché “si facesse tesoro delle criticità insorte”. Appunto. Anche la Puglia è ancora ufficialmente priva di un piano pandemico, ma è in bozza. In fase di aggiornamento.

“Più di così non si può”. “Troppo poco”

 

 

 

Filosofia corretta È giusto sospendere il superfluo, dalla movida al calcetto

Ho appena concluso il giro nel reparto Covid del Gemelli e posso dire che i malati in questi giorni arrivano, i pronto soccorso hanno già un numero di casi da fronteggiare non indifferente. Quello che servirebbe adesso sono più strutture territoriali per la quarantena post-dimissioni. Bisogna decongestionare le strutture sanitarie, qualcosa nel Lazio da questo punto di vista si comincia a vedere, altri sono anche più avanti. Le misure del governo sono sufficienti e molto bilanciate. La filosofia del ministro Roberto Speranza mi pare corretta: sospendere il superfluo. Potrà non far piacere, ma ammassarsi davanti ai locali e il calcetto con gli amici senza controlli è superfluo. Il governo è stato anche propositivo e comprensivo con le raccomandazioni ai cittadini, come evitare feste in casa, senza restrizioni difficilmente praticabili. Fra due settimane vedremo i risultati, molto dipende dalla responsabilità individuale e comprendo che oggi ci sia ormai stanchezza, ma bisogna stringere i denti perché il coronavirus continuerà a diffondersi e la cosa brutta rispetto alla prima ondata è che ora siamo a inizio inverno non alla fine della stagione fredda.

Massimo Antonelli. Direttore rianimazione Ospedale Gemelli di Roma

 

Siamo in ritardo Servono test a campione a scuola e incrementare i tamponi

Se le nuove misure del governo sono sufficienti o meno adesso non può saperlo nessuno. Quello che si potrebbe fare per capire meglio l’impatto nelle scuole sono i test a campione, perché capisco non si possa ritornare alla didattica a distanza in quanto il governo sulla scuola si gioca la sopravvivenza. Rispetto ai trasporti pubblici in questo momento ci deve essere un’unica direttiva da far rispettare sempre: per salire a bordo serve la mascherina, chi non la indossa non sale. Mascherina almeno chirurgica, non certo quelle fai da te in stoffa che non servono a niente e che purtroppo in giro vedo. Poi c’è la solita cosa, nella quale siamo in ritardo, che non mi stancherò mai di ripetere: serve subito un incremento dei tamponi molecolari perché siamo vicini a una soglia in cui il tracciamento non serve più, ammesso che la soglia non si sia già superata. In Europa mi pare che non ci sia nessuno Stato, comunque, davvero in grado di fare un contact tracing adeguato. Il numero delle terapie intensive (+62 nelle ultime ventiquattro ore) non è affatto bello, ma almeno non sentirò più alcuni imbecilli sostenere che il virus è cambiato.

Andrea Crisanti. Docente Microbiologia all’Università di Padova

 

Non basta I mezzi pubblici vanno limitati subito e le superiori a distanza

La soglia psicologica dei seimila contagi giornalieri la infrangeremo a breve. Se non riusciamo a invertire l’andamento epidemico seguiremo la via di Francia, Spagna, Regno Unito e Belgio, che ora stanno peggio di noi. Rischiando chiusure più lunghe e dolorose, come credo alcune Regioni saranno costrette dagli eventi a decidere in autonomia. Le nuove misure del governo sono un segnale importante, ma francamente non basta. Un problema molto serio, ad esempio, è quello dell’affollamento dei trasporti pubblici da limitare subito e, aggiungo, ritornerei – per quanto riguarda le scuole superiori – alla didattica a distanza. Le limitazioni non devono essere vissute come una sconfitta, credo che servano a evitare sconfitte ben più dolorose. Altra cosa, il collega Crisanti aveva indicato in quota 300 mila il giusto numero di tamponi molecolari per controllare l’epidemia: ecco, lo ascolterei, ne facciamo ancora pochi. E bisogna incrementare anche i test rapidi. Sarà importante per i test anche coinvolgere i medici di base se non nei loro studi almeno in ambienti idonei, altrimenti circoscrivere i focolai diverrà impossibile.

Massimo Galli. Direttore malattie infettive Ospedale Sacco Milano

 

Misure sufficienti 15 giorni e vedremo gli esiti: spero positivi, ma siamo preparati

In questa fase si sta operando un monitoraggio attento a livello nazionale con misure governative proporzionate. E, credo, sufficienti: danno un segnale importante di rigore e prudenza che vale per tutti. Speriamo, ma questo non possiamo saperlo, che bastino per rallentare in un paio di settimane la velocità di diffusione del virus, perché purtroppo il numero di ricoveri e poi di ricoveri in rianimazione e quindi di decessi è proporzionale alla diffusione stessa. Questo è il circolo da interrompere evitando che la macchina sanitaria s’intasi. La crescita del contagio ora c’è e preoccupa ma non sta ancora impattando in maniera importante, bisogna stare attentissimi perché i guai potrebbero arrivare nei prossimi due mesi. Il governo ha scelto una strada che non va a colpire mortalmente il tessuto economico e sociale e credo non si potesse fare diversamente. D’altra parte uno scenario come quello di marzo lo reputo poco probabile perché ora il virus non circola in modo del tutto indisturbato e noi siamo più preparati ad affrontarlo.

Pier Luigi Lopalco. Docente di Igiene all’Università di Pisa

Quasi 6 mila casi, Rt sale a 1,2 Conte: “Evitiamo il lockdown”

Negli uffici di Palazzo Chigi e del ministero della Salute circola una stima ufficiosa di Rt, il tasso di riproduzione del virus, molto vicina a 1,2 con riferimento alle ultime settimane. È la misura di quante persone vengono infettate, in media, da un singolo contagiato: quindi ogni cinque positivi ce ne sono sei nei giorni seguenti. L’ultima stima pubblicata era 1,06, ma risale all’8 ottobre ed è stata calcolata da ministero e Istituto Superiore di Sanità sui dati tra il 17 e il 30 settembre, quando i contagi giornalieri non avevano ancora superato quota 2.000. Da allora i casi notificati sono triplicati, ieri ne hanno contati 5.900 con 112.544 tamponi. I positivi sono dunque il 5,2% dei test effettuati, un po’ meno del 5,4% (un record, purtroppo negativo) di lunedì: fino all’8 ottobre non avevano mai superato il 3 per cento dalla fine del lockdown. E se guardiamo al rapporto tra positivi e persone testate per la prima volta, escludendo cioè i tamponi di controllo, vediamo che continua ad aumentare: 8,4% contro il 7,7%, la media settimanale – come si legge nelle elaborazioni del consigliere regionale del Lazio, Alessandro Capriccioli – passa dal 6,42 al 6,96%. Cresce inesorabilmente da giorni. Con numeri impressionanti in alcune Regioni: Valle d’Aosta (8 casi ieri) 16,38%, Liguria (447 casi ieri) 14,20%, Piemonte (585) 10,82%, Veneto (485) 9,90%, Campania (635) 8,99% ma quest’ultima finalmente in calo. La Lombardia (1.080) è al 6,9% in aumento. Sotto il 3 solo Calabria e Basilicata. Il Lazio (579 casi ieri) è poco sopra, 3,78%, ma in crescita.

Sono stabili i decessi, 41 contro i 39 di lunedì, ma secondo le elaborazioni di Paolo Spada, medico dell’Humanitas e animatore della pagina Pillole di ottimismo, la media mobile settimanale in un mese è passata da 9,9 a 29 decessi al giorno. Insomma i morti, dal 13 settembre al 12 ottobre, sono triplicati. Sono sostanzialmente stabili i ricoveri ordinari, 255 ieri per un totale di 5.076 in tutta Italia, ma qui sappiamo che molte ospedalizzazioni sono, per dirla con un qualificato membro del Comitato tecnico scientifico, “sociali”, riguardano cioè persone che non possono fare la quarantena a casa o anziani che vengono spediti in ospedale dai medici delle Rsa. Preoccupano parecchio, invece, i 62 nuovi pazienti in terapia intensiva, un balzo mai visto dopo l’estate: sono 514 in tutto, come ai primi di marzo. Il fisico Alessandro Amici, analizzando i numeri delle terapie intensive, conclude che l’andamento è lo stesso di “fine febbraio/inizio marzo, semplicemente 7 volte più lentamente. Un giorno di allora – scrive – corrisponde a una settimana di oggi”. E questo per effetto del distanziamento, delle mascherine e di tutto quello che ha cambiato le nostre vite in questi mesi. Finché i numeri sono questi “gli ospedali italiani potranno reggere almeno per cinque mesi e al momento la situazione è gestibile – ha detto ieri Carlo Palermo, segretario del maggiore dei sindacati dei medici ospedalieri italiani, l’Anaao-Assomed –, ma se dovessimo assistere a un aumento esponenziale dei casi come sta accadendo in altri Paesi come la Francia, allora il sistema ospedaliero avrebbe una tenuta di non oltre due mesi”. Qualificati esponenti di governo prevedono che arriveremo a 10 mila casi al giorno entro fine ottobre. In quel caso, secondo Palermo, “si rischia il crollo della prima trincea ospedaliera anti-Covid. Già ora si iniziano a registrare delle criticità”. È noto a tutti che la primissima trincea, quella delle Asl e della sanità territoriale che dovrebbe assicurare il tracciamento dei contatti dei positivi, è già stata travolta. Per non dire degli spazi necessari per l’isolamento di chi non ha può farlo a casa sua.

Se Rt si avvicina a 1,2 significa che siamo nello scenario 2 dei 4 delineati dall’Istituto superiore di sanità (Rt tra 1 e 1,25 per un mese) ma a un passo dal 3, che si verificherà se l’indice salirà tra 1,25 e 1,5 per 30 giorni. Così si comprende meglio l’impegno del ministro della Salute Roberto Speranza per introdurre le misure restrittive del Dpcm in vigore da oggi, peraltro solo una parte di quelle suggerite per lo scenario 2: oltre ai bar, alle feste e agli sport di contatto ce ne sarebbero state anche per le scuole e i trasporti. Nei prossimi 15 giorni ci si attende qualche risultato almeno in termini di rallentamento della curva epidemica. Con lo scenario 3 si passerebbe infatti ai lockdown locali, con la completa interruzione delle attività sportive e ricreative e anche di alcune attività produttive, nonché il blocco della mobilità interregionale. E si capisce che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ieri, abbia spiegato il Dpcm dicendo a chiare lettere che “il nostro obiettivo è molto chiaro: evitare di far ripiombare il Paese in un lockdown generalizzato”. Sarebbe infatti quello lo scenario 4, con Rt stabilmente sopra 1,5.

 

Eccesso di coerenza

Quattro anni fa, quando Roberto Giachetti si candidò a sindaco di Roma ed escluse dalle liste l’ambientalista Nathalie Naim perché imputata per diffamazione ai danni dei bancarellari abusivi, scrivemmo che c’è un limite anche alla coerenza: le “liste pulite” sono un dovere civico, ma bisogna sempre verificare i fatti alla base di un’imputazione e anche di una condanna. Se sono criminali, o soltanto immorali, o scorretti e dunque incompatibili con i requisiti di “disciplina e onore” prescritti dalla Costituzione per chi ricopre pubbliche funzioni, è giusto non candidare chi li ha commessi o, se è già stato eletto, cacciarlo dal partito e dalla carica. Altrimenti nessun problema. Solo così la politica può affermare il suo “primato”: non coprendo gli amici da ogni delitto e rinfacciando ai nemici condotte meno gravi; ma decidendo autonomamente e chiaramente cosa si può fare e cosa no, a prescindere dai processi penali che seguono altre logiche e regole, e poi risponderne ai cittadini. Non tutto ciò che è reato è immorale e non tutto ciò che è immorale è reato.

Lo ripetiamo anche oggi, alla notizia che Chiara Appendino, dopo la condanna a 6 mesi in primo grado per falso ideologico, si è autosospesa dal M5S e ha deciso “per coerenza” di non ricandidarsi a sindaca di Torino. Convinta di ribaltare quel verdetto in Appello, ma sa bene che – sebbene abbia scelto il rito abbreviato – la sentenza non arriverà mai prima dell’estate, quando la città tornerà alle urne. È un gesto tanto nobile quanto raro, anzi unico. Ma a noi pare un eccesso di coerenza. E i 5Stelle, impegnati in mille beghe su questioni molto più secondarie e trascurabili, dovrebbero affrontare la faccenda subito, per affidarla ai probiviri e aggiornare il loro Codice etico, ancora troppo rigido e dunque inefficace. Giusto allontanare i condannati, anche in primo grado, per reati gravi, qual è certamente sulla carta il falso. Ma l’ultima parola deve sempre spettare ai probiviri, dopo aver esaminato i fatti. Che, per l’Appendino, sono a dir poco kafkiani. Nel 2012 la giunta del Pd Piero Fassino contrae un debito con una società privata, la Ream, che versa al Comune una caparra di 5 milioni per avere il diritto di prelazione sull’area ex Westinghouse, interessata da un progetto di riqualificazione e rilancio con un mega-centro congressi. Nel 2013 il progetto viene aggiudicato a un’altra società e i 5 milioni vanno restituiti. Ma la giunta Fassino non paga. E, ai solleciti della Ream, risponde nel 2014 e nel 2015 che ridarà i soldi solo al termine delle procedure per l’aggiudicazione della concessione al vincitore della gara, bloccate dal ricorso al Tar di un concorrente escluso.

Nel 2016 arriva la Appendino e si ritrova pure quel debito. Siccome le casse sono vuote e si rischia il pre-dissesto, la nuova giunta 5Stelle apre una trattativa con Ream per rinviare la restituzione dei 5 milioni, che nell’attesa restano fuori bilancio, tantopiù che il centro congressi è sempre bloccato al Tar. Ma i capigruppo di opposizione, compresi i partiti di centrosinistra che non hanno mai restituito un centesimo, presentano un esposto in Procura contro la Appendino. Così la sindaca viene indagata per due abusi d’ufficio e due falsi (sui bilanci 2016 e 2017), insieme al capo di gabinetto Paolo Giordana e all’assessore al Bilancio Sergio Rolando. I tre rivendicano la scelta, viste le trattative in corso con Ream per rinviare il pagamento: tant’è che poi ottengono di restituire i soldi nel 2018 e infatti iscrivono il debito, d’intesa con Ream, nel bilancio 2018. E la Corte dei Conti dà loro ragione nella relazione al rendiconto 2016 e al bilancio di previsione 2017-’19, entrambi approvati come ineccepibili, smontando la tesi contraria dei revisori dei conti: la caparra poteva non essere registrata nei “debiti fuori bilancio”. Ma la Procura la pensa diversamente, arrivando a sostenere che, siccome Ream continuava a chiedere indietro i soldi, non c’era alcuna trattativa col Comune; e che, malgrado il centro congressi sia rimasto bloccato al Tar fino al mese scorso, l’aggiudicazione si era perfezionata già quattro anni prima, nell’autunno 2016. Dunque la caparra andava iscritta a bilancio e restituita nel 2016.
Alla fine il gup, con rito abbreviato, assolve gli imputati dai due abusi e dal falso del 2017, ma li condanna per il falso del 2016. In soldoni, la Appendino viene condannata per aver favorito il suo Comune iscrivendo un debito atipico nel bilancio sbagliato: quello del 2018 anziché quello del 2016. Si vedrà in Appello e in Cassazione se ha sbagliato lei o il Gup: se la sentenza sarà confermata, la sindaca avrà sbagliato una posta di bilancio; se sarà annullata, i pm e il gup avranno preso una cantonata. Ma, per la reputazione della Appendino e per il suo futuro politico e amministrativo, non cambierà nulla: nel peggiore dei casi, avrà commesso un errore, peraltro avallato dalla Corte dei Conti. E non nell’interesse proprio, ma della sua città. Non ha rubato, mafiato, truffato, sperperato, abusato del suo potere a fini personali. E neppure il suo più acerrimo nemico può accusarla di condotte men che cristalline. Un movimento che ha a cuore l’onestà dovrebbe annullare la sua autosospensione e spingerla a ricandidarsi. Non malgrado la sentenza, ma alla luce della sentenza. Non per la presunzione di innocenza, ma per la certezza di onestà.

Macché figlia di papà (Byron): Ada fu la prima informatica

Ada Lovelace (1815-1852) è una figlia di papà mancata: il genitore l’aveva abbandonata – insieme con la madre – poco dopo la nascita, per girare il mondo come una rockstar, tale era la sua fama all’epoca. Si chiamava, questo marito e padre scapestrato, George Gordon Byron, meglio noto come Lord Byron. Fu la Lady a crescere la bambina, impartendole una severa, quanto eccentrica per il tempo, educazione scientifica. Ebbene, la ragazzina, anni dopo, divenne la prima informatica della storia, celebrata oggi – come ogni secondo martedì di ottobre – in tutto il mondo: è l’“AdaLovelaceDay”; un omaggio, almeno formale, alle donne e ai loro successi nelle discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics).

Per l’occasione, Donzelli ha licenziato Ada e i numeri tuttofare. Lady Lovelace e l’invenzione del computer di Diane Stanley, con le illustrazioni di Jessie Hartland: un libro delizioso, non solo per bambini, alla scoperta dell’eccentrica Ada, della sua vita rocambolesca (di figlia ripudiata, bambina prodigio, giovane sposa combinata, madre di tre figli, amica di romanzieri e matematici…) e della sua geniale “Nota G” alla Macchina analitica di Charles Babbage. Fu Lovelace, in soldoni, a scrivere il primo programma per computer – il famigerato algoritmo – della storia, benché ci siano voluti decenni prima di riabilitarla nel pantheon dei grandi scienziati. I meriti, all’inizio, andarono ovviamente tutti a Babbage.

Unica figlia legittima di Byron, autrice in tenera età di trattati di Volologia e altre curiosità sulle macchine – la sua passione –, Ada fu una programmatrice ante litteram, ispirandosi ai telai meccanici così come all’anatomia degli uccelli e immaginando calcolatori a vapore in grado di scrivere, riprodurre immagini e persino giocare a dama e scommettere sui cavalli. L’azzardo le piaceva, e infatti più di una volta dovette impegnare i gioielli del marito, il Conte di Lovelace, per ripagare i debiti (aneddoti raccontati da Piergiorgio Odifreddi ne Il genio delle donne, Rizzoli).

Se Ada dal padre poeta ereditò l’estro, dalla madre imparò il rigore e la passione per la scienza: Byron canzonò più volte l’ex moglie, abbandonata dopo solo un anno, definendola “principessa dei Parallelogrammi” e “calcolo ambulante” nei suoi poemi. D’altronde il Lord di numeri non capiva nulla: a scuola aveva infatti goduto dell’esenzione agli esami di matematica, concessa a tutti nobili inglesi. Forse ritenuti fessi di natura.

In comune con la figlia Byron ebbe ben poco, a parte la giovane età in cui entrambi morirono (36 anni) e una intelligenza tutt’altro che artificiale.