Il sindaco Massimo del sovranismo “caciarone” in tv

I centrodestra sta pensando a Giletti come sindaco di Roma. Si parla pure di un’ipotesi poro Porro. E si candida persino Sgarbi. È tutto straordinario. Giletti è una delle figure mediatiche più odiate da sinistra e grillini. Da un punto di vista prettamente tecnico, Giletti è uno dei conduttori più abili. Sa fare tivù, ha i tempi giusti e – se vuole – è un ottimo intervistatore. La sua conduzione è molto dominante, come quelle di Vespa e Santoro. Essere suoi ospiti non è facile e neanche troppo divertente, perché a casa Giletti comanda solo Giletti e (quasi) tutti gli altri sono pedine. Non conta quel che dici, conta che tu rispetti la partitura ferrea che lui ha in testa (e in scaletta).

Giletti è criticato per la sua conclamata sbornia salviniana, ma è sempre stato un uomo di centrodestra. Una sorta di democristiano 2.0 finto incazzato e senz’altro populista. Quasi sempre filo-governativo, prima garbatamente berlusconiano e poi smodatamente salviniano. Per un po’ semi-grillino (quando lo ha cacciato la Rai), per fortuna mai granché convinto da Renzi.

Due sere fa, a Non è l’Arena, stranamente non c’erano né Salvini né Meloni. Giletti suole “intervistarli” con trasporto messianico. Ascolti discreti (4,8% di share prima parte e 5,7% seconda parte). Lo storytelling (?) era avvincente. Momento Covid con l’immancabile Bassetti, ormai monolite nero di sovranisti e minimizzatori para-negazionisti. Spazio poi al “Momento Cazzata”, al quale Giletti tiene moltissimo e che domenica è stato affidato a Fusaro. Giletti è bravissimo a far dire cose irricevibili (che spesso lui pensa) a facce impresentabili: in questo modo lui si salva, ma il messaggio passa. E il messaggio era che, per Fusaro, la mascherina valesse la camicia nera. Dunque Conte come Mussolini e Speranza nuovo Farinacci. Daje Diego! A far le veci del governo da zimbellare, l’immancabile viceministro 5stelle Sileri, un brav’uomo che da mesi adora interpretare – chissà poi perché – il ruolo del punching-ball.

Giletti ha quindi sdoganato televisivamente l’immacolato Buzzi. Ottima idea! Eticamente sublime, soprattutto. Mentre Bonini e Sabella provavano a ricostruire la realtà, Buzzi faceva il martire, l’avvocato diversamente simpatico di Carminati cercava di dimostrare come il suo assistito fosse una sorta di promoter turistico di Roma e Giletti dichiarava sornione di avere adesso ancora più dubbi sull’ipotesi di candidarsi sindaco.

L’apice è stato però il finale. Dai Caraibi è comparso tal Mirko Scarcella, definito a casaccio “guru di Instagram”. In breve: tal Scarcella lavorava con Vacchi, poi i due hanno litigato e adesso Vacchi attacca Scarcella alle Iene e Scarcella attacca Vacchi da Giletti. (E uno sticazzi non ce lo metti?). In studio c’era Annalisa Chirico, che sfoggiava un sottopancia leggendario: “Direttrice di Chirico.it”. Quasi come se io, domani, andassi a Otto e mezzo e mi facessi presentare così: “Ecco Scanzi, direttore della pagina Facebook di Scanzi”. Roba da Tso immediato. Tal Scarcella era molto su di giri e attaccava tutti. Giletti, un genio nel fingere di scandalizzarsi, un po’ si dissociava per fini legali e un po’ simulava sdegno per la maleducazione dell’ospite. In realtà, ovviamente, godeva come un riccio erotomane. Il dialogo (tra sordi) ha raggiunto l’apice quando tal Scarcella ha inquadrato con la webcam sua moglie (in mutande). Altissimi livelli. In un siffatto Circo Barnum del sovranismo caciarone, ho però avvertito la dolorosa assenza della donna barbuta, di Gasparri vestito da Wonder Woman e di Salvini che fa Tarzan. Sarà per la prossima volta, sindaco Massimo.

 

Marziani in Campidoglio, da Calenda alla Cirinnà

Roma è la spugna di tutte le nevrosi nazionali. Siamo il fegato d’Italia: qui i partiti vengono a spurgare tutte le loro irrisoluzioni e miserie. Lo testimoniano le candidature che si stanno avanzando per le Comunali della prossima primavera, roba da chiedere asilo politico a Anagni e restare in auto-lockdown fino al 2026. La più mediatica è l’auto-candidatura per acclamazione via Twitter di Carlo Calenda, leader di Azione, pura espressione del territorio (tra viale Bruno Buozzi e via dei Monti Parioli, altezza Accademia del Bridge).

Lo tratteggeremo con poche pennellate, perché è molto permaloso e capace di scatenare canee social da guerra cambogiana-vietnamita, con spedizioni punitive a opera di folte legioni di fan, che se si traducessero in voti Calenda sarebbe re.

L’ex Confindustria Ferrari Sky Montezemolo Monti, già viceministro di Letta e Renzi, poi da questi fatto Rappresentante permanente presso la Ue (con sommo sconcerto dei diplomatici), dunque ministro neoliberista, d’un tratto si scopre l’uzzolo degli “sconfitti” da riscattare (“Ho sostenuto per 30 anni le cazzate dei neoliberisti”), prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd, ma con un simbolo proprio (“Siamo europei”), e pochi mesi dopo, alla formazione del governo coi 5Stelle, lascia il Pd, cambia nome al suo partito personale (dal logo, presumibilmente studiatissimo, da supposta per la chinetosi), spara tutti i giorni tweet venifici sul Pd e sul governo di cui il Pd fa parte, spalleggia la strategia di Renzi di proporre candidati fantoccio alle Regionali per togliere voti al Pd, prende sotto l’1% e adesso chiede anzi pretende i voti del Pd per fare il sindaco di Roma, lasciando dopo un anno e senza remore il seggio da europarlamentare. È tutto talmente folle che il Pd sta valutando seriamente l’opzione.

Certo, il partito potrebbe imporre le primarie, che Calenda inspiegabilmente rifiuta (non potrebbe mobilitare i suoi follower dei quartieri popolari?), ma ha difficoltà a trovare un candidato credibile o anche un candidato tout court, circostanza molto strana se si pensa all’amore, al sostegno e al rispetto che il Pd riserva ai suoi sindaci eletti. Insomma, nella città in cui una sconosciuta trentenne ha preso il 70% contro un noto candidato renziano e dove il Pd locale, mentre sfiduciava Ignazio Marino dal notaio insieme alla destra e a Alfio Marchini per una risibile vicenda di scontrini (ma in realtà perché stava antipatico a Renzi e a Orfini), si intratteneva amabilmente coi più preclari rappresentanti del Mondo di mezzo, l’ultima cosa da fare sarebbe candidare uno che fatica ad arrivare al 2% nazionale e come programma al momento ha solo quello di fare opposizione al governo, infatti appoggiato da Renzi che si fionda sempre dove sente l’odore del sangue.

Non si capisce perché Calenda i voti non li chieda presentandosi da solo o con l’opposizione, da manager-competente non ideologico qual è, andando allo scontro con Giletti. Sì, Massimo Giletti, il torero di Non è l’Arena, programma trash demagogico anti-casta, anti-magistratura, anti-governo, famoso per ospitate ossessive di virologi minimizzatori e politici scomodi resi familiari, casalinghi, simpatici (“Ciao da zio Massimo”, alla figlia di Salvini, “un abbraccio a Ginevra”, alla pupa della Meloni); Salvini e Meloni che peraltro stavano pensando di presentare il presentatore a Torino, poi hanno virato su Roma (tutte a noi le fortune), ipotesi corroborata dalla puntata di domenica, chiara inaugurazione della campagna elettorale. Titolo: “Il malaffare di Roma”, ospite in studio Salvatore Buzzi, condannato per associazione a delinquere, e non si capirebbe l’attualità di una tale scelta durante una pandemia a meno di sottintendere che con Giletti sindaco la legalità sarebbe ripristinata senza tema, infatti lo candida uno il cui partito ha rubato 49 milioni di euro.

A rendere più pepata questa sfida tutta televisiva ci sarebbero, pare, le candidature di Monica Cirinnà, della consigliera Di Biase moglie di Franceschini, di altri esimi sconosciuti pidini (e sì che il Pd avrebbe Caudo, attuale presidente del III Municipio e docente di Urbanistica, ma figuriamoci se lo valorizza), del direttore del Tg2 Sangiuliano e persino di Gianfranco Fini. Sconosciuti al momento i programmi dei candidati su gestione dei rifiuti, mezzi pubblici, scuole, beni comuni, disuguaglianze, politiche abitative, politiche culturali, insomma su come intendono battere la Raggi, per governare una città che richiederebbe sette sindaci (e questi messi insieme non ne fanno nemmeno uno).

A chi usa Roma per rimpinguare il curriculum con barocco e barocchetto, e sfrutta la candidatura come campagna elettorale nazionale e mega sondaggio su sé stesso, chiederemmo semplicemente di indicarci sulla cartina dove si trova la Serpentara, o Ponte di Nona (non vale averle viste al cinema o dal Frecciarossa).

 

Molte idee sull’anticasta, lo strano medico di Trump e le barzellette razziste

Ieri mattina stavo pucciando un frollino in una tazza di tè (non per fare colazione: è un mio hobby) quando mi è venuta una bella idea: perché non creare un movimento politico che si occupi di acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo? Ma non organizzato come gli altri partiti della Casta, no. Un movimento dove le decisioni vengono prese via Internet attraverso una piattaforma digitale di cui ho il controllo totale, finanziata dagli eletti stessi con 300 euro al mese. Basta con l’intermediazione fra elettori e candidati, basta con le assemblee fisiche: solo web. Battaglie urgenti: no-Tav, no-Tap, chiusura dell’Ilva, no ai Benetton in Alitalia, riduzione delle spese militari, libertà di vaccinazione, via i partiti dalla Rai. Chi verrà eletto non potrà decidere di testa sua, dovrà solo portare nelle istituzioni le decisioni prese a maggioranza sulla piattaforma. Chi c’è c’è: lui o un altro non farà differenza, basta coi leader e con le correnti di partito. Basta anche con gli sprechi: il compenso dei parlamentari verrà auto-decurtato: non più di 5.000 euro lordi al mese, e il resto dell’indennità (6.000 euro) sarà devoluto a un fondo statale. Si potrà restare in carica solo per due mandati. Chi ha una condanna, anche solo in primo grado, fuori dai coglioni. L’eletto recalcitra, una volta in poltrona? Dissente addirittura? Avrà firmato un contratto, dunque multe salate, gogna mediatica, deferimento a Probiviri, espulsione. Nel dubbio, garantirò io quali sono le decisioni giuste da prendere. Mi sembra un progetto perfetto. Non vedo cosa potrebbe andare storto.

Un’antologia di barzellette pubblicata in America negli anni 20 elencava parecchie battute sui “negri”, tipo questa: “Una coppia di Boston va a svernare ad Augusta, in Georgia, dove prende in simpatia un’anziana donna di colore, al punto da invitarla spesso a cena. Una sera, l’anfitrione le dice, orgoglioso della sua ospitalità democratica: ‘Immagino che, quando era una schiava, il suo padrone non la invitasse a mangiare a tavola’. ‘No, signore, non lo faceva’, risponde la vecchia. ‘Il mio padrone era un gentiluomo: non avrebbe mai permesso che un negro gli si sedesse accanto’”. Oggi questa barzelletta è giustamente considerata razzista (nel dubbio, chiedetevi sempre chi è il bersaglio), ma c’è chi fa il furbo, usandone di simili per sfidare la censura sociale del politicamente corretto, quando è solo un razzista di merda (non si stupisca perciò delle conseguenze: il razzismo è un reato). Col politicamente corretto, a Saturday Night Live Belushi non avrebbe potuto fare il Samurai, Garrett Morris le “Notizie per i duri d’orecchio”, e Steve Martin e Dan Aykroyd i fratelli cecoslovacchi (poiché non sono cecoslovacchi). Facevano ridere? Molto: come negli anni 20 faceva ridere quella barzelletta sui “negri”. Lorne Michaels, il capo di Saturday Night Live, critica il politicamente corretto perché ritiene che la comicità sia utile come valvola di sfogo. Questo, però, è un problema: in cucina, la valvola di sfogo serve a non fare esplodere la pentola a pressione; in una società, la valvola di sfogo è reazionaria. Non vedo l’ora di poter tornare allo stadio.

Un operatore socio-sanitario ha abusato di una minorata mentale di 26 anni, ricoverata per Covid-19, mettendola incinta. Se ne sono accorti al settimo mese, quindi niente aborto. Forza, Barbara: c’è abbastanza materiale da farci almeno un anno di “approfondimenti”, diretta con la sala parto inclusa. Signorini, mi raccomando: lui non fartelo scappare per il prossimo Grande Fratello. Alessia! Se non è perfetta lei per Temptation Island, chi?

Ultim’ora. Trump non è più contagioso, dice il suo medico personale, Zangrillo.

 

Dissolvenza Fontana, l’arte furba di sparire

Il film è avvincente, si chiama “Dissolvenza”. Avrete notato che da quando sullo schermo sono comparsi in primo piano i famosi camici destinati agli infermieri, poi i conti in Svizzera, poi il padiglione della Film Commission, poi i commercialisti, è progressivamente scomparso dall’inquadratura il viso del protagonista, quell’Attilio Fontana presidente di Regione Lombardia che tanto ci aveva tenuto compagnia nei mesi dell’epidemia, con una conferenza stampa, due interviste, quattro dichiarazioni e dieci tweet ogni giorno, dall’alba al tramonto.

Ora più nulla. Sparito dentro i labirinti del padiglione intasati dai 75 mila camici e dagli scatoloni dei 2 milioni e mezzo di vaccini antinfluenzali pagati il triplo dalla Regione Veneto, ma senza spiegarci perché.

Mangiando popcorn, stiamo aspettando che ricompaia, magari insieme con tutta la compagnia cantante, la moglie, il cognato, gli avvocati, oltre naturalmente al suo capo, Matteo-49milioni-Salvini, che per distrarci strilla da Lampedusa. Le dissolvenze, al cinema, arrivano nel finale, quando Bogart resta e l’aereo con Ingrid parte. Ma qui siamo solo all’inizio. Nessuno, in questo film, partirà per amore, al massimo per la latitanza.

Ti annoi? Cerchi un lavoro? Puoi sfidare Virginia

Ti annoi? Cerchi un lavoro? Hai bisogno di visibilità? Vuoi rifarti una vita? Il tuo talk è in crisi di ascolti? La tua ragazza ti ha lasciato? Niente paura, anche tu puoi candidarti a sindaco di Roma, anche tu come tanti puoi sfidare Virginia Raggi. È facile, possono riuscirci tutti, basta seguire alcune semplici regole e compilare l’apposito modulo.

Scegli il tuo sponsor. Se vuoi candidarti col Pd, premi il tasto 1 e comparirà l’immagine di Goffredo Bettini. Procurati un suo testo (molto consigliato Agorà. L’ago della bilancia sei tu), provvedi a riportarne sui social i passaggi più significativi e attendi fiducioso. Ricordati che il prescelto dipende da lui, altro che gazebi e primarie. Pensa a Morassut, Bray, Riccardi, la Cirinnà, Tobia Zevi, Caudo, Ciaccheri, e ai numerosi altri di cui non si conosce, e forse non si conoscerà mai l’identità. Se ci provano loro perché non puoi provarci tu? Vuoi invece candidarti con la destra? Premi il tasto 2 e compariranno le celebri faccine di Daniele Capezzone. Sostituiscono la parola e non costano fatica. Studiale, un giorno potrebbero esserti utili. Attenzione: respingere invece risolutamente qualsiasi appoggio di Italia Viva, di Forza Italia e degli Hare Krishna.

Impara a ingiuriare la Raggi. Costituisce la base indispensabile per essere selezionati, la più efficace livella politica che annulla ogni differenza di partito, di sesso, di razza, di religione. Scegli il tuo insulto sull’apposito screen (incapace, incompetente, rovina della Capitale, Attila, bambolina insulsa, inetta, maldestra, una cretina). Non avrai bisogno di spiegare perché e, del resto, nessuno sarà interessato a saperlo (metodo Carlo Calenda). Se ti presenti come dissidente grillino hai diritto a un bonus.

Lascia che ci credano. Sei pronto finalmente ad affrontare i rutilanti palcoscenici televisivi? Esprimi grandissimo amore per la tua città e ti piange il cuore nel vedere come è stata ridotta. Non ti sbilanciare sulle cose da fare per restituire a Roma il posto che gli compete (probabilmente sono state già fatte). Quanto alla tua candidatura fai sapere di “non aver detto di no” (format Massimo Giletti), che si porta bene su tutto. Nel caso ti prendano sul serio e vogliano eleggerti sindaco, adotta il metodo Prostamol ( “mi sembra di aver sentito un rumore in garage”), e dileguati.

Bugie cinesi e non solo. Le opacità dell’Oms

Mentre i pionieri delle pandemie sono solitamente ricordati con premi scientifici e centri di studio, Li Wenliang, medico cinese che ha scoperto la patologia da SarSCoV2, è stato dimenticato. Aveva notato sette casi simili oltre un mese prima che la Cina desse l’annuncio della nuova infezione e aveva lanciato l’allarme dall’ospedale di Wuhan, dove lavorava. Rimasto inascoltato, aveva subito minacce dal regime. Moriva, per Covid-19, poco dopo. Sin da febbraio, oltre a Donald Trump che ha puntato il dito sulle bugie cinesi, si sono aggiunti altri e persino il presidente francese Macron. Proprio il governo francese aveva finanziato la costruzione del laboratorio di Wuhan, accusato di aver diffuso il virus. La trasparenza cinese è stata, in realtà, costellata da sparizioni di medici e giornalisti. Da metà marzo non si hanno più notizie della dottoressa Ai Fen di Wuhan, che ha parlato per prima della nuova infezione. Dal 12 marzo è sparito Ren Zhiqiang, già membro del Partito comunista cinese (Pcc), che ha criticato il governo per la gestione della crisi. Dovrebbe essere detenuto a Taipingzhuang, un sobborgo di Pechino. Molti intellettuali sono spariti dopo aver attaccato il governo per la scarsa trasparenza. Gli iniziali 41 casi di polmonite, nei loro racconti, sono diventati migliaia di vittime. L’attivista per i diritti umani Xu Zhiyong è recluso in una prigione segreta per “incitamento alla sovversione contro il potere dello Stato”. L’elenco è lungo. Sulle bugie della Cina si è molto discusso, fino ad attribuire all’Oms la responsabilità di rapporti poco trasparenti. Così l’Oms ha annunciato “al più presto” un “processo di valutazione imparziale, indipendente e completo”. Le verità verranno a galla? No! L’inchiesta “avverrà al momento opportuno” (quale?). Esaminerà “le misure adottate dall’Oms di fronte alla pandemia e la loro cronologia” (quale modello potrà mai valutarne le conseguenze?). E Trump minaccia di non finanziare più l’Oms. Ma intanto sono stati scoperti documenti di emissari Usa in Cina che già dal 2018 avvertivano della pericolosità delle attività di quel laboratorio.

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Saras-Isis, indagini fino a Ubi

L’inchiesta della Direzione distrettuale antiterrorismo di Cagliari non è la sola a coinvolgere la Saras. Gli inquirenti sardi accusano la società di raffinazione, quotata e controllata al 40% dalla famiglia Moratti, di avere comprato tra il 2015 e il 2016 petrolio iracheno contrabbandato dai curdi e poi dall’Isis a prezzi stracciati e di avere evaso il Fisco per almeno 130 milioni. Ma c’è anche la Procura di Brescia: secondo alcuni atti sui sistemi antiriciclaggio nel gruppo Ubi, sotto la lente dei magistrati lombardi sono finiti possibili profili di rilevanza penale di un’operazione di cessione di credito per svariati milioni, finiti in Ubi Factor tra Natale e Capodanno del 2016, che erano vantati dalla società svizzera Saras Trading nei confronti di Petraco Oil Company. L’operazione è avvenuta dopo consistenti trasferimenti di denaro tra Saras Trading e Petraco. Le società sono al centro dell’inchiesta cagliaritana che il 30 settembre ha portato alle perquisizioni negli uffici Saras in Sardegna e a Milano per ipotesi di reato che vanno dal riciclaggio al falso ai reati tributari.

Secondo alcune ricostruzioni, Saras avrebbe comprato petrolio di contrabbando da un’azienda di trading, la Petraco, che se lo sarebbe procurato tramite una sua controllata delle Isole vergini britanniche, la Edgewaters Falls. Edgewaters avrebbe comprato il petrolio in Iraq, prima dai curdi e poi dall’Isis, falsificando i documenti per farlo risultare proveniente dalla Turchia. Saras Trading, costituita a Ginevra a settembre 2015 e attiva dal 2016, è stata amministrata dai vertici della capogruppo: tra questi Dario Schiaffardi, attuale ad di Saras e in precedenza dg, consigliere e vicepresidente esecutivo, insieme al direttore finanziario Franco Balsamo e al responsabile commerciale Marco Schiavetti. Balsamo e Schiavetti sono indagati a Cagliari. Saras risponde che “l’operazione è un’ordinaria cessione pro soluto tra Saras Trading e Ubi Factor di crediti, derivanti dalla vendita di prodotti petroliferi, vantati da Saras Trading nei confronti di Petraco Oil, società di primario standing operativa a livello mondiale. Responsabilità e trasparenza sono tra gli attributi fondamentali del gruppo e delle nostre persone che hanno sempre operato in conformità alle norme, senza conflitti di sorta con alcuno”. Letizia Brichetto Arnaboldi, vedova di Gian Marco Moratti che fu presidente di Saras, nel 2016 era presidente del consiglio di gestione e dal 2019 fino a pochi mesi fa è stata presidente di Ubi Banca. Contattata, Ubi non ha risposto.

Ma Saras ha anche altri problemi. In Borsa il titolo era risalito dai minimi storici di fine settembre a 43 centesimi sino a 52, con un rialzo del 20% spinto dalle voci di un’Offerta pubblica di acquisto di un potenziale investitore, ma ieri ha chiuso a -5,14%. Sul tonfo pesa il perdurare della crisi scatenata dalla pandemia che ha spinto la raffineria sarda a mettere in cassa integrazione a rotazione i 1.300 dipendenti dal 26 ottobre fino al prossimo 30 giugno.

Scontro Italia-Montecarlo sul socio di lady Descalzi

Se davvero il governo volesse venire a capo del rebus Eni-Descalzi-Ingoba sarebbe ora che desse la sveglia al governo monegasco. Il ministero della Giustizia guidato da Alfonso Bonafede sta facendo il possibile. Al Fatto risulta che venerdì 9 ottobre il direttore generale degli Affari internazionali, Stefano Opilio, ha scritto una lettera che suona come una messa in mora delle autorità monegasche. Tutto inizia il 5 aprile del 2018. I pm di Milano fanno perquisire via rogatoria gli uffici e la casa di Alexander Anthony Haly, 38 anni, manager inglese con residenza a Montecarlo, amministratore e titolare del gruppo Petro Services, grande fornitore di servizi logistici all’Eni. I pm guidati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale indagano Haly e anche Marie Madeleine Ingoba (moglie dell’ad di Eni Claudio Descalzi) per corruzione internazionale per gli affari petroliferi di Eni in Congo. Descalzi invece è iscritto solo per omessa comunicazione di conflitto di interessi: i pm sospettano che la signora Descalzi detenesse (mediante la Cardon Investments Sa) fino a pochi giorni prima della nomina di Descalzi, nel 2014, il controllo di un grande fornitore di Eni: proprio la Petro Services. Secondo i pm il 66% della Cardon sarebbe stato ceduto nel 2014 a Haly che ne deteneva il restante 34%. Ingoba ha dichiarato di non sapere nulla della Cardon mentre Descalzi, fino al 2014 numero due dell’Eni, ha dichiarato che la moglie non gli ha mai parlato dei presunti interessi su Petro Services.

Per venire a capo dei misteri congolesi i pm milanesi il 5 aprile 2018 fanno perquisire dai monegaschi Haly. La lettura dei conti bancari del manager potrebbe essere utile (anche a beneficio di Descalzi e signora) per sgombrare il campo dai dubbi sui rapporti triangolari Haly-Eni-Lady Descalzi. Anche per il governo Conte, che ha confermato Claudio Descalzi nonostante fosse imputato per corruzione internazionale (per Opl 245 in Nigeria) e indagato per l’omessa dichiarazione su Petro Services, sarebbe fondamentale che le carte di Haly arrivassero presto a Milano. In fondo non è bello per nessuno che la società pubblica più importante d’Italia sia guidata da un amministratore sospettato di non aver comunicato che la moglie era titolare del gruppo fornitore di servizi pagati profumatamente da Eni. Come conferma Eni al Fatto: “Alle società del Gruppo Petroservices sono stati assegnati nel 2007-2018 contratti per circa 300 milioni su 10 anni”. Eni peraltro si dice “assolutamente favorevole a tutte le iniziative che possano contribuire a fare chiarezza sulle vicende”. Eppure da due anni e mezzo le carte restano a Monaco e i dubbi restano a Milano.

Il 6 giugno 2019 è stata la Corte di Appello di Monaco a bloccare tutto perché i pm non avrebbero indicato ai colleghi monegaschi le ‘parole chiave’ da ricercare nei documenti di Haly. Peccato che non sia vero. La Cour de révision di Monaco, il 7 novembre 2019 infatti ha annullato quella decisione: i pm di Milano avevano inviato un’apposita mail indicando le parole chiave. Nessuna pesca a strascico. A quel punto sono cominciati i rinvii. Il 18 marzo e il 2 luglio 2020 la Cour – con la scusa del Covid – rinvia. Tutto era pronto per la decisione ma il 2 ottobre arriva dal magistrato italiano di collegamento in Francia e a Monaco, Roberta Collidà, la notizia di un nuovo stop. La ragione? L’avvocato di Haly è impegnato in altri affari all’estero e tanto basta alla Cour di Monaco per fermare l’udienza. Il Ministero aveva già scritto al direttore degli Affari giuridici di Monaco, Robert Gelli, il 21 agosto scorso girandogli le lamentele della Procura di Milano. Gelli, che risponde solo al Principe ed è un importante giudice francese (come la presidente della Cour de révision , Cécile Petit) ha risposto un po’ piccato ma il direttore generale italiano è tornato alla carica.

Opilio, 48 anni, è noto per la sua preparazione giuridica (insegna all’Università Internazionale) ma anche per le sue doti calcistiche: è unanimemente considerato il più forte tra i magistrati della nazionale di calcio. Sempre corretto in campo si scalda molto quando subisce ingiustizie. Celebre il ‘vaffa’ dopo l’ennesimo errore arbitrale nella finale del campionato 2019 di calcio a 8 dell’Anm in quel di Palermo, vinta dai magistrati romani grazie a una doppietta di Opilio. Per far scaldare il direttore ci voleva la melina indisponente dei monegaschi. Ma stavolta per entrare nelle linee della difesa non basta nemmeno il bomber Opilio. Forse per sbloccare la pratica ci vorrebbe un intervento deciso a livello più alto. Anche Conte in fondo è considerato un ottimo calciatore.

Salvini ingrato molla la Le Pen

Il percorso di sganciamento di Matteo Salvini da Marine Le Pen per guardare verso il Ppe potrebbe iniziare oggi. Per mezzogiorno, infatti, il leader leghista ha convocato a Roma i suoi 27 europarlamentari eletti nel 2019 (erano 28 ma da poco è uscito Andrea Caroppo, facendo perdere il primato di gruppo più numeroso), che a Strasburgo stazionano in Identità e democrazia, insieme ad altri partiti di estrema destra come il Front National e i tedeschi di Afd.

Un’alleanza che negli ultimi mesi va molto stretta alla Lega. “Con Marine Le Pen ci stiamo condannando all’irrilevanza”, spiega l’ex europarlamentare Mario Borghezio. E così la pensa pure la maggior parte dei salviniani in Europa. Per questo, non senza un sacrificio politico e personale, Salvini potrebbe iniziare un percorso di sganciamento dalla Le Pen. Perché a Marine il leader leghista deve molto. È stata lei a credere in lui quando prese il partito falcidiato dalle inchieste sul cerchio magico bossiano. È stata lei a venire in soccorso al Capitano in passaggi cruciali. “L’avanzata spettacolare della Lega guidata dal nostro amico e alleato Salvini è una tappa del risveglio dei popoli!”, twittava Le Pen.

Un rapporto, tra i due, iniziato nel 2014 quando Salvini, da poco segretario, fu invitato al congresso del Front a Lione. “Mi manda in estasi. Penso sia un dirigente coraggioso”, disse Le Pen. Fino al “se fosse necessario lo sposerei”, pronunciato al comizio finale della campagna per le Europee 2019 a Milano. Un rapporto tanto intenso quanto “freddino” si può giudicare quello con Giorgia Meloni. Basti dire che, alle ultime Regionali, Le Pen ha fatto via Twitter i complimenti a Salvini per la vittoria nelle Marche, regione dove s’è imposto il candidato di FdI. Quasi un lapsus freudiano.

Ora tutto questo finirà? È probabile. Magari non oggi, non subito. Si andrà per gradi. “Salvini darà le linee generali alla truppa che non vede da un po’, non c’è all’ordine del giorno nessun cambio di gruppo”, spiegano dalla Lega. “Si può dialogare col Ppe anche restando dove siamo”, si dice ancora. Ma la strada indicata da Giancarlo Giorgetti una decina di giorni fa è chiara. Ieri, intanto, la Lega, col centrodestra, ha mandato un segnale al governo astenendosi in commissione Bilancio alla Camera sul Recovery Fund. “Ma l’esecutivo non pensi di fare tutto da solo”, avverte Salvini.

Il percorso di avvicinamento leghista al Ppe prevede prima l’iscrizione al gruppo dei “non iscritti”, un purgatorio che potrebbe durare a lungo. “Berlusconi ci ha messo 4 anni a entrare nel Ppe”, si ricorda nella Lega. Mentre secondo altri non accadrà un bel nulla. “Domani (oggi, ndr) molti di voi resteranno delusi”, sibila a mezza bocca Antonio Maria Rinaldi, sovranista doc.

Roma, l’idea Comunarie per ricompattare il M5S

Ieri sera la prima riunione del Movimento romano, oggi i lavori preparatori del Pd capitolino in vista del vertice di coalizione di domani. La corsa per il Campidoglio è partita e i giallorosa marciano più divisi che mai. Ieri i dem hanno assistito all’ennesima puntata della saga Calenda – “preferiscono i 5 Stelle a lui”, è la sintesi dei suoi sostenitori – e ancora sperano di rimuovere il “macigno” Raggi. Ipotesi praticamente impossibile che ora, nelle discussioni interne al M5S, ruota intorno a una variabile ancora da definire: si faranno le “Comunarie”? Le regole interne raccomandano ma non obbligano: così, i fan della Raggi le vogliono perché sanno che Virginia vincerebbe a mani basse e avrebbe la candidatura blindata; gli oppositori sperano di non farle per tenere aperta la strada dell’accordo giallorosa. Lo scollamento tra gli attivisti e gli eletti non è proprio un dettaglio, a Roma: ieri, per dire, è stato cacciato all’improvviso da una giunta municipale l’assessore Dario Pulcini, scatenando la rivolta della base grillina che 24 ore prima lo aveva indicato come proprio rappresentante all’assemblea online di ieri sera. Dove, per la prima volta, si confronteranno le due anime del Movimento, con la “governista” Paola Taverna e il “purista” Alessandro Di Battista. In mezzo, la sindaca che vuole il bis e che sta facendo di tutto per non finire fagocitata dalle opposte fazioni.

In questo scenario gli Stati generali prendono forma, tra i mal di pancia di iscritti ed eletti vicini allo stesso Di Battista (e spesso a Davide Casaleggio), che chiedevano un congresso, con mozioni contrapposte. Ma i big del Movimento vogliono “solo” un confronto sui temi, che tracci un programma e i nuovi “valori”, immaginando anche una struttura per il M5S. “Ma niente mozioni, non sono previste” come ha spiegato la settimana scorsa al Fatto il capo politico reggente Vito Crimi. E una fonte di governo conferma: “Non siamo pronti per istituzionalizzare le correnti”. Così la parola d’ordine è Stati generali tematici: da svolgere in fretta, per poi votare a novembre su Rousseau la nuova governance, cioè la segreteria. Prima però ci saranno le assemblee regionali e provinciali, previste in tutta Italia tra il 23 e il 25, a cui potranno partecipare tutti gli iscritti, compresi eletti e ministri. E proprio a livello locale verranno scelti i rappresentanti territoriali che si riuniranno a Roma, in un numero ancora da stabilire (Crimi ha parlato di 300 persone, ma dipenderà dalla pandemia).

Una settimana dopo ci sarà una riunione nazionale per “sgrossare” le proposte dei vari territori “e fare sintesi”. Quindi spazio alla due giorni romana, che dovrà costruire uno o più documenti da sottoporre al voto sul web. Subito dopo, le votazioni per scegliere la guida politica. Domenica davanti ad alcuni attivisti Alessandro Di Battista si è mostrato disponibile ad accettare una segreteria. L’obiettivo dei big è farlo entrare, per sminarlo. Con Luigi Di Maio che ha in testa questo schema: se Di Battista e altri maggiorenti come Roberto Fico entreranno nell’organo collegiale dovrà farne parte anche lui. Altrimenti, spazio a una segreteria con nomi designati dai big. Dove Di Maio vorrebbe ancora inserire la sindaca di Torino, Chiara Appendino. Ma sul futuro incombe la guerra con Casaleggio, che batte un colpo tramite Enrica Sabatini, membro dell’associazione Rousseau. “Questi giorni sono stati un giro della morte, ma stiamo riprendendo quota grazie al supporto di migliaia di attivisti” scrive Sabatini sul blog delle Stelle, dove annuncia per venerdì la presentazione in videoconferenza di una nuova app, Rousseau X. Con Casaleggio: l’avversario, di molti.