A Gilbert, un tranquillo sobborgo della città di Phoenix, due gruppi si affrontano tutti i giovedì dall’inizio dell’estate. Per delle ore, nelle pianure desertiche dell’Arizona, sud degli Stati Uniti, i sostenitori del presidente Donald Trump, armati fino ai denti, sfilano a decine con i loro fucili AR-15 semiautomatici, in segno di solidarietà con le forze dell’ordine. Gli tengono testa dei giovani del movimento Black Lives Matter, anche loro armati, che invece sostengono gli afroamericani vittime delle violenze della polizia: “Fu… Donald Trump hey hey”, cantano.
Una decina di uomini con addosso delle polo nere Fred Perry, alcuni dei quali con diversi tatuaggi sul corpo, osserva la scena un po’ in disparte, ma tenendosi sul lato dei pro-Trump. Passano quasi inosservati. Di loro si sa poco, tranne che sono molto attivi sui social network, e soprattutto su Facebook, che usano regolarmente per organizzarsi e reclutare nuovi membri. Quel giorno, a Gilbert, il gruppo si è messo con discrezione a distribuire volantini, su cui figura, ben in vista, l’indirizzo mail di un servizio di messaggistica criptato. “Proud Boys: unisciti a noi”, si legge. Non è indicato invece nessun account Facebook, ma non c’è da stupirsi: i Proud Boys (letteralmente “Uomini fieri”) sono stati ufficialmente banditi dal social. L’annuncio era stato fatto dallo stesso Facebook nell’ottobre 2018, dopo che diversi membri del gruppo erano stati arrestati a New York per aver aggredito un manifestante, molto probabilmente un attivista Antifa. Il gruppo dei Proud Boys, creato nel 2016 dal canadese-britannico Gavin McInnes, co-fondatore della rivista Vice, e cresciuto molto rapidamente su Internet, è stato classificato nel 2018 dall’Fbi come un gruppuscolo “estremista” di destra. Lo scorso giugno, Facebook, da cui dunque normalmente il gruppo era stato bandito due anni prima, ha annunciato invece di aver sospeso 358 account collegati ai Proud Boys.
Il motivo? Gli autori delle pagine in questione utilizzavano i loro account per organizzare i prossimi raduni, come quello di Gilbert, col rischio quindi che si verificassero nuove violenze. Nel clima attuale di tensione in cui vivono gli Stati Uniti, tornano attuali le critiche già rivolte in passato ai colossi della Silicon Valley, accusati di inerzia nei confronti dei suprematisti bianchi. L’assenza di moderazione di certi contenuti da parte loro potrebbe costituire un incitamento all’odio. Il caso dei Proud Boys è solo un esempio tra i tanti. La questione è esplosa negli Stati Uniti negli ultimi mesi di campagna presidenziale. “È ormai evidente che da parte di Facebook e del suo ceo, Mark Zuckerberg, non c’è più solo una forma di negligenza ma anche di compiacenza, e questo malgrado i danni irreversibili che si causano alla nostra democrazia. Tali comportamenti rischiano di minare l’integrità delle nostre elezioni”, ha osservato durante l’estate il presidente della Naacp, l’organizzazione di difesa dei diritti dei neri e co-organizzatore della campagna #StopHateforProfit, che invita gli inserzionisti a boicottare Facebook. Sotto la pressione dall’opinione pubblica e delle associazioni, i giganti americani del Web sono stati costretti ad agire. La svolta si è verificata lo scorso maggio, poco dopo la morte di George Floyd, il 46nne afroamericano morto soffocato sotto il ginocchio del poliziotto che lo aveva fermato, a Minneapolis (Minnesota).
“In caso di saccheggi, si comincia a sparare”, aveva scritto Donald Trump su Twitter all’epoca, minacciando di inviare la Guardia nazionale a Minneapolis dopo diverse notti di disordini. Il post, pur restando visibile agli utenti, per la prima volta era stato segnalato dal social network, scatenando l’ira del presidente. Il post in questione, aveva indicato Twitter, ha violato il codice di condotta del social relativo “all’esaltazione della violenza”. Se il ceo di Facebook ha rifiutato in un primo tempo di agire, in nome del primo emendamento della Costituzione americana che sacralizza la libertà di espressione, Zuckerberg ha finito a sua volta per annunciare nuove misure, comprese le segnalazioni allegate ai post delle personalità politiche. Per quanto riguarda i gruppi di estrema destra, Facebook sta implementando nuove strategie per combatterli, misure che si aggiungono ai negative feedback degli utenti e dell’algoritmo già esistenti. Secondo il magazine americano Mother Jones, Facebook traccerebbe per esempio la totalità dei contatti legati allo specifico gruppuscolo preso di mira, prima di sopprimerli tutti contemporaneamente. I Proud Boys Arizona, sentiti a Gilbert, hanno respinto tutte le accuse e anzi hanno denunciato la censura di cui sarebbero vittime. “Come è possibile che i Proud Boys siano razzisti se io stesso sono un nero americano?”, sostiene Sean, portavoce del gruppo, sulla trentina, pelle scura e occhi chiari. I Proud Boys non sono né razzisti, né sessisti, né antisemiti, né violenti, sono solo conservatori, riassume Sean. “Non ho mai pubblicato un post su Facebook, eppure il mio account è stato soppresso – dice il giovane, che quando era ragazzino, spiega, aveva fatto parte di una gang –. Ah sì, l’unica cosa che ho scritto una volta su Facebook – si è poi corretto – è che i Proud Boys amano tutti”. Secondo un recente rapporto del Southern Poverty Law Center, una fondazione che scova e denuncia i movimenti di estrema destra, i gruppi suprematisti bianchi sono cresciuti del 55% durante il mandato di Donald Trump.
A maggio, il Wall Street Journal ha rivelato uno studio interno di Facebook del 2016, per il quale il 64% delle persone che hanno aderito a un gruppo estremista sulla piattaforma lo aveva fatto seguendo i suggerimenti di amicizia avanzati da Facebook stesso. Un meccanismo che ha anche fatto di YouTube uno degli strumenti di divulgazione più potenti del pianeta. Il 70% degli oltre un miliardo di ore di video visionati in tutto il mondo ogni giorno, sono infatti legati ai consigli inviati automaticamente dall’algoritmo dell’azienda. Su YouTube, i video che promuovono QAnon, un movimento complottista di estrema destra, pro-Trump, sono stati raccomandati da You Tube diverse migliaia di volte nel 2019, secondo uno studio dell’Università di Berkeley, in California. Twitter, inoltre, secondo il ricercatore J.M. Berger, conterebbe almeno 100 mila utenti dell’Alt-right. Tutto questo “dovrebbe incoraggiare i giganti del tech a fare molto di più”, sostiene la ricercatrice Megan Squire, specialista degli estremismi sul web.
Nell’ottobre 2018, quando Facebook ha bandito i Proud Boys dal social, la ricercatrice ha infatti individuato cinque account rimasti attivi malgrado la soppressione dell’account principale. Per restarlo hanno seguito una tecnica molto semplice: è bastato cambiare il nome, abbreviando Proud Boys in “Pb”. Samantha Kutner del Khalifa Ihler Institute, che studia i Proud Boys, rileva un’altra difficoltà: la duplicità della loro retorica. “È più importante osservare le loro azioni che il loro discorso e il modo in cui si presentano. Loro, invece di parlare per esempio di patriottismo aggressivo, tendono a utilizzare l’espressione di “sciovinismo occidentale”. Sostengono di amare le donne di casa, quando si tratta invece di esercitare un controllo sui loro corpi. Di conseguenza non lanciano appelli alla violenza, ma tendono piuttosto a farsi passare per vittime”. In Arizona sono stati segnalati venti gruppi che istigano all’odio nel 2019. Tra questi anche i Proud Boys.
Negli ultimi anni i loro attivisti hanno partecipato a tutti i principali raduni suprematisti, da Charlottesville a Portland. Durante il primo dibattito della campagna per le elezioni presidenziali di novembre, il presidente Donald Trump, invece di condannare i movimenti di estrema destra, ha preferito invitare i Proud Boys a “tenersi pronti”. Da parte sua, Sean, il portavoce del gruppo in Arizona, assicura che non sono una “milizia”: “Ma se vengono attaccate delle persone innocenti – aggiunge subito – ovviamente le difenderemo”.