Gare e camici, l’Anticorruzione regionale non si accorge di nulla

Nessuno se n’è accorto, ma la Regione Lombardia ha una sua agenzia anticorruzione. Si chiama Orac (Organismo regionale anticorruzione), è stata costituita nel settembre 2018, anche se è davvero funzionante solo dall’ottobre 2019, e ha come presidente un magistrato di gran fama, Giovanni Canzio, già presidente della Corte d’appello di Milano e poi primo presidente della Corte di cassazione. Ha appena varato la sua prima semestrale, un ponderoso documento, con gli allegati, di 121 pagine. In quei fogli, però, non c’è traccia alcuna degli scandali che hanno investito nei mesi scorsi la Regione Lombardia. Centinaia di appalti senza gara per l’emergenza Covid. Donazioni fantasma e forniture senza controllo per realizzare il finora inutile ospedale in Fiera. L’appalto dei camici diventato miracolosamente “donazione” da parte dell’azienda del cognato e della moglie del presidente regionale Attilio Fontana. La sede della Lombardia Film Commission venduta alla Regione al doppio del suo prezzo da parte della banda dei commercialisti della Lega. I contratti per i test sierologici con Diasorin. I vaccini antinfluenzali comprati a prezzi fuori mercato e non autorizzati.

Di queste vicende si sono occupati i giornali e la Procura della Repubblica, non l’Anticorruzione regionale, che non si è accorta di niente, non ha visto niente, non ha aperto alcuna istruttoria. Da ottobre a dicembre 2019 l’Orac ha tenuto nove riunioni, 23 da gennaio a giugno 2020. I nove membri dell’Anticorruzione hanno intascato finora compensi per 340 mila euro (55,6 mila euro il presidente Canzio, 41,7 a testa gli altri). Ma non hanno acceso alcun faro sui tanti casi di gare, incarichi e appalti che pure hanno attirato l’attenzione della stampa e anche dei magistrati. La relazione semestrale segnala due sole istruttorie aperte dall’Orac: su alcune nomine ad Areu (l’azienda regionale delle emergenze) e all’istituto neurologico Besta. Nessun controllo sulle gare, sugli appalti, sull’attività di Fnm e Trenord, nessuna verifica su Finlombarda (la finanziaria regionale) o su Aria (la centrale acquisti della Regione).

BoJo: lockdown a 3 livelli. E anche Macron ci pensa

Si va verso nuovi lockdown locali nel Regno Unito. Il giro di vite annunciato ieri da Boris Johnson, al termine di una riunione del comitato d’emergenza Cobra, riguarderebbe per ora soprattutto il Nord dell’Inghilterra, dove i dati epidemiologici si aggravano di giorno in giorno. Liverpool, ma anche Manchester e Newcastle. L’allarme è del National Health Service: nel Nord dell’Inghilterra i pazienti Covid sono più numerosi oggi che a marzo e senza nuove misure, avvisano le autorità sanitarie, il numero di morti, diventerebbe “insopportabile”. Un nuovo sistema di allerta “a tre livelli”, medio, alto e molto alto, è stato dunque introdotto ieri dal premier britannico. Nelle zone a livello molto alto, bar e pub dovranno chiudere, così come palestre e sale da gioco, e bisognerà limitare i contatti sociali.

Anche in Francia parlare di lockdown locali non è più tabù: “Non si può escludere nulla data la situazione negli ospedali – ha detto ieri il primo ministro Jean Castex –. La seconda ondata è iniziata ed è forte”. Sono circa 1.500 i malati nei reparti di terapia intensiva in Francia. A Parigi il 42% dei letti di rianimazione è occupato da malati Covid. Qui, come a marzo, gli ospedali hanno attivato il piano d’emergenza che permette di liberare letti e rinviare operazioni chirurgiche non urgenti. Il tasso medio di positività ai test è ormai di 11,8%, ma schizza al 17% nella Capitale. Da oggi anche Tolosa e Montpellier entrano in zona di allerta massima. Lo sono da sabato scorso Lille, Grenoble, Lione e Saint-Etienne che avevano a loro volta raggiunto Marsiglia, Aix-en-Provence e Parigi. In queste città, bar, palestre e piscine sono chiuse. I ristoranti restano aperti, ma con un rigido protocollo. Si attende il bilancio di Macron domani sera in tv alle 20: possibile l’annuncio di un coprifuoco (come già in vigore a Berlino e Francoforte).

Anche la Germania deve far fronte a un aumento delle infezioni. Berlino ha bandito la movida notturna e da sabato ha imposto un coprifuoco a bar e ristoranti, tenuti a chiudere tra le 22 e le 6 del mattino, fino al 31 ottobre. Misure simili sono già state prese anche a Colonia e a Francoforte. La Germania, finora piuttosto risparmiata dall’epidemia, con poco più di 9.600 morti, guarda ora con preoccupazione i dati dell’istituto Robert Koch, che ogni giorno registra tra tremila e quattromila nuovi casi. Né si escludono nuove misure, compresi ulteriori controlli alle frontiere, per tenere a bada un’epidemia che rischia di diventare “incontrollabile”.

In Spagna, nuove restrizioni sono previste da oggi in Catalogna e in Navarra. Qui i bar e ristoranti devono ormai chiudere alle 22, i cinema, teatri e supermercati limitare gli ingressi e le università privilegiare i corsi da casa. Da venerdì scorso a Madrid e nella sua regione è stato decretato lo stato d’emergenza, imponendo un lockdown parziale a quattro milioni e mezzo di abitanti per almeno quindici giorni: nessuno può uscire dalla città, se non per motivi medici, di lavoro o di studio. A Madrid il tasso di contagio è altissimo, più di 560 casi positivi per 100 mila abitanti.

Terapie intensive, all’appello mancano 4 mila anestesisti

L’obiettivo: evitare che i medici tornino a dover decidere chi intubare e chi lasciar morire come accaduto durante la prima ondata che tra marzo e aprile ha travolto gli ospedali del Nord. Rispetto alle settimane atroci della Fase 1 la situazione è migliore: oggi in Italia ci sono 6.458 posti in terapia intensiva e altri 14mila nei reparti di sub intensiva. Ora, ha detto domenica il commissario all’emergenza Domenico Arcuri a Mezz’ora in più su Rai 3, “stiamo implementando altri 3.400 posti in rianimazione e altri 4.200 in sub intensiva”. Bene. Ma il punto è che letti e tecnologie non bastano: servono gli specialistiche sappiano usarli. “Mancano 4 mila anestesisti rianimatori”, è l’allarme lanciato da Alessandro Vergallo, segretario nazionale di Aaroi Emac, associazione che rappresenta 11 mila medici ospedalieri di categoria.

Quattromila posti vacanti nei reparti nevralgici per la lotta al Covid-19, che si aggiungono a 3 mila tra pneumologi, infettivologi, medici di emergenza urgenza e pediatri che servono nelle terapie sub-intensive. “Un totale di 7 mila specialisti che non ci sono”, secondo Carlo Palermo, segretario nazionale di Anaao Assomed, sindacato dei medici dirigenti. “Nel pieno dell’emergenza della primavera, siamo riusciti a sopperire con la riorganizzazione dei turni, il ricorso agli straordinari e la sospensione delle attività non d’urgenza nelle sale operatorie – prosegue Vergallo –. Ma è evidente che di fronte a una seconda ondata così non potremmo reggere”. “Il numero dei pazienti aumenta, lento ma costante – conferma Giuseppe Galano, presidente di Aaroi-Emac Campania –. Noi ne abbiamo uno o 2 in più ogni giorno. Solo nella nostra Regione mancano 200 anestesisti. Ora sta salendo anche l’età media dei pazienti: oggi è oltre i 40 anni. Temiamo una nuova ondata di anziani con comorbilità che farebbe crescere il tasso di mortalità”.

Il problema non riguarda solo le terapie intensive. “C’è un erroneo convincimento – spiegano dal Comitato tecnico-scientifico – per cui si riteneva normale che malati trattati con ventilazione non invasiva e ossigeno ad alto flusso restassero fuori dalle terapie intensive poiché non c’erano letti. È sbagliato: il posto di questi malati è in terapia intensiva. Quindi oggi, se c’è disponibilità, vengono messi in rianimazione per poterli trattare meglio e proteggerli più rapidamente nel momento in cui dovessero precipitare: si trovano nel posto giusto per poter salire nel livello delle cure”. Ma anche qui manca personale: “In questi reparti – prosegue Vergallo – gli anestesisti intervengono insieme ad altri specialisti, come pneumologi e infettivologi”. Secondo l’Anaao ne mancano 3 mila. “Inutile investire sull’hardware, cioè sui posti letto, se poi non c’è il personale”, conferma Adriano Benazzato, segretario del Veneto. La Regione di Luca Zaia ha assunto 270 medici, ne mancano ancora un migliaio. Il numero dei camici bianchi è lo stesso della Toscana, solo che il primo ha quasi 5 milioni di abitanti, mentre la seconda non arriva a 4. C’è carenza anche in Lombardia (sotto di 1.900 unità) e in Piemonte (530 specialisti in meno). In Campania, dove Vincenzo De Luca si è detto pronto a prevedere altri 22 mila posti letto, praticamente non ci sono specialisti dell’emergenza-urgenza: ne servirebbero 800. Ulteriore problema: a fine anno scadranno i contratti degli specializzandi – un migliaio – reclutati dalle Regioni grazie al decreto 14 del 9 marzo. A quel punto, se non si interverrà, ci saranno altri mille camici bianchi appesi al chiodo.

Intanto continua a emergere la differenza tra il numero dei pazienti ospitati nelle rianimazioni e quello comunicato ogni giorno dalle istituzioni. Nella riunione del Cts di domenica c’è chi ha fatto notare che nel bollettino della Regione Lazio di sabato risultavano occupati 59 letti in terapia intensiva quando in realtà erano 133. “Sì, ci sono discrepanze – spiegano dal Cts –. Non sono drammatiche, ma devono far riflettere. Stiamo cercando di capire a cosa sono dovute. Una delle ragioni è la tempistica della raccolta dati. Se una struttura è sovraccarica e riporta più tardi del dovuto, ecco che già il numero comunicato si discosta dalla realtà”.

Bar e movida, feste e matrimoni: ecco la stretta soft del governo

Sono vietate le feste all’aperto e al chiuso: massimo 30 persone per i ricevimenti di nozze e battesimi, non più di 6 nelle case, ma il limite è solo “raccomandato”. Tetto del 15 per cento della capienza per gli spettatori degli eventi sportivi fermo restando che non si può andare sopra i mille in Serie A. Bar e locali chiusi alle 24 con divieto di consumazione all’aperto dalle 21, salvo servizio al tavolo. Stop a calcetto, basket, boxe e sport di contatto amatoriali mentre le attività delle federazioni proseguiranno. Mascherine anche in casa se ci sono non conviventi. Limiti confermati per cinema e teatri salvo deroghe già previste. E ancora, incremento dello smart working e stop alle gite scolastiche.

Il nuovo Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) è pronto, Giuseppe Conte e i ministri della degli Affari regionali e della Salute, Francesco Boccia e Roberto Speranza, ne hanno discusso fino a ieri sera nella “cabina di regia” con il presidente della Conferenza Stato-Regioni Stefano Bonaccini e il presidente dell’Anci (Comuni) Antonio Decaro. Ieri sera gli uffici legislativi stavano limando il provvedimento che per la prima volta da maggio introduce restrizioni, sia pure limitate, per contenere il Coronavirus. Le resistenze dei rappresentanti degli enti locali si sono concentrate sui locali. A evitare le chiusure anticipare dei bar ha provato Decaro, sindaco di Bari, che ha chiesto anche di incentivare lo smart working e di differenziare gli orari di apertura delle scuole per diluire il più possibile la circolazione sulle strade e sugli autobus. “L’epidemia sta assumendo dimensioni che ci obbligano a nuove misure. Dobbiamo, allo stesso tempo, tenere aperto il Paese e tutelare soprattutto lavoro e scuola”, ha detto Boccia.

Per i locali della movida il governo ha retto sulle ore 24, scartando l’ipotesi di arrivare all’una di notte, ma d’altro canto il “rigorista” Speranza all’inizio chiedeva lo stop alle 22 o alle 23. Dalle 21 non si potrà consumare all’aperto, almeno in piedi vicino ai locali: i controlli toccheranno soprattutto alle polizie locali, come disposto dal Viminale. Trattativa anche su eventi sportivi e spettacoli: sui primi il governo partiva dal 10 per cento della capienza, gli enti locali hanno strappato il 15, fermo restando il tetto massimo di mille spettatori; per cinema e teatri restano in vigore le ordinanze regionali. Non ci sono provvedimenti per la scuola, né sui trasporti per i quali la capienza massima rimane l’80 per cento con l’impegno a fare più verifiche. Se il limite dovesse scendere al 50 per cento c’è l’ipotesi di didattica a distanza per le superiori, avanzata da alcune Regioni.

Il governo corre ai ripari, è il primo passo sulla scala che ne prevede altri due fino al lockdown che nessuno vuole all’aumentare del tasso di riproduzione del virus Rt e di altri indici sanitari. L’ultimo monitoraggio, che si ferma al 4 ottobre e dunque prima del raddoppio dei casi giornalieri da circa 2.500 a oltre 5.000, fissava Rt a 1,06: vuol dire che una persona infetta ne contagia in media più di una e la curva epidemica sale. Ieri il dato è sceso, sono 4.691 i casi registrati da domenica e le Regioni che ne contano di più sono sempre Lombardia e Campania: 696 e 662. Ma come ogni lunedì ci sono meno tamponi: 85 mila dopo cinque giorni sopra i 100 mila e fino a 130 mila ogni 24 ore. Infatti continua a crescere il rapporto positivi/tamponi: 5,4 per cento; fino al 7 ottobre non aveva mai superato il 3. Il morti sono stati 39, anche qui con un aumento rispetto ai giorni scorsi (il totale ufficiale è 36.305). Negli ospedali si contano 302 ricoverati in più nei reparti ordinari (per un totale di 4.821 in tutta Italia) e 32 nelle terapie intensive (452 in totale).

Intanto il ministero della Salute ha varato le nuove regole sulla quarantena, dopo il via libera del Comitato tecnico scientifico: non più 14, ma 10 giorni per i contatti stretti dei positivi, purché con tampone molecolare o test antigenico rapido alla fine; senza test i giorni restano 14. Dieci giorni di cui tre senza sintomi per i positivi, con tampone molecolare negativo (fino a ieri erano due a 24 ore l’uno dall’altro). O al massimo 21 giorni: anche se il tampone è positivo, il soggetto non è più ritenuto contagioso. I test, secondo governo e Cts, potranno farli anche i medici di famiglia, chiamati a rimediare ai limiti delle Asl, ma le loro associazioni resistono: i nostri studi, dicono, non sono attrezzati.

Il Cavalier Bollito

Ho trovato! Da mesi mi domandavo che ci faccia Giulio Gallera ancora all’assessorato alla Sanità della Lombardia e cosa debba fare di più per essere accompagnato alla porta e smettere di fare danni in aggiunta al Covid. Non è bastato che il 23 febbraio suoi dirigenti riaprissero il pronto soccorso di Alzano senza sanificarlo poco dopo l’esplosione del contagio. Non è bastata l’ordinanza che invitava le Rsa a ospitare i malati di Covid appena dimessi dagli ospedali, per un banale equivoco tra il concetto di guarigione e quello di non-contagiosità. Non sono bastati i suoi no alla zona rossa in Val Seriana e la sua ignoranza della legge 833/1978 che gliela consentiva ma lui l’ha scoperta (“Ah, già!”) solo quando ne ha parlato Conte, manco fosse una leggina qualunque e non quella intitolata “Istituzione del Servizio Sanitario nazionale” che regola i suoi poteri. Non è bastata la tragicommedia del Bertolaso Hospital, la terapia intensiva costruita in Fiera a distanze siderali dal più vicino ospedale, costata 30 milioni e rimasta ovviamente deserta. Non è bastata l’ordinanza che imponeva le mascherine all’aperto in Lombardia e, siccome non ce n’erano, suggeriva alternative tipo “sciarpe o foulard” (ma anche, ad libitum, maschere da sub, cappucci massonici, colli di visone, burqa, caschi da parrucchiere o palombaro o astronauta, passamontagna da rapinatore, elmi da crociato, maschere di carnevale, zucche di Halloween ecc.).

Non è bastata la lettera di tutti gli Ordini dei medici della Lombardia che faceva a pezzi le sue scelte e la sua risposta che li accusava di “fare politica”. Non è bastata neppure la sua pur notevole spiegazione dell’indice R0 (la media statistica delle persone infettate da ogni positivo): “L’indice di contagio in Lombardia è allo 0,51: vuol dire che bisogna trovare due persone infette allo stesso momento per infettare me. E non è così semplice trovarle. Questa è l’efficacia della nostra azione e ciò che ci fa star tranquilli”. Forse l’han lasciato lì per divertirsi a fingersi positivi e sentirgli dire: “Mi sputi pure in faccia, tanto per contagiarmi dovete essere in due”. O perché ha battuto la testa giocando a paddle e si sperava che fosse rinsavito. Invece il Gallera della seconda ondata è ancor più Gallera di prima: sui vaccini dell’influenza ha fatto un tal casino che ora li paga 26 euro l’uno anziché 5, l’Aifa gli ha bocciato quelli cinesi. E noi tutti lì a domandarci come possa restare assessore. Poi un amico mi ha girato una sua intervista del 2018 a un sito gastronomico, con uno strepitoso coming out: “Sono Cavaliere del Bollito Misto”. Quindi ogni sera lo servono in tavola sul carrello dei lessi, in salsa verde. Ora bisogna soltanto attendere che lo levino dal menu.

“Alla musica per ripartire serve la trasparenza”

“Se proprio non si vuole sostenere il nostro settore per amore dell’arte, lo si faccia almeno per l’economia: anche noi muoviamo una parte consistente del Pil”. Le chiacchierate con Elisa hanno sempre bisogno di sedimentare prima di essere raccontate, perché quest’artista ha la capacità di dire cose che altri urlerebbero, con la dolcezza e la pacatezza che le rendono ancora più incisive. “Se ho fatto io qualcosa fuori dall’ordinario (come altri colleghi), perché non può farlo la politica?”. Il fuori dall’ordinario è un tour estivo sold out, che si è concluso sabato scorso nella sua terra, Udine, il cui incasso è stato destinato interamente ai musicisti e alla crew. “C’era gente che rischiava di non passare l’inverno”.

Proviamo a rivivere i mesi che l’hanno portata a questa decisione. Com’è andato il lockdown in casa Toffoli-Rigonat (il marito di Elisa, Andrea, è anche il suo chitarrista, ndr)?

L’anno scorso avevamo realizzato un centinaio di concerti. I lunghi periodi di assenza da casa capitano spesso, e altrettanto spesso i bambini vengono con noi. Sono abituati alle lezioni via Skype, ai compiti da svolgere in giro per il mondo. Come pure, io di solito non faccio la spesa in un centro commerciale: l’amore dei fan è un onore, ma a volte non mi permette una vita del tutto normale. Quindi, all’inizio, la quarantena non è stata un grosso trauma. Anche perché siamo fortunati: viviamo in campagna, in un paese piccolo e in una regione che ha avuto pochi contagi.

All’inizio non è stato difficile. Poi?

Sono una persona reattiva, anche quando sono a terra cerco di spaccare tutto. Tenevo la tv spenta per proteggere i bambini, tentavo di fare il giullare. Però dentro morivo. La sera mi saliva un’angoscia pazzesca… me la sentivo in gola.

Renato Zero ha scritto tre album durante il lockdown, Niccolò Fabi invece è rimasto in silenzio. Lei?

Mi sento più vicina a Niccolò. Ho scritto, sì, ma non posso dire che la quarantena mi abbia ispirata. L’ispirazione è una cosa bella, io ne sono uscita provata.

La prima cosa che avete fatto una volta “liberi”?

Abbiamo preso le bici e siamo andati a fare un giro. Sembrava di stare su Marte.

Tra i provvedimenti d’emergenza adottati per far fronte alla crisi, il governo ha trascurato a lungo del settore degli spettacoli dal vivo. Un mondo di cui tutti godiamo, ma che sembrava non esistere.

Scontiamo un ritardo di 35 anni.

Cioè?

Facciamo parte di una macchina dagli ingranaggi complessi, in cui esistono ruoli fondamentali ma apparentemente invisibili, e per questo difficili da spiegare. Avremmo dovuto, molti anni fa, istituire un database con i nomi dei lavoratori, in trasparenza e nel rispetto delle regole. In questo modo oggi tutti saprebbero con chiarezza quanti siamo e quanto valiamo.

Le misure adottate dal governo con il Decreto Rilancio non sono bastate?

Non tutti i lavoratori rispondono ai requisiti richiesti. E poi bisogna pensare che il nostro settore non è ripartito con la fine del lockdown. È tutto fermo e andiamo incontro all’inverno. Alla fine sarà un anno di stop.

Quindi lei ha deciso di muoversi in autonomia.

Quando ho saputo che qualcuno dei miei si stava mettendo a cercare un nuovo lavoro, mi sono data una mossa. Le persone devono pagare l’affitto, mangiare. Così loro hanno percepito il doppio del solito e artista, management e agenzia hanno lavorato gratis.

E il suo pubblico l’ha capito subito.

C’è un’Italia migliore di quella che ci viene rappresentata, e le tragedie ce lo ricordano: siamo un esempio di solidarietà per tutto il mondo. Dovremmo solo recuperare la capacità di unirci per far rispettare i nostri diritti. Ma dovremmo farlo da una posizione autorevole, quella di chi rispetta la legge e paga le tasse.

Anche all’estero la sua iniziativa ha destato interesse?

Il direttore di IQ, una rivista del settore molto seguita, è rimasto colpito e ha deciso di occuparsi di questo tour. E così molti addetti ai lavori. Nel resto del mondo sono paralizzati, ma credo basti un po’ di buona volontà.

Sta bacchettando i suoi colleghi?

Il prete non l’ho mai fatto e non lo voglio fare. Ognuno ha la propria coscienza. Io so solo che non ci dormivo la notte.

Come ne usciremo?

Quando ne usciremo… La crisi sarà lunga: mettiamo in piedi questo database e almeno non saremo più invisibili.

Proud boys: i ‘veri americani’ di cui Trump è orgoglioso

A Gilbert, un tranquillo sobborgo della città di Phoenix, due gruppi si affrontano tutti i giovedì dall’inizio dell’estate. Per delle ore, nelle pianure desertiche dell’Arizona, sud degli Stati Uniti, i sostenitori del presidente Donald Trump, armati fino ai denti, sfilano a decine con i loro fucili AR-15 semiautomatici, in segno di solidarietà con le forze dell’ordine. Gli tengono testa dei giovani del movimento Black Lives Matter, anche loro armati, che invece sostengono gli afroamericani vittime delle violenze della polizia: “Fu… Donald Trump hey hey”, cantano.

Una decina di uomini con addosso delle polo nere Fred Perry, alcuni dei quali con diversi tatuaggi sul corpo, osserva la scena un po’ in disparte, ma tenendosi sul lato dei pro-Trump. Passano quasi inosservati. Di loro si sa poco, tranne che sono molto attivi sui social network, e soprattutto su Facebook, che usano regolarmente per organizzarsi e reclutare nuovi membri. Quel giorno, a Gilbert, il gruppo si è messo con discrezione a distribuire volantini, su cui figura, ben in vista, l’indirizzo mail di un servizio di messaggistica criptato. “Proud Boys: unisciti a noi”, si legge. Non è indicato invece nessun account Facebook, ma non c’è da stupirsi: i Proud Boys (letteralmente “Uomini fieri”) sono stati ufficialmente banditi dal social. L’annuncio era stato fatto dallo stesso Facebook nell’ottobre 2018, dopo che diversi membri del gruppo erano stati arrestati a New York per aver aggredito un manifestante, molto probabilmente un attivista Antifa. Il gruppo dei Proud Boys, creato nel 2016 dal canadese-britannico Gavin McInnes, co-fondatore della rivista Vice, e cresciuto molto rapidamente su Internet, è stato classificato nel 2018 dall’Fbi come un gruppuscolo “estremista” di destra. Lo scorso giugno, Facebook, da cui dunque normalmente il gruppo era stato bandito due anni prima, ha annunciato invece di aver sospeso 358 account collegati ai Proud Boys.

Il motivo? Gli autori delle pagine in questione utilizzavano i loro account per organizzare i prossimi raduni, come quello di Gilbert, col rischio quindi che si verificassero nuove violenze. Nel clima attuale di tensione in cui vivono gli Stati Uniti, tornano attuali le critiche già rivolte in passato ai colossi della Silicon Valley, accusati di inerzia nei confronti dei suprematisti bianchi. L’assenza di moderazione di certi contenuti da parte loro potrebbe costituire un incitamento all’odio. Il caso dei Proud Boys è solo un esempio tra i tanti. La questione è esplosa negli Stati Uniti negli ultimi mesi di campagna presidenziale. “È ormai evidente che da parte di Facebook e del suo ceo, Mark Zuckerberg, non c’è più solo una forma di negligenza ma anche di compiacenza, e questo malgrado i danni irreversibili che si causano alla nostra democrazia. Tali comportamenti rischiano di minare l’integrità delle nostre elezioni”, ha osservato durante l’estate il presidente della Naacp, l’organizzazione di difesa dei diritti dei neri e co-organizzatore della campagna #StopHateforProfit, che invita gli inserzionisti a boicottare Facebook. Sotto la pressione dall’opinione pubblica e delle associazioni, i giganti americani del Web sono stati costretti ad agire. La svolta si è verificata lo scorso maggio, poco dopo la morte di George Floyd, il 46nne afroamericano morto soffocato sotto il ginocchio del poliziotto che lo aveva fermato, a Minneapolis (Minnesota).

“In caso di saccheggi, si comincia a sparare”, aveva scritto Donald Trump su Twitter all’epoca, minacciando di inviare la Guardia nazionale a Minneapolis dopo diverse notti di disordini. Il post, pur restando visibile agli utenti, per la prima volta era stato segnalato dal social network, scatenando l’ira del presidente. Il post in questione, aveva indicato Twitter, ha violato il codice di condotta del social relativo “all’esaltazione della violenza”. Se il ceo di Facebook ha rifiutato in un primo tempo di agire, in nome del primo emendamento della Costituzione americana che sacralizza la libertà di espressione, Zuckerberg ha finito a sua volta per annunciare nuove misure, comprese le segnalazioni allegate ai post delle personalità politiche. Per quanto riguarda i gruppi di estrema destra, Facebook sta implementando nuove strategie per combatterli, misure che si aggiungono ai negative feedback degli utenti e dell’algoritmo già esistenti. Secondo il magazine americano Mother Jones, Facebook traccerebbe per esempio la totalità dei contatti legati allo specifico gruppuscolo preso di mira, prima di sopprimerli tutti contemporaneamente. I Proud Boys Arizona, sentiti a Gilbert, hanno respinto tutte le accuse e anzi hanno denunciato la censura di cui sarebbero vittime. “Come è possibile che i Proud Boys siano razzisti se io stesso sono un nero americano?”, sostiene Sean, portavoce del gruppo, sulla trentina, pelle scura e occhi chiari. I Proud Boys non sono né razzisti, né sessisti, né antisemiti, né violenti, sono solo conservatori, riassume Sean. “Non ho mai pubblicato un post su Facebook, eppure il mio account è stato soppresso – dice il giovane, che quando era ragazzino, spiega, aveva fatto parte di una gang –. Ah sì, l’unica cosa che ho scritto una volta su Facebook – si è poi corretto – è che i Proud Boys amano tutti”. Secondo un recente rapporto del Southern Poverty Law Center, una fondazione che scova e denuncia i movimenti di estrema destra, i gruppi suprematisti bianchi sono cresciuti del 55% durante il mandato di Donald Trump.

A maggio, il Wall Street Journal ha rivelato uno studio interno di Facebook del 2016, per il quale il 64% delle persone che hanno aderito a un gruppo estremista sulla piattaforma lo aveva fatto seguendo i suggerimenti di amicizia avanzati da Facebook stesso. Un meccanismo che ha anche fatto di YouTube uno degli strumenti di divulgazione più potenti del pianeta. Il 70% degli oltre un miliardo di ore di video visionati in tutto il mondo ogni giorno, sono infatti legati ai consigli inviati automaticamente dall’algoritmo dell’azienda. Su YouTube, i video che promuovono QAnon, un movimento complottista di estrema destra, pro-Trump, sono stati raccomandati da You Tube diverse migliaia di volte nel 2019, secondo uno studio dell’Università di Berkeley, in California. Twitter, inoltre, secondo il ricercatore J.M. Berger, conterebbe almeno 100 mila utenti dell’Alt-right. Tutto questo “dovrebbe incoraggiare i giganti del tech a fare molto di più”, sostiene la ricercatrice Megan Squire, specialista degli estremismi sul web.

Nell’ottobre 2018, quando Facebook ha bandito i Proud Boys dal social, la ricercatrice ha infatti individuato cinque account rimasti attivi malgrado la soppressione dell’account principale. Per restarlo hanno seguito una tecnica molto semplice: è bastato cambiare il nome, abbreviando Proud Boys in “Pb”. Samantha Kutner del Khalifa Ihler Institute, che studia i Proud Boys, rileva un’altra difficoltà: la duplicità della loro retorica. “È più importante osservare le loro azioni che il loro discorso e il modo in cui si presentano. Loro, invece di parlare per esempio di patriottismo aggressivo, tendono a utilizzare l’espressione di “sciovinismo occidentale”. Sostengono di amare le donne di casa, quando si tratta invece di esercitare un controllo sui loro corpi. Di conseguenza non lanciano appelli alla violenza, ma tendono piuttosto a farsi passare per vittime”. In Arizona sono stati segnalati venti gruppi che istigano all’odio nel 2019. Tra questi anche i Proud Boys.

Negli ultimi anni i loro attivisti hanno partecipato a tutti i principali raduni suprematisti, da Charlottesville a Portland. Durante il primo dibattito della campagna per le elezioni presidenziali di novembre, il presidente Donald Trump, invece di condannare i movimenti di estrema destra, ha preferito invitare i Proud Boys a “tenersi pronti”. Da parte sua, Sean, il portavoce del gruppo in Arizona, assicura che non sono una “milizia”: “Ma se vengono attaccate delle persone innocenti – aggiunge subito – ovviamente le difenderemo”.

 

“Investire oggi nell’energia fossile non ha più senso”

Jean-Pascal van Ypersele, climatologo all’Università di Lovanio, è stato vice presidente dell’Ipcc, il panel Onu che studia i cambiamenti climatici. Nel ‘95 fu il primo a dire apertamente che era innegabile la responsabilità dell’uomo per il riscaldamento globale. Nel 2022 si candiderà come presidente dell’Ipcc.

Professore, i governi produrranno il 50% in più di energie fossili fino al 2030. È sorpreso?

No. Una volta fatti investimenti in gasdotti o altre infrastrutture per estrarre e trasportare carbone, petrolio o gas, la tentazione per gli investitori di utilizzarli il più a lungo possibile per recuperare le spese è molto forte.

È una brutta notizia per il clima.

Ogni volta che bruciamo un chilo di carbonio, inviamo 3,7 chili di CO2 nell’atmosfera. Questo ispessisce lo strato di isolamento termico intorno al pianeta e lentamente iniziamo a soffocare sotto quella coperta: la temperatura aumenta, il calore non sfugge.

Quanto tempo resta per evitare che la temperatura aumenti di oltre 2 gradi entro il 2050?

La scienza è chiara: dobbiamo abbandonare i combustibili fossili il più rapidamente possibile. Quindi gli investimenti su di essi sarebbe meglio indirizzarli su altro, come efficienza energetica e rinnovabili. Qualsiasi governo che non abbia un piano esplicito per portarli a zero nei prossimi 25 anni, non rispetta lo spirito e gli impegni dell’accordo di Parigi.

Cosa pensa del metano?

È una questione seria. Ogni tonnellata di metano ha lo stesso effetto sul clima (su 100 anni) di 30 tonnellate di CO2. Secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia, le emissioni attuali da petrolio e gas – senza considerare il carbone – ammontano a 2,5 miliardi tonnellate di CO2. E si pensi che la rete russa per il gas perde metano, così come quella – molto vecchia – Usa.

E l’idrogeno?

È meraviglioso, pulito, se lo si brucia si ottiene solo vapore acqueo. Ma questo è solo alla fine del tubo. Bisogna fare attenzione ad ogni fase della produzione e dello stoccaggio: a conti fatti, è così pulito?

L’idrogeno blu è ricavato con lo stoccaggio sotterraneo di CO2 (CCS). È una soluzione?

Penso che il CCS dovrà essere usato un po’ e sarà d’aiuto, come tutto ciò che non va nell’atmosfera. Ma è ricavato da gas fossile, affidarcisi completamente oggi sarebbe una follia.

Anche qui si muove la lobby: rischiamo di buttare il Recovery in Italia

Il 1° settembre Stefano Grassi, capo di gabinetto della commissaria all’Energia Kadri Simson, ha caldamente consigliato al governo italiano – via Corriere della Sera – di usare le risorse di “Next Generation EU” con progetti verdi ma anche legati alla “decarbonizzazione dei gas fossili”, puntando sull’idrogeno, “un’opportunità per l’Italia”: “In una fase di transizione, l’idrogeno verde potrebbe entrare in una competizione viziosa con l’elettricità dalle rinnovabili”, “conviene quindi puntare anche a progetti di idrogeno a basso contenuto di carbonio”, ricavato da gas fossile. È la nuova strategia dell’industria del gas, portata avanti dalla potente lobby EntsoG a Bruxelles e ora dalla nuova Piattaforma per l’idrogeno e denunciata pochi giorni fa da un panel di 200 Ong, tra cui Re:common in Italia, secondo cui la pandemia è servita ai big dell’oil&gas “per accaparrarsi decine di miliardi di euro di sussidi pubblici”.

Il messaggio è stato recepito in Italia. Il 29 settembre, alla conferenza di Confindustria, il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli ha annunciato che “l’Italia può essere l’hub del Mediterraneo”: la nostra posizione geografica “ci permetterà di diventare il primo punto di approdo e quindi l’hub europeo della nuova fornitura di energia” in provenienza dal Nord Africa, annunciando un piano idrogeno da 3 miliardi dal Recovery Fund. La società Snam ha spiegato a Investigate-Europe di essere pronta a iniettare “il 10% di idrogeno nei gasdotti insieme al gas”, ma “la miscelazione sarà una soluzione di transizione verso un futuro in cui avremo una rete di trasporto dedicata al H2 puro”. Una speranza più che un business plan, perchè l’idrogeno verde costa per il momento 40 volte più del petrolio, quindi è impensabile coprire il fabbisogno energetico italiano con l’idrogeno. Anche il premier Conte, a giugno dopo gli Stati Generali, aveva annunciato che “a Ravenna nascerà il più grande centro al mondo di cattura e stoccaggio di Co2”, facendo riferimento al mega progetto Eni di carbon capture storage (Ccs) per produrre idrogeno e per il quale Eni ha chiesto fondi europei.

Le Ong si stanno allertando. I fondi del Recovery sono una vera opportunità per ridurre a zero le emissioni entro il 2050: “La politica deve comprendere che l’idrogeno può essere utile come vettore energetico solo in alcuni settori industriali energivori e forse per il trasporto aereo. Per tutto il resto ad oggi non ha senso e pone numerosi problemi di sicurezza. E poi, senza un surplus di energia rinnovabile, sarebbe solo un modo per far sembrare verde l’energia che proviene dai soliti fossili, a partire dal gas – dice Mariagrazia Midulla del Wwf – Infine, richiede investimenti enormi, rischia di diventare un pozzo senza fondo dove il vero affare sarà la progettazione”.

Nel frattempo il governo italiano punta sul gas per la transizione energetica. Le centrali a carbone che dovrebbero essere chiuse entro il 2025, non diventeranno centri di accumulo per energia da rinnovabili, ma a Brindisi, Civitavecchia, etc. le centrali passeranno dal carbone al gas, fossile. “Siamo già in una situazione di overcapacity da gas – spiega Katiuscia Eroe di Legambiente – l’Italia ha una capacità di 120 GW e consuma in media 60-67 GW, non abbiamo bisogno di nuove centrali”. A gennaio il governo ha presentato un Piano Clima e Energia alla Ue in cui la diminuzione del consumo di gas è irrisoria: dal 39 al 37% nel 2030 e al 33% nel 2040. Anche gli eurodeputati M5S, che sperano di entrare nel gruppo dei Verdi, spingono perchè i piani clima siano aggiornati alla luce della nuova legge proposta dalla Commissione, che chiede un taglio del 55% di emissioni nocive al 2030: “Finanziare il gas naturale come mezzo di transizione è una falsa riconversione e rischia di creare bolle nel mercato energetico perché queste attività subiranno svalutazioni perché sono clima-alteranti”, dice Ignazio Corrao. Legambiente ha appena pubblicato il rapporto La decarbonizzazione in Italia non passa dal gas, dove si legge che un’alternativa c’è: “Nel breve periodo usare gli impianti a gas esistenti qualche ora in più all’anno, da 3.200 a 4.000 ore. E in parallelo agevolare, anche con serie politiche fiscali, la diffusione delle rinnovabili e il loro stoccaggio”, ci spiega Katiuscia Eroe.

L’equivoco H2 – Altro che svolta green. Con l’idrogeno “blu” esultano solo i colossi

C’è un nuovo alleato strategico per il Green Deal europeo e per molti governi che si sono impegnati ad azzerare le emissioni nocive entro il 2050: l’idrogeno (H2). In natura non esiste da solo, ma solo unito alle molecole di acqua o di metano. Quello “verde” viene prodotto con l’elettrolisi nell’acqua, separando le molecole di idrogeno dall’ossigeno. È l’energia dei sogni: può essere conservato a lungo – tracce di H2 sono state trovate in alcuni dirigibili Zeppelin degli Anni 30 – può essere usato per alimentare gli altoforni dell’acciaio e produrre tutti i tipi di sostanze chimiche senza emettere gas serra. Può servire da combustibile per gli autocarri e persino per i motori degli aerei, come ha recentemente annunciato Airbus. Ma la domanda è: da dove verrà tutto l’idrogeno per soddisfare la fame di energia della società industriale?

Il processo dell’elettrolisi è molto costoso – oggi 1 kg di idrogeno verde costa 40 volte più di 1 litro di petrolio – e richiede tanta elettricità, che nell’ottica della riconversione energetica dovrà venire da un surplus di fonti rinnovabili difficile da ottenere visto che ce ne sarà bisogno prima di tutto nella nostra vita quotidiana, per l’industria, i trasporti, le auto, le case. La Commissione Europea, presentando a luglio la Strategia dell’Idrogeno, ha quindi accettato la logica “inclusiva”, richiesta dalle industrie dell’oil&gas, come ExxonMobil, FuelsEurope, PGNiG, Eni e GasNaturally, che due settimane prima avevano inviato una lettera molto preoccupata a Bruxelles. “L’idrogeno da gas naturale con tecnologie di gestione del carbonio – dicevano – sarà necessario per creare la scala necessaria e rendere le applicazioni dell’idrogeno competitive dal punto di vista dei costi”. Non più quindi dall’acqua, ma dal gas fossile che è “da due a cinque volte più economico dell’idrogeno rinnovabile”. E la Commissione ha recepito il messaggio: “La priorità dell’Ue è sviluppare l’idrogeno rinnovabile. Tuttavia, a breve e medio termine, sono necessarie altre forme di idrogeno a basse emissioni di carbonio”.

L’industria del gas si sfrega le mani: aspettando che il prezzo dell’idrogeno verde scenda e le rinnovabili si diffondano, il gas naturale sarà l’energia primaria per produrre idrogeno. Lo si definisce “grigio” e oggi è il 95% dell’idrogeno sul mercato: il metano brucia e libera nell’aria l’anidride carbonica.

Le speranze sono però rivolte all’idrogeno “blu”: è ricavato dal metano (CH4), ma la componente di carbonio viene catturata e messa sotto terra dove, si spera, resti per sempre. Si usa la tecnica del Ccs (carbon capture storage): è studiata da tempo ormai e la Commissione ha già finanziato una decina di progetti, tutti falliti. Tanto che nel 2018 la Corte dei Conti Ue ha denunciato questo spreco di denaro pubblico. Ora, però, l’industria promette tecnologie molto avanzate: la Norvegia, grande produttrice di gas fossile, è l’unico paese europeo a usarla, il governo ha promesso in settembre d’investire 1,6 miliardi in un mega progetto di stoccaggio delle CO2, a 2.500 metri sotto il mare del Nord. In Italia, l’Eni spera di poter utilizzare le caverne prima occupate dal gas, nel mar Adriatico, e creare un grande cimitero di CO2 vicino Ravenna. Ma la tecnica del Ccs è molto discussa, oltre a essere terribilmente cara (da 100€ a 550 €euro per ogni tonnellata di CO2). Resta una perdita nell’aria del 20% di metano durante il processo e per alcuni è quasi impossibile trovare spazi di stoccaggio resistenti nel tempo. Il professore Nicola Conenna, fisico ed esperto di idrogeno, dice che ammassare fino a 300-500 milioni di tonnellate di CO2 – com’è nei piani di Eni – nel nostro mare, è “pura follia. Pensi cosa succederebbe se ci fosse un terremoto, e in Italia ce ne sono tanti, e si creasse una crepa geologica. Si libererebbe nell’aria un’immensa massa di anidride carbonica che ucciderebbe migliaia di persone”.

Nel frattempo, i distributori di gas propongono di trasportare un po’ d’idrogeno dentro i tubi esistenti, mescolato con il gas: il cosiddetto blended hydrogen. Questo permetterebbe di ridurre un po’ le emissioni e, soprattutto, offrirebbe una nuova ragion d’essere ai costruttori di tubi. La Snam è in pole position sul fronte blended. Il suo Ceo, Marco Alverà, ha pubblicato in agosto il libro “Rivoluzione Idrogeno” dove l’Italia si candida a diventare l’hub dell’idrogeno dal Nord-Africa attraverso l’Italia verso il resto del continente e ha annunciato di essere pronta a far passare 10% di idrogeno dai gasdotti italiani. Intanto Snam, insieme ad altri dieci operatori del gas ha presentato un piano da 6.800 chilometri di gasdotti che attraverserà Germania, Francia, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia e Svizzera. Una “spina dorsale europea dell’idrogeno”, composta per il 75% da gasdotti convertiti e per il 25% da nuove tratte. Ma il modello di sviluppo dell’idrogeno verde, a impatto zero sul clima, non è quello di estrarre fonti fossili e trasportarle per migliaia di chilometri in giro per il mondo. “A noi i gasdotti non servono – spiega Conenna -. Bisogna produrre, stoccare e consumare l’energia in loco, con delle piccole comunità dell’idrogeno in un raggio di massimo 50 chilometri. L’idrogeno può essere ossidato a basse temperature, 70 gradi, in celle a combustibile esi recupera il calore prodotto per gli usi necessari a piccolo raggio”. Così la pensa pure Lisa Fischer del think tank E3G – ex consulente del governo britannico: “I modelli di distribuzione della ricchezza cambieranno, le industrie possono spostarsi dai Paesi del Nord a quelli del sud se le fonti di energia sono più economiche e più pulite”. In altre parole, le industrie pesanti dell’Europa centrale potrebbero decidere di spostarsi in futuro dai Paesi Bassi o dalla Germania per produrre in Spagna o in Italia se ne vedono un vantaggio competitivo.

Il Portogallo ci sta già provando. A settembre il governo Costa ha annunciato che non darà più licenze per l’estrazione di gas e ha lanciato un mega progetto di riconversione di una centrale a carbone, nel porto di Sines, in idrogeno verde, interamente alimentata con pannelli solari, utilizzando l’acqua del mare. Sarà operativa già nel 2022. Il Portogallo spera così di produrre abbastanza idrogeno verde da esportare nel resto d’Europa. Lo spiega a Investigate-Europe João Galamba, Segretario di Stato per l’Energia ma anche economista, “Non credo che lo sviluppo di gas naturale abbia senso al giorno d’oggi, il gas non è necessario per la transizione”.